-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

98. LA VITA PRIVATA NEL MEDIO EVO - LE FESTE


Il carnevale a Venezia

Uscendo dal medioevo, sappiamo qualcosa di più della vita privata: anche perchè ogni persona ha ora un nome, e nell'ambito della comunità (città, paese, cantone, borgo) possiamo conoscere di ognuno la sua vita privata, tramite testimonianze che escono dagli archivi notarili, diari dei capifamiglia, memorie, scritti di poeti, riflessioni dei moralisti e quant'altro. Testimonianze fino allora secretate dagli ecclesiastici. Non bisognava far sapere cosa accadeva in altri luoghi, nè tantomeno come vivevano le genti, e peggio ancora far sapere come si divertivano; per loro ogni cosa era "perniciosa", "diabolica", "peccaminosa", opera di satana.
Ma come diceva un saggio frate, Fra Paolino (1314) l'uomo è "fagli mestiere a vivere con molti". E con "molti" Paolino intendeva dire il vivere in società e partecipare a tre ambienti incastrati: la grande comunità politica dove l'uomo vive, il suo vicinato, la sua casa. E con le diffuse nuove informazioni, queste ci raccontano qualcosa del nuovo protagonista della storia: la sua vita privata.

Essa si svolge essenzialmente in seno alla famiglia. La cerchia delle singole famiglie nell'epoca medioevale più recente é messa in migliore evidenza di prima dall'introduzione dell'uso dei cognomi. Specialmente nelle città dove si concentrò una massa considerevole di popolazione divenne sempre più difficile distinguere i singoli individui col solo aiuto dei nomi di battesimo, il cui numero é necessariamente limitato. S'intende che la formazione dei cognomi non è un fenomeno verificatosi d'un tratto ma é il risultato di una lunga evoluzione.

Il modo con cui si formarono questi nomi di famiglia è peraltro unico; al nome individuale venne ad aggiungersi un predicato che valesse e distinguere la persona dei suoi omonimi, e questo predicato fu poi ereditato dai suoi discendenti. Quest'appendice al nome di battesimo venne tratta o dal nome del padre (per lo più al genitivo, talora preceduto della parola «figlio») o per i forestieri della loro origine; ovvero, come spesso accadde nelle città, il nome con cui veniva indicata una abitazione si trasferì al suo proprietario.

Fonti ulteriori dei cognomi furono le caratteristiche personali dei singoli individui, dapprima le loro qualità fisiche, poi anche le qualità d'indole intellettuale e morale; più spesso ancora valsero alle formazione dei cognomi le professioni, gli uffici pubblici e le industrie da ciascuno esercitate, e finalmente un notevole contributo vi arrecarono i nomignoli attribuiti agli individui per celie o per dileggio (il gobbo, il mangione, lo smilzo, il basso, il biondo, il nero, e così via).

La famiglia si costituisce mediante il matrimonio. Che l'uomo, giunto all'età adatta, dovesse contrarre matrimonio era considerato nel Medio-Evo una consuetudine ferrea; vediamo infatti che specialmente nelle città era precluso agli artigiani celibi l'accesso alla corporazione dei maestri della loro arte, e che per principio i celibi non venivano eletti a consiglieri del comune.
La scelta delle moglie poi era fatta con criteri d'indole materiale; era raro che la scelta fosse esclusivamente dettata dal sentimento dell'amore e che si concludessero matrimoni estraniandosi da ogni considerazione d'interesse e senza che i parenti intervenissero a combinarli. Ad onta di ciò non mancano esempi di coppie coniugali legate da vincoli di tenerezze e affetto reciproco e di un attaccamento che rimane saldo anche di fronte alle avversità.

Per la conclusione del matrimonio si seguivano forme tradizionali negli usi antichi, precedeva la domanda solenne della mano della sposa, e se accolta, si passava alle trattative ed alla conclusione di un contratto inteso a regolare gli interessi patrimoniali, quindi al fidanzamento formale, a questo punto i giovani promessi sposi si stringevano la mano e si scambiavano gli anelli in attesa del matrimonio.
Lo sposalizio ordinariamente aveva luogo non molto tempo dopo. La prima notte di matrimonio di solito veniva tarscorsa nella casa della sposa; il mattino seguente il marito porgeva alla sposa il così detto dono del mattino, poi la coppia, accompagnata da parenti ed amici, si recava in corteo alla chiesa per pregare e ringraziare Iddio, e finalmente faceva il suo ingresso nel domicilio coniugale.

Le feste nuziali, per le quali esistevano appositi organizzatori, duravano (a secondo la disponibilità) talvolta parecchi giorni, e molto spesso si svolgevano solo qualche tempo dopo la celebrazione del matrimonio.
La madre di famiglia borghese del tardo Medio-Evo ci si mostra per lo più sotto una luce favorevole solerte e laboriosa, esperta negli affari domestici, nel cucinare, nei lavori domestici, di frequente dotata di conoscenze musicali, sempre piena di buon senso, ma raramente colta ed intellettuale.
I matrimoni nel tardo MedioEvo erano spesso assai fecondi; ma in compenso era molto alta la percentuale di mortalità dei bambini in tenera età. Le nascite ed i battesimi, occasione di continue feste accompagnate da cortei, scambi di visite, di donativi, espressero un lusso sempre crescente contro il quale i governi si videro perfino costretti ad intervenire, limitando lo sfarzo pacchiano, spesso fatto anche da chi non aveva denari, ma solo debiti.

Ai bimbi non si facevano mancare i giocattoli; il giocattolo preferito per le bambine era già la bambola; i maschi avevano la palla, la tromba, il cavallo di legno, armi infantili, ecc. Come nella scuola così nella famiglia la disciplina educativa era rigorosa; si teneva moltissimo ad inculcare al fanciullo le buone maniere ed un contegno decoroso; verso la fine del Medio-Evo spuntarono poi anche i trattati di pedagogia. Un libro di questo genere, per l'educazione delle fanciulle, fu composto ad esempio dal cavaliere francese de la TourLandry e tradotto in altre lingue nel 1498.

L'impiego della giornata nel tardo Medio-Evo differiva dalle nostre abitudini attuali principalmente per il fatto che si era allora molto mattinieri. Si usava cioè lasciare il letto, sia d'estate che d'inverno, verso le 4 o le 5, e fin da quest'ora si iniziava il lavoro nelle officine, nelle botteghe e nelle campagne; gli uffici amministrativi, i tribunali, le sedute dei consigli cittadini, nonché le scuole dove c'erano, si aprivano verso le 6 in etate e d'inverno verso le 7.
Verso le 10 o le 11 del mattino si faceva colazione ed alle 12 aveva luogo la ripresa degli affari e dei lavori. Tra le 4 e le 6 pomeridiane si cenava ed alle 7-9 normalmente si andava a letto.

All'uomo medioevale mancavano molte delle distrazioni e dei conforti intellettuali che ci offre l'età nostra; basti pensare che non esistevano giornali e che in generale sino a quando l'uso della stampa non divenne diffuso il procurarsi libri da leggere era difficilissimo; molto rare sono le notizie che abbiamo di notevoli biblioteche private di codici manoscritti, e generalmente la quantità di libri posseduta da privati, se pur ne avevano, oltre la Bibbia non andava al di là di qualche libro di santi. Del resto non dobbiamo dimenticare che l'istruzione scolastica era del tutto assente, di conseguenza la maggior parte della popolazione era analfabeta. Perfino nelle stesse numerose attività commerciali, artigianali e industriali, era pochi quelli che sapevano leggere e scrivere, anche se poi non sbagliavano a fare i conti; e questo era l'insegnamento più importante che un certo tipo di cittadini dava a propri figli.

Anche il viaggiare per divertimento per i ceti ricchi era reso quasi completamente impossibile dalla difficoltà delle comunicazioni, dalla viabilità pessima e malsicura, per quanto esistesse un certo numero di stazioni balneari e di cure termali che verso la fine del Medio-Evo vediamo con sempre crescente frequenza visitate da principi o persone benestanti a scopo di salute. In compenso l'ultima epoca medioevale fu straordinariamente festaiola, in una misura non inferiore alla nostra attuale. A Venezia ci divertiva più di cento giorni all'anno, fra manifestazioni religiose e civili, o ricorrenze di famose battaglie o conquiste territoriali (ne parliamo più avanti).

Nel ceto nobiliare il genere di passatempo preferito erano i tornei, dei quali abbiamo già parlato altrove. Il bel sesso accorreva numeroso ai tornei, cui alla sera si susseguivano danze. Sulla fine del Medio-Evo poi, nell'epoca cioè dello sviluppo delle monarchie, principati e signorie, le corti dei principi divennero teatro di feste e divertimenti continui che in virtù della incombente rinascenza assunsero forme estremamente sontuose; così prima di ogni altra la corte di Borgogna del XV secolo. I ricchi banchetti vi si alternarono con partite di caccia, tornei e rappresentazioni drammatiche.

Questi passatempi delle corti grandi e piccole offrirono pure alle mogli ed alle figlie dei nobili, costrette a vivere nella solitudine dei castelli sparsi nelle campagne, un certo diversivo alla monotonia della loro esistenza giornaliera.
Nelle città e nel ceto borghese invece l'occasione principale e frequentissima delle feste era le ricorrenze religiose. Innumerevoli festeggiamenti accompagnavano il ritorno periodico delle feste comandate dal calendario ecclesiastico e dei giorni dei vari santi. Il Natale, l'Epifania, l'ultimo giorno di carnevale, la Domenica delle Palme e la Pasqua, poi l'Ascensione, la Pentecoste, il Corpus Domini, poi ancora la festa di S. Giovanni, le feste della Madonna e dei popolarissimi S. Martino e S. Nicola, senza contare quelle dei santi protettori di ciascuna località; tutte queste ricorrenze erano buoni pretesti per darsi a passatempi profani di svariatissimo genere.

Ovunque queste feste prendevano nel popolo un'impronta grossolana e non andavano esenti da eccessi e da offese al decoro. In forma più temperata vi partecipavano le classi superiori, sebbene anche qui non mancassero i divertimenti scapigliati con la presenza del bel sesso, e non di rado gli stessi palazzi municipali aprivano le loro sale alle danze dei patrizi. Ad altri divertimenti offrivano occasione le gare di tiro con la balestra cui accorreva anche tutta la gente del contado; né mancavano le sale di gioco dei dadi, coi birilli, ecc.
A Venezia oggi chi va nel Rione San Barnaba, troverà il Ponte dei Pugni; lo strano nome ricorda l'usanza non meno strana, di fare del ponte il teatro di battaglia del " Gioco dei pugni", una vera e propria gara fra cittadini di diversi quartieri. Divennero in seguito così violente che nell'ultimo secolo i Dogi le proibirono.
Ma oltre questo sport della "boxe", non mancava quello del "calcio" e del "tennis".
Il calcio come sappiamo era conosciuto fin dai tempi greci come l'episciro, (episkyros) giocato con i piedi, e il pheninda giocato utilizzando anche le mani. Nel mondo romano prese il nome di harpastum, o anche detto in volgare il piede-palla.
Per oltre mille anni - anche questo lo sappiamo - tutti i giochi furono banditi perchè erano pagani, eccitavano le folle, e queste diventavano troppo spensierate, mentre l'obbligo era la meditazione, la preghiera, aspettando la provvidenza che per molti non arrivò mai. Per quaranta generazioni i bambini, i ragazzi, i giovani e anche gli adulti non sapevano cos'era un gioco, nè sapevano che in un lontano tempo vi erano stati. E se non sapevano cos'erano le Olimpiadi, non sapevano neppure gli ingenui giochi popolari. Vita grigia insomma, dalla nascita alla morte.
Un po' meno grigia la vita a Venezia, piuttosto libera dai condizionamenti e dai rigori ecclesiastici. Pur riservando al clero una certa attenzione, e osservando rigorosamente la quaresima, dopo questa, proprio le feste religiose di Venezia nel corso del resto dell'anno erano occasione per fare grandi feste, giochi e divertimenti di ogni genere.

E fra questi divertimenti e giochi non erano assenti i giochi del calcio e quelli della racchetta (una specie di tennis). Il calcio nel periodo fine medioevo era tornato ad essere molto praticato e giocato nelle piazze di Firenze, con alcune regole, lo si chiamò calcio fiorentino (florentinum harpastum). Abbiamo però molte testimonianze che si giocava in molte altre città come Bologna, Mantova, Padova e quindi Venezia, dove lo giocavano i nobili usando i campi di San Giacomo dell'Orio e dei Gesuiti; mentre il popolo usava i campi in Rialto Nuovo, nelle Chiovere di Cannaregio, in campo dei Nicoli a Castello e nelle Corti grandi della Giudecca. Al bersaglio di San'Alvise e di San Bonaventura, giovani nobili, vestiti leggeri, con berretti e piume bianche e nere, formavano una squadretta, si impegnavano a lanciare la palla poi correvano per impedire a forza di calci la riconquista della palla agli avversari.
Quanto al "tennis" presto in voga, i contendenti si dividevano in due parti il campo detto del Monte e del Piano, si lanciava in alto la palla e a colpi di racchetta (una arnese fatto di corde formanti una rete).... si tentava di respingerla all'avversario. Se questi lasciava cadere a terra la palla senza poterla pigliare nell'aria, faceva fallo; lui perdeva punti, l'altro li guadagnava. Ancora oggi esiste una Calle a Santa Caterina, dove si faceva questo gioco, ed infatti si chiama ancora Calle della Racchetta. Il Bandello parla di un gioco molto simile chiamato "forfetta". ( P. Molmenti, op. cit.).

Ne' giorni di festa (lo abbiamo già detto salvo, il periodo della quaresima le feste erano tante, e per tante occasioni religiose, politiche, dopo una vittoria, oppure negli anni successivi celebrando quella vittoria) la città era animata da una vita leggera, facile, giovanile. La Repubblica, che cercò sempre di vietare i lavori sproporzionati alle forze degli operai, o non confacenti coll'età o col sesso, ordinò anche l'osservanza del riposo festivo, ma non in modo che ne venisse danno ai cittadini. Si permetteva infatti per comodo della povertà, che restassero aperti gli usci delle botteghe degli speziali di medicinali, dei pizzicagnoli, pollaiuoli (galinéri), venditori di olio, fornai, fruttaiuoli, venditori di vino (bastioneri), caffettieri, biadaiuoli (biavaroli) (SAGREDO, Sulle consorterie delle Arti edificat. cit., pag. 186).
Fin dal mattino, uomini e donne della plebe minuta e del popolo grasso, in abito festivo, passavano solleciti e premurosi diretti alla chiesa; poi stavano a gruppi sui campi, si scambiavano saluti, ridendo, scherzando, tutti ugualmente chiassoni. La musoneria e la noia erano sconosciute, e all'aria libera si apprestavano i più svariati trattenimenti in tutte le stagioni e si può dire quasi in tutti i giorni dell'anno. Neppure quando si facevano più sentire le rovinose conseguenze della guerra di Candia, Venezia aveva perduta la consueta gaiezza. Un poeta satirico sulla fine del Seicento scriveva " Anco in questi anni balordi - Non v'è giorno, ora, nè punti - Che non sianvi dei bagordi" (DOTTI, Satire cit., P. 1, pag. 157.).
Lo sfarzo maggiore e la maggiore giocondità apparivano nell'inverno e particolarmente nei carnevali, che nei due ultimi secoli della Repubblica raggiunsero un ardore inebriante, di cui dura ancora il ricordo. Il carnevale cominciava il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, e il permesso di mascherarsi era annunciato dal Governo, per mezzo d'uno dei suoi bassi ufficiali, che compariva sulla Piazza grottescamente travestito, fra le grida e le urla del popolo. La maschera, specialmente quella chiamata bauta , era una moda universale, permessa anche dal 5 ottobre al 16 dicembre, nei giorni di San Marco e dell'Ascensione, nelle elezioni dei Dogi e dei Procuratori ed in altre feste, purché non cadessero in quaresima.

Vecchi e giovani, patrizi e plebei, ricchi e poveri, tutti mettevano la maschera, che favoriva i convegni furtivi ed era quasi un simulacro dell'antica eguaglianza perduta, potendo, sotto le strane vesti, affratellarsi il nobile e il popolano. Non soltanto le patrizie, ma anche le mogli de' bottegai e le cortigiane apparivano "mascherate con abiti, merli, bordi che valevano centinaia di doppie, e tutte sembravano dame di primo rango„.
Molte madri in maschera portavano i loro bimbi in collo, molte fantesche, uscendo per la spesa, mettevano sul volto la larva (
SAINT-DIDIER, La Ville el la Rép. de Veuise cit., pag. 342. - Il DOTTI (Sal., P. 1, pag. 118) scrive: "Di velluto una visiera / Han le donne quasi tutte / Sagacissima ingegnera / Di far belle anco le brutte"), molti accattoni con la maschera sul viso e con un vestito a brandelli, chiamato del bernardone, fingevano infermità, sorretti dalle grucce, chiedendo la carità. Ogni sera v'era liston in Piazza, gremita di maschere, di cui godevano i frizzi e l'allegria le dame e i cavalieri seduti sotto i portici delle Procuratie, mentre presso ai pili degli stendardi e negli angoli più oscuri si dava convegno una folla di meretrici, di lenoni, di sodomiti. (*)
(*) Molti scritti del tempo descrivono con osceni particolari gli scandalosi ritrovi notturni in piazza San Marco. Ma a quei tempi il vizio trascorreva senza vergogna anche in molti altri paesi d'Europa, e certe descrizioni sulla corruzione del costume veneziano sono esagerate e maligne. Così acre oltre misura si mostra Pietro Giannone che scrive: " Nel tempo delle maschere, che abbraccia più della metà dell'anno, specialmente nel carnevale, nelle piazze e nelle pubbliche contrade le donne di qualunque stato e condizione, maritate, donzelle e vedove, si mescolano insieme colle meretrici, perché la maschera ogni disuguaglianza agguaglia, e non vi é sporcizia che non si commetta ad occhi veggenti con i loro drudi giovani o vecchi che essi siano". E seguita con altri particolari che la penna si rifiuta di trascrivere. Bisogna però ricordare che il Giannone era stato sfrattato da Venezia, e che, come bene osserva un suo diligente biografo, il suo ragguaglio fu scritto in un momento di disperazione. Aveva insomma qualche problema.
(NICOLINI, Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo, n. a pag. 287. Napoli, 1905.)
I carnevali erano resi più pittoreschi dalle mascherate, che si fecero con mirabile pompa. Patrizi e cittadini, uniti in numerose compagnie, abbigliati delle più ricche e svariate logge, percorrevano, fra danze e suoni, la città, accompagnando carri, sui quali s'alzavano rappresentazioni simboliche.

Insomma i giorni del carnevale sono giorni di - allegria vertiginosa. - Tout est yvresse et folie - scriveva un viaggiatore dell'epoca - les Venitiens prennent un nouvel esprit en changeant d'habit, et ne conservent rien de leur gravité, de leur réserve ou de leur facon d'agir originaire „
([MALHOWS], Voy. en France, en Italie etc., vol. 11, pag. 215. Paris, 176).

Nel Giovedì grasso, il popolo, alla presenza del Doge, della Signoria e degli ambasciatori, si dà alle più pazze baldorie; si accendono nella Piazzetta fuochi artificiali di pieno giorno, le compagnie dei fabbri e dei beccai abbigliati bizzarramente, tagliano la testa a buoi, i Castellani e i Nicolotti fanno i giuochi delle Forze d'Ercole e della Moresca, e dall'alto del Campanile sopra una fune tesa un uomo compie il così detto volo, scendendo, o libero o assicurato ad una fune, fino al palco ove siede il Doge, a cui presenta un mazzolino di fiori. Passano poi le maschere schiamazzando e gettando confetti. (ultimamente tale discesa dal campanile è tornata ad essere il clou della festa).

Questo in Piazza San Marco, mentre in Piazzetta, sul Molo, sulla Riva degli Schiavoni altri cento passatempi: le lotterie di gingilli donneschi, il castello dei burattini (4), i casotti dei funambuli e degli acrobati, il mondo niovo (cosmorama), le astrologhe che predicevano il futuro e vendevano i libri della cabala, i cantastorie e gl'improvvisatori accompagnati da chitarre, mandolini e violini, i dispensatori di acque nanfe e belletti, i cerretani, tra i quali notissimo il Masgumieri, che guariva ogni male e "dispensava a macco / Sopra il balsamo greco / il taccomacco".

Nelle ultime sere di carnevale, mentre fasci di fuochi artificiali si alzavano dal Molo crepitando e cadevano a spegnersi stridendo nell'acqua, la gaiezza diveniva una ridda clamorosa e sfrenata. Al lume rossastro dei razzi e delle fiaccole, la folla ebbra di clamori e di gioia brulicava sotto le Procuratie e sulla Piazza: s'agitava come un mare di teste e di cappelli: tutti si chiamavano e si salutavano, e al gridio assordante si mescolavano gli strilli dei rivenditori di frutta, di dolci, di rinfreschi. Il selciato era coperto di nastri, cenci, piume, confetti, bucce d'arancio, semi di zucca. L'allegria carnevalesca non si restringeva a San Marco, ma di feste e movimento risuonavano anche i vari campi di Venezia. L'ultimo giorno di carnevale, a mezzanotte, i gravi rintocchi delle campane di San Marco e di San Francesco della Vigna, che' rimbombavano per tutti gli angoli della città, annunziavano la fine della baldoria, e ai primi crepuscoli dell'alba, la gente stanca si sparpagliava qua e là attraverso i vicoli oscuri.

In quaresima altri spassi. I giovani patrizi, quasi per rifarsi della sregolata vita carnevale si davano a sollazzi più salutari (es. il già ricordato "tennis" o "calcio").
Una curiosa festa popolare burlesca era anche la regata delle cariole. Dei buontemponi incitarono, con la promessa di una buona bevuta di vino, due spazzini a gareggiare nel corso conducendo le loro carriuole. Lo spettacolo si ripeté con maggior numero di contendenti a Rialto e a Santa Maria Formosa.
Più bizzarra la festa chiamata della Vecchia, che avveniva a mezza quaresima in alcuni campi, ma di preferenza in campo San Luca, dove era appunto la farmacia all'insegna della Vecchia (*).
Nel mezzo del campo parato a damaschi e bandiere, s'alzava un palco sul quale si collocava un fantoccio, rappresentante una vecchia con la cuffia in testa e la maschera sul volto, alla quale due guardie rendevano ridicoli onori. Al suono di strumenti scordati, mentre il popolo si abbandonava alle più matte baldorie, come quella di far volare per una corda un cane, legato a un fuoco d'artificio, di dare un premio a chi ghermiva colla bocca un'anguilla posta in una mastella di acqua tinta di nero, si segava a metà il fantoccio della Vecchia e ne uscivano fiori e confetti, che i monelli si contrastavano fra loro. Più tardi il fantoccio veniva bruciato.

Quasi contrapposto a questa stravagante baldoria seguivano dopo venti giorni le seriose solenni cerimonie pasquali. Ma già il giorno dopo Pasqua, incominciava per i Veneziani il "fresco", cioè le passeggiate in gondola scoperta, che continuava regolarmente nelle domeniche e nelle feste fino alla fine di settembre. "Per il Gran Canale, stupore della natura e superbia dell'arte, spaziano le gondole, che a migliaia vi si vedono con dentro il fiore della Nobiltà e delle Dame"
(Zunica, La calamita d' Europa" pag. 59).

La stagione di primavera si chiudeva in maggio con la festa dell'Ascensione, e per tutta l'estate dal bacino di San Marco, dal Canal grande, dal Canale della Giudecca salivano i canti e i suoni delle serenate, seguite da un fitto stuolo di gondole. Serenate più intime e più dolci solcavano talvolta le acque di qualche canale solitario, sostavano dinanzi a qualche palazzo silenzioso, e dalla barca si alzava un canto amoroso verso i veroni illuminati, sui quali si disegnavano eleganti figure femminili.

A tenere allegra la gente nel Medio-Evo contribuivano poi notevolmente i saltimbanchi e giocolieri girovaghi, una razza che si è perpetuata, sebbene in misura più limitata, fino agli ultimi anni del XX secolo; erano singole persone che davano spettacoli di scherma e di lotta, gare di nuoto o di corse, prestigiatori che si facevano vedere a ingoiare spade o a mangiare il fuoco, od anche compagnie che organizzavano rappresentazioni equilibristiche, acrobatiche e simili o mettevano in mostra creature fenomenali e mostruose oppure animali rari, come elefanti, cammelli, scimmie. Piccole, medie o grandi queste compagnie davano spettacoli anche nel più piccolo paese.

Diffusissima in tutte le classi sociali era la passione del gioco, cui secondo la testimonianza di Tacito si applicavano già gli antichi Germani. La civiltà romana generalizzò in occidente altri giochi, come la tavola reale, il tric trac, dall'oriente venne il gioco della dama e quello degli scacchi. Anche il gioco delle carte è di origine orientale; esso trasmigrò in Europa abbastanza tardi, forse non prima della seconda metà dei XIV secolo, ma la conquistò rapidamente nel XV.
A Norimberga esistevano già verso il 1380 dei fabbricanti di carte da gioco, i così detti «pittori di carte», che poi nel 1402 vediamo ad Ulm perfino già organizzati corporativamente. E le più antiche carte erano realmente dipinte a mano; ben presto però venne l'uso di inciderne l'impronta in legno, che veniva poi riprodotta per impressione sulla carta; un processo questo già conosciuto in Cina mille anni prima e che ha molto in comune con la storia della xilografia e della stampa in Europa.
Quanto fosse diffusa l'abitudine del gioco delle carte specialmente verso la fine del Medio-Evo lo dimostrano i tanti divieti fatti dalle leggi canoniche agli ecclesiastici di dedicarvisi e le censure dei predicatori dai pulpiti. Nemmeno questo banalissimo gioco era gradito ai preti. In ogni carta c'era il diavolo!!

Nel Medio-Evo si attribuiva grande importanza ad una buona nutrizione e non lievi eran le esigenze che gli uomini di quel tempo accampavano nei riguardi della varietà, quantità e qualità dei cibi, per quanto naturalmente ciascuno dovesse contenersi nei limiti delle proprie risorse finanziarie e sino ad un certo punto adattarsi alle abitudini del proprio ceto.

Il pane si confezionava con varie specie di cereali. La qualità più andante di pane era quella fatta di farina d'avena o di orzo, e serviva all'alimentazione dei contadini e dei servi. Più pregiato era il pane di segale, almeno nel popolo; invece nel ceto signorile si consumava pane di frumento, anzi dai fornai si volle pane di lusso, fragrante, morbido, condito con l'olio, e ben presto se ne diffuse l'abitudine; né tardò a generalizzarsi nelle classi superiori il consumo di biscotti e pasticcerie d'ogni genere in gran quantità.

Assai elevato era pure nel Medio-Evo il consumo della carne, specialmente presso i popoli di nazionalità germanica, quasi il doppio rispetto ai paesi latini. Primeggia a tal riguardo nel nord il consumo della carne di maiale che si mangiava arrostita, oppure confezionata in salsicce, che in ogni land erano del tutto particolari; si usava inoltre salarla, affumicarla, insieme alla carne di montone.
La carne oltre quella arrostita, veniva preparata a pezzettini in umido, sempre con forti dosi di aromi e con salse piccanti, ed in generale spezie varie, soprattutto il pepe e lo zafferano, poi la cannella, lo zenzero, il garofano e la noce moscata entravano nella confezione non solo della carne ma anche del pane, dei legumi, ecc. in misura tale che difficilmente il nostro gusto attuale vi si adatterebbe.

Alle tavole più raffinate non mancava - anzi abbondava - la selvaggina ed il pollame, e oltre alla cacciagione da noi tuttora usata nel Medio-Evo si mangiavano degli animali che oggi noi escludiamo dai nostri cibi, come lo scoiattolo e l'orso fra i quadrupedi e fra gli uccelli l'airone, la gru, il cigno, la cicogna, ecc.

Un arrosto molto apprezzato specialmente nelle tavole principesche dell'epoca della cavalleria era quello di pavone, che nei secoli successivi venne spodestato dal fagiano e dal tacchino introdotto in Europa dalle Americhe nel tardo XV secolo. Esteso era pure l'uso della pesca; assai pregiati erano i gamberi, nonché moltissime specie di pesci d'acqua dolce e di mare, che non si imbandivano esclusivamente nei giorni di magro; il pesce peraltro di più largo consumo e quindi più commerciato nel Medio-Evo soprattutto nei paesi nordici, era l'aringa, essa costituiva il cibo più comune nei giorni di magro. Nei paesi meditterranei, indi l'Italia, abbondava l'uso delle sarde o delle alici, che era poi il pesce più comune perche molto abbondante nelle acque adriatiche. Si consumavano in tanti modi, fresche o in "saor" , cioè nell'aceto, permettendo così una conservazione per molti giorni.

Mentre in Francia, il paese del gusto raffinato, vennero istituiti sin dal XII secolo servizi postali tra la costa e Parigi per fornire alla capitale le ostriche ed altri scelti prodotti del mare.
Il forte consumo di carne non significa naturalmente che il latte, le uova e i vegetali non fossero anch'essi largamente usati. Nel basso popolo specialmente era abbondante il consumo del miglio e del grano saraceno, dei legumi in genere, delle rape e di varie specie di cavoli; l'Italia che ne era ricca forniva di verdure tutto il resto dell'occidente.
Anche la frutta, ordinariamente quella di produzione indigena, costituiva, non diversamente da quanto avviene oggigiorno, uno degli elementi più importanti dell'alimentazione comune.

L'uso di compilare e raccogliere ricette per la preparazione delle vivande spuntò all'inizio nei conventi (ma non dimentichiamo che già nell'antica Roma i libri di cucina erano molto diffusi, uno fra i tanti i testi di Apicio); uno di questi ricettari abbastanza numeroso, compilato nel XIV secolo, é pervenuto sino a noi sotto il titolo di libro della buona cucina; all'inizio poi del XVI secolo con la diffusione della stampa appaiono numerosi anche libri di cucina stampati e quindi economici.

Al copioso consumo di cibi che caratterizza le abitudini medioevali fa riscontro un forse più copioso consumo di bevande, soprattutto di bevande alcooliche. Fino a tempi molto avanzati la bevanda generalmente usata nei Paesi latini, è il vino, mentre in Germania e nell'Europa settentrionale è l'idromele. Esso era composto di miele ed acqua mescolati in certe proporzioni; questa miscela si faceva bollire e poi si metteva a fermentare in recipienti aperti. In seguito, con l'andazzo dei tempi, anche all'idromele vennero aggiunti gli aromi, e sebbene dal XII secolo all'incirca esso sparisce dalla tavola delle classi superiori del popolo, pure lo troviamo ancora usato nelle città e nei villaggi fino alla fine del Medio-Evo accanto al vino ed alla birra, alle due bevande cioè cui dovette poi cedere il posto.

Anche la birra è una bevanda antichissima, che in tempi molto remoti si incontra presso popoli del mezzogiorno d'Europa e presso popolazioni asiatiche. Per birra si intendeva in genere una bevanda preparata mediante una specie di cereale sottoposto ad un determinato processo. Con lo sviluppo delle città e dei villaggi la tecnica della fabbricazione della birra si perfezionò e questa bevanda, per lo meno nei luoghi dove faceva difetto il vino, divenne di consumo generale; parecchie qualità di birra poi furono anche esportate. Ma neppure la birra si sottrasse al gusto di quei tempi di condire ogni cosa con aromi.

La bevanda preferita nelle classi elevate dei paesi europei (quindi anche tedeschi) è fin dall'inizio il vino. Il principale centro di produzione del vino era la Francia, la quale già allora esercitava in questo campo un attivo commercio di esportazione. Lo storiografo Froissart vide nel 1372 entrare nel porto di Bordeaux una flotta di 200 navi che proveniva da Londra e doveva servire al trasporto di vini.

Anche in Germania la coltivazione della vite era nel Medio-Evo assai estesa; c'erano fitti vigneti in tutta la Germania centrale, nella Slesia, nonché nelle pianure del settentrione, nel Brandeburgo, nella Pomerania, in Curlandia e nella Danimarca; é soltanto verso la fine del Medio-Evo che la viticoltura viene abbandonata nelle regioni germaniche del nord.

La produzione vinaria tedesca serviva per la più gran parte al consumo interno; ma i vini del Reno, della Mosella, della Franconia e del Neckar si esportavano in quantità considerevoli; specialmente la Scandinavia era approvvigionata di vino dalla Germania. A sua volta era pure notevole l'importazione in Germania di qualità prelibate di vini stranieri, specialmente di vini ungheresi e, tramite Venezia, vini italiani e greci; invece i vini spagnoli avevano il loro principale mercato di importazione in Francia.

Da quanto si é detto emerge come il Medio-Evo apprezzasse discretamente la buona tavola ed il buon vino, ed in armonia a tale tendenza esso conosceva anche molto bene l'arte di approntare succulenti banchetti, notevoli per la quantità e varietà dei cibi, forniti di tutto il confort che l'epoca poteva offrire. Ma nel tempo stesso la società medioevale manifesta in questo campo una certa intemperanza e sopra tutto una inclinazione al bere smodatamente che spicca particolarmente sulla fine del periodo.
Invalse allora lo "sport" dell'ubriacatura, l'abitudine di bere col proposito deliberato di inebriarsi, e per lo meno in Germania il cattivo esempio in questa materia venne dall'alto; più d'una dinastia regnante (anche se non viene mai raccontato) fu rovinata fisicamente e intellettualmente dal vizio del bere e finì da ultimo per soccombere. L'ubriacatura il giorno dopo passava, ma il fegato giorno dopo giorno andava a pezzi, e una cirrosi epatica non perdonava nè re nè principi, li portava diritti diritti alla tomba.

In tema di abbigliamento e di fogge del vestire la Francia già nel Medio-Evo dettò la moda agli altri popoli europei; il predominio della moda francese è per lo meno sicuro a datare dal XII secolo, per quanto il senso del buon gusto abbia all'inizio stentato a formarsi e si sia mostrato restio alle frequenti variazioni che avvenivano in altri paesi. E uno di questi, per quanto riguardava la moda femminile era la opulenta Venezia. I prima quadri ad olio dei grandi pittori ci testimoniano la sontuasità e lo splendore. Un po' meno la moda maschile, quasi uniforme nell'intera Europa, salvo qualche città in particolare.

L'uomo normalmente portava ad immediato contatto col corpo una camicia e su di essa una cintura stretta alla vita; a questa cintura erano assicurate con stringhe le brache ovvero la maglia intera che rivestiva le cosce e le gambe. Sulla camicia nella stagione fredda si metteva sopra un giubboncino senza maniche; completava l'abbigliamento una sopraveste panneggiata che nel ceto signorile scendeva fin oltre il ginocchio ed era spesso anche fornita di larghe maniche. Nell'inverno essa era orlata di pelliccia. Una cintura stringeva la sopraveste alla vita.
L'abito da passeggio dei ricchi annoverava ancora il lungo mantello internamente foderato di pelliccia ed assicurato sul petto da una fibbia, nonché i guanti. I cappelli e i copricapo in genere erano di forme svariatissime, con vari tessuti, oppure di feltro o anche di paglia.

La calzatura del popolano, quando egli non si accontentava degli zoccoli, era di cuoio di vacchetta assicurata con stringhe; la scarpa più fine, nella parte superiore era di stoffa o di pelle, ed al di sotto una suola di cuoio e un tacco appena accennato, veniva accuratamente allacciata con lacci di lusso in modo da dare al piede una forma elegante; si usava bianca, nera, grigia ed anche rossa.

Si incontrano anche stivali, nati dalla combinazione della scarpa con il gambale alto fino al ginocchio che si portavano in viaggio o quando si doveva lavorare all'aperto. A differenza della moda dei successivi secoli, l'uomo del Medio-Evo aveva una predilezione per gli abiti di vivaci colori; le brache rosse, grigie, e la sopraveste spesso mezza azzurra e mezza rossa davano alla foggia di vestire maschile una intonazione molto gaia.

L'abbigliamento femminile arieggia a quello dell'uomo, salvo che la sopraveste stretta alla cintola è più lunga e scende fino ai piedi che nasconde completamente anche le caviglie. Caratteristiche le ampie maniche di questi abiti i cui lembi talora si allungano fin quasi a terra. Le fanciulle portavano i capelli sciolti del tutto, oppure in trecce; alle donne maritate l'uso imponeva di raccogliere la capigliatura sul capo e di coprirla con un velo o una cuffia.
Le signore si ornavano di braccialetti, spille, orecchini ed anelli; non mancava già allora un massiccio impiego dei cosmetici e della profumerie e persino dei capelli finti (le parrucche di ogni colore, tinte anche in azzurro - Iniziarono le donne, poi la moda si estese anche agli uomini più vanitosi).

A datare dal XIV secolo le fogge degli abiti, promotrice la Francia, subiscono con maggior frequenza mutamenti dettati dai capricci della moda; anche le mode di vestire gli uomini si susseguono rapidamente con forme svariate, spesso contrastanti l'una all'altra ed ancor più spesso addirittura fantasiose oltre che bizzarre. Principalmente ne risente il taglio della sopravveste che, per lo meno fra i giovani, viene in uso di portar così corta da coprire appena le natiche; essa si trasforma in giacca, perde la sua ampiezza e si adatta così strettamente al corpo che non é più possibile infilarsela passandovi dentro il capo.
Perciò si comincia a praticarvi dapprima una apertura parziale sul davanti, poi la si costruisce aperta completamente sul petto, e si inventano i bottoni e le asole, innovazione questa molto importante perché essa soltanto permise il sorgere delle fogge più moderne di vestire.

La giacca corta mise allo scoperto le brache, sinora tenute nascoste dalla sopravveste, e venne in moda di portarle intessute con vivacissimi colori, allacciandole superiormente con ogni artificio in modo da mettere bene in evidenza il contrasto dei colori. Alla maglia che copriva interamente gli arti inferiori si sostituì la calza annodata sopra il ginocchio mediante nastri all'estremità delle brache. Venne poi in uso di allungare la punta della calza oltre la misura del piede e quindi la scarpa assunse la forma a becco più o meno lungo e rigido che, poggiando su di un'alta suola, costringeva ad una andatura incomoda e poco naturale.
Ma ciò era del resto in armonia con la tendenza generale e prevalente di dare a tutto il corpo una sagoma esageratamente slanciata e da bellimbusto. Ma non tardò, specialmente in Francia ed in Inghilterra, a manifestarsi la tendenza opposta, rappresentata dalla moda lanciata per gli uomini di portare abiti straordinariamente larghi e lunghi e persino abiti a strascico, cioè fogge di vestire quasi femminei.

Variazioni molteplici subirono contemporaneamente le forme di copricapo che passarono dal semplice cappello tondo, adorno talora sulla fronte di un pennacchio di piume d'airone, alle più svariate fogge di berrettoni semplici ed impellicciati; la più strana forma di copricapo è il cappuccio di forma alta ed appuntita che terminava in una lunga coda cadente all'indietro, quasi a far riscontro all'appendice analoga che emergeva alla punta delle scarpe.

Gli uomini delle classi più elevate amarono poi verso la fine del Medio-Evo di adornare i loro cappelli e berrettoni con piume di struzzo fermate al copricapo mediante preziose fibbie d'oro lavorate artisticamente e guarnite di perle e di gemme.

L'abbigliamento delle donne del tardo Medio-Evo (salvo come detto Venezia) era invece meno sontuoso di quello degli uomini. Il taglio della veste non subì variazioni sostanziali, salvo una più pronunziata scollatura sul petto; ma le signore a modo solevano portare sotto la veste un corpetto per attenuare gli effetti della eccessiva scollatura. Le maniche dell'abito si usano ora strette, ma conserva ancora il ricordo della precedente moda di maniche larghe pendenti talora fino a terra l'uso di una larga stola di pelliccia cadente dalla spalla.
Del resto nel XV secolo si vedono tornare anche in voga tipi di maniche larghe e spioventi. A seconda dei capricci della moda la cintura che stringeva la veste alla vita si portava più in alto o più in basso; sul passaggio poi dal XV al XVI secolo l'abito femminile, fino allora tutto d'un pezzo, si scompone in due capi diversi, il corpetto e la gonna che comincia sui fianchi e si allunga in basso sensibilmente.

Svariatissime e spesso grottesche sono le forme di acconciatura del capo per le donne nel XV secolo; attorno ad esse la moda si sbizzarrì abbondantemente. Alla corte di Borgogna venne in voga verso il 1450 una forma di cuffia a cono alto ed appuntito che si diffuse poi anche nelle regioni adiacenti della Germania; ed in generale venne imitata dalla corte borgognona tutta una nuova toilette di gala con lunghi strascichi, ecc. In complesso la moda muliebre della fine del Medio-Evo manifesta sempre più la tendenza alla varietà ed all'instabilità; ogni novità bizzarra fece presa; ogni trovata stravagante destò l'ammirazione e venne imitata; la semplicità fu messa al bando; l'evoluzione delle fogge di abbigliamento é dominata dalla smania del nuovo e dall'amore per i contrasti. Tutte cose che si ripresentano di solito nelle epoche di decadenza.

La cura dell'igiene non é molto praticata ma nemmeno ignota al Medio-Evo. Dal momento in cui sorsero e si imposero le scuole di medicina di Salerno e di Montpellier, delle quali dovremo occuparci in seguito, e dal momento in cui si formò in queste scuole una classe di medici laici, cominciarono a penetrare a poco a poco ed a diffondersi in tutti i ceti del popolo i principi di una minima profilassi ed igiene della persona secondo i dettami di autorità mediche antiche e recenti. Spuntò inoltre una letteratura scientifica, che ricollegandosi alle dottrine dell'antichità e continuandone le tradizioni, insegnò alle classi più colte le regole della dieta, i benefici del moto, dei bagni, dell'aria buona e soprattutto della pulizia. Alcuni nobili, principi e re sfoggiavano suntuosi vestiti, ma addosso avevano una miriade di pidocchi e cimici che in ogni istanti li pizzicava, e loro continuavano a grattarsi, e per fargli meno sforzi e contorsioni gli artigiani s'inventarono perfino un bastone con a una estremità una manina che così permetteva di grattarsi la schiena: in alcune di queste l'acqua l'avevano vista solo nel dopoparto.
Qualcuno aveva così tanto fobia dell'acqua, che andava ripetendo che la stessa rovinava la pelle.

Il popolo ovviamente era ancora più sporco dei ricchi, e si attenne sopra tutto alle regole astrologiche, che vediamo sorgere a datare dal XIV secolo e che si basavano sulla credenza che i quattro elementi, nonché i pianeti e le costellazioni esercitassero una influenza decisiva sulla salute e sull'igiene dell'uomo che costituiva il microcosmo.

Larga parte di queste regole legate alle stagioni e ai momenti astrologici più favorevoli si osservavano per operare il salasso, vale a dire una espulsione del sangue (ritenuto marcio), ereditata come pratica dall'antichità classica, mediante l'incisione di una vena.
Del resto quella dell'efficacia dei salassi non era affatto soltanto una superstizione popolare; la scuola salernitana ne fece un sistema scientificamente organizzato, determinando così le epoche migliori per farli e le parti del corpo ove occorreva compierli. Oltre al vero e proprio salasso si aveva usanza di praticare una più leggera espulsione di sangue per prevenire infiammazioni locali, infezioni, punture di insetti. Ambedue le piccole operazioni erano accompagnate da bagni e nel tardo Medio-Evo venivano compiute da persona addetta allo stabilimento balneare, che sino ad un certo punto sostituiva il chirurgo. Ma spesso anche i barbieri la eseguivano.

L'uso dei bagni era molto diffuso nella società medioevale. Più che una imitazione dei noti costumi dei Romani, esso é una perpetuazione delle abitudini germaniche, giacché fin dall' antichità le popolazioni germaniche usavano spesso prender bagni non solo nei fiumi ma anche in casa con i sistemi delle vasche con l'acqua sempre calda riscaldata da enormi stufe. Nel tardo MedioEvo la presenza di un apposito locale da bagno nella casa diviene una esigenza sempre più generalmente sentita; si osserva perfino il sorgere stabilimenti balneari a cura di istituzioni private, sopra tutto di fondazioni ecclesiastiche e di ricchi monasteri.

In seguito si vedono poi spuntare anche bagni pubblici nelle città e nei borghi, il bagno caldo (come nell'antica Roma) ritorna ad essere una istituzione organizzata ovvero sorvegliata e sussidiata dalla pubblica amministrazione, od anche promossa mediante lasciti da cittadini benefici. I bagni pubblici, assumono perfino il carattere di un ambito passatempo; chi vuol concedersi un po' di svago si reca negli stabilimenti dei bagni, sia per bagnarsi, sia per assistere come spettatore al bagno altrui. Si fa strada anche l'uso che negli sposalizi lo sposo con i suoi amici e la sposa con le sue compagne visitino uno stabilimento balneare prima di recarsi in chiesa.

Col tempo poi l'esercente dello stabilimento di bagni vi annette un servizio di trattoria, ed allora al divertimento del bagno fa spesso seguito l'altro divertimento, quello dei banchetti. Inizia anzi l'abitudine di portarsi da mangiare e da bere, sia da soli, sia quandi si è in compagnia con altri bagnanti. Non sempre del resto questi passatempi balneari rendevano il dovuto omaggio alle esigenze del buon costume. Vi accadeva di tutto.

La maggior parte delle malattie ed epidemie che colpirono individui e popoli fino al XIX secolo, esistevano già nel MedioEvo; ma allora in generale mietevano un numero di vittime maggiore, perché la diagnosi, la terapeutica, la tecnica delle operazioni, ecc. erano se non del tutto assenti ovviamente molto meno progredite che ai nostri tempi.
Una malattia che, sebbene non sia esclusiva del Medio-Evo perché risale alla più remota antichità, nell'età di mezzo infierì in modo particolarmente spaventoso è la lebbra. Essa é originaria dell'oriente, d'onde
nei primi secoli dell'era nostra penetrò in Italia e di qui si propagò ben presto in tutto l'occidente. Era una infermità inguaribile, e la sorte di coloro che ne rimanevano colpiti era la più triste che si possa immaginare, perché dato il gravissimo pericolo di contagio i lebbrosi venivano isolati dal resto dell'umanità e costretti a vivere in comune tra loro relegati in apposite dimore (i lebbrosari), isolate, lontane da ogni consorzio umano. Abbandonati anche dai più stretti parenti.


Anche il vaiolo e le malattie affini del morbillo e della scarlattina l'occidente le deve ai suoi contatti con l'oriente. A datare dal XIV secolo spuntano delle epidemie di natura influenzale, caratterizzate da febbre altissima, da affezioni catarrali e da gonfiori del viso. Si aggiunga poi la più terribile di tutte le epidemie, la peste bubbonica o «morte nera».

Le epidemie di peste cominciarono a funestare l'occidente per la prima volta già nel VI secolo (forse con le orde di Unni provenienti dall'Asia), o almeno così sembra dalla sintomatologia descritta dai contemporanei; ma la più famosa e la più drammatica e la più ben relazionata, é la peste che verso la metà del XIV secolo devastò in modo spaventoso tutto il mondo allora conosciuto. La caratteristica di questa malattia erano i bubboni nerastri che spuntavano in varie parti del corpo; chi ne era colpito non sfuggiva quasi mai alla morte.

Le salme dei defunti, rivestite di un apposito manto od anche di una tonaca monastica, venivano inumate al più presto possibile, di regola il giorno seguente al decesso, ma anche quasi vivi quando entravano in coma. Alla sepoltura dei morti provvedevano numerose confraternite che erano sorte appunto a questo scopo, ma anche per prendere l'obolo per far dire delle messe per le anime dei trapassati, o con un obolo più consistente, organizzare poi in seguito commemorazioni annuali.
Le vere e proprie esequie solenni erano rappresentate dai tricesimali, una funzione religiosa in suffragio dell'anima del defunto che si celebrava nei trenta giorni successivi alla morte.
Spesso i parenti del defunto - se avevano mezzi - facevano anche dire delle messe giornaliere che - così dicevano i religiosi - miravano ad abbreviare il periodo di penitenza che l'anima doveva passare in purgatorio per purificarsi dai suoi peccati.

Ma a parte queste morti dovuti alla peste, che in occasione dei funerali e dei banchetti che li accompagnavano si facesse pompa frequentemente di un lusso smodato lo rileviamo dai divieti e dalle limitazioni stabilite dai governi. In alcuni casi la cerimonia diventava una "festa". Riproposta poi nelle annuali ricorrenze.
Luogo di sepoltura per le classi elevate era non di rado la chiesa. Le dinastie regnanti avevano spesso delle chiese destinate appositamente a questo scopo; tale la chiesa di S. Dionigi per i re di Francia; i re ed imperatori tedeschi dall'XI al XIV secolo ebbero quale luogo di ultima dimora il duomo di Spira, dove di recente sono state rimesse in luce ed identificate le loro tombe. Gli Absburgo nella famosa cripta dei Cappuccini a Vienna. Di molti papi e vescovi l'ultima dimora fu o la cripta della basilica di San Pietro o le chiese nelle varie città da loro amministrate.

Mentre per il popolo si utilizzavano i cimiteri annessi alle chiese, quindi ancora nel recinto cittadino. In seguito, una disposizione napoleonica, dispose che i cimiteri delle città sorgessero fuori dalla cinta muraria, o comunque nella immediata periferia.

Seguendo l'usanza romana, nel medioevo tornò l'uso di distinguere il sepolcro di personalità eminenti mediante una lapide recante il nome del defunto od anche la sua effigie; più tardi questa semplice lapide non fu più ritenuta sufficiente, almeno per i ricchi, ed allora si videro sorgere monumenti sepolcrali di proporzioni più o meno considerevoli, come la tomba degli Scaligeri a Verona o il sontuoso monumento che Massimiliano I si fece erigere nella chiesa di Innsbruck dai più rinomati artisti del tempo.

La cosa più usuale é la tomba in forma di sarcofago sul cui, coperchio si adagia scolpita la figura del defunto; di questi monumenti risalenti al periodo che va dal XIII al XV secolo ne sono giunti a noi un numero considerevole. Ad eseguirli i principali artisti del Rinascimento. E spesso erano gli stessi sovrani o papi ancora in vita ad affidare i lavori ai famosi scultori e architetti del tempo.

Terminiamo qui questo capitolo e passiamo ad un altro
ancora più interessante

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