-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

151. L'ASCESA E I PRIMI RE DELLA PRUSSIA

La corona regale, che l'elettore Federico III di Brandeburgo (poi Federico I di Prussia) si pose in testa da sé stesso il 18 gennaio 1701 nel palazzo di Konigsberg, non era stata conquistata sul campo di battaglia, né può essere additata come la ricompensa di gloriose opere di pace in servizio del paese e della sua prosperità; - essa fu invece l'oggetto di lunghe e perseveranti aspirazioni di una calma diplomazia e fu conseguita con un atto risoluto fatto nel momento giusto.
Federico II il Grande non é stato un ammiratore di suo nonno come regnante. Sul suo governo ha espresso giudizi severi ed ha adoperato parole agre, parlando della sua mancanza di un vero sentimento regale; ha reso però giustizia alla sua diplomazia. Nelle sue memorie della casa di Brandeburgo, a proposito dell'acquisto della corona di re, dice «Federico I in verità era solleticato soltanto dalla esteriorità della monarchia, dalla ostentazione delle sue pompe e da una certa affettazione dell'amor proprio, che si compiace nel far sentire agli altri la loro inferiorità. Quello, che però nella sua origine era stato opera della vanità, si dimostrò poi un capolavoro di politica. La dignità regale liberò la casa di Brandeburgo da quel giogo servile, sotto il quale la casa d'Austria teneva allora tutti i principi tedeschi. Fu un'esca, che Federico I gettò a tutti i suoi discendenti e con la quale parve volesse dire: io vi ho acquistato un titolo, rendetevene degni. Ho posto i fondamenti della vostra grandezza, sta a voi di compiere l'opera».

E questo buon successo fu raggiunto relativamente presto e a buon mercato. A quale alto prezzo la casa di Annover aveva dovuto acquistare dall'imperatore il nuovo elettorato! Aveva sacrificato 500.000 talleri in denaro contante e promesso di tenere sempre 2000 uomini al servizio dell'imperatore; aveva permesso il culto romano-cattolico in tutte le capitali del Brunswick-Lüneburg ed abbandonata all'imperatore «la gemma più nobile, che abbia un elettore» e senza la quale non può esser un vero elettore, cioè il libero diritto di voto nell'elezione imperiale, obbligandosi di dare ad ogni elezione il voto annoverese ad un principe della casa d'Austria.


Eppure si trattava soltanto di un elettorato; qui poi, dove si trattava di una corona regale, l'elettore Federico aveva dichiarato fino da principio che in cose ecclesiastiche nulla avrebbe modificato né concesso, che potesse in qualche modo pesare sulla sua coscienza. Perciò i ministri imperiali rinunciarono alla loro prima proposta di istituire un collegio di gesuiti in Berlino, ma insisterono più ostinatamente perché fosse loro concesso di acquistare una propria casa per celebrarvi il culto cattolico per i ministri imperiali in Berlino, nella quale si potesse dire messa anche in assenza del ministro.
«Ma di tutto ciò non fu concessa la minima parte, né fu promesso o consentito alcunché, da cui potesse venire danno alla religione evangelica o vantaggio a quella cattolica».

Non si trattava quindi di una semplice faccenda di corte ma di una questione nazionale, anzi di un'eredità dello stesso Grande Elettore. Poiché questi durante tutto il suo glorioso regno aveva mirato con grande diligenza a «mantenere nelle questioni di cerimoniale una certa uguaglianza con i re», e aveva dato istruzioni ai suoi rappresentanti che «dovessero adoperarsi a conservare ad ogni modo la parità con i ministri regi». Si era fatto di tutto per raggiungere questo, ma non ci si era mai arrivati: «i ministri dell'elettore di Brandeburgo dovevano in generale provare il dispiacere non solo che la repubblica di Venezia e quella dei Paesi Bassi e i principi italiani non volessero cedere a loro, ma che fossero in molti casi a loro preferiti».

Queste parole provengono da un memoriale: «Sull'acquisto della dignità regia» del 1704, il cui autore era uno dei 3 personaggi intimi, con i quali l'elettore nel novembre del 1699 si era consigliato sulle sue risoluzioni decisive. Enrico Rüdiger von Ilgen era stato il primo a esprimere il suo parere, datato da Berlino 25 novembre 1699. Il secondo fu Ferdinando Cristiano Bartholdi, il giovane consigliere del tribunale di finanza, che Federico aveva mandato come ambasciatore a Vienna e che là aveva fatto un lavoro preparatorio piuttosto abile. Il suo parere è datato da Friedrichswerder il 27 novembre 1699.
II terzo era il vecchio ministro Paolo von Fuch. Al suo memoriale l'elettore ha posto in margine 28 osservazioni, che contengono un completo monologo sul suo «grande disegno».
Queste parole di proemio dell'elettore ci lasciano vedere che il suo ministro von Fuchs, a rischio d'incorrere nella sua disgrazia, si era espresso contro un ulteriore insistere nel disegno di ottenere la corona. Ma l'elettore rimase fermo e respinse anche i tentativi del suo ministro di rivolgerlo verso la Polonia e l'Inghilterra.

Difatti molto più accortamente che non pensasse il Fuchs, l'elettore si era preparato le condizioni per il successo. Il ministro credeva di doverlo avvertire espressamente della dipendenza, in cui si poneva di fronte all'imperatore, se si faceva nominare da lui re; meglio sarebbe stato farsi eleggere re dai suoi sudditi e poi farsi riconoscere come tale dall'imperatore. A questo aveva pensato anche l'elettore, e vi aveva poi provveduto in un modo che non era venuto in mente al suo ministro, cioè fondando la sua dignità non sul suo territorio imperiale come elettore, ma sul suo ducato di Prussia, quale duca sovrano.

La decisione poteva esser data soltanto dalla corte imperiale di Vienna e qui all'inizio del 1700 accadde un incidente del tutto inaspettato, che aiutò a superare la difficoltà più grave. Il 18 gennaio 1700 Bartholdi era ritornato a Vienna al suo posto e subito dal suo primo colloquio col ministro conte Kaunitz aveva ricevuto l'impressione ben precisa che il vero scoglio di tutta la questione fosse, allora come prima, l'avversione personale dell'imperatore Leopoldo all'incoronazione di un elettore eretico.
Il conte Kaunitz si rifiutò di intavolare con l'imperatore la questione e propose che lo stesso Bartholdi fosse incaricato di quel primo passo. Bartholdi perciò il 24 gennaio e poi il 3 febbraio 1700 riferì la cosa all'elettore in un dispaccio cifrato con le parole: «il meglio sarebbe che V. A. Serenissima facesse rivolgere la proposta sull'innalzamento del vostro stato a regno da 161 a 110 ». (nel codice il 161 era Bartholdi e il 110 l'imperatore)

L'elettore lesse da se stesso il dispaccio, ma non avendo nel decifrarlo la necessaria sicurezza, scambiò la cifra 161, che significava Bartholdi, con la cifra 160, che significava nel codice cifrato «Padre Wolf» e scrisse sull'istante a questo padre, a cui l'invocazione dell'elettore si presentò come una voce dall'alto. Egli non era il confessore dell'imperatore, sebbene questo sia stato più volte ripetuto, ma solo il suo uomo di fiducia ed era più di qualsiasi ministro il suo compagno nei viaggi, il suo oracolo in tutte le cose temporali e spirituali, l'unico uomo che potesse parlare all'imperatore quando voleva. Per difendere la grande eredità spagnola, che egli aspettava per la casa imperiale, secondo il suo convincimento questa abbisognava dell'aiuto di armi e di denaro dalla casa di Brandeburgo; né egli considerava la differenza di religione come un ostacolo permanente alla buona intelligenza delle due corti, poiché egli aveva in mira il matrimonio del futuro re di Prussia con un'arciduchessa, che doveva convertire il marito alla Chiesa, nella quale sola in essa vi è la salvazione.

Con l'aiuto del padre Wolf, Bartholdi ottenne il 10 maggio una prima conferenza col conte Kaunitz e Harrach, alla quale il 16 giugno seguì una seconda. Più che per queste due conferenze la cosa andò avanti perché si sapeva che la Francia e le due potenze marittime il 25 marzo avevano concluso un trattato per la divisione dell'eredità spagnola e che il 4 luglio avevano invitato l'elettore di Brandeburgo ad aderirvi. Anche all'imperatore fu richiesta fino al 18 agosto la sua adesione a quel trattato e la decisione di rifiutarla equivaleva a quella di acquistarsi l'appoggio dell'elettore di Brandeburgo, concedendogli la corona regale.

Questo fu deciso dalla conferenza di stato del 2 luglio e il 7 luglio fu annunziato dal padre Wolf all'elettore con gli auguri preliminari. Il 27 luglio la grande conferenza di stato di tutti i ministri a pieni voti si pronunciò in massima per l'innalzamento dell'elettore alla dignità di re. Tuttavia non fu concluso prima del 16 novembre 1700 il «trattato della corona», col quale la corte imperiale si accontentò delle condizioni reciproche, che dopo lunghe e laboriose trattative furono accordate dal futuro re di Prussia.
Il rinnovamento dell'alleanza del 1686, che fu stipulato nei due articoli introduttori del trattato pubblico, perdette ogni lato pericoloso, poiché nel terzo articolo addizionale fu di nuovo espressamente riconosciuta la libertà di elezione garantita all'elettore dalla «bolla d'oro», e poiché l'imperatore credeva quella parte definitivamente battuta, quando con la sua richiesta sempre ripetuta che la religione cattolica potesse liberamente stabilirsi in Berlino, incontrò fino alla fine uno rifiuto irremovibile.

Il padre Wolf però non mutò la sua parte, poiché il 17 novembre 1700 scrisse esultante all'elettore: «Non trovo parole per la profonda gioia, che ormai venga ad un fine così felice il trattato per la regia dignità, cercata da V. A. S. con la massima equità e giustizia. Dico quindi a Dio con fervore ed umiltà grandissima, col cuore fedelmente obbedientissimo a Vostra Serenità: Te deum laudamus ».

Il 24 novembre giunse a Berlino il corriere col trattato. Il 17 dicembre 1700 tutta la Corte partì per Kónigsberg. In pieno inverno si andava sulla neve e sul ghiaccio. Il viaggio durò dodici giorni; la comitiva era divisa in quattro gruppi e ci vollero 30.000 cavalli per il cambio alle stazioni di posta. Il 29 dicembre l'elettore arrivò a Künigsberg e subito stabilì che l'incoronazione avesse luogo il 17 gennaio 1701, e ai preparativi di essa dedicò subito tutta la sua attività. Le feste cominciarono il 15 gennaio e furono descritte in un'opera speciale con tutta la competenza del conoscitore dal primo maestro delle cerimonie Giov. von Besser.

Quattro araldi comparvero nelle vie di Konigsberg e proclamarono che il ducato sovrano di Prussia era innalzato a regno in favore del potentissimo principe Federico re di Prussia. Il popolo applaudiva, i cannoni tuonavano e i Polacchi che per caso sopraggiungevano, credevano che tutta Konigsberg fosse impazzita. Il 17 per eternare il ricordo delle feste dell'incoronazione fu istituito il nuovo ordine cavalleresco dell'aquila nera. E il 18 con grande sfoggio di porpora, di oro e di diamanti, avvenne l'incoronazione, che il nuovo re fece prima su sé stesso, poi sulla consorte. Non prese la corona dalle mani di alcuno e senza che mano straniera gliela porgesse la pose da sé sulla propria testa; e così fece su la nuova regina, cui pure impose la corona.


Re Federico I di Prussia e la consorte Sofia Carlotta


Nessuno aveva ricordato l'imperatore e l'impero e nessuno ricordò il papa e la chiesa; re e regina con la corona in testa, a capo del corteo dell'incoronazione, entrarono nella cappella del palazzo. Qui soltanto comparvero davanti ai sovrani già incoronati per procedere alla consacrazione, due ecclesiastici protestanti, che erano stati nominati vescovi appunto per queste feste, Ursino von Baer per la chiesa riformata, von Sander per quella luterana; con la solenne ascensione al trono della coppia regale, a cui seguì l'omaggio dell'assemblea e dei collegi, ebbero termine le feste nel castello. Un'illuminazione generale della città, diretta dall'architetto Eosander von Goethe, chiuse la solennità dell'incoronazione.

Al sommo del giovane regno di Prussia stava la Corte; imitazione di quella francese sotto Luigi XIV. La politica si adoperava a soddisfare i bisogni di questa Corte, sia dal lato intellettuale, sia da quello economico. E dal lato intellettuale fu singolarmente felice nell'opera sua a pro del popolo, che nella cultura era stato prima d'allora molto prima. Furono fondate l'università di Halle e l'accademia di arti e di scienze, attirati nel paese uomini insigni; si fece qualche cosa di notevole nell'architettura e nella plastica.
Berlino - fu abbellita col castello reale, l'arsenale, il ponte lungo, il monumento del Grande Elettore ed altre opere, insomma innalzata in qualche modo al grado di metropoli intellettuale.

Ebbero un'importanza speciale soprattutto Leibniz, lo spirito più vasto del suo tempo, Thomasius, il primo professore che tenne lezioni in tedesco e pubblicò in tedesco un giornale dotto, e Schlüter, che fu chiamato il Michelangelo della Germania. Si aggiungano poi Pufendorf, Spener, Jablonsky ed altri.
Oltre all'arte e alle scienze si cercò di ravvivare l'industria, il commercio e l'agricoltura. Si accolsero Palatini, Valloni e Svizzeri, così che nell'anno 1700 gli stranieri si potevano calcolare a circa 15.000 e fra loro prevalevano i Francesi, immigrati già al tempo del Grande Elettore.
Questi stranieri in parte coltivavano territori deserti, ma per la parte maggiore stavano nelle città, per trarre profitto dalle loro cognizioni superiori, dal loro gusto più fino, dalla loro intraprendenza e operosità industriale.

Avvennero cambiamenti anche nell'amministrazione della giustizia; il Consiglio privato divenne una vera magistratura centrale per tutte le province, fu istituito un consiglio delle finanze per i demani e le regalie, eretto un tribunale di appello, che estese la sua azione su tutto il regno, fu studiato un progetto nell'ordinamento di un tribunale supremo e di un diritto civile generale ed altri argomenti ancora.
Queste istituzioni resero lo Stato più produttivo aumentarono le sue entrate; ma disgraziatamente queste in buona parte si consumavano per la smania di dissipazione della Corte e per la cattiva amministrazione dei favoriti. Quando finalmente per le sollecitazioni del principe ereditario s'intervenne, risultò che vi era un estremo disordine e un'estrema disonestà nell'amministrazione, in tutte le casse e negli atti. Le casse eran vuote, gli eserciti prussiani combattevano lungi sul Reno a vantaggio e beneficio degli Asburgo, mentre truppe straniere correvano dentro il loro paese; quando morì il suo primo re la Prussia era disarmata e impoverita. Federico II il Grande non ha presagito che la memoria di suo padre, da lui fedelmente tenuta in onore ad onta delle burrasche della sua giovinezza con lui (che narreremo in seguito) , non avrebbe mai avuto bisogno di una riabilitazione e tanto meno di fronte alla durezza di cuore della propria figlia.

È certo che egli ha usato tutta l'energia, di cui il suo ardore era capace, per proteggere il merito luminoso del suo scomparso genitore (Federico Guglielmo) dal pericolo di essere disconosciuto. Quando nelle sale degli antenati della sua casa appese il ritratto di lui, disse: «Dopo il ristabilimento della pace tutta l'attenzione del re si rivolse all'amministrazione interna. Egli spese il suo lavoro a rimettere l'ordine nelle finanze, nella polizia, nell'amministrazione della giustizia e nell'esercito, compiti elevati che durante il regno precedente erano stati trascurati con piena indifferenza. Aveva un animo operoso in un corpo pieno di vigore; mai nacque un altro uomo con uno spirito così disposto al lavoro individuale. Se discendeva ai minimi particolari, lo faceva perché persuaso che le grandi cose hanno origine dalle piccole. Tutte le sue opere giornaliere poneva in armonia col disegno complessivo della sua politica e adoperandosi a dare alle parti un'estrema finitezza, cercava la perfezione del tutto. Soppresse tutte le spese superflue e chiuse tutte le bocche, per le quali la prodigalità di padre suo aveva deviato a scopi insignificanti o superflui i mezzi richiesti per la pubblica prosperità. La Corte provò per prima queste riforme. Egli trattenne soltanto quel numero di persone, che erano necessarie e utili ai bisogni dello Stato; di cento ciambellani, che aveva avuto suo padre, ne rimasero soltanto dodici, gli altri divennero soldati o uomini d'affari. Ridusse ad una somma moderata quello che a lui occorreva, poiché, diceva, un principe deve essere avaro dei beni e del sangue dei suoi sudditi. Sotto questo aspetto era un filosofo sul trono, molto differente da quei saggi, il cui sterile sapere consiste nel correr dietro a vuote chimere, che sembrano sottrarsi alle nostre conoscenze. Dette l'esempio di un rigore e di una parsimonia, degne dei primi tempi della repubblica romana. Nemico delle pompe e delle esteriorità imponenti della monarchia, nella sua virtù stoica rinunciò alle ordinarie comodità della vita».

Torniamo ora a suo padre. FEDERICO GUGLIELMO aveva 25 anni, quando divenne re il 25 febbraio 1713. Anche in questo primo anno del suo regno aumentò il suo esercito di sette reggimenti e nell'anno 1714 cominciarono a comparire i «regolamenti», dai quali uscì il primo esercito veramente moderno che la storia conosca.
La superiorità dell'esercito prussiano consisteva in questo che in parte possedeva e in parte acquistò un'intima unità. Già diciannovenne e ancora principe ereditario Federico Guglielmo aveva dato a questo fine l'opera sua. Lo dimostra il rescritto dei 5 aprile 1707, dal quale risulta che al fucile prussiano di fanteria mancava ancora l'unità del calibro e l'uniformità della baionetta di ferro, che fu allora per la prima volta ordinata l'uniformità della spada e dei suoi accessori, delle cigne e delle borse, dei tamburi in ottone, dei colletti, che tutte le innovazioni di questa specie figurano proposte dal maresciallo principe di Anhalt ed approvate dal principe ereditario col suo instancabile «sì» o «buonissimo e utile».

Già il solo fatto che il giovane re solennizzasse la fine di una guerra mondiale con la creazione di sette nuovi reggimenti ci fa vedere che egli immaginava la pace come una tregua armata, ed uno dei suoi primi regolamenti per la fanteria, ci rivela, in un sistema di regolare congedo, il mezzo di conciliare le necessità del servizio con quelle della prosperità del paese.
L'esercito si rinnovava ancora per mezzo di «arruolamento», ma questo si effettuava dagli arruolati prussiani con la violenza e con l'astuzia, e di regola gli arruolati andavano a caccia di individui di alta statura fuori dei confini dello Stato. La condotta lodevole degli arruolatori stava sotto il favore speciale del re. Soltanto tra il 1726 e il 1733 si sviluppò e naturalizzò in Prussia quello, che noi oggi chiamiamo la «leva ».

Essa fu probabilmente una creazione propria del re. La questione giuridica, che vi é collegata, fu risoluta da Federico Guglielmo con un tratto di penna. Secondo l'opinione pubblica nel Brandeburgo e nella Prussia di quel tempo il sovrano aveva diritto di «arruolare» nella «milizia provinciale» gli abitanti del paese per la sua difesa, e i sudditi avevano il dovere di obbedire a quest'invito, ma non esisteva l'obbligo di ottemperare alla convocazione della «milizia regolare» ossia dell'esercito stanziale.
Federico Guglielmo lo introdusse abolendo la milizia provinciale, anzi vietando la parola «milizia» e la parola «militare» che significa lo stesso, e dichiarando subito nel primo anno del suo regno che «quelli che per timore dell'arruolamento abbandonano il loro paese, debbono esser considerati come disertori dal suo esercito», ed inoltre che la gioventù della città come dell'aperta campagna «é tenuta ed obbligata a servirlo con i suoi beni e col suo sangue, secondo la sua naturale nascita e secondo l'ordine e il comando proprio dell'altissimo Iddio».

Per questa via indiretta fu introdotto in Prussia il principio dell'obbligo universale (leva) alle armi, senza che fosse espresso formalmente.
Federico II il Grande indica quali progressi decisivi fatti sotto suo padre nelle istituzioni militari l'invenzione della bacchetta di ferro per caricare il fucile, fatta dal «vecchio di Dessavia» (Lepoldo di Anhalt) e la creazione della costituzione cantonale nell'anno 1733. Nella preparazione alla «Storia del mio tempo», secondo la redazione del 1746, egli parla del rivolgimento maturato nel secolo precedente intorno al combattimento a fuoco della fanteria, e dice: «Essa combatteva in sei file di profondità e una metà del battaglione portava delle picche e l'altra dei moschetti; le picche giovavano soltanto a tener lontana la cavalleria e i moschetti producevano un fuoco debolissimo, perché il loro numero era piccolo e le micce spesso fallivano. Gl'inconvenienti fecero abbandonare simili armi pesanti, e furono sostituiti i fucili a pietra, che armati con la baionetta, presero nello stesso tempo il posto delle picche. Il fuoco divenne allora l'arma difensiva della fanteria e questo rese superflua la profondità dei battaglioni, diminuì insensibilmente il numero delle file ed aumentò il loro fronte». - «Venne allora un uomo, la cui attenzione, rivolta a questo unico scopo, raggiunse un meraviglioso successo: era un meccanico militare, il fondatore dell'esercito prussiano, in una parola il principe di Anhalt; egli dette ai battaglioni una nuova costituzione, li dispose su tre file di profondità, vi portò quella disciplina, quell'ordine, quella meravigliosa precisione, che resero quelle truppe paragonabili al meccanismo di un orologio, dalle cui ruote, che ingranano ingegnosamente l'una con l'altra, risulta un movimento esatto e regolare. Queste macchine animate si muovevano senza disordine ad un comando del loro capo, eseguivano le conversioni più difficili senza confusione e con una rapidità che l'occhio aveva difficoltà a seguire; un battaglione prussiano era una batteria ambulante; la prontezza, con la quale caricava i suoi fucili, produceva un fuoco, che avvicinandosi continuamente, era infernale per la sua violenza, e superando tre volte in rapidità quello di tutte le altre truppe, dava ai Prussiani una superiorità di tre contro uno
».

Da un saggio più recente del re «Sulla milizia sotto il re Federico Guglielmo I» prendiamo ancora questa osservazione: «il principe di Anhalt ideò la bacchetta in ferro per il fucile e trovò il mezzo d'insegnare ai soldati a far fuoco con un'incredibile rapidità. Dal 1733 la prima fila caricava i fucili con la baionetta inastata».

Questa era l'età dell'oro dei «lunghi giovanotti» della parata per il cambiamento di guardia di Potsdam. «Verso l'anno 1730», dice il re, «la mania dei soldati di alta statura giunse ad un punto, a cui i popoli stenteranno a prestar fede. Il prezzo medio di un uomo alto 5 piedi renani e 5 pollici (1,62) era di 700 talleri, un uomo di 6 piedi (1,80) valeva 1000 talleri; e se era ancora più alto valeva senza paragone di più. In molti reggimenti non vi era alcun soldato alto meno di 5 piedi e 8 pollici (1,70); l'uomo più basso di tutto l'esercito era 5 piedi e 6 pollici (1,65) ben misurato. Con una statura di più di 6 piedi (1,80) il re, che era del resto così preciso in fatto di denaro, perdeva letteralmente l'equilibrio".

Racconta re Federico II il grande che suo padre aveva pagato al marchese Lucchesini per una recluta di 6 piedi e 8-i0 pollici (2-2,05), 3000, 4000, perfino 6000 talleri; ad un inglese straordinariamente grande per quanto mal conformato dette 10.000 talleri; in genere spendeva ogni anno in reclute 60.000 talleri.
Agli arruolamenti erano congiunti degli inconvenienti, che rendevano il sistema insostenibile. Essi cessarono quando nell'anno 1733 al caos degli arruolamenti fu sostituita una leva ordinata sulla base della nuova costituzione cantonale. «Nell'anno 1733 - scrive re Federico - il re divise tutte le province in cantoni (distretti di leva); questi cantoni furono assegnati ai reggimenti, che da essi prendevano in tempo di pace 30 uomini all'anno e in tempo di guerra fino a 100; questo rendeva l'esercito immortale, essendogli concesso un fondo sicuro, dal quale in seguito fu rinnovato senza interruzione ».

Da due regie «ordinanze per gli arruolamenti» del 1° e del 18 maggio 1733 furono aboliti gli arruolamenti che erano in uso in precedenza che esistevano nel paese, raggruppati in distretti furono ripartiti tra i vari reggimenti, così che un reggimento di fanteria ne ricevette 5000, uno di cavalleria 1800. I distretti reggimentali furono di nuovo divisi in dieci parti uguali secondo le compagnie. Il 15 settembre 1733 fu pubblicato per le stampe il relativo regolamento cantonale, secondo il quale «tutti gli abitanti del paese» furono dichiarati «nati e abili per le armi» e «obbligati» al reggimento, nel cui distretto cantonale erano nati. Erano esclusi dall'obbligo cantonale i figli dei nobili e dei genitori di condizione civile, che potevano dimostrare una sicura proprietà da 6000 a 10000 talleri.
Nessun reggimento poteva prendere uomini nel distretto o cantone di un altro reggimento. Si era già disposto che l'artiglieria dovesse rivolgersi ad uomini del paese, ma solo a quelli di 4 o 5 pollici superiori alla statura minima. Con un editto del 14 ottobre furono liberati dalla leva i figli dei ministri evangelici, che avessero studiato teologia, quelli dei coloni immigrati e i figli unici di coloro che esercitavano alcune professioni speciali. Perché gli affari relativi alla leva non fossero abbandonati all'arbitrio dei capi dei reggimenti, vi dovevano partecipare i presidenti dei distretti; ma questa cooperazione non impediva che singoli capi di compagnia non levassero dai distretti cantonali, che loro spettavano, intere colonie per provvedere i loro propri beni spopolati, col pretesto che fossero necessarie nelle loro compagnie.

L'obbligo cantonale universale dei contadini era una delle colonne dell'esercito, l'altra era la nobiltà provinciale, costretta da Federico Guglielmo a trasformarsi nell' esercito in una nobiltà militare e non solo per obbligo ma anche giuridicamente.
Il vivaio per la giovane generazione dei suoi ufficiali era il grande collegio berlinese dei cadetti, nel quale il numero degli allievi fu aumentato a 300 già nel 1722. Per quello che concerne la Prussia Orientale é stato accertato che il re cominciò a estirpare dalla radice l'avversione dei giovani nobili per il servizio militare e per il collegio dei cadetti. Il re si fece preparare dei prospetti di tutti i giovani nobili tra 12 e 18 anni e stabilì poi senza complimenti quali dovessero entrare nel collegio dei cadetti. Quelli che non vi andavano volentieri, furono mandati a prendere per mezzo di sottufficiali e gendarmi e condotti a Berlino a squadre di 18 a 20.
Ogni anno il re ne richiedeva un certo numero secondo le circostanze. Ai genitori fece dire che egli non poteva adoperare quei giovanetti così rozzi com'erano, avevano bisogno di insegnamenti. Però potevano starsene sicuri «che i loro figli erano ammaestrati nel cristianesimo e indirizzati in quelle scienze ed esercizi ad essi necessari, come scrivere e far calcoli, matematica, fortificazione, lingua francese, geografia e storia, scherma e ballo, ed inoltre 24 di loro alla volta imparavano gratuitamente a cavalcare; che erano alloggiati in camere pulite e ben provveduti di vitto e di bevande sane e buone».

Le sale della "Scuola d'armi" degli ufficiali, sottufficiali erano dei veri e propri centri strategici, dove si imparava non solo come si carica un cannone, ma la geografia del proprio territorio e quelli confinanti. Lo stesso Federico Guglielmo era sempre presente indossando la sua divisa. E presente era nelle piazze d'armi, dove si svolgeva l'addestramento, le simulazioni, ed era lui di persona a impartire gli ordini, secchi, decisi, come un sergente; e proprio per questo fu soprannominato "il Re Sergente", anzi "il sergente di ferro".

Nello stesso anno 1714, in cui iniziò la riforma del suo esercito, Federico Guglielmo intraprese anche subito quella dell'amministrazione. In data del 2 ottobre 1724 istituì una "Corte generale dei Conti", dalla quale ebbe origine poi la famosa "Corte superiore dei conti" e il 20 dicembre 1722 il "Direttorio generale sulle finanze", sulla guerra e sui demani, chiamato anche brevemente il "direttorio generale", che per più di 80 anni é stato a capo della più celebre amministrazione del mondo. E che tutto il mondo imitò.

Ai membri dei due collegi che furono mantenuti, del commissariato generale della guerra da una parte e del direttorio delle finanze dall'altra, fece leggere un ordine di gabinetto, nel quale era detto: «i due collegi non hanno fatto nulla, se non venire ad urti reciproci, come se il commissariato generale non fosse del re di Prussia, come lo sono i demani. Questa opera di confusione non può ancora durare; ora il commissariato tiene con i miei denari consultori legali e avvocati, per combattere contro le finanze, ossia contro me stesso; il direttorio generale delle finanze invece tiene con i miei denari avvocati per difendersi».

E perché al direttorio generale «fossero conferiti un maggior lustro, una maggiore autorità ed energia» nominò come presidente sé stesso, a vice presidenti cinque ministri dirigenti, a membri quattordici consiglieri intimi, ai quali col regolamento degli affari erano prescritti esattamente i vari compiti.
Quello che doveva richiedersi per le nuove nomine dei consiglieri del direttorio generale fu da lui pure fissato nelle parole: «devono poi essere persone così abili, da veder chiaro dappertutto, perfino di religione evangelico-riformata o luterana; siano poi fedeli e onesti, abbiano mente aperta, s'intendano d'amministrazione e vi siano esercitati essi stessi, siano poi bene istruiti nei commerci, nelle manifatture e nelle altre cose che vi si riferiscono, inoltre siano padroni della penna, ma soprattutto siano nostri sudditi per nascita - in breve, uomini tali da esser capaci a tutto quello, in cui si vogliano dedicare».

Nelle proposte per uffici vacanti nel servizio provinciale si dovevano prendere in considerazione soltanto quelli, che non erano nati nella provincia, dove era il posto vacante. Per tutti i servizi inferiori il re vuole che si adoperino soltanto degli invalidi e appunto quelli, che sono proposti dagli aiutanti generali. I presidenti dei commissariati provinciali devono visitare diligentemente le città e conoscerle poi così bene come un capitano la sua compagnia.
Per inculcare l'obbligo universale delle gabelle, da cui nessuno nel territorio deve essere esente, il re ordina: «e perché tanto più sia tolto il mezzo a defraudare in qualsiasi modo l'erario, Noi stessi con la Nostra reale Casa vogliamo pagare le gabelle e si deve badare col massimo rigore che nessuno abbia ancora a sottrarsi ad esse, col pretesto che queste o quelle cose appartengano a Noi o alla Nostra Casa reale».

Le disposizioni prese dal re per l'incremento delle manifatture attestano pure la sua competenza, come il suo sano giudizio. Quanto al flagello della povertà, che ancora si doveva combattere nelle città della Prussia, si fanno presenti in molte parti delle istruzioni, dove si dice che in tutti i «luoghi deserti» nelle città siano costruite delle abitazioni, «che tutte le case siano coperte di tegole ed anche le città siano del tutto chiuse per impedire ancora meglio con questo che si frodi nelle gabelle». (Suo figliO fece ancora di più, andò a frugare perfino negli stracci e nelle immondizzie dei nobili, per vedere cosa buttavano e quali avanzi andavano a finire nelle pattumiere. Non è una novità che dagli stracci e dai rifiuti si può risalire al tenore di vita di un cittadino e al suo spreco, e forse questa "furbizia" a Federico non sfuggì. Chi sprecava molto vuol dire che aveva i mezzi per farlo; bastava un controllo incrociato nel suo archivio delle tassazioni e scopriva subito se pagava in proporzione).

Il re si attendeva un rinnovo generale del suo paese da questa amministrazione così concepita, cosicchè «quei poveri giuristi, quei poveri diavoli, diverranno con la nuova costituzione così inutili, come la quinta ruota del carro».

Nella conclusione della sua esposizione stanno le memorabili parole del regale programma, con le quali chiuderemo:
«Non vogliamo affatto adulazioni, ma a noi si deve sempre dire la pura verità e nulla ci deve essere nascosto, né si deve venire a spiattellarci delle bugie.
Siamo però re e signori e possiamo fare quello che vogliamo».

Anche se nell'ultima frase si era vicino alla Versailles di Luigi XIV, quanto sono lontano le parole della prima !!!

Questo re instancabile si adoperava a preferenza anche a migliorare l'agricoltura, che portò ad un grado di prosperità offerto soltanto dal Belgio e dall'Inghilterra. Migliorò inoltre l'amministrazione delle città, i proventi e l'importanza dei mestieri e delle industrie, e la giustizia. Fu il creatore della scuola popolare prussiana (suo figlio rese poi obbligatorio a tutti i ceti la frequenza scolastica); affrancò i servi dei possedimenti della Corona e in breve dette all'esercito come a tutta la nazione e allo Stato una energia di lavoro, che collocò la Prussia molto al di sopra dei popoli vicini.
Nel rude pugno del re, un popolo pigro e indolente si fece solerte e parsimonioso; uno Stato indebitato divenne ricco. E questo avveniva in un tempo, in cui era di moda tra i principi di non darsi pensiero dei sudditi, ma di scialacquare fino al midollo la ricchezza della nazione.

E quanto diverse erano le condizioni dello Stato alla morte di Federico Guglielmo da quelle che erano alla morte di suo padre ! Le entrate dello Stato importavano circa 7 milioni di talleri, il tesoro dello Stato aveva un avanzo di quasi 9 milioni, di cui 2 1/2 milioni erano effettivo di cassa ed effetti di valore. L'esercito era stato portato a 83.000 uomini, mentre quello della Francia tanto ricca e grande contava soltanto 150.000 uomini e quello dell'Austria imperiale solo 80-100.000 uomini.
A suo figlio dette tre norme: "mirare ad essere padroni di sé; mirare alla grandezza della casa di Hohenzollern; mirare alla prosperità dei sudditi".
E questo figlio, che una volta si era trovato di fronte al padre quasi come ad un mortale nemico, poté poi dire:
«Tutta la mia successiva fortuna derivò dalla vita operosa e dalle sagge misure di mio padre Federico Guglielmo».

E proprio di questo figlio
parleremo nel successivo capitolo.

FEDERICO II, IL PRINCIPE EREDITARIO > >

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