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158. LO SPIRITO FRANCESE - IL CLASSICISMO - LA CULTURA TEDESCA


"Ciò che possiamo conoscere
è solo quello che noi stessi abbiamo costruito mentalmente" - Kant

La cultura dei secoli moderni non ha le sue prime radici nell'antichità, scoperta nuovamente dal Rinascimento, ma vi ha le sue radici più attive. Mediante l'influsso intellettuale ed estetico dell'Italia, nel secolo XVI il cattolicesimo pratico aveva già effettuato con l'antichità una caratteristica alleanza di pace e d'interessi, che ci si presenta nel modo più sicuro, per non dire in quello più superficiale, nei cicli e nella quantità di soggetti del tardo rinascimento e dell'arte barocca dei paesi cattolici.
Ma anche nel mondo protestante esiste un simile compromesso con l'antichità, soltanto di gran lunga più libero dal forte miscuglio di elementi sensuali, che caratterizza l'alleanza ricordata sopra. Qui si continua maggiormente un'unione intellettuale, proporzionata all'indirizzo, dato principalmente dalla personalità di Melanctone all'umanesimo, a questo precursore della Riforma.

Esso, sempre mediante lo studio della teologia e l'influenza delle scuole, si volge affatto verso una dotta e ricercata profondità. Invece quei popoli da noi ricordati per primi, i cui artisti dediti a lavorare per le classi sociali superiori, i Rubens e i Tiepolo, sono i parenti dei cinquecentisti, dimostrano una naturale e infaticabile cultura estetica, fino nelle intime particolarità della vita, fino nell'arredamento e nella decorazione di una casa contadina.

I paesi protestanti hanno acquistato una relazione molto più positiva e realistica con ogni cosa, e questo anche nell'àmbito dell'arte prende ad illustrare la pittura olandese, quasi seguisse addirittura un tale programma. In essi servono a sollevarsi sopra la vita di ogni giorno non tanto un'eredità di cultura e una propria fantasia, quanto la ragione, l'intelligenza, le tendenze morali e la dottrina appresa sui libri.

Le sfere di vita più geniale, raggiunte già dagli uomini e dai popoli, che li hanno preceduti, rimangono per loro gli studi filologici, cioè le astrusità; ma ad essi resta pure infine una grande brama e una segreta scontentezza, cioè i grandi impulsi a creare in avvenire civiltà nuove e moderne.
Così il mondo classico per i paesi germanici rimane dapprima in genere un esercizio scolastico, mentre per l'educazione dei Romanici, e per mezzo loro anche degli altri cattolici, fin dal Rinascimento quel mondo si è fatto carne e sangue, al punto che soltanto pochi ne hanno coscienza. Presso di loro l'antichità viene rivissuta con certe corrispondenze tradizionali e soltanto con abiti mutati; per questo debbono ripetersi anche i fenomeni delle fasi della vita, la gioventù e la vecchiaia.

Con l'arcaismo greco il Quattrocento aveva avuto svariate affinità occulte, col tempo di Fidia quello di Michelangelo, senza però raggiungere quella purezza e quella sicurezza. Ed ora nel secolo XVIII, sotto la direzione all'inizio incontrastata della Francia, si ripete la decadenza ellenistica con un parallelismo caratteristico; con la sua irreligiosità e con la ricerca di un Dio ignoto, con le sue filosofie accademiche e con l'affinità intellettuale - ben presto notata - fra Luciano e Voltaire, con la sua cultura estetica, che non aspira ad una grande arte, ma in luogo di questa penetra con una straordinaria «routine» e con un gusto squisito tutto quello che è prodotto dall'arte, dalle industrie artistiche, dai mestieri, dalla moda.

Anche nel secolo XVIII si prova il sentimento tipico che tutto questo splendore deve tra poco finire e nei circoli della educazione più mondana si considera come ristrettezza di mente e come cosa insulsa il credere alla continuazione della situazione presente. Ma a loro basta ancora soltanto che ciascuno sappia quanto sia personalmente più spiritoso, più illuminato che non sono le vecchie tradizioni, e come d'altra parte per il sovvertimento minacciato dai plebei - contro il quale non muove un dito, venga esso come apostolato cristiano dal nuovo profeta di Nazaret o con le parole reboanti del discepolo di Rousseau - egli sia personalmente troppo aristocraticamente sottile e non desideri di vedere scompigliato il suo circolo; anche in questo nuovo caso egli volentieri uscirebbe non costretto dalla scena e con molto effetto, con un sentimentale e rassegnato «Che cosa è la verità ?».

Evidentemente questo parallelo, da intendere cum grano salis, tra l'ambiente degli spiriti intorno a Voltaire e quello della filosofia della tarda antichità, non richiede l'intervento del tutto esteriore di una ripetizione anche nell'àmbito dello stile artistico. Soltanto la Rivoluzione, che insieme alla Francia decrepita politicamente fece perire per mano del carnefice o sotto i suoi grossolani stivali anche la Francia stanca dell'eleganza e dello spirito, credette di aver bisogno di una noiosa manifestazione stilistica dell'antichità, e dovette attenersi ad una diretta imitazione di questa, per non ammettere che l'interpretazione più fine si era spenta e che ormai in genere non vi era più nulla.
Allora la Francia dovette esser resa così classica che anche le mogli degli scrivani di avvocato, divenuti capaci di governare, e quelle dei fornitori repubblicani dell'esercito si drappeggiavano in un abito antico. In questo, a dire il vero, non si andò oltre i Romani, che essi stessi avevano copiato piuttosto grossolanamente il mondo ellenico, vedi le scene pittoriche provenienti dagli scavi di Pompei.

Ma anche per questo, nell'andamento storico complessivo della cultura rimase un sentimento di scontentezza e d'insufficienza; il direttorio e l'impero scomparvero a loro volta in seguito a un quos ego, come erano sorti, e sempre più si vide che col secolo XVIII era finito il tempo delle culture cresciute organicamente in modo spontaneo e - per quanto con un prevalente e profondo studio di antichi elementi - autonome e compiute in modo originale.
Questi sono, e dobbiamo accennarlo soltanto al volo, i problemi, che oggi ancora ci stanno davanti anche oggi dobbiamo superare il tracollo di cultura del 1789 e da mirare ad una conciliazione nell'estetica e in genere nell'incivilimento coll'età della libera opinione, resa universale e più rude.
Così sperano gli uni ed è semplicemente necessario che tengano bene in mente come col finire del secolo XVIII l'epoca delle culture originali sia soltanto interrotta e che lavorino alla restaurazione di una cultura nuova, la quale dovrà essere pure originale, pure corrispondente e adeguata agli elementi propri della cultura generale e alle condizioni sociali.

Altri, a dire il vero, stimano più aristocratico - e aristocratico in senso del tutto personale - di vivere ancora col secolo XVIII, come se questo ancora esistesse apposta per loro. Sono essi i veri parenti spirituali dei circoli francesi della decadenza, poiché sono anche oggi quelli, che si mantengono estranei all'altruismo, che nel secolo XVIII sollevò le prime pretese e che fin dal secolo XIX, se non ancora le leggi, ci ha dato però gli ideali.
Anche questa decadenza nuovissima della società raffinata (priva anzi di spontaneità e di originalità) sa soltanto che è segno di spirito l'ammettere come sicuro lo sfacelo prossimo della società e della sua cultura e di giudicarlo però detestabile, ma in modo personalmente del tutto sublime.

Sopra i termini di rococò e di «parrucca» regna presso di noi una deplorevole confusione d'idee o piuttosto un accordo insufficiente sulla storia artistica dell'epoca, e di più ancora, dopo che é capitata l'espressione del Biedermeier, con la quale si indicava non molti anni fa in modo ancora più espressivo la confusione che tenne dietro all'impero. Però a prescindere da ciò, giova più al nesso di questo libro il fissare con l'espressione «stile Louis quinze» quello di cui qui dobbiamo parlare.
In esso la Francia ha prodotto una creazione estetica e stilistica del tutto a lei corrispondente; e lo stesso si trova quando, seguendo i suoi precedenti, si risale a quel barocco, che Luigi XIV ricevette dall'Italia e che egli per il suo effetto grandioso e suggestivo seppe adattare così mirabilmente nel barocco francese al periodo maestoso dell'assolutismo cortigiano.

Lo svolgimento ulteriore dal barocco, sontuoso con misurata dignità e pretenzioso per le sue proporzioni, fino al leggiadro e leggero rococò é stata un'opera condotta a termine esclusivamente dalla Francia; lo stesso dicasi di quello sviluppo, che logicamente e con evidenza caratterizza la differenza storica tanto nazionale quanto di cultura tra le epoche dei due Luigi. Nessun'arte e nessuna estetica coincide più interamente col suo tempo come questo stile «Louis XV». Nessun'altra simbolizza in modo così geniale il relativo ambiente politico e sociale, come questo stile della delicatezza frivola, del capriccio, che a bella posta scansando la primitiva simmetria, evita la fredda uniformità delle parti e dei lati contrapposti, che si getta nell'impiego più civettuolo degli ornamenti irregolari e liberamente capricciosi; e questo per dimostrare in fondo, quasi con un fine e amabile sorriso, che essa senza compasso, senza riga e senza squadra, se guardiamo soltanto all'insieme, sa tuttavia garantirci sempre una simmetria molto più graziosa e geniale e produrre un'armonia più fine e più gradevole che non risulti da qualsiasi calcolo meccanico; né gli si può contestare di raggiungere sempre, con la sua libera maniera, appunto l'armonia più compiuta e la sicurezza più piena.

Il rococò é il prodotto più raffinato nell'intera storia del gusto, il simbolo insuperabile di una società aristocratica, socialmente esclusiva e assolutamente incurante di ciò che non é raffinatezza arbitraria, gioconda e senza serietà. Naturalmente però, e appunto per questa ragione, il rococò non é diventato una grande arte. Per questo gli manca ogni premessa etica di notevole valore.
In luogo di un'alta idea della vita e della sua manifestazione simbolica con gli elementi e le forme grandiose dell'arte, essa innalza la graziosa espressione mordace; invece di ciò che é serio e virile, vive in essa e domina furtivamente la femminilità.
Quest'epoca non é la sola che sia contraddistinta dalla «recherche de la femm»; in nessuna però é così chiara, così ammessa e così guidata dal proprio talento come nell'ambiente che stava attorno a Luigi XV. Anche altre epoche videro le grandi favorite, ma né sotto Luigi XIV né in Inghilterra né in Sassonia o in altri luoghi esse determinarono la storia dello Stato e perfino nelle decisioni più gravi della politica non si beffarono così del sentimento della responsabilità, della coscienza, che pone un argine all'errore funesto e al capriccio puramente egoista.

Il concetto di donna onesta abbisognava ancora del «siécle di Louis XV» per divenire così misero, come ci si offre. La donna normale e rispettabile per opera di questo ambiente perdette quasi ogni rapporto non solo con quello che si muove alla superficie della vita, ma anche con quello che in essa questa é realmente importante e decisivo. Qui può presentarsi a noi come esempio anche il re «scapolo» di Sanssouci, di cui sempre si dimentica che era un marito.
Una Maria Teresa modello di signora, di moglie e d'imperatrice, che in Vienna pubblica leggi draconiane sui costumi e vuole estirpare tutte le donnette leggere, sembra che voglia soltanto come eccezione confermare l'indole del suo tempo.
Molto più caratteristica di questo é già coi suoi sovrani intrighi amorosi una Caterina II, o (come caso più mite) la stessa figlia della onesta imperatrice viennese, che con vivace e gaia leggerezza va danzando sullo stretto confine del trionfo ammissibile della sua vanità, la giovane delfina e futura regina di Francia. E Maria Antonietta segna tuttavia un generale progresso morale in questa Corte, nella quale fino all'ascensione di Luigi XVI al trono le favorite, che dominavano il re e lo Stato, si erano dati il cambio.

La virtù é pure tra le ruote motrici del «siécle Louis XV» ed anche l'ingenuità e l'innocenza; si gioca ancora con esse per esserne eccitati. E questo continua oltre Luigi XVI e oltre i confini della Francia. Appunto dalle diluizioni omeopatiche di un continuo sollazzarsi, venute allora di moda in Germania, l'eccitabilità sempre attenta come una vedetta sa ridestarsi e rafforzarsi di nuovo: dalle civetterie di un « modesto » fazzoletto da collo, dal gioco dei pegni continuato senza riposo, dagli abbracci, che si pretendono dati per amicizia, dalle delicate strette di mano in ogni occasione e principalmente dalle lacrime versate insieme per ogni commozione e per ogni gioia.

Anche altre epoche, per es. il Rinascimento, ci parlano abbastanza di una violenta sensualità delle indoli più robuste e più geniali. Ma in nessun altro tempo - ne abbiamo già accennato altrove ed ora vogliamo ricordare soltanto la Pucelle di Voltaire ed altre opere simili - appunto gli uomini, che esercitano la funzione di educatori del popolo per mezzo della letteratura civile, secondo un programma- ideale, pagano un tributo così largo e di per sé stesso così insaziabile alla lubricità; in nessun tempo si cancella in modo così pericoloso la differenza fra l'artista o il filosofo e l'Aretino. La grandiosa forma artistica é divenuta un galante grazioso capriccio rococò e la sensualità dei forti spiriti non fa capo ad una bellezza illuminata dall'arte, ma ad una frivolezza spiritosa.

Ma poiché non vi é nulla al mondo, a cui la Germania non cooperi, anch'essa si lasciò cogliere con gli altri da questa furia letteraria, per quanto non le si addicesse del tutto. Anche la poesia tedesca si presenta a noi su tutta la linea con questi soggetti di una gradevole sensualità, che si perde in cose futili, secondo il gusto francese, con le delicatezze liriche del Weiss, per ricordarne uno solo, o con la maniera del Wieland, con tono semipedantesco e trasformata in un affare letterario, fino a compiacersi - e gli sembra più virile - in aneddoti od oscenità, da cui non rifugge del tutto fra gli altri anche un Lessing.

Tutta l'atmosfera europea é impregnata da questa sensualità, più o meno idilliaca, ben presto divenuta impertinente; né possiamo leggere l'onesto Giov. Enr. Voss e nemmeno i romanzi virtuosi del tempo, senza che in qualche modo questo ci sia richiamato alla mente.


Il "bagno" scena di costume dell'epoca del rococò - Quadro di G. B. Payer

Anche l'occhio, invece di trasmettere una idea più universale di estetica dei sensi, era allora divenuto l'intermediario di una voluttà specificatamente sessuale, che da per tutto andava pullulando. Nelle grandi epoche dell'arte i sensi erano serviti per la ricerca della bellezza, allora invece la bellezza serviva alla lascività e dallo splendore divino della nudità si era venuti a un denudare tutto umano della bellezza, e noi non possiamo quasi guardare una delle cento ninfe o non ninfe in uno di quegli innumerevoli quadri, senza dover pensare invece che all'artista - al committente o al compratore.

Tutto questo si trova naturale, né alcuno si sforza di darne il motivo e la giustificazione e tanto meno delle «Confessions» e delle memorie, che si compiacciono di simili ricordi. Soltanto dopo, se questo gusto ha perso ogni colore non solo l'individuo, ma anche un'intera epoca, si scrivono su questo le più strampalate ricerche e teorie, la sottile quintessenza dell'esperienza e di un sapiente sguardo retrospettivo.

Nessuno é veramente del tutto serio. Anche i massimi e i grandi spiriti della Francia lo sono prevalentemente solo nell'unico concetto della vita, che li afferra e che li solleva al di sopra di sé stessi, mentre essi divengono immortali per averlo perfezionato e difeso nei loro scritti.
La società e l'ambiente sono semplicemente futili. Quello che il principe di Ligne dice dell'«ancien régime» morente: «Si potrebbe veramente fare a meno di artisti drammatici di professione, perché la buona società può stare a pari con i migliori di loro», é un ritratto fatto senza volerlo. In tutto vi é però una cosa di mezzo tra la sincerità e la maschera, tra la superbia signorile e l'eroismo da teatro.

E al surrogato si può veramente con maggior facilità dare grazia e bellezza che non alla solida sincerità. Con vivacità sempre maggiore ci commuove, quanto più conosciamo i suoi contemporanei, la grandezza di Federico di Prussia, pur loro parente di spirito, che dalla ricerca di eccitamenti e di piaceri geniali della sua giovinezza (anche lui rapito dal francesismo) si solleva poi fino ai doveri di regnante e finisce col drizzarsi come un duro albero di tasso, tenace ed elastico e solitario.


Costumi del periodo "rococò" - Quadro di Watteau (1684-1721)

Artisti innumerevoli vivono in questo secolo di Luigi XV e noi perciò saremmo imbarazzati, se dovessimo metterli in rilievo in un abbozzo di storia universale. I migliori e i più seri, gli iniziatori, Watteau, Lancret, Pater erano già morti. Ora i virtuosi della frivolezza si chiamano «peintre du Roi». Quello che quest'arte non ha perduto di Watteau e dei suoi seguaci, la tradizione, la tecnica raffinata e sicura, vive in Francia finché dura la grazia.
Dopo quest'arte sono da ricordare in Francia soltanto gli artisti della rivoluzione, del programma non classico di partito dipinto in modo classicista, David e la sua scuola; e soltanto in più tardi prende origine un'arte vigorosa del tutto nuova, la conseguenza estetica della mutazione del concetto di vita tentata dalla Rivoluzione.
Invece il gusto, raffinatosi nel mestiere artistico della pittura, e la psicologia sociale dell'artista si propagano nell'Inghilterra, che ancora una volta riceve dal Continente impulsi fecondi; però secondo la sua indole speciale di non esser dotata per esprimere molta originalità nell'arte, quanto invece per svolgere con grande efficacia una cultura generalizzata in modo convenzionale.
L'Inghilterra, che già in precedenza dai tempi di Van Dick, anzi dell'Holbein, era stata la terra promessa della pittura di ritratti pagati splendidamente, conserva ancora la sua tradizione e la sua propria società, anche quando quella francese perisce sul patibolo o é cacciata in esilio nella miseria. Sono questi i motivi, che concorrono a far sviluppare quella fine e aristocratica pittura di artisti nati in Inghilterra, ai cui inizi ed anche in altri importantissimi momenti sta il Gainsborough, e che tuttavia anche questa volta é integrata da forze continentali e più che da ogni altro dal tedesco Hoppner (Hoppner).

Dopo alcuni decenni di dominio universale, posti verso la metà del secolo, le sfrenate manifestazioni e le raffinatezze della sensualità si erano logorati da se stessi e poi non eccitavano più. La fine dell'«ancien régime» in Francia non è stata in sostanza più morale, ma più apatica, più rassegnata.
Solo la Rivoluzione e il Termidoro solleveranno uomini non logori ed allora in questo campo si rinnoveranno gli antichi tempi. Nel breve intervallo si comincia a parlar di morte e di virtù.
Ed ora é la volta dell'Inghilterra, dove si pone sulla bilancia di fronte alla sensualità, nutrita a «rost-beef», la modestia affettata con effetto dannoso per la generalità. Qui dalla euforia della vita commerciale e affaristica si era già giunti ad un culto pratico della ricreazione e della salute nazionale, in un contrasto notevole con quello che si poteva realmente effettuare con gl'idilli sull'umanità allo stato di natura, utili all'inizio soltanto come mezzo di agitazione, e col fantastico stato primordiale degli uomini secondo G. G. Rousseau in Francia.

Ora per la prima volta, come prima nella politica e nella filosofia, le idee inglesi, precorrendo il futuro, passano anche nella civiltà sociale del Continente, e compaiono in modo caratteristico prima di tutto nella forma simbolica di stivale da cavalcare e così pure di abito nero immaginato per stare in sella. Da una parte stivali e Rousseau, dall'altra scarpini con fibbia e calze di seta, e lo stivale vince.

Anche la rivoluzione francese comprende questo simbolismo e da esso svolge, rendendo a bella posta tutto più grossolano, il costume degli «incroyables», del repubblicanesimo proprio di stile.
E la Germania anche prima ha inteso così la cosa: Werther é immaginato «con gli stivali, in giubba turchina e panciotto giallo», e il suo colpo di pistola distrugge una vita, che va in rovina non per un amore sfortunato; ma in seguito ad uno stato d'animo più comprensivo e semi-occulto, e in ultima analisi per lo spirito rivoluzionario in fermento, non padroneggiato.

E così, come un sollievo per le anime stanche, passa prima in Francia e poi in Germania, seguendo sempre le vie, percorse già dai confronti e dagli eccitamenti politici, la virtù inglese, con la sua proporzione di sincerità ed anche d'ipocrisia. Questo ci spiega l'azione larga ed efficace dei romanzi di Richardson (1689-1761) e specialmente della sua Clarissa Harlowe. Fin d'allora il romanzo, secondo il detto di Diderot, era stato un tessuto di avventure chimeriche e frivole.
Allora comparve, come un genere letterario nuovo e durevole, il romanzo di famiglia, per eccitare lo spirito e guidare piacevolmente le anime al bene. È un genere che ha per materia e per fine una moralità, la quale giustamente considerata é piuttosto un'accortezza superficiale di vita, discretamente utile, e in cui rimane ancora abbastanza di quella sentimentalità poco prima sfiorata, insieme ad una diluita voluttà segreta.

Al Richardson tengono dietro altri, che psicologicamente sono già più fini, che non credono più così materialmente a una virtù assoluta e a una assoluta bassezza, e quiindi rivelano già la conoscenza della relatività di tutte le cose in un popolo progredito, in seguito all'esperienza che dà la cultura, ed anche non ripetono più una predica infinita e insopportabile. Ma l'impressione che essi tutti - però più estesamente il Richardson, perché di lui si nutre la media dei lettori - esercitarono in Francia e in Germania fu immensa, tanto più che il Continente, desideroso della libertà civica inglese, l' andava ricercando in ogni qualsiasi espressione.
Le figure poetiche dei buoni tedeschi ricevono nomi inglesi, non soltanto nella Miss Sara Sampson del Lessing. Una Lady Milford, «favorita del principe», é creata per pronunciare, sia pure come amante, la parola che deve fare arrossire il servilismo dei piccoli principi del secolo XVIII, con un più libero e più umano apprezzamento di sé stessi.

Sia detto qui di passaggio, la Lady é cacciata alquanto forzatamente in questa parte, prima di tutto perché l'orgoglio nazionale dell'Inghilterra non forniva mai una merce simile a dei «foreigners» principeschi, lasciando questo in prima linea all'Italia, un tempo patria delle ballerine.
Questo é poi l'essenziale, che cioè nella onestà e nel vigore non mai logori di questo inesauribile germanesimo, è adatto ad assimilare i semi giunti dall'Inghilterra che tra i tanti altri germogliano più saldamente; quello che in essi é sano e robusto trova qui il favore di un ambiente affine perchè vi è l'antica parentela di stirpe.

Così quel popolo sassone-germanico, che era andato tanto avanti alla rimanente Europa nella potenza politica ed anche nella cultura sociale, rendendola universale e convenzionale senza innalzarla però e raffinarla, l'Inghilterra cioè, doveva aiutare a ridestarsi quell'altro e più antico popolo germanico del continente, che poi, sebbene soltanto tardi nel secolo XIX, ha cominciato a mettersi al suo fianco. In parte per la via indiretta del Montesquieu e del Voltaire, letti più avidamente in Germania che non in Francia, e in parte per dirette vie letterarie della dottrina inglese; cioè la descrizione delle condizioni di quel popolo, le norme fissate in virtù della sua costituzione, la scienza politica inglese, la filosofia e la nozione umana dell'universo fluiscono in genere nel popolo germanico.

Kant e Schiller poi hanno fatto la parte essenziale di germanizzare compiutamente questi impulsi fecondi, fino a raggiungere una propria indipendenza dall'Inghilterra e a dare ad essi una propria forma, nella quale poterono divenire patrimonio universale.

La Francia ebbe ancor prima il periodo più importante dell'influenza inglese, cioè nella prima metà del secolo XVIII. La nuova onda di quel culto inglese per la salute e la virtù corre qui più alla superficie. Il Tedesco crede alla virtù e alla probità del libero cittadino e il beneficio di questa sua nobile fede ricompensa anche dal punto di vista etico il cittadino politico, che va sorgendo.
Il Francese di quello stesso periodo possiede un gusto più sottile nell'accogliere gli elementi del compromesso sociale, in questa cosa eccellente, già "cucinata e servita" dall' Inghilterra, e così alla fine raccoglie soltanto una moda, una nuova maniera di uccidersi e di perdere facilmente il tempo; assume soltanto un nuovo atteggiamento.

Lo stesso appare evidente là, dove manca lo spazio ad un compiuto documento letterario, e meglio che altrove con uno sguardo a quell'arte, della quale il pubblico si trova d'accordo a riconoscere il merito, quando i suoi istinti sono colti giustamente. E qui ci appare il pittore della Francia borghese, divenuta virtuosa nell'ultimo stadio dell'«ancien régime», Greuze, l'artista dalle scene familiari commoventi, con le sue figure di donne mollemente leggiadre, che spirano la delicatezza più sensuale; l'artista anche in quelle teste di giovinette, che guardano di sottocchio, fra le quali egli scrive la parola «Innocenza», che sono subito acquistate dai lord inglesi per le gallerie dei loro castelli, ci parlano di tutt'altro che di un'ingenuità innocente.

Spetta ai Tedeschi nel campo intellettuale e dell'incivilimento, e molte volte in quello politico, la missione mondiale di assimilarsi con nobile abnegazione quanto d'importante hanno raggiunto le altre nazioni nel dominio del pensiero e del progresso, e non soltanto questo e quello a seconda di bisogni unilaterali.
Un ardore di apprendere universale, dimostratosi con prontezza straordinaria nel popolo, opera insieme a speciali circostanze geografiche e gradatamente anche ad una consuetudine propagatasi da sé stessa, che poi diviene quasi un dovere.
L'essenziale é però questo che, per virtù di condizioni ottime e di un'ottima virtù, questo patrimonio straniero si trasforma in patrimonio germanico, e in modo che i Tedeschi perciò sono in grado di restituire alle singole nazioni quanto esse avevano già trovato, ma di restituirlo così elaborato da condurre ad una formula superiore e più generale. Quindi in altre parole nella storia dell'incivilimento mondiale essi esercitano in certo modo una funzione di trasformazione universale e diventano con questo i veri e ultimi maestri delle nazioni. E sempre vi partecipa una buona parte di doni, di forze, di attitudini e di tesori loro propri. Senza questo non sarebbe stato possibile che dal secolo XVIII e con l'immensa complicazione di beni intellettuali, affluiti nella Germania, si potesse raggiungere quel meraviglioso culmine della cultura tedesca e del suo dovere di maestra nella cultura mondiale, e che hanno i nomi di Goethe e di Schiller, che non devono separarsi, per quanto tutt'altro che simili, e presso i quali si raggruppa una serie intera di spiriti, che hanno pure loro un valore mondiale.

L'indole propria dei Tedeschi e il loro patrimonio intellettuale hanno la loro parte nella speciale moralità tedesca, che non fu scossa da quella azione superficiale della sensualità francese, da noi già ricordata; vi partecipò ancora quel vigore d'innalzamento spirituale, accomodatosi alla realtà della vita, che risale alla Riforma; quell'etica sostanzialmente retta, che in questo tempo in poche persone soltanto poteva separarsi senza danno dalla religiosità; come rappresentante di questa etica vogliamo qui ricordare il Gellert, che nel noto incontro di Lipsia strappò a Federico il Grande le parole. «È un uomo del tutto diverso dal Gottsched».
Poi il Klopstock, nel quale la chiarezza intorno alle radici di un simile concetto etico del mondo condusse presto a professare efficacemente il germanesimo storico e la virtù avita, di cui cantò anche Mattia Claudius. Sotto questo rapporto le idee del Rousseau riescono a un parallelismo singolare con queste, senza che ci sia bisogno di considerare come importato o germanizzato quello che qui apprendiamo, cioè quanto fosse sano il carattere patrio nelle prime età, nella sua originalità tra le foreste sin dai tempi del Cherusco Arminio ed anche nella sua fierezza dispotica e nel senso di libertà, già riconosciuti e glorificati sino dal principio di questi ricordi storici.

Le relazioni poco favorevoli di Federico con la letteratura tedesca, la debolezza dei giudizi pronunciati da lui incidentalmente a questo proposito, dipendenti da un'imperfetta cognizione di essa, sono state abbastanza spesso esaminate. È noto pure che egli personalmente s'intratteneva più volentieri con i suoi Francesi, quando nel suo accampamento si dimenticava della vita intellettuale tedesca, che si andava svolgendo e di cui nulla scorgeva da vicino in Berlino, quando soltanto durante una campagna poteva citare in Lipsia i nomi di Gottsched e di Gellert.
Quasi sempre si parla di questo in tono di deplorazione o di accusa. Ma prima di tutto questo biasimo é rivolto del tutto a torto a un uomo, il cui sviluppo - ricordiamo la fredda opposizione all'ambiente tedesco nella sua giovinezza - era ormai interamente compiuto; soltanto con sorpresa e con riconoscenza tanto maggiore si doveva notare che egli da vecchio si è paragonato ancora a Mosè, che con occhio morente contemplò la terra promessa. Ma anche il rammarico si fonda sopra false premesse e poteva essere evitato e frenato.

Si doveva esser persuasi che la grandezza spirituale non é mai sorta nella sfera delle corti e che avrebbe potuto sorgere ancora meno nella vicinanza di un genio regale di tanta superiorità. Nella migliore delle ipotesi possono vivere e prosperare nelle corti uomini di grande valore intellettuale ed artistico, divenuti però prima da se stessi (com'é necessario) maturi, liberi e forti; e questo appunto è il caso del Goethe.
Altrimenti potranno essi forse raggiungere il tipo comunque geniale dell'Herder - quello che ha una capacità facile ad accomodarsi, multilaterale ed anche acuta - ma difficilmente potranno sollevarsi al vigore del tutto originale, che è allenato alle tempeste e ai suoi tormenti, in cui sempre consiste l'intima essenza del genio.

Dovranno uomini simili essere indipendenti di per se stessi e perciò forti abbastanza per potere ottenere senza pregiudizio e senza infiacchimento l'ultimo favore esteriore, capace di giovare al loro ulteriore sviluppo, con un'intima e vigile resistenza di fronte a un ambiente, di cui raccontano tanti particolari caratteristici i giorni gloriosi dell'innocua e piccola Weimar.
È sempre storicamente sbagliato perdersi dietro a fantasie, che sarebbero divenute realtà, « se » ... ecc. ; soltanto il più timido tentativo di questo genere a proposito di Lessing e di Schiller, ci fa presagire quello che avrebbe potuto perdere invece di guadagnare, per il favore dalle maggiori corti, la letteratura tedesca del secolo XVIII.
Oppure immaginiamoci come le opinioni sociali di Werther si sarebbero mutate, se il Goethe fosse stato un giovane di belle speranze e di sentimenti politici prussiani; - certo non molto diversamente da quello che le dipinse il Nicolai nella sua orribile parodia sulle gioie del giovane Werther.

La cosa é diversa, quando si dice che nella capitale prussiana una vita letteraria e scientifica, grandiosa di lineamenti e d'ispirazione, raggruppata intorno alla corte di Federico il Grande, avrebbe prodotto, anticipando opportunamente i suoi inizi, una Berlino del tutto diversa da quella, che si presenta oggi nella storia della cultura intellettuale.
Ma il semplice accenno a un simile accentramento precoce suscita già una folla di riflessioni, di obiezioni e di dubbi nel campo della psicologia dell'incivilimento, fondati sulla molteplicità del mondo tedesco. Si può soltanto ammettere che in questo modo sarebbe stato possibile di far uscire la capitale prussiana dalla condizione d'isolamento, almeno esteriore, nella quale si trovava non solo allora, ma anche molto più tardi.

E con questo forse si sarebbe potuto toglierle quella caratteristica tendenza a compensarsi della sua mediocrità di vigore e di cultura; quella tendenza allo spirito sempre pronto di critica, di presunzione, di saccenteria su tutto e che di tutto s'immischia; quella presunta superiorità, creduta ragionevole, che non vede la propria trivialità, in breve quel Nicolaismo, del quale presto ebbero a dolersi i due grandi di Weimar, e che è divenuta la designazione tipica di tutta la specie. Rimane pur sempre la questione di sapere se con lo stabilire presto a Berlino la capitale letteraria, anche in caso di favorevole riuscita, si sarebbe controbilanciato il vantaggio di essersi la cultura tedesca sottratta all'accentramento fino ai nostri giorni.

Il gran re della Prussia, libero da ogni questione di questo genere, ha il merito storico di aver dato come da noi fu già detto, un intento comune e un "centro", che fin a quel tempo era mancato al pensiero e ai sentimenti politici, che agivano fuori di Berlino, merito da lui naturalmente acquistato con le sue gesta e con l'autorità della sua persona.
Qui trovano posto i vigorosi incoraggiamenti, meditati in una quieta indipendenza, che da lui ricevettero la filosofia dello Stato e quella della storia, il giornalismo e la letteratura politica. Qui trovano pure posto il gusto vivace per i caratteri, quali Lessing li ha creati nella Minna di Barnhelm, e quel nuovo amore della vita operosa, già a questo affine, che in un solo colpo sorge nella poesia durante la guerra dei sette anni, dopo una così grande predilezione per la delicatezza.
Secondo il modello dei «Canti del granatiere» del Gleim, per ricordare soltanto questo genere, prende origine una intera letteratura poetica sul valore soldatesco e di lirica patriottica (per quanto ristretta fosse pur sempre l'idea di «patria»); prende origine in Germania estesamente, secondo lo stesso modello del Gleim e di là si diffonde fino nella Danimarca e nella Svizzera.

Federico ha poi compiuto indirettamente un' opera importante a favore dello sviluppo della letteratura e della cultura tedesca, quale poi ebbe luogo nei fatti. Egli pose cioè a capo dell'amministrazione scolastica prussiana il barone di Sedlitz, che fu il fondatore del ginnasio umanistico moderno, in antitesi con l'umanesimo teologico delle precedenti scuole letterarie. Il risveglio e l'educazione di una simile tendenza verso l'antichità, senza restrizioni e senza preconcetti, doveva condurre anche a dischiuderla a noi di fatto e più fedelmente ; e questo era stato fin allora sempre trascurato dovunque, così nel campo filologico come considerando l'antichità quale un ornamento esteriore, che il romanesimo più recente e posteriore alla Riforma aveva preso dall'incivilimento dei popoli antichi.

Nel ginnasio coloniese di Berlino era andato crescendo il Winckelman, nativo della Vecchia Marca (1717-1768), che aveva qui esposto l'Odissea e raccolto con frenesia dei barlumi del Mezzogiorno e dell'arte meridionale. Il ginnasio prussiano non poteva dargli di più in fatto d'idee, ma l'essenziale è che con lui compare quel desiderio tedesco di visitare i paesi dell'antichità e si va in genere maturando quel sentimento pedagogicamente più largo di liberazione dalla pura «ginnastica dello spirito» e dall'aridità delle date.

É poi cosa caratteristica che in questo rapporto il Winckelmann debba più al ginnasio che all'ambiente della facoltà di Halle. Allora vide le opere dell'arte antica, raccolte a Dresda. E Dresda in genere quale città architettonica con un esempio speciale dischiuse a lui il mondo delle forme estetiche in tutta la sua sicurezza e perfezione; lo educa a proprie visioni e sensazioni artistiche; se lo abbia fatto con l'esempio del rococò é cosa relativamente indifferente. Ma la bramosia di visitare l'Italia rimane.
Allora lo afferra la propaganda romana, per mezzo dell'Archinto, nunzio a Dresda, che gli promette un posto di bibliotecario. La conversione però non gli andò così facilmente a genio, come immagina il Goethe di lui, che era «nato in fondo pagano». Ed anche meno era divenuta per lui un bisogno estetico spirituale, come più tardi per i temperamenti romantici. Ma con questo a lui si schiuse la via dell'antichità, così esteriormente come nel suo intimo.

Finalmente per mezzo della copia romana e attraverso le copie più tarde Winckelmann diviene il grande maestro, che manifesta l'essenza dell'ellenismo, non più indovinata da secoli, e lo fa con un significato, che di gran lungo oltrepassa le considerazioni puramente archeologiche. Nel 1764 comparve in Roma la sua «Storia dell'arte nell'antichità».
Allora soltanto per opera di Winckelmann e della scuola, che da lui ebbe poi origine, la filologia cominciò ad arricchirsi di nuovo materiale, che almeno in coloro, che erano dotati d'indole più raffinata, riuscì a divenire una cosa vivente.
E quel che più importa le relazioni della cultura europea con l'antichità aumentarono grazie a nuove cognizioni e grazie a nuove pubblicazioni, e sul pubblico, che aveva aspirazioni estetiche spirituali, si riversò una profusione di magnificenza, che non solamente produsse una rivoluzione nelle cognizioni sulla storia dell'arte e nelle tendenze artistiche, ma anche - e qui pensiamo a Goethe in ambo i rapporti e a Schiller pure in quello più generale - introdusse una vigorosa e lieta bramosia di bellezza nel pensiero delle cose umane ed eternamente divine.

L'una cosa e l'altra, a dire il vero, racchiudono un problema troppo grande ed esteso, perché non ci stia anche oggi presente nella elaborazione di quello, che ora con tanta potenza ci é rivelato e nell'assunto di ricavare precetti ancora inesausti da quanto prende ancora dall'antichità la nostra vita civile coi suoi sentimenti universali.
Quattro impulsi contemporanei ci si offrono nella multilaterale agitazione della cultura tedesca dopo la guerra dei sette anni. Questi quattro impulsi per riassumerci brevemente sono: il nuovo affetto per la terra natale e per la sua storia, l'antichità, compresa ormai in modo del tutto diverso, l'influsso solito della Francia e poi quello inglese, esercitato direttamente.

Tutti e quattro l'incontriamo a vicenda e svariatamente combinati tra loro, non solo nelle varie personalità letterarie comparse in quest'epoca, ma anche in ciascuna di esse. Finalmente, e questo è pure importante, in tutti gli sforzi della nazione per accogliere quanto ha molto valore o per procedere di pari passo con esso, vi è entrato un carattere di coscienza propria, se non ancora sotto l'aspetto politico, almeno nelle attitudini dei Tedeschi e nel loro vigore intellettuale.

Abbiamo adoperato a bella posta la parola di affetto per la terra natale e non quella di amor patrio. Intendiamo con ciò quel profondo sentimento inoculato in noi, che come sempre ha già la sua radice nell'animo del ragazzo, ed acquista un rapporto ingenuo e naturale con i luoghi ad esso più vicini; tende poi a divenir più profondo grazie al senso di una misteriosa poesia, sorto dalla ricerca degli avvenimenti di cui quel suo ambiente fu spettatore, e seguendo la via della certezza storica ovvero - anche meglio! - per mezzo delle tradizioni accettate, delle leggende, delle fiabe, delle fantasie.
Purché non si tratti di caratteri limitati e insignificanti, un tale affetto per la terra natale, se sorge nell'animo giovanile e rimane poi vivace e devoto anche nell'uomo maturo, significa creare un ostacolo ad una più vasta e libera cultura.

Ce lo dimostra già il nome dell'uomo, che noi dobbiamo ricordare quale primo rappresentante tipico di una tale sollecitudine per il luogo di nascita, e nella cui persona la Bassa Sassonia ha fatto valere fin d'allora il suo diritto ad essere una delle sedi principali, se non forse la prima, dell'amore per la storia del luogo natale e dello studio fedele delle sue tradizioni; è costui il vesfaliano Giusto Móser (1720-1794), autore delle «Fantasie patriottiche» e della «Storia di Osnabrück».
Fu un funzionario di grado elevato, che rivolse con cura la sua mente colta e limpida allo studio dell'Inghilterra, da lui visitata, quando in Londra ebbe a rappresentare diplomaticamente gli alleati dell'Inghilterra per gli affari non risolti dalla guerra dei sette anni. Egli divenne così non solo ammiratore, come erano i tanti che vi sbarcavano, ma anche conoscitore profondo e giudice della vita costituzionale inglese ed insieme del carattere di quel popolo.
Móser tuttavia e troppo esperto nella conoscenza degli uomini per arrestarsi ad una rosea curiosità e al bisogno di applaudire, come un privato che viaggia o come chi legge in casa propria. É un uomo della Bassa Sassonia tranquillo, scrutatore e inoltre sotto ogni aspetto illuminato e moderno, dotato tanto di umorismo, quanto di umanità.

Con una indipendenza intellettuale così ben fondata, si lascia dominare, in paese straniero come in patria, dal suo vigoroso istinto di ciò che é sostanzialmente sano, popolarmente genuino, di ciò che è cresciuto coll'andar del tempo e divenuto organico. Questo ancora pone un tal uomo, moderno di un tempo e conservatore nel senso migliore cioè originale della parola, in contrasto con lo Stato del suo tempo, con la burocrazia solita del paese, con l'assolutismo dei piccoli Stati e con la loro tendenza violenta al livellamento e all'accentramento.
Egli si oppone alla propensione ingenerosa, oppure anche bonaria, di estirpare per mezzo della burocrazia, non solamente gli elementi propri del popolo e della sua storia locale nelle tradizioni e negli usi, ma anche la individualità umana e la sua pienezza di carattere. In opposizione al formalismo ufficiale, Giusto Móser nelle sue popolari «Fantasie patriottiche» si mette ad esporre in modo gradevole e scherzoso e a far comprendere con uno spirito illuminato e ragionevole quanto esiste di sano nella cultura del tempo. Ma egli fa questo in un'epoca, in cui la cultura tedesca, uscendo dalla confusione e dalla autocritica, aspira prevalentemente ad un rifacimento deciso, quale rimedio più promettente, per quanto radicalissimo.

Difficilmente si poteva acconsentire nella credenza che la stessa tradizione storica, causa di molte sofferenze, dovesse contenere in sé accumulate energie buone e di pronta efficacia; quelle medesime, alle quali si doveva unire lo spirito moderno, perché divenissero una cosa pratica e di valore durevole, qualche cosa più di un esperimento o di una moda straniera.
Questo doveva smorzare l'effetto della voce del Moser nei suoi stessi tempi, ma lo trasportava ancora del tutto oltre i limiti di quelli, poiché un uomo sincero e chiaroveggente e conoscitore della psicologia popolare, che spieghi la storia può essere passato sotto silenzio dal prepotere delle forze e delle dottrine del suo tempo, ma non mai reso antiquato.
L'azione di uomini simili si perpetua.

Anche in altre parti della Germania e nelle più diverse tra esse questa predilezione tedesca per la storia coglie gli uomini migliori. Né essa si dà pensiero degli impulsi dell'antichità o di quelli inglesi e francesi. Rimane vigorosa in vita, così che più tardi viene accolta dal romanticismo, e questa volta con piena consapevolezza, si svolge ancora, e poi é presa per educare nelle accademie e negli studi dei dotti, anche dalla figlia scientifica del romanticismo, cioè dalla germanistica.

Per mostrare di quale importanza sia stata questa passione tedesca per la storia tra le energie, dalle quali sorge il grande periodo classico della letteratura tedesca, ricordiamo il saggio ispirato e rivelatore del giovine Goethe sul gotico, il suo Gotz di Berlichingen, le raccolte di canti popolari tedeschi dell'Herder, del più caratteristico e multilaterale eclettico di quel tempo, ricordiamo i libri popolari e le saghe tedesche, che il professore Muaus delle scuole di Weimar imprese nuovamente a divulgare, sia pur sempre timidamente in forma letteraria e alle maniera del Wieland.
Tra i più illustri uno solo rimane propriamente inaccessibile a questa maniera con indirizzo patrio e popolare, il Lessing, che nella Sassonia, aspirante di una più vasta universalità, é pur sempre l'uomo, che non professa volentieri davanti al pubblico i propri sentimenti, eppure distrattamente esalta lo spirito e l'intelligenza. Questo spirito dei tutto indipendente, con una potenza, nata per vincere, guadagnare la vittoria nel modo più bello, quando viene colpito da quello, che allora avveniva intorno a lui, dalla guerra cioè dei sette anni.

In tal modo appunto il Lessing poté essere il primo a sollevarsi sopra la Germania sentimentale in un sentimento politico etico ed universale, che i più tedeschi di lui non scorgevano; la voce del Lessing solleva l'inno a una patria, per la quale si uccide Filota, il principe prigioniero.

Tutto nel Lessing é etico. Essenza dell'uomo é per lui l'operare, non già la poesia più o meno versificata, espressione del suo sentimento. Un simile contorno caratteristico della sua figura poetica corrisponde propriamente alla personalità di questo scrittore tedesco, che a tavolino conduce a termine logicamente e senza illudersi ogni suo pensiero e nella sua vita privata da un'illusione svanita va incontro ad un'altra.
Vuol divenire il Voltaire tedesco. Seguace e discepolo veramente del Voltaire entra in quel breve periodo di tempo trascorso in relazione personale con lui a Berlino, e che va a finire in una rottura, in un'inimicizia, proseguita non senza piccinerie dal Lessing, che ha poi ritirati i suoi apprezzamenti avversi e le critiche, spesso determinate dalle sue proprie vicende e dai suoi disinganni.

E come il suo rapporto di discepolo col Voltaire é troppo prematuro e si rompe prima che sia intimamente estinto, così fallisce anche il suo concetto pratico della vita, quello di divenire al pari di lui un uomo padrone del proprio arbitrio. Certamente fa grandissimo onore al carattere del Tedesco il modo nel quale egli si propone quel fine e ond'egli vi fallisce, diversamente dal Voltaire.
Quel medesimo Lessing, il quale dall'altezza spirituale e individuale di un'esistenza, che mira soltanto sulla sua penna e a un'attività educatrice, libera da ogni pastoia, e che può personalmente disprezzare con buone ragioni critiche e psicologiche gli uomini dediti agli impieghi e alle professioni, deve poi seppellire il sogno di un'indipendenza sovrana per divenire in un luogo fuori mano il piccolo bibliotecario di un principe.

Sono sue armi l'antichità e tutto quello che i Francesi della scuola del Voltaire e degli enciclopedisti hanno insegnato ai popoli. L'antichità e l'opera francese per illuminare le menti, ringiovanita o dotata di un'impronta nuova dalla sana validità, dal pensiero acuto e dalla vivace e vigilante critica di questo scrittore, che fu « il più virile tra i Tedeschi », unite insieme producono l'opera educatrice di tutta la sua vita; questa innanzi tutto é caratterizzata, ma non interamente, dalle idee e dai fini di una cultura purificata, della tolleranza e della liberazione religiosa.

Nessuno si è ricollegato così vigorosamente come il Lessing all'opera di Lutero; non nel senso dell'epoca della Riforma, ma in quello del secolo XVIII, nel senso cioè di continuare quello che il XVI, aveva compiuto in fatto di emancipazione. Ed egli accoglie non la lettera di Lutero, come faceva la teologia protestante, ma il suo spirito, per liberare ancora una volta la nazione da un carico di forze ormai morte, per dare al suo tempo quello di cui abbisognava e per conquistargli la libertà di adoperarlo.
Lutero trionfò della gerarchia ecclesiastica, che era fine a se stessa, liberando la sostanza della Bibbia dal dogmatismo, che l'aveva soffocata e con ciò fece appunto quello, con cui al suo tempo, data la cultura e le necessità di questo, poteva soltanto riuscire vincitore e soltanto andare avanti.

Lessing trionfa del nuovo dogmatismo degli epigoni con la libertà della sua etica. Non vuole distruggere la religione, né in modo speciale quella cristiana. Egli però vuole restaurare in essa l'amore, il nocciolo del Vangelo, e appunto questo nocciolo come è inteso dagli uomini colti e moderni.
Difende ed ha in mira l'armonia di tutte le idee universali, che si sollevano sopra la materia e sono quindi religiose, nel senso voluto dal Leibnitz, geniale come il Lessing, ma meno disinteressato, più affaccendato e cortigiano con tutti. La parte critica e polemica di quest'opera della sua vita fu da lui condotta a termine in brillanti campagne e con vittorie, di cui gli avversari suoi non potevano consolarsi. Nondimeno l'opera più rilevante di Lutero, la ricostruzione iniziata da lui di una massima soddisfazione spirituale del sentimento, la quale egli fondava sulla fede, é stata negata all'uomo, che pure tanto ha edificato d'importante e di singolare per la potenza e il vigore dei suoi ammaestramenti, della sua intelligenza, della sua chiarezza logica e del suo fine gusto.

E questa sublimità non poté raggiungere nemmeno nel Nathan, che tratta soltanto le questioni spirituali e religiose, ma non le risolve nel senso già accennato. Ma in compenso col Nathan nel campo, dove furono vibrati tanti colpi durante la lotta contro la ristrettezza delle menti, ha esercitato un'azione piena e che doveva avere conseguenze storiche. È questo il campo della tolleranza; e non più soltanto nei limiti delle relazioni reciproche tra le confessioni cristiane - per la quale in Francia combatteva ancora il Voltaire, in Austria doveva immischiarsi il sovrano stesso e nel resto della Germania la pace di Vesfalia aveva già creato dei punti di partenza e affrancato i grandi gruppi confessionali, allora esistenti - ma ormai della tolleranza fondata sulla libertà di pensiero e che deve giungere, sia nel dominio astratto sia in quello concreto, all'armonia ed alla considerazione reciproca in genere tra le religioni storiche del mondo.

Ma entro i confini di un concetto del mondo, che voglia essere filosofico e logico, è stato concesso al Lessing di esplicare quell'opera di edificazione, alla quale non doveva pervenire nel campo delle aspirazioni spirituali, nel campo delle religioni, da lui scosse soltanto con intento liberatore nel loro rigido isolamento.
Nel suo opuscolo del 1780, "L'educazione del genere umano", sempre troppo poco apprezzato tuttora nella storia letteraria per il suo ultimo significato, nei suoi cento limpidissimi principi, ha formulato tutto quello che la filosofia della storia poteva stabilire e lo ha fatto non del tutto senza alcun precursore - oltre Voltaire per es. anche Turgot, che ci si presenta con una simile perspicacia - ma tuttavia senza dipendere da tali precursori.

Un elemento principale del fine e della materia di quello scritto é per la sua importanza la certezza dello svolgimento umano verso una meta che è più perfetta del suo principio; la certezza, quale essenza di ogni storia, di un progresso continuo, per quanto contrastato da molti ostacoli ed errori. Questo è l'innalzamento del concetto storico-filosofico già diffuso dal Voltaire, ora liberato dalla tendenza ristretta anticlericale, é l'innalzamento al grado di cognizione e di risultato universalissimo di uno sguardo libero ed elevato sulla via percorsa dall'umanità.

Sotto un altro aspetto quest'opuscolo é la suprema e in verità la più liberale rinuncia a quell'errore aprioristico, da cui prende le mosse Rousseau. È la confutazione della premessa di uno stato originario perfetto, senza che siano con questo annullate le molte cose giuste e sane, che Rousseau aveva potuto richiedere ed additare per l'umanità, pure partendo da un'idea fondamentale sbagliata.

Ed anche nei particolari in questa "Educazione del genere umano" sono espresse in grande quantità delle verità, che fino ad oggi ne fanno una metodica non antiquata e non trascurabile del pensiero sulla storia dell'altruismo e sulla filosofia dell'incivilimento.
Così intorno alle religioni, che Lessing simbolizzando paragona sempre ai libri elementari per i fanciulli, i quali debbono pure passare sotto silenzio tutto ciò, che il pedagogista di mente superiore giudica non essere adatto alle loro capacità di principianti alunni; «ma esso (il libro elementare) nulla deve assolutamente contenere, che possa sbarrare o far perdere ai fanciulli la via, cioè quella guida alle parti importanti che furono per il momento tralasciate».

Con insistenza Lessing si chiede una paziente educazione e sempre dell'educazione come l'unica cosa, che senza essere a noi elargita dall'alto ci illumini la mente, ci renda felici, e ci possa condurre più avanti.
Si aggiunge poi a questo un avvertimento contro i cianciatori, che vogliono affrettare dannosamente quello che ci arreca il futuro, «perché maturi nel breve tratto di un'esistenza quello, per cui la natura prende secoli di tempo».

E finalmente si formula il principio da noi già citato, ma non mai abbastanza tenuto presente in fatto di sapienza politica, e quando si considera in generale la vita dei popoli o se ne fa oggetto di studio: «la via, per la quale il genere umano raggiunge la sua perfezione, deve essere prima o poi percorsa da ogni singolo individuo».

Così quest'opuscolo, che invita alla pace, alla tolleranza, al lavoro, finisce con una chiusa, che già preannuncia il Fichte, grandiosa e potente nella sua elevazione individualistica, che abbraccia nell'Uno l'umanità intera e tutto: «Che cosa debbo io trascurare? non é mia tutta l'eternità?».

Da una parte sta il Lessing e - ad onta di tutto - il Voltaire; i suggerimenti del Francese plasmati come si deve da un Tedesco nella costruzione intellettuale più pura e più perfetta. Dall'altra il Rousseau e il Goethe.
Poiché nel medesimo giovane genio dei Tedeschi, che si svolge e lotta commosso dalla remota antichità della patria in Erwin di Steinbach e che da questo si solleva fino al Goetz, germoglia col dolore appassionato di Wetzlar il seme francese di una rivoluzione sociale; ce ne svela il prossimo avvento il Goetz, il cavaliere che, disperando degli ordinamenti del suo tempo, con illogica audacia si getta quale compagno e condottiero nella guerra dei contadini, nella sollevazione delle classi inferiori.

Il significato profondo del Werther e il vero segreto del suo effetto immenso sulla storia di quel tempo, della «febbre di Werther» da cui fu colto non il solo pubblico tedesco, é semplicemente il tono di turbamento e di smarrimento in presenza alla realtà di quel tempo, che vi si sente in modo distinto, è lo stato di vivace negazione nell'animo del poeta durante quegli anni, col suo irrequieto malessere di fronte a sé stesso e a tutto il mondo, col disgusto e la perplessità, che prova per le condizioni di fatto e per quelle morali che lo attorniano.

Ma, per quanto del tutto indipendente, é affine al Rousseau (Nouvelle Héloise) anche per questo, che cioè tutto vi é concepito nella cornice dei conflitti di un amore respinto ed oppresso dagli ordinamenti del mondo e dell'umanità. Così per il carattere comprensivo di una sofferenza oltre ogni dire personale, per un'azione intima, lo stato di un animo, che si desta di soprassalto in preda a una rivoluzione, é assorbito interamente con tutte le sue illusioni nel destino di un cuore, e la tendenza fondamentale ad abbattere le convenzioni sociali fa capo alla disperazione e ad una conclusione personale tragica.

Abbiamo qui adoperato il nome di Rousseau e lo abbiamo usato come un nome collettivo, volendo significare quella disposizione d'animo, da cui qualcuno appena era esente in quest'epoca. Il figlio dell'orologiaio ginevrino, guastato dagli altri e da se stesso e perciò reso più sincero, lascivamente sincero, le ha dato soltanto la prima formula e la più risoluta. Tutti, essendo divenuti così fiacchi, soffrono per l'inasprimento delle condizioni, per le convenzioni sociali, per la cultura, per l'incivilimento e bramano di uscirne; così quelli che rappresentano tutto questo sistema e debbono tenerlo in piedi, come quelli che si persuadono od anche si sono persuasi di non avere in esso una parte giusta e sufficiente.

La giovane regina, che nelle sue fantasie del Trianon passa il tempo a fare la contadinella o la pastorella semplice e libera, si permette anche in questo, essendo regina assoluta, ciò che gli altri si sognano soltanto. Noi uomini d'oggi parliamo volentieri (almeno molti lo fanno) di un mondo europeo colto. È caratteristico dagli uomini di circa 200 anni fa il cercare con entusiasmo un rifugio fuori dell'Europa colta. Alcuni sono poeti, che fondano in regioni remote le loro felici repubbliche insulari, le loro arcadie, che abitano sotto le palme in capanne coperte da banane, ignoti alla Francia e sempre in timore di esserne ancora attirati, come Paolo e Virginia di Bernardino de Saint-Pierre (1787); il «Robinson» diviene una caratteristica non più transitoria di quella società.

Ovvero poeti ed uomini danno ai loro idilli di segregazione paesana dalla civiltà del tempo il tono domestico ristretto e locale della fanciullezza; vogliono abitare nascosti al mondo, in una casetta sopra un ruscello, dove in primavera fioriscono le violette; ed anche se lo augurano - nelle poesie e nelle lettere - con maggior desiderio quelli venuti al mondo non certo in simili casette, come il barone di Salis dei Grigioni ed altri nobili, che avevano mansioni elevate. «Giovanni il gioviale fabbricante di sapone» dell'Hagedorn fu messo in versi fino dal 1738, ma solo nei decenni seguenti si trovò su tutte le bocche, su tutti i libri di poesie e di letture scolastiche.

Questi sono coloro, che esprimono sorridendo o soffrendo il male di cui sono cagionevoli o seriamente ammalati: sovraccarico d'incivilimento. Ed altri vengono che vogliono curarlo. L'epoca anche a loro presta orecchio attento e comprende che essi vogliano metterci le mani radicalmente. Tuttavia il medico troppo grossolano, avendo pure cento ragioni, non giova ad un malato vero, ma solo tutt'al più ad uno immaginario. Con una scossa violenta, con una prepotenza dannosa e con dei vanitosi rimproveri la cosa non é finita. Per questo anche i più rozzi maestri non raggiungono lo scopo meglio degli utopisti. Soltanto la loro critica é nel giusto; i loro rimedi, per quanto spesso si approvino, non conducono a termine nulla di compiuto.

E in questo anche oggi siano dinanzi al medesimo problema, nel medesimo malessere, per metà soffocato, per metà desideroso di sollievo, e nella medesima stanchezza nervosa per opera di un incivilimento troppo complicato nei suoi sentimenti, e siamo non meno avanzati e d'altra parte non oltre il termine allora raggiunto, ma semmai proprio al punto da cui presero le mosse i Rousseau e dopo loro i Basedow.

Aver ragione soltanto non giova mai. Anche le verità incontestate devono esser dette in modo che quelli a cui si riferiscono debbano ascoltarle, quindi non in tono così aspro e grossolano che colui che esse toccano si turi le orecchie o sorrida ironicamente.
Anche quelle cose, che andate in decadenza sono divenute sbagliate, false e dannose, conservano ancora a lungo quel rispetto, che si erano acquistato nel loro sviluppo, e soltanto rispettosamente e con assiduo riguardo possono essere fatte cadere.

Per questo tutta la critica solida e vera e la ragionevolezza accumulate nell'«Indirizzo ai filantropi » (1768), in paragone col plauso che incontrò, sono rimaste singolarmente sterili e per il momento solamente una notevole pagina episodica nella storia della pedagogia. Pure hanno esercitato un'azione ulteriore, ma soltanto in un'infusione cautamente graduata e diluita. Molte cose assennate e più o meno giuste, dette in quel libro di fronte al rispetto abituale e alle inquietudini destate dalla cultura, di cui non si voleva fare a meno ad onta di tutti gl'idilli pastorali e del ritorno alla natura, rimasero per più di un secolo una bevanda troppo forte; così quelle sulla mancanza di una semplicità ragionevole nell'insegnamento e negli studi, sull'ipocrisia e sulla importanza delle università e delle accademie, sul disordine e sulla mancanza di misura, con cui si esponevano certe scienze e certe materie d'insegnamento, sulla zavorra di cultura e di erudizione, sopra le bugie dei pubblicisti, sulla troppo vantata attività dei Tedeschi nelle lingue.

Però si tenne di più e in modo principale e si accordò maggior plauso a quanto vi era detto dell'ipocrisia, della smania per i titoli e dei titoli stessi, della sproporzione fra i titoli e la realtà e dovunque della necessità di educare senza tormentarli come si fa con gli scolari affinchè divengano uomini più sani e più schietti.
Nondimeno con la mancanza di ogni riguardo si giunge prestissimo a volere delle riforme radicali, ma appunto per quella mancanza una riforma diviene insopportabile e priva di ogni effetto. Vogliamo esser guidati soltanto da quelli che umanamente ci piacciono e che non desiderano di sperperare da loro stessi quel rispetto, che noi dobbiamo anche a loro; essi si devono far stimare da noi, prima che noi cominciamo a credere in loro.

Quello che deve giovare a darci una cultura sana e una sana e retta disposizione d'animo, non deve puzzare di rozzezza e d'inciviltà e deve essere umanamente più degno di venerazione che non fu GIOVANNI BERNARDO BASEDOW.
Nacque ad Amburgo nel 1724 e morì a Magdeburgo nel 1790. Il nonno di lui aveva navigato nelle Indie orientali, ora povero, ora ricco, secondo le rapide vicende di fortuna dell'antica navigazione di lungo corso a cagione della sua irreparabile dipendenza dalla prepotenza nemica e da danneggiamenti violenti. Il padre fu parrucchiere in quella città anseatica, la madre una donna esaltata, morta poi in un accesso di pazzia. Sul figlio, ragazzo perspicace, esercitò poi una pronta azione radicale H. F. Reimarus, professore nel «Gymnasium illustre» di Amburgo, autore dei «Frammenti di un innominato», pubblicati e dotati di titolo dal Lessing di Wolfenbüttel con certe riserve, libro fino ad oggi noto solo in parte, come del resto anche «Apologia per gli adoratori razionali di Dio»; in questi scritti, che per la loro energia commossero così profondamente ed urtarono quell'epoca, per illuminare le menti si crede di fare scoperte definitive storico-critiche e si vuole dare la prova che il fondatore della religione cristiana fu guidato da intenzioni mondane e l'intero vangelo poi é un complesso di leggende, fatto dai suoi discepoli con uno scopo ben determinato.

Lasciato Amburgo il Basedow diviene studente a Lipsia, e diventa uno di quelli che «studiano solitari soltanto, dentro nella loro camera». La critica delle università, continuata poi nelle sue pubblicazioni, non lascia più al discepolo del Reimarus la consueta facoltà d'insegnare, che cede il luogo alla fiducia in una assennata indipendenza, quella che allora ispirava energia a tanti.
Poi lo stesso Basedow diviene insegnante, docente privato nell' Holstein, e di là - con la riunione dell'Holstein alla Danimarca - professore nell'accademia militare, già stabilita a Buchenwalde am See nell'antico convento cisterciense di Soro nell'isola di Seeland; professore di «morale e di belle lettere», di due cose, alle quali quest'uomo francamente e solidamente egoista ha sempre più rinunciato personalmente nel corso della sua vita. Quasi mai fu un riformatore della pedagogia, né egli stesso uomo di fine cultura e modello di condotta esemplare. Però egli rimane sempre esente dalla universale simulazione e dalla colta ipocrisia, contro la quale lottava con tanta passione e tanto accanimento.
Da Soro andò poi al ginnasio di Altona. Qui in parte volontariamente in parte costretto pose termine al suo insegnamento. Cominciò allora, mirando alla massima pubblicità con una vivace attività letteraria, a difendere le idee riformatrici e critiche, da lui manifestate sotto l'influenza della letteratura che faceva capo al Rousseau, partendo dalla sua propria evoluzione intellettuale, dalla sua pratica e dalle sue osservazioni sul vivo.
Fin da quando era a Soro scese in campo contro la religione e contro l'insegnamento religioso e si poteva vantare di avere messo a segno in una medesima contesa col Lessing il battagliero pastore capo di Amburgo, il Goeze.

Si volse più alla pedagogia o più esattamente al capitolo della cultura generale in tutto il campo dell'educazione pratica. Nel 1768 comparve quell'«Indirizzo ai filantropi ed agli uomini facoltosi intorno alle scuole, agli studi e alla loro influenza sul benessere pubblico. Con un disegno di un libro elementare dello scibile umano».
Si noti l'espressione «uomini facoltosi».

Per dirlo subito il Basedow era come il Voltaire, un genio nell'arte di far denari, non però in quella di conservarli e di metterli a profitto, per cui tutti e subito si liquefacevano nelle sue mani. Della caccia alle pensioni presso i personaggi elevati e facoltosi, che forma un capitolo così esteso di quel secolo di governi assoluti, il figlio del parrucchiere della libera città anseatica s'intendeva molto poco e così anche la consueta pratica delle sottoscrizioni. Tuttavia, il ministro conte Bernstorff, che a Copenhagen agiva nel senso dell'opera d'illuminare le menti, gli fornì un assegno annuo; «da amici e da stranieri, da dotti e da ignoranti, da insegnanti e da direttori di scuole, da sudditi e da grandi monarchi» affluiscono al Basedow le somme in contanti a vantaggio delle idee da lui sostenute, e nel pubblico dei lettori é immenso il successo del suo libro assennato,rozzamente polemico, ma che esprime quello che tutti avevano già pensato o quasi pensato.

Così questo cinico amburghese, insorto contro la bugia nella religione, nelle convenzioni sociali e nella cultura, questo maestro pedante e antiscolastico, su quella stessa Germania, che non legge nemmeno i Francesi con una preparazione appropriata, fa l'effetto di un forte estratto del Voltaire e del Rousseau insieme, ed anche degli enciclopedisti per giunta, condito con una buona dose di originalità indigena. Anche il Basedow pensa ad un'enciclopedia tedesca, ad un compendio della scienza generale, compilata modernamente, indipendente da tradizioni e da schemi.

Il «Libro elementare dello scibile umano», posto in appendice a quello del 1768, lasciava già presentire qualche cosa di simile; quindi egli si volge a questa sua «Opera elementare».
Come dice dopo il titolo, questa deve essere «un'opera ordinata di tutte le cognizioni necessarie ad istruire la gioventù, dal principio fino all'età accademica, ad ammaestrare i genitori, i maestri, i precettori, a giovare ad ogni insegnante per integrare le sue cognizioni».

Quest'uomo s'intendeva di titoli, la cui prolissità a quei tempi non faceva ancora paura, ma era abituale. Anche l'«Opera elementare» compare per sottoscrizione e conta fra gli associati tutte le persone di opinioni moderne, prima di tutto i principi, tra gli altri perfino l'abate del noto monastero di Einsiedeln, meta di pellegrinaggi; il filosofo di Sanssouci non si scuote, ma Caterina II vi partecipa con un forte contributo. Chi l'ha sottoscritta, raccomanda l'opera e si cura di farla conoscere e di diffonderla. Niente é più tipico per l'effetto suggestivo, prodotto dall'annunzio di questo libro, della circostanza che il pio Lavater, antirazionalista convinto, gran sacerdote degli esaltati (e delle relazioni universali) si adatta a quel modo di vedere tanto da divenire il difensore ardente di Basedow; il libro secondo lui non arrecherà alcun danno alla religione, ma gli sarà invece addirittura favorevole.

Il Basedow nuota nell'abbondanza d'incassi, di felicitazioni e di sana istruzione elementare, che va diffondendosi; una sua figlia, che viene al mondo presso a poco insieme ai primi volumi dell'«Opera elementare», nell'inevitabile battesimo cristiano riceve da lui i nomi di «Praenumerantia Elementaria Philantropia», proprio come nelle moderne dimostrazioni di libero pensiero e di democrazia sociale dinanzi all'ufficio dello stato civile, ma con meno gusto.

Già dopo le prime pubblicazioni del Basedow un principe ereditario, animato da buoni e nobili sentimenti, Federico Francesco di Anhalt-Dessau, volle con l'aiuto di quest'uomo farsi fondatore di un insegnamento illuminatore e naturale. Nel 1771 chiamò il Basedow a Dessau, gli assegnò un buon stipendio, un gran numero di case e di giardini e inoltre dodici mila talleri per il primo impianto. Così questo singolare pedagogista, che beve più di quello che converrebbe alla sua robustezza, che tratta brutalmente la propria moglie, che é piuttosto un carattere eccitabile, un incolto divoratore di libri e non un uomo di cultura indipendente e compiuta nel senso più fino della parola e che veramente ha sempre in testa soltanto la sua professione di scrittore, esercitata senza posa, giacendo in letto, e piuttosto un'azione sopra una grande collettività che sopra un singolo oggetto divenuto concreto - così il Basedow si pone nella situazione pratica di essere il fondatore del «Filantropinum» di Dessau, l'istituto educativo della naturalezza e dell'amore degli uomini.

Mancava però una vera vocazione nel direttore; la prospettiva di numerosi scolari era per lui piuttosto incomoda. I due figli del Basedow ed un solo scolaro esterno furono i primi discepoli; il «caval di battaglia» dell'istituto era Emilia, figlia del Basedow - chiamata naturalmente così per l'Emilio del Rousseau - che cominciò a imparare il latino a quattro anni e mezzo e un anno dopo parlava come Cicerone, e nella quale, come racconta un parente più giovane, non cessarono in seguito, come per lo più accade nei fanciulli prodigiosi, le tristi conseguenze di questa coltura artificiale e forzata, che impediva ogni coltura fondata sulla natura e contraddiceva al modo di vedere del Basedow.

Soltanto dopo dieci anni l'istituto cominciò in certo modo a funzionare e nel 1782 raggiunse il suo apogeo con cinquantadue alunni dei paesi europei più diversi; da quel punto andò declinando e nel 1804 fu chiuso. Quello che ha prodotto di durevole e di rilevante, una volta che fu superata la prima impressione dovuta al chiasso fatto intorno ad esso, è il vigoroso indirizzo del programma verso la sanità e la naturalezza.
In un'epoca rammollita i giovinetti furono sistematicamente addestrati alle fatiche, vestirono abiti semplici e leggeri; e fu allora introdotta la sostituzione parziale degli esercizi scolastici dei fanciulli con lavori nei giardini e di destrezza manuale.
Si offre qui a noi una serie di accenni, sviluppati poi da discepoli diretti del Filantropico, dall'onesto ed amabile Salzmann e dal Campe, editore tedesco, patriarcalmente onesto ed accorto, del Robadson. Altri discepoli non immediati di questa tendenza hanno poi ridotto a patrimonio comune le due cose già indicate. Tuttavia da questi sforzi sono derivati nella loro azione ulteriore dei benefici svariati, proprio quando i punti meno comunemente intesi delle idee del Basedow, come i suoi attacchi contro l'erudizione e la cultura più altamente considerata, si rimandarono ad altri tempi e si lasciò cadere in oblio lui stesso considerato come uomo.

A lui e del pari direttamente all'Emilio, si riannoda l'opera del Pestalozzi, di questo svizzero umanamente purissimo, sostanzialmente buono e disinteressato, i cui errori stanno soltanto nella difettosa critica dell'uomo, propria del suo idealismo. Fino in seno al cattolicesimo tedesco esercitarono la loro azione queste tendenze derivate per l'essere loro dal sistema del Rousseau e dall'opera illuminatrice protestante, più specialmente per mezzo del « Pestalozzi cattolico », come fu chiamato il barone vesfaliano Francesco di Fürstenberg, canonico di Munster e ministro di questo territorio vescovile, che dedicò la sua vita a sollevare la scuola fra i cattolici a un grado corrispondente a quello che aveva nel protestantesimo liberale.

Basedow non sopravvisse alla fine del Filantropico di Dessau. Nulla del resto anche prima aveva ormai da fare con esso. Occupato dalla sua attività letteraria e poiché, data la indolenza personale cui si abbandonava, la direzione dell'istituto e l'insegnamento erano sempre per lui un disturbo e un impaccio, se ne liberò ben presto. Goethe, già nell'anno in cui comparve l'opera elementare, vide il riformatore tanto discusso nel celebre convegno di Coblenza del 1774 insieme al Lavater, «un profeta a destra e uno a sinistra», e al suo freddo riserbo umoristico dobbiamo la descrizione drastica di quest'uomo e del suo contegno. Goethe poi in altro modo caratterizza il singolare giuoco della fisionomia di questo pedagogista, quale s'incontrava non solo nel vivo, ma anche s'incontra spesso in antiche incisioni, la «fisonomia affagottata e come ritratta in dentro». Si accorda del tutto allo stile della sua vita che il Basedow abbia sul letto di morte disposto che il suo corpo fosse subito sottoposto a una sezione anatomica per il bene maggiore dei suoi simili, e si accorda poi anche più ad esso che con tutto questo ardore non se ne facesse poi nulla.

Ci siamo trattenuti intorno al Basedow relativamente più a lungo pur con la ristrettezza del nostro prospetto storico; lo abbiamo fatto perché oggi scorgiamo ravvivarsi e muoversi intorno a noi una buona parte di quello, che si agitava nella sua testa e nei suoi istinti, a dire il vero non tanto in rapporto diretto a lui e in seguito a un suo impulso, quanto per necessità e disposizioni simili e similmente sentite dalle due epoche, che richiedono da parte dello Stato un maggiore apprezzamento ed una maggiore attuazione di quanto vi é di sano e di naturale nell'igiene intellettuale.
Da lui conviene tornare ai due uomini tedeschi, nei quali si risollevò liberamente la serenità di quell'epoca da una miscela di costrizione spontanea, che rimane pur sempre nel caso da noi considerato. Dobbiamo qui ricordare ormai colui che, salito alla massima altezza, in mezzo ad una lotta umana e spirituale molto inceppata esteriormente, conquista al suo nome la gloria di esser visibilmente divenuto per tutti il primo e più efficace educatore dell'intera nazione.

Fu questi FEDERICO SHILLER (1759-1805), che è pur separato da GOETHE (1749-1832) per differenze svariate, esteriori ed intime, ed entra in scena un decennio dopo di lui; fu l'altruista più ardente e pieno di abnegazione della grande epoca intellettuale tedesca, che con lui - da tutta la molteplice e discorde «tempesta e ardore» del suo periodo rivoluzionario - s'innalza purificata e finalmente unificata dalle antitesi ad un compiuto essere; fu il profeta entusiasta e nobilissimo di una nuova umanità e per questo la sua guida più seducente e più vittoriosa.
Fu l'idealista rivolto sempre al mondo esteriore a fianco di Goethe, del grande intimo indagatore di sé stesso, il grande teorico a fianco del grande empirico realista.

Anche Shiller però non fa che irrigidirsi in un dottrinarismo che non s'insegna; fu il trasformatore della propria nazione e della propria epoca, perché egli poté trasformare se stesso e compiere i suoi più caratteristici progressi in modo da servir da modello e da eccitamento a quelle. Il giovane poeta, che nei «Masnadieri» ha scagliato con gran rabbia giovanile il suo «In tyrannos» in un mondo da lui condannato istintivamente piuttosto che conosciuto, in seguito come discepolo dell'antica letteratura politica dell'Europa occidentale s'innalza nel «Fiesco» alla concezione positiva di una volontà morale di carattere repubblicano.
Poi in «Cabala e Amore» fa la critica compiuta ed incisiva dell'ambiente medio dei piccoli Stati tedeschi, ma fa nello stesso tempo anche la critica spietata della viltà e della meschinità, di cui si é ormai consapevoli, dimostrata dalla borghesia di fronte alla «superiorità » delle Corti dei piccoli Stati.

Nel potente "inno", che scioglie "alla gioia", evoca la parola di un orgoglio virile innanzi ai troni regali in un mondo tedesco idilliaco ed umile, ma già disposto d un risveglio.
Infine nel marchese di Posa del «Don Carlos» da critico si fa annunciatore e si solleva al carattere di uomo compiuto e idealista, creato con unità, richiedendo il diritto naturale alla libertà di pensiero e accentuando con altero desiderio la dignità umana che chi ne è responsabile può conservare illesa.

Però la libertà, la personalità e la dignità umana conseguono il loro significato utile e nobile soltanto per l'intervento di quella umana energia, che per mezzo della sua abnegazione desta da esse delle forze creatrici. Nel «Don Carlos» questa energia di una personalità liberale divenuta consapevole di sé stessa, crede ancora di potere riconoscere la sua attuazione e il suo scopo in una felicità dei popoli concepita in genere, precisamente come nell'inno alla gioia, nel canto della felicità eterea, ma della sottigliezza di un amore umano panteistico, sgorga il giubilo che stringe nel suo amplesso dei milioni di esseri.

Il cosmopolitismo tedesco in quelle idee del Pose, in questi ditirambi della gioia dell'umana fratellanza si solleva alle più elevate melodie ritrovate finora. Ma però esso intona così il canto del cigno, il congedo dell'intelletto dal sentimento. Da quel punto anche quest'ultimo sfogo sentimentale della sensibilità tedesca di quel tempo e dei sogni di felicità rivolti già verso l'esterno, verso l'intera umanità, si sottopone alla disciplina del pensiero indagatore.

E così in modo sempre più determinato e più decisivo col volgere degli anni, che rimangono nel periodo qui da noi narrato, si dovrà riconoscere che la forma nella quale l'individuo si offre all'umanità intera, la forma quindi, nella quale le libertà individuale si farà positiva col foggiare, col creare, col vincere, può essere soltanto la comunità di coloro che naturalmente sono uniti a quell'individuo, cioè la nazione.

Così la via seguita da Schiller e dai Tedeschi con lui, conduce dalla fierezza di esser liberi al fanatismo della libertà e da esso alla critica della libertà stessa, per possederla in seguito tanto più pura e più sicura, paragonata e riconciliata col procedere della storia, più capace di portare frutto.

Dalle mancanza di scopo dell'entusiasmo cosmopolitico questa via conduce a stabilire fini ideali simili nel campo delle condizioni e delle comunioni di fatto già riconosciute, sollevando queste realtà nazionali e politiche sotto l'impulso dell'etica più nobile e di un idealismo pieno di abnegazione. Sono questi i gradini di un simile sviluppo, il cui risultato fu di avviare spiritualmente verso i suoi fini e le sue vittorie un secolo del tutto nuovo, il XIX, predestinandolo spiritualmente ad esse, e di trasformare in un fatto storico realmente possibile la parte essenziale della seconda metà del secolo XIX medesimo.

Qui poi, dando al nostro dire la massima efficacia, dobbiamo ricordare ed aggiungere egli altri colui che alle conclusioni formulate nella profezia di Schiller ha conferito una significante chiarezza, promuovendo ed affrettando il loro cammino, voglio dire IMMANUEL KANT (1724-1804).


È questi il filosofo di professione di fronte a tante personalità importanti della propaganda letteraria popolare e di quella fantastica e idealistica, e la sua intuizione e le sua critica esercitano un influsso così decisivo sulle letteratura poetica.

Questo professore dell'università di Konigsberg é tutt'altra cosa che un dotto rigido e inaridito; é uno spirito di fine cultura, universale e da uomo di mondo, che all'umorismo superiore del tempo concede una buona dose di libertà nei «Sogni di un visionario, spiegati coi sogni della metafisica» (1762) e che nelle «Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime» (1764), proferisce la parola di un'acuta estetica alla sua epoca, tutta intesa ad una vivace ascensione nel campo della poesia e dell'arte.

Kant é quello, che prima di ogni altro desta in noi con le sue complessità un'idea approssimativa di quello che Berlino avrebbe potuto divenire in quell'epoca. In compenso però, poiché la capitale trascurava e doveva trascurare di occupare una simile situazione, dalla culla del regno prussiano questa mente risoluta e finemente colta intraprende a ridurre a teoria e a dare nello stesso tempo fondamento filosofico alle speciali conquiste e al valore positivo appunto di questa monarchia; con la legittimità fondamentale dell'imperativo categorico e procedendo nelle sue considerazioni con una investigazione indipendente, e indipendente anche dal lato dottrinario, dello Stato, della società organizzata e della sua essenza.

Nel 1764 Kant nelle sue «Idee per una storia universale con intenzione cosmopolitica» comincia a ricercare sotto l'aspetto della filosofia della storia l'essenza e il compito dello Stato. Partendo dall'evidente libertà degli impulsi e degli atti umani, pone la questione intorno alla causa, per la quale vi é tuttavia in complesso un andamento manifestamente regolare nella storia dell'umanità. Questa motivo e lo Stato, che rende possibile e dà forme al fatto che gli uomini, muovendo dalla spontaneità del dominio sopra sé stessi, s'impongono una costrizione, subordinandosi ad un ordinamento riconosciuto ragionevole e prezioso e alle sue leggi, che nel tempo stesso concedono tutta la possibile libertà dell'individuo a lato alla necessaria regolarità del complesso.
Questo non é più il «Contrat social», questo é storicamente l'essenza dello Stato, certo «cum grano salis», ma con questa premessa straordinariamente più giusta di quello che anche oggi si riconosca nelle ordinarie storie del diritto, data la tendenza a liberarsi dagli apriorismi. Non é certo l'essenza dello Stato specificamente assoluto, ma di quello che la storia conosce nei primordi dello Stato fondato sulla stirpe ed anche in seguito; di quello che il pensiero moderno vuole di nuovo creare per via diversa, più progredito e più perfezionato, con la capacità di soddisfare sé stesso e di bastare a sé stesso, propria del liberalismo individualistico unito allo spirito del bene comune e con una garanzia comune, di cui abbiamo già parlato negli accenni fatti alla evoluzione del pensiero di Schiller. E con rapida successione il concetto filosofico storico, che qui fu esposto, si pose d'accordo con sé stesso per l'impulso delle idee di Herder concernenti la storia, pubblicate già nel 1774.

HERDER (1744-1803), per interromperci qui brevemente, é la mente versatile, che si avvicina a tutti questi spiriti maggiori, che nel modo più sensibile ne risente ed è capace di risentirne l'influenza, lasciando riconoscere anche nel suo contegno e nella sua carriera teologica oscillazioni corrispondenti, secondo le condizioni e le azioni locali, più forti dell'unità personale da lui posseduta. È un ecclesiastico, predicatore di corte e soprintendente generale, acuto, efficace sotto l'aspetto letterario ed umano, che mira con fortuna ad elevarsi, pur rimanendo un ragguardevole e in complesso un dignitoso nuovo arrivato nella professione di predicatore, che con una fecondità inesauribile si pone in rapporto con tutti gli interessi del suo tempo, ed in lode del quale si deve dire che a tutti ha pur dato qualche cosa; è sempre fino a un certo punto uno specchio dell'ambiente maggiore che in un dato momento lo attornia, ma pur sempre è uno specchio capace di riflettere. Così tra le altre cose è merito da non trascurare l'Herder l'aver raccolto e trasmesso del patrimonio delle nazioni straniere ciò che poteva giovare o dare impulso alla Germania.

Con la traduzione del «Cid», con le «Voci dei popoli nei loro canti» ha ampliato efficacemente nel campo più generale la partecipazione della Germania moderna alla vita francese o a quella franco-inglese e dischiuso i ricchi tesori di nazioni fin allora meno considerate dalla Germania intellettuale; in questa via fu poi seguito con vivacità dal romanticismo e dal secolo XIX. In un'altra pagina della sua attività sta il notevole impulso che l'Herder ebbe dal modo speciale dei Francesi di trattare la storia, che nei loro cervelli sottili diviene piuttosto una considerazione geniale e generale, più o meno dipendente da idee preconcette, prima che siano assicurate esattamente - o sotto l'aspetto storico o sotto quello filosofico - le basi per una siffatta considerazione.

Questi saggi di storia universale hanno esercitato in quel tempo appunto in Germania una grande influenza, attestata dagli studi corrispondenti di quasi tutti i dotti più ragguardevoli per cultura generale fino a Guglielmo di Humboldt. Hanno poi acquistato in Germania quella esattezza metodica, meno sicura nei Francesi, e così per l'attività quasi contemporanea di Lessing, di Herder e di Kant su questo campo ebbe origine la nuova filosofia della storia, come un elemento importante della grande filosofia ideale tedesca.
Il merito di Herder in questo campo sta almeno nel metodo da seguire. Le sue «Idee sulla filosofia della storia dell'umanità», comparse nel 1784, di fronte allo scritto di Lessing del 1780 sono una considerazione molto più estesa dell'evoluzione dell'umanità, in contrasto con i Francesi, che non tendono a ricercare dentro le cose; in esse invece si tien dietro ad un argomento con lo scopo di comprenderne sinteticamente i rapporti o di acquistare una cognizione relativamente semplice delle leggi, che di questo complesso unitario guidano e additano lo svolgimento.
È un libro acuto e piacevole del «mite seguace del mite Cristo», prodotto dalla idea fondamentale di Lessing di un progresso continuo, che si compie per mezzo di un continuo processo educativo, ed é derivato in modo speciale dal concetto di una dignità libera umana, che progressivamente si manifesta e che s'integra e cresce di valore in seguito ad un parallelo progresso dell'umanità. Molti punti importanti e durevoli in quest'opera storica, così ricca d'idee, sono indirizzati oltre i ristretti circoli scientifici al pubblico colto; così per accennarne uno soltanto la connessione dal punto di vista della storia delle religioni tra i Greci e il Cristianesimo, l'indiretto concatenamento scolastico fra la tarda filosofia greca e l'evoluzione spirituale di Gesù di Nazareth.

Herder fu gravemente offeso che nella sua recensione Kant (1785) intraprendesse a tutelare più rigorosamente di fronte al modo di considerare dell'Herder il procedimento metodico e quelle idee capitali ovvie con le quali egli procede, e (come é proprio della filosofia della storia) a formularne i risultati con tutte le armi di una logica che vuole andare al fondo delle cose; si deve qui aggiungere che non é stato fino ad oggi superato e dimenticato dagli storici e dagli amici della storia dotati di acuto ingegno, lo spavento che il grande di Kônigsberg seppe allora incutere mostrando la severa Gorgona della scienza.
Fu nel nono decennio di quel secolo che Kant dai suoi più antichi studi sui problemi della matematica e delle scienze naturali si volse decisamente a quelli filosofici, Nell'anno medesimo, in cui Kant pubblicò l'opuscolo sulle «Idee per una storia universale con intenzioni cosmopolitiche», cioè nel 1784, scrisse anche una professione di fede «Risposta alla domanda, che cosa sia illuminare le menti».
Egli dichiara: il tempo nostro non é « illuminato », ma é un periodo che sta con fervore inteso ad illuminare le menti, - confermando così anche in questo singolo punto l'opinione complessiva, a cui era giunto il Lessing nella sua «Educazione del genere umano». La maggior parte degli uomini è ancora molto lontano dalla sua età matura; non é per es. capace ancora di fare a meno nelle cose religiose della guida di singole persone dotate di vocazione speciale.

Ma essa é già su questa via, anche per altri motivi; e questa via vien percorsa più presto, quando nella vita pubblica o in quella dello spirito pubblico entri una persona capace, come Federico II, di esercitare un azione liberatrice e iniziatrice, quando la ragione della generalità degli uomini ha potuto incominciare a prendere di mira il posto, che le resta libero nella vita pubblica e in genere nell'esistenza umana.

Ma quanto più si deve sperare dalla ragione per lo stato futuro e per l'educazione dell'umanità, tanto maggior bisogno si ha di un'accurata ricerca intorno alla ragione stessa ed in genere alla facoltà umana della conoscenza.
È lo scritto di Kant, per il quale si collegano al pensiero attuale e pragmatico di quel tempo le tre grandi opere capitali del criticismo, che Kant prese a scrivere dal 1781, e che sono le più imponenti pietre di confine in tutta la storia della filosofia tedesca e in genere il fondamento di ogni sviluppo ulteriore della scienza dello spirito: la "Critica della ragione pura" (1781), la "Critica della ragione pratica" (1788) e la "Critica del giudizio" (1790).

Con il primo, risvegliò il mondo dal «letargo dogmatico», e da quell'anno fino a noi la «filosofia critica» ha dominato l'idealismo europeo.

Non dobbiamo meravigliarci se Heine paragonò il piccolo professore di Konigsberga al terribile Robespierre: questi aveva soltanto ucciso un re e qualche migliaio di Francesi - cosa che un Francese poteva perdonargli; ma Kant, diceva Heine, ha ucciso Dio, ha messo in dubbio le tesi più preziose della teologia.

Il suo pensiero a parte ogni considerazione critica particolare è considerato uno dei fondamenti del pensiero moderno. Con lui nasce la "modernità".
Noi chiamiamo qui "modernità "quella civiltà che si è sviluppato negli ultimi due secoli (ma aveva avuto gia i prodromi prima) e che ha creato una frattura fra il nostro mondo e quello che diremo pre-moderno: l'uomo "moderno" si è sviluppato prima in occidente: nell'800 la civiltà europea con una "marcia trionfale" si è affermato su tutti i continenti e nel 900 si è poi diffusa dovunque E' nato cosi il mondo moderno con l'industrializzazione, il mirabile sviluppo scientifico e tecnico, lo stato di diritto, la democrazia, la libertà, l'uguaglianza, l'emancipazione femminile.

Non diciamo che questo mondo è migliore degli altri (sarebbe altro problema): ma bisogna pur notare che ha avuto un "enorme successo": benessere, civiltà e modernità sembrano quasi sinonimi.

Bisogna allora comprendere la differenza sostanziale, essenziale fra la "mentalità dell'uomo "moderno" e quella quella del "pre-moderno".

Il "pre- moderno" ritiene che il mondo sia retto da immutabili leggi divine (o naturali) alle quali bisogna adeguarsi: la saggezza consiste nell'adeguare noi alla realtà.

L' uomo moderno ritiene che la realtà possa essere modificata: la saggezza consiste nell'adeguare la realtà a noi.

Esemplificando il "pre- moderno" dice: se Dio (o la natura) avesse voluto che l'uomo volasse, allora gli avrebbe fatto le ali.

Il "moderno" dice: poichè Dio (o la natura ) non ci ha fatto le ali occorre che ce le costruiamo noi, facciamo gli aerei e voliamo !!!

La mentalità pre-moderna porta alla passività: le cose avvengono solo se vuole Dio (inch'allah, dicono gli arabi); la mentalità moderna all'azione: ciò che avviene è frutto di cause identificabili e modificabili.

L'essenza infatti del pensiero Kantiano viene espressa dal famoso paragone della "rivoluzione copernicana": "Come Copernico aveva messo al centro del cielo il sole e non la terra cosi Kant mette al centro della conoscenza non la realtà (l'oggetto) ma l'uomo( il soggetto)." In altri termini Kant concepisce la realtà dell'uomo non come come qualcosa di dato, oggettivo (voluto da Dio o dalla natura) e come tale immodificabile ma come una costruzione propria dell'uomo. In questo senso profondo Kant apre il "mondo moderno".

Il pensiero kantiano prende le mosse dalle scoperte scientifiche del suo tempo, (soprattutto da quella della legge gravitazione universale di Newton): egli si chiede perchè la scienza naturale ha raggiunti risultati sicuri e certi mentre la metafisica invece ripete all'infinito gli stessi ragionamenti senza che sia possibile riuscire a raggiungere una verità da tutti condivisibile: la risposta è che la scienza naturale si basa sulle strutture mentali dell'uomo e pertanto raggiunge risultati affidabili e certi, mentre la metafisica vorrebbe conoscere il mondo al di la delle nostre strutture mentali; ma ma non è possibile conoscere quello che le nostre strutture mentali non possono recepire e pertanto si finisce con il cadere in ragionamenti inconcludenti.

Ciò che possiamo conoscere è solo quello che noi stessi abbiamo costruito mentalmente. E chi ha oggi qualche nozione di neuroscienza non può non convenire con Kant. Il piccolo goffo uomo di Köenigsberg, ha anticipato di quasi trecento anni la meravigliosa scienza del nostro cervello.

"Esiste un'uscita dai vicoli ciechi del pensiero?" "Essa esiste - dice Kant - se ricordiamo che spazio, tempo e causa sono modi di percezione e concezione, che debbono entrare nella nostra esperienza, poiché essi sono il tessuto e la struttura dell'esperienza".

Ebbene ora leggiamo il grande John Eccles, il più grande neuroscienziato (Nobel 1963), in "La conoscenza del cervello", Edit. Piccin, pag. 249:
"Consideriamo brevemente il libero arbitrio. Non intendo lasciarmi andare a una disputa filosofica su questo tema fin troppo discusso. Tutto ciò che ho da dire è che il libero arbitrio è un fatto di esperienza. E' qualcosa che ciascuno di noi prova. Nessuno avrebbe immaginato che il libero arbitrio esistesse se non ne avesse fatto esperienza, con il che io intendo la capacità di effettuare delle azioni che sono state programmate nel pensiero, o almeno il tentare di effettuarle. Il libero arbitrio è spesso negato per il motivo che non si può spiegarlo, che esso implica degli eventi inspiegabili con la fisica e la fisiologia odierna. A questo io rispondo che la nostra incapacità può derivare dal fatto che la fisica e la fisiologia non sono ancora sufficientemente sviluppate rispetto all'enorme complessità dei moduli di attività neuronica in gioco. La sottigliezza, l'immensa complessità dei disegni tracciati nello spazio e nel tempo da questo "telaio incantato" (le reti neurali, le sinapsi, i dendriti, ioni, e quanti elettrici) e le proprietà essenziali di questo sistema sono al di là di qualsiasi livello di indagine possibile con la fisica e la fisiologia di oggi, e forse con la fisica e la fisiologia di un lungo tempo a venire"

 

Queste sono tre celebri massime di Kant:

1) "Agisci in modo che la massima tua volontà possa sempre valere
come principio di una legislazione universale".
2) "Agisci come se tu potessi volere che la massima della tua azione
divenisse legge universale della natura"
3) "Agisci in modo da trattare l'umanità, nella tua come nell'altrui persona,
sempre come fine, mai come semplice mezzo".

Ma nel leggere tutto il resto avviciniamoci a lui indirettamente e con cautela, partendo da una sicura e rispettosa distanza, anzi da punti diversi della circonferenza che racchiude il nostro soggetto, e cerchiamo poi, brancolando, la nostra strada verso quel centro artificioso, in cui la più difficile di tutte le filosofie ha nascosto il proprio segreto e il proprio tesoro.

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Con Kant insomma sta terminando il periodo del "pre-moderno"
e iniziando il periodo dell' "uomo moderno"
che sta con fervore illuminando le menti

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