-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

L'EUROPA FRA DUE RIVOLUZIONI - ( 1830-1849 )


197. 6). - IL RINASCIMENTO DELL'ITALIA.
GUERRA SEPARATISTA IN SVIZZERA.


Vita a Roma- "Processioni" e "Genuflessioni"

 

S'è già parlato dell'influsso straniero in Italia fino al 1839. Quanto più a lungo, tanto più energicamente migliaia d'Italiani di vivace coscienza nazionale scorgevano nei loro Governi usciti dal castello imperiale di Vienna dei poliziotti di un'autorità straniera, mentre a questi Governi imposti diveniva sospetto chiunque si ostinava a sentire italianamente. In grazia delle agitazioni rivoluzionarie del Mazzini gli anni fra il 30 e il 40 formarono una continua catena d'insurrezioni e di assassini da un lato, di persecuzioni e d'imprigionamenti dall'altro. Il Mazzini si era rivolto alla gioventù d'Italia. La sua fanatica azione cospiratoria aveva fatto apparire lecito ai Governi qualunque mezzo per salvarsi.

Anche in Europa la benevolenza per l'Italia era neutralizzata dall'atteggiamento suo e dei suoi. Da elementi più maturi, circa il 1840, venne su, col rigetto di atti sanguinosi terroristici, un avviamento che scrisse nella sua bandiera contemporaneamente il risorgimento nazionale e la libertà ordinata, quale meta di un cauto e legale compito del popolo.
Poeti e storici, aristocratici ed ecclesiastici furono portavoci di questo rinascimento. Il serio proposito di costoro era quello di guadagnare, mediante l'elevazione morale, il popolo per un migliore avvenire, ma al tempo stesso dei Governi benevoli per l'indipendenza della patria.

Il rapido passaggio dal furore rivoluzionario (che naturalmente non cessò del tutto) ad una considerazione realistica delle cose è una splendida prova come uno sguardo acuto per ciò che è sostanziale si unifichi negli Italiani con l'impeto della fantasia.
Non c'era bisogno di dire espressamente agli Italiani che un simile agglomeramento di onde dall'alto e dal basso doveva cozzare contro un elemento robustissimo del corpo intero, contro la dominazione straniera nel Lombardo-Veneto.
Questo territorio, in confronto al 1796, più che raddoppiato non doveva avere nè qualsiasi comunanza col resto dell'Italia, nè costituire un tutto omogeneo in sè.

L'Austria, incomodo vicino per il Piemonte, sospettata in Roma per le sue aspirazioni nelle legazioni pontificie, aveva per di più con speciali trattati imposto ai Governi di Napoli, di Toscana, di Modena e di Parma il regime assoluto all'interno. Anche il Piemonte aveva dovuto obbligarsi a qualcosa di simile. Per ciò, nonostante la sua ambizione nazionale, Re Carlo Alberto della linea Savoia-Carignano, regnante fino dal 1831, il quale promuoveva riforme giuridico-amministrative e le finanze, e completava gli armamenti, dopo quasi dieci anni di regno non aveva concesso alcuna costituzione.

Dal 1840 in poi tuttavia si manifestò nel Piemonte uno spirito di maggiore indipendenza. Nel complesso nonostante una certa cura per il benessere materiale, e in qualche luogo per l'insegnamento elementare, il popolo italiano ridestatosi fu per interi decenni governato con criteri e con sistemi, i quali possono essere indispensabili per colonie, cioè senza reciproca fiducia e purtroppo con la coercizione.
Certo vi erano anche delle differenze. Non si poteva infatti confrontare il moderato assolutismo vigente in Toscana con l'astioso regime arbitrario di Modena o di Parma.
Inaudite, secondo numerose descrizioni, erano soprattutto le condizioni di Napoli. Mortificazione di ogni impulso spirituale ed oppressione delle energie popolari con il più perverso terrorismo, appoggiantesi a monaci e sbirri, a banditi tollerati e lazzaroni realisti, infine a truppe svizzere ed eventualmente all'aiuto austriaco formano la caratteristica di quella monarchia.

Non era, come si sa, un'ingiustizia, si attribuiva molta colpa di ciò all'esempio dell'Austria. Nel Lombardo-Veneto l'arroganza militare, il sospetto arbitrio poliziesco che s'introduceva nelle famiglie, inoltre il più astioso spionaggio sulle lettere e la censura delle creazioni spirituali accumularono con il tempo un atteggiamento vendicativo contro tutti i "Tedeschi".

Solo piuttosto contenuta (si pensi alle poesie del Giusti, diffuse manoscritte) suonava la voce del desiderio di dignità nazionale all'orecchio di ascoltatori dai sentimenti delicati.
I piemontesi conte Balbo e marchese Massimo d'Azeglio, per citare i più equilibrati, interpreti dei sentimenti del loro Re avevano già consacrato la casa reale piemontese alla speranza dell'Italia quando il sacerdote esiliato, Vincenzo Gioberti, si fece avanti nel 1843 con un nuovo programma.

Gioberti sognava che il Governo di Roma (cioè il Papa) comprendendo il proprio tempo secondo lo spirito cristiano, diventasse il nocciolo unitario per i paesi d'Italia. Con questa iridescente profezia il Gioberti trascinò con se gli animi, quantunque il suo scritto fosse proibito dovunque.
Perfino Mazzini non poté fare a meno di richiamare, all'occasione, alla coscienza del papa ancor nel 1847 l'unità d'Italia, come un suo dovere.
Così con Mazzini e con Gioberti, sebbene con diverse ispirazioni, il principio dell'Unità Nazionale, passò dalla mente dei pensatori alla discussione pubblica, conquistò anche le maggiori assemblee d'Europa, suscitando qua opposizioni là accoglienze favorevoli, assurgendo a problema d'importanza internazionale.

Finché visse il pontefice Gregorio XVI, fratescamente ostinato, furono impossibili perfino i modesti desideri di una riforma amministrativa, come era stata raccomandata dalle grandi Potenze allo Stato ecclesiastico. Tutti i posti amministrativi di qualche importanza erano riservati ai preti.
In Roma e nella regione, che la circonda, questo Governo sacerdotale era per interesse o per consuetudine meno odiato; da molto tempo era invece diventato un'abominio agli abitanti più vivaci delle così dette legazioni e della Marca.
Solo mediante le truppe svizzere e i partigiani armati, i sanfedisti, veniva raffrenato il risentimento, che faceva di tutti gli abitanti dei congiurati contro il Governo.

A successore di Gregorio fu eletto il cardinale conte Mastai-Ferretti (Pio IX, 1846-1878), nel quale il partito riformatore, preparato, a così dire, al miracolo per la profezia giobertiana o servendosi spregiudicatamente del nome sonoro per i suoi fini, subito salutò il redentore politico.

In vita, in morte o in beatitudine Giovanni Mastai Ferretti continua ad essere oggetto o di accese esaltazioni o di odi profondi. Tra il 1846 e il 1848 incarnò le prime speranze risorgimentali, ma alla storia è passato come irriducibile avversario dello stato unitario. Glorificato come "Uomo di Dio" dalla Chiesa, denigrato con toni accesissimi da laici e repubblicani, oggi nel suo nome gli italiani continuano ancora a dividersi tra guelfi e ghibellini.

Discendente di famiglie di antica stirpe - i Mastai appartenevano alla nobiltà cremonese, mentre i Ferretti erano conti di Ancona - Giovanni Maria Mastai Ferretti fu il nono figlio del Conte Girolamo e di Caterina Sollazzi. Nacque a Senigallia il 13 maggio 1792 e venne battezzato lo stesso giorno della nascita. Compì gli studi classici nel Collegio dei Nobili a Volterra, diretto dagli Scolopi, ma dal 1803 al 1808, proprio quando sembrava aver ormai deciso di seguire la carriera ecclesiastica, dovette sospendere gli studi a causa di improvvisi attacchi epilettici. Dal 1814 fu ospite a Roma dello zio Paolino Mastai Ferretti, Canonico di San Pietro, e qui poté proseguire gli studi di Filosofia e di Teologia presso il Collegio Romano. Nel 1815 si recò in pellegrinaggio a Loreto dove ottenne miracolosamente la guarigione dalla malattia. Poté quindi continuare i suoi studi e prepararsi al presbiterato. Nel 1817 ricevette gli Ordini Minori, l'anno successivo il Suddiaconato e il 10 aprile 1819 venne ordinato Sacerdote. Dal luglio 1823 al giugno 1825 fu tra i membri componenti la Missione apostolica in Cile, guidata da Monsignor Giovanni Muzi. A soli 35 anni, il 24 aprile 1827, fu nominato Arcivescovo di Spoleto. Il 6 dicembre 1832 venne trasferito al Vescovado di Imola. Il 14 dicembre 1840 ricevette la berretta Cardinalizia. Il 16 giugno 1846, al quarto scrutinio, con 36 voti su 50 Cardinali presenti al Conclave, venne eletto Pontefice a soli 54 anni. Di lui si sapeva solo che aveva fama di moderato riformista. Ma nel clima di grande aspettativa liberali di quegli anni tanto bastò a farne un idolo per molti italiani.

Pio IX non fu mai un liberale: era buono di pasta ma non scevro dall'ambizione di lasciarsi trascinare dall'aureola populistica. Come teologo non era altro che un seguace della dottrina dell'infallibilità del papato, istituito da Dio, e dell'impossibilità della salvazione dell'anima fuori della Chiesa cattolica [Enciclica del 9 novembre 1846].
Ma da vescovo aveva respirato arie rivoluzionarie, e si lusingava, pur mantenendo le sue pretese papali, di poter essere un riformatore del dominio temporale nell'interesse dei laici.

Quindi egli si allontanò dai gesuiti, i più coerenti consiglieri del suo antecessore, e presto si vide trascinato da un movimento a lui intimamente estraneo forse più di quanto pensava, nè era pensabile che egli lo potesse guidare.

Una cosa è certa. Oltre le titubanze e le idiosincrasie del personaggio, era lo Stato Pontificio in sé ad essere incompatibile con le idee liberali, soprattutto in merito alla lotta antigesuitica e alla guerra contro la cattolica Austria. In breve, il moderatismo di Mastai Ferretti aveva limiti ben precisi e invalicabili, oltre i quali né lui né un altro pontefice in quel momento sarebbe potuto andare. Pena l'abbandono di una posizione ormai insostenibile e una involuzione in senso reazionario.
Inoltre in realtà Pio IX era lui stesso un uomo tetragono ad ogni forma di evoluzione e di progresso, tenacemente ostile al mondo moderno e per di più espressione degli interessi solo temporali della Chiesa"


Un'amnistia per tutti i prigionieri e fuoriusciti per motivi politici, una costituzione municipale per Roma e una consulta per le faccende amministrative, composta di notabili delle province, sotto la direzione di un cardinale, risposero al giubilo, scoppiato alla sua esaltazione al pontificato.

Ancor più egli sembrò andare incontro al desiderio di una collaborazione dei laici, quando dette il permesso di istituire una guardia civica; segno evidente quanto egli deve aver creduto minacciato il suo sistema dai sanfedisti dell'antico regime.
La censura fu mitigata, e vennero promosse disposizioni di pubblica utilità. Ma una lega doganale, conclusa dal papa con i Governi del Piemonte e della Toscana, non poté attuarsi, perché la "cattolica" Austria rifiutò dall'accedervi Modena, topograficamente indispensabile per renderla valida.
Questa lega - nelle intenzioni giobertane - avrebbe dovuto essere il nocciolo di una lega dei prìncipi italiani sotto il primato pontificio.

All'incontro l'influsso inglese pose fine all'incertezza di Torino. Re Carlo Alberto con le accennate aperture liberali di Pio IX stava rischiando di giungere in ritardo, e si affrettò a dichiararsi risoluto a salire a cavallo con tutti i suoi per l'indipendenza d'Italia, appena fosse possibile.

Così egli venne incontro ai desideri sempre più energici dei sudditi, come aveva vivacemente dichiarato a feste, a congressi economici e di scienziati nel suo regno e fuori. Incoraggiato dall'esempio pontificio, abbandonò ogni riguardo all'Austria ampliando i diritti dei consigli comunali, mitigando la censura, abrogando fori privilegiati, eccetto quello ecclesiastico.
La politica austriaca fece quanto gli era possibile per trattenere le corti, animamdole a resistere al "partito rivoluzionario".
Per lunghissimo tempo, nonostante le proprie difficoltà finanziarie, Vienna si era preparata col pensiero (in caso di disordini) di un "intervento armato". Si evitò solo la parola "intervento", quando nel dicembre 1847 fu concluso con Modena un trattato difensivo, a cui poi accedé Parma, in forza del quale a ogni istante era permessa l'entrata di truppe austriache in quegli Stati (che geograficamente confinavano con quelli in "fermentazione").

La diplomazia imperiale stava sempre in attiva vigilanza, e così pure il feldmaresciallo Radetzky dove a Milano faceva una rigida guardia al Lombardo-Veneto.

LA GUERRA SEPARATISTA IN SVIZZERA

Dopo le esperienze, rispetto al concetto del diritto d'asilo e della neutralità, raccolte in Svizzera durante la caccia al profugo, nei 22 cantoni forniti dell'esclusivo potere poliziesco, sarebbe stato naturale che le grandi Potenze, da parte loro, si fossero palesate propense a un maggiore accentramento della troppa rilassata lega degli Stati elvetici.
Ma invece, fin dal sorgere delle tendenze favorevoli a una revisione della costituzione, esse lavorarono a mantenere l'ordinamento esistente: giunsero perfino a scorgere non solo, come era giusto, nell'integrità dei cantoni, ma nella immutabilità del posto loro assegnato nel trattato federale la condizione per la continuazione della neutralità, garantita al paese nel 1815 secondo il diritto delle genti.

Lasciamo stare quanto questa velleità di protettorato derivasse dal sistema generale di tutela o provenisse dal desiderio di mantenere la direzione dei cantoni nelle mani di vecchie famiglie dominatrici invece di rimetterla alla temuta democrazia.
Del resto appariva troppo chiaro agli uomini di senno che le Potenze ritenevano responsabile il Governo federale per riguardo ai suoi obblighi senza concedergli di porsi in condizioni migliori per adempierli.

L'agitazione del Mazzini, e la «Giovane Germania», composta soprattutto di operai, di tendenze molto radicali, alimentavano sempre di nuovo l'abominio delle grandi Potenze, per una trasformazione di tutta la Svizzera, che esse, angustiate, non si potevano immaginare se non propagandista-rivoluzionaria: né volevano vedere che la necessità di una riforma interna aveva incominciato a sembrare plausibile in parte anche ai conservatori.
Lo spirito poliziesco della grande politica si preoccupava di smargiassate antidinastiche e di ritornelli, che si riferivano come espressi dai circoli degli esuli.

Ormai nel paese, da secoli abituato alla eguaglianza delle varie confessioni, anche i dissensi religiosi vennero coinvolti nella lotta. Del che ebbero colpa tanto l'odio intollerante di esaltati democratici, quanto la mania conquistatrice del neo cattolicesimo gesuitico.

Il conflitto divenne aperto nell'anno 1841 nel cantone d'Argovia, dove il partito ultramontano si era ribellato contro una limitata modifica della costituzione ed era stato punito con l'inammissibile confisca dei conventi maschili.
A causa del coinvolgimento religioso della popolazione, in parecchi cantoni il tumulto ebbe un'eco molto forte. Per il partito radicale l'immischiarsi dell'elemento ecclesiastico nel contrasto politico divenne presto l'arma più aguzza, quando l'ultramontanismo nella speranza di un appoggio straniero credette giunto il tempo di giocar tutto sur una carta nella Svizzera.

Ciò successe, allorché Lucerna nel 1844 prese la risoluzione di affidare l'intero insegnamento del cantone ai gesuiti, che s'intendevano chiamare. Già esistevano nella Svizzera, per esempio a Friburgo, alcuni stabilimenti dell'ordine; ma fu considerata come una provocazione inaudita che la maggioranza del cantone di Lucerna (a cui ben presto doveva spettare l'ufficio di capoluogo della confederazione) si accingesse a porre a rischio la pace della confederazione.

Certo erano frivoli i tentativi di accorrere in aiuto dell'oppressa minoranza con corpi di volontari, tratti dai cantoni evangelici e radicali.
La confederazione si divise in due campi. Nel cantone di Vaud, di Soletta, Zurigo e Berna si riuscì a insediare dei governi radicali. Ma sullo scorcio del 1845 sette cantoni cattolici, Lucerna, Friburgo, Uri, Schwyz, Unterwalden, Zug, Vallese per la pretesa protezione della minacciata costituzione si unirono in una lega che gli avversari battezzarono col nome di federazione separatista.

Sebbene in realtà essa contraddicesse in sé tanto alla lettera, quanto allo spirito del trattato della confederazione, fu appoggiata dalla Francia e dall'Austria. Anche la Prussia, a causa di Neuenburg, spettante per diritto ereditario al Re, ma appartenente alla confederazione, seguì senza indugi la medesima via.
Senza l'opposizione dell'Inghilterra e la tattica procrastinatrice di lord Palmerston, il tentativo d'intervenire non poteva escludersi. A ragione i capi della lega separatista ritenevano che sarebbero stati appoggiati militarmente. Infatti, già gli erano arrivate spedizioni di armi da parte dell'Austria, della Francia e del Piemonte. Soltanto così si capisce che essi si armassero e tenessero testa a tutti gli avvertimenti dei cantoni intermediari.

Ai radicali mancava tuttavia la maggioranza nell'assemblea nazionale. Solo quando Ginevra e S. Gallo ebbero compiuta una revisione della costituzione il partito federalista - così può chiamarsi - poté disporre di 12 voti.
Intanto Berna, dove lo spregiudicato, violento volontario Ochsenbein fu nominato sindaco, era diventata la capitale.
Il 20 luglio 1847 la maggioranza dell'assemblea nazionale decretò lo scioglimento della lega separatista, contraria alla costituzione e alle convenzioni internazionali; nel settembre vi aggiunse la deliberazione della cacciata dei gesuiti dalla Svizzera.
Ben presto una commissione si riunì per modificare la costituzione. La lotta attorno al mantenimento della pace religiosa sul piede di eguaglianza delle varie confessioni cessò nel momento della decisione e si convertì nel contrasto politico fra l'autorità federale e lo spirito cantonale.

La lega separatista disdegnò ogni arrendevolezza, e ritirò i suoi rappresentanti dall'assemblea nazionale, la cui maggioranza non soffrì alcuna neutralità e punì con forti ammende i tre cantoni che rifiutavano l'azione. Il 4 novembre fu deciso di attuarne lo scioglimento con la forza.
Le Potenze straniere non ebbero né il tempo di marciare, né di intervenire diplomaticamente. Lo spirito cantonale, la vera spina dorsale della lega separatista, valse a mandare a vuoto il concentramento comune offensivo, o anche difensivo delle forze militari; assai più deboli del resto nei cantoni primitivi, quantunque valorosi e forti.
Così il generale federale Dufour ebbe facile gioco, quando ebbe sfidato a battaglia gli avversari cantone per cantone.

Il 13 novembre Friburgo si sottomise, il 22 Lucerna, e anche gli altri cantoni gli andarono dietro in parte senza fare alcuna resistenza. Prima della fine del novembre 1847 la lega separatista era disciolta; nei cantoni, che vi erano appartenuti, il potere passò per lo più nelle mani dei rappresentanti d'idee opposte.
Una giudiziosa moderazione, in parte frutto della circostanza che l'estremo movimento cattolico della lega separatista aveva costretto i conservatori dei cantoni esterni ad avvicinarsi ai radicali, preservò anzi tutto il paese da nuove complicazioni con le grandi Potenze.

Nella guerra in complesso si erano usati molti riguardi. I cantoni vinti se la cavarono perfino con un risarcimento. Mentre i gesuiti dovettero ripigliare la via dell'esilio.
I vincitori, ammaestrati dal pericolo sofferto e liberati da ogni riguardo verso le grandi Potenze a motivo degli eventi, dopo il principio dell'anno 1848, si accinsero con zelo a mutare l'inservibile lega di Stati in uno Stato federale. Nella costituzione del 1848 si partì dalla sovranità dei 22 cantoni, ma sopra e accanto a loro si creò un potere federale, fornito di funzioni e di mezzi, sufficienti a compiere interamente il suo compito.
Ma prescindendo da ciò, alla vittoria dei princìpi progressivi nella Svizzera spetta una parte notevole nella preparazione delle idee e dei moti politici, che nel 1848 si fecero strada nel mondo europeo.

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198. - 7) LA FRANCIA
FINO ALLA CADUTA DELLA MONARCHIA NEL 1848 > > >

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