-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

L'EUROPA FRA DUE RIVOLUZIONI - ( 1830-1849 )


200. - 9) - LA FINE DEL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO IN GERMANIA
(e breve sguardo retrospettivo).

 

Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, l'insurrezione della Sicilia contro la politica antinazionale e dispotica del Re Ferdinando II iniziò la rivoluzione del 1848; poche settimane dopo, a Parigi, l'opposizione dalle tribune oratorie dei banchetti per la riforma elettorale scese armata sulle pubbliche vie; nel marzo sotto l'influsso e dietro l'esempio degli avvenimenti francesi scoppiarono insurrezioni a Vienna e a Berlino, e tanto nell'una quanto nell'altra città gli antichi regimi storici si sfasciarono per la violenza della volontà popolare.

Sulla torre di S. Stefano a Vienna, come sul palazzo federale nella via Eschenhiimir a Francoforte sventolarono bandiere con i colori, fino allora severamente proibiti, dell'associazione degli studenti tedeschi; nero, rosso, giallo.
Da per tutto nei paesi tedeschi, che con il movimento filosofico e letterario della «Giovine Germania» aveva servito di preparazione, si era svegliato il desiderio di una trasformazione, adatta allo spirito dei tempi, degli ordinamenti costituzionali e politici.

Un parlamento doveva attuare l'unificazione della Germania nella libertà; ma al tempo stesso anche nei singoli Stati si dovevano concedere e assicurare a tutti i cittadini eguali diritti, mediante una rappresentanza popolare o da crearsi o da dotarsi di più ampie funzioni. Il moto politico da solo non sarebbe riuscito a scuotere così potentemente gli ordinamenti esistenti, se insieme con esso non si fosse fatta avanti in prima linea la questione sociale.

Non si trattava più semplicemente di disegni utopistici di isolati teorici, ma di una riforma della società in tutte le sue membra. Nel secolo XIX l'importanza del possesso fondiario era diminuita appunto nella misura che l'elemento mobile dell'industria acquistava valore.
Quindi si era di nuovo svegliato, come dopo la convocazione degli «Stati generali» nel castello reale di Versaglia, il desiderio di abbattere le barriere, che separavano cittadino da cittadino.
Tutti dovevano in comune compiere l'opera politica e sociale e in comune raccoglierne il premio. Dovunque trionfò l'insurrezione, i campioni della quale si chiamarono dal nome dei difensori della costituzione spagnola del 1812: liberali.
Le forze congiunti del movimento nazionale e sociale abbatterono la rocca del sistema metternichiano e in tutte le capitali
portarono in alto uomini di orientamento nazionali e liberali.

I governi rinunziarono alla resistenza contro le riforme populistiche, quantunque non mancassero indizi che essi si rassegnavano di malanimo alle esigenze dei «cari e fedeli» sudditi; e non dicevano neppure addio alla speranza di una restaurazione dei vecchi ordinamenti. Le rivoluzioni - dicevano - sono come i venti, prima o poi si calmano.

Federico Guglielmo IV contraddistinse la situazione nella maniera più franca ed esatta, quando più tardi disse al Ranke: «Allora noi tutti stavamo bocconi»!
Ora le conquiste rivoluzionarie del marzo dovevano esser coronate dalla convocazione di un parlamento tedesco, cui era riservato l'ufficio di garantire per il futuro l'unione delle varie stirpi e la libertà del popolo unito. Ma come questa trasformazione dovesse attuarsi in particolare, le idee e i desideri delle varie parti del paese e dei vari gruppi del popolo erano molto discordi tra loro.
In numerose assemblee popolari e nella stampa, divenuta libera, questi contrasti si manifestarono in una maniera perfino imbarazzante.

Si notava la calcolata caccia agli impieghi accanto al nobile entusiasmo, il selvaggio radicalismo accanto allo sbigottito filisteismo, l'odio più feroce contro i tiranni accanto alla spensierata venerazione di un diritto divino antiquato.
A tutto ciò si aggiungeva che una numerosa popolazione straniera di dubbia onestà si era sbracciata per cooperare al compimento dello Stato popolare tedesco.
Ma con tutto ciò, con tutte le differenze e i contrasti, che ancora dividevano Tedeschi da Tedeschi, fu un solenne momento, quando il 18 maggio 1848 fra il suono delle campane e il tonar delle artiglierie, per la prima volta, i rappresentanti liberamente eletti della nazione tedesca si recarono dal palazzo municipale della vecchia città di Francoforte (dove s'incoronavano gl'imperatori) nella chiesa di S. Paolo, nella quale si dovevano tenere le operazioni intorno alla nascita del nuovo impero.

Nè le lotte partigiane, né la quasi invisibile opposizione di alcuni Governi erano riuscite a impedire che nelle elezioni avessero trionfato i migliori uomini della nazione; si ricordino soltanto C. M. Arndt, il Mathy, il Dahlmann, Jacopo Grimm, l'Uhland, il Gervinus, il Ranmer, lo Stenzel, il Droysen, Roberto Mohl, il Pfizer, il Welcker, lo Schmerling, il Giskra, il lakovy. Una superba leva di personaggi veramente di polso!
Siccome molti appartenevano al ceto professionale dell'insegnamento (detti i "professorali") l'assemblea in seguito fu dileggiata come un parlamento di maestri di scuola e la colpa della cattiva riuscita dell'intera sessione venne attribuita al dottrinarismo dei capi: ma a torto.

La questione tedesca non si poteva risolvere soprattutto con discorsi e decreti parlamentari, perché non si poteva con nessuno sfoggio di saggezza e di acutezza politica toglier di mezzo il dualismo fra le due Potenze principali, egualmente forti, cioè Austria e Prussia; e nei problemi di politica interna l'irruenza e la inconsideratezza dei partiti radicali - che costringevano formalmente i Governi ad un'energica difesa - arrecavano danni di gran iunga peggiori della irritante saccenteria professorale.

A presidente fu eletto il ministro assiano Enrico di Gagern, un vero statista, per natura e per contegno ad un tempo nobile e popolare. Il primo dovere del parlamento era quello d'insediare un Governo provvisorio per regolare gli affari comuni tedeschi. Il gruppo dell'estrema sinistra, Roberto Blum, Ruge, Vogt e altri, esigevano una giunta esecutiva; la sinistra moderata un presidente federale responsabile dinanzi alla rappresentanza popolare; i partiti monarchici, di gran lunga più numerosi, pensavano o a un membro d'una casa sovrana tedesca o a un direttorio federale formato da più principi, come rappresentante del potere centrale.

Caratteristico riguardo alle disposizioni dell'assemblea fu che il deputato di propensioni prussiane, il von Vincke, dichiarò di credere di operare conforme al sentimento dello stesso monarca prussiano, accennando ad un personaggio della gloriosa casa d'Austria, all'arciduca Giovanni, che si era conquistato l'amore di tutto il popolo tedesco appunto come avversario dell'utopistico sistema metternichiano e come amico di una Germania unita e libera.

Poiché anche il Gagern, per rivendicare con un ardito colpo di mano il diritto elettorale del parlamento, raccomandò caldamente la proposta del Vincke, il 28 giugno fu affidato il potere centrale a un vicario dell'Impero, e il giorno dopo venne eletto vicario dell'Impero l'arciduca Giovanni con 436 voti contro 84.

Col consenso dell'Imperatore d'Austria l'arciduca accettò; il suo viaggio parve una marcia trionfale; il 12 luglio prese possesso del suo ufficio. Quindi la dieta federale dichiarò terminato il suo compito e trasmise le sue funzioni costituzionali, in nome dei Governi federali, al vicario dell'Impero. Il nuovo capo supremo era così scelto dal parlamento, ma aveva i suoi poteri dai governi; questo contrasto doveva senz'altro portare a dei conflitti.

Come in generale fosse debole la base del potere centrale é dimostrato dal fiasco del primo ordine emanato da esso, secondo il quale tutti i militari degli Stati federali, forniti di coccarde tedesche, dovevano prestare giuramento di fedeltà al vicario dell'Impero. Solo gli Stati minori obbedirono. A Vienna si limitarono a far innalzare alle truppe un evviva all'arciduca Giovanni; ma non si accennava minimamente all'Impero tedesco.
A Berlino Federico Guglielmo IV emanò un ordine del giorno, con cui si esprimeva la speranza ché le truppe tedesche, se «sotto gli ordini del Re» dovessero sostenere la causa tedesca e subordinarsi al vicario dell'Impero, avrebbero mantenuto la fama del valore e della disciplina prussiana.
In Prussia si andò a rilento con le concessioni all'unità tedesca come con quelle alla libertà.

Veramente Federico Guglielmo, dopo che fu vinto il primo terrore dinanzi alla rivoluzione, era pervaso da fantastico entusiasmo per le esigenze e le speranze dei nuovi tempi; ma non mancarono tentennamenti e ricadute.
In occasione delle feste per la costruzione del duomo in Colonia egli accennò «agli architetti della grande opera dell'unità tedesca»; a Berlino espresse il desiderio che lo Stato prussiano riuscisse a "lasciarsi passar sopra il moto tedesco, come l'acqua scorre sulle rocce". Quando poi, al momento dell'insediamento del ministero liberale Camphausen, dichiarò che d'allora in poi si sarebbe mosso strettamente entro i cancelli della monarchia costituzionale, faceva senza dubbio, lì per lì una promessa sul serio; ma nel fondo dell'animo disprezzava «i babbuassi idolatri del principio costituzionale e di quello della maggioranza".

Allorché a Berlino nel giugno avvennero nuovi disordini, durante i quali la plebe con furore insensato distrusse preziosi trofei dell'arsenale, il ministero liberale non fu risoluto e non osò opporsi agli eroi di strada; tanto più premurosamente il partito militare, incoraggiato dalla vittoria del Cavaignac nelle giornate di giugno parigine, intimava di porre fine alla vertigine democratica.
Anche nella chiesa di San Paolo a Francoforte i contrasti politici e sociali cozzarono fra loro sempre più con tanta ostilità. Certo produsse un'impressione curiosa che il parlamento invece di sbrigare prima le questioni attuali, si occupasse per qualche mese di discussioni intorno ai diritti fondamentali del popolo tedesco.

Per il Natale del 1848 era già approntata questa legge fondamentale, che «immutabile e sacra» doveva essere di norma per il futuro tanto alla costituzione imperiale quanto a quella dei singoli Stati.
Eppure di che breve durata essa fu mai!

Con tutto ciò, questa opera del «parlamento più grande della storia tedesca per lo spirito suo e per la purità della sua passione» (M. Lenz) non andò perduta per l'avvenire della Germania.
Le idee espresse nei discorsi del Dahlmann, dello Schmerling, del Gagern e di altri divennero proprietà spirituale della nazione, e cooperarono alle creazioni politiche del 1866 e del 1871, quantunque forse gli statisti, che vi parteciparono, non ne avessero coscienza.
In sostanza la legge fondamentale dell'Impero fu l'opera dei partiti medi moderati.

Nonostante ciò, in essa si era tenuto conto del concetto unilaterale che lo Stato é soltanto un freno molesto della libertà individuale e che la garanzia di questa libertà si può ottenere soltanto con la maggior possibile diminuzione dell'autorità governativa; che quindi un buon Governo dal punto di vista dei governati debba essere il più possibile debole.
Questo errore degli uomini politici responsabili della redazione della legge dipende però strettamente dalle disposizioni popolari nell'anno rivoluzionario 1848.
Anche il rimprovero che il parlamento francofortese avrebbe fatto meglio a occuparsi di questioni pratiche che di principi teorici non é troppo giustificato. Poiché appena il parlamento cercava d'interessarsi di politica pratica, si palesava subito la sua impotenza sia dinanzi ai Governi, sia dinanzi al radicalisno privo di ogni riguardo: il che apparve nella maniera più dolorosa possibile dopo la tregua di Malmò.
Abbiamo già accennato come il tentativo del Re Federico VII di Danimarca di spuntarla con un'annessione incondizionata dello Schleswig allo Stato danese produsse nei ducati dell'Elba un vivace movimento di protesta contro lo scioglimento dell'ultimo vincolo nazionale con la patria tedesca.

Non solo lo Schleswig-Holstein si levò contro i suoi oppressori, ma anche la Germania ufficiale, così indifferente e timida, incoraggiò la resistenza. Soprattutto Federico Guglielmo credette di non poter lasciar passare l'occasione, offertasi alla Prussia, di mostrarsi la spada della Germania; si dichiarò pronto a proteggere il buon diritto della casa di Augustenburg e fece avanzare truppe prussiane di là dall'Eider.
Mentre gli abitanti dello Schleswig-Holstein, nonostante il soccorso di volontari di tutti i paesi tedeschi, furono sopraffatti il 9 aprile a Bau nello Schleswig settentrionale, i Prussiani vinsero a Schleswig e Oversee e varcarono il 1° maggio la frontiera dello Jütland.

Ma allora avvenne un cambiamento in favore della Danimarca.
Il piccolo Stato danese era impari per terra di fronte alla potenza prussiana, ma disponeva di una flotta da guerra, mentre l'incapacità della Germania a difendersi per mare era dolorosamente evidente. Non solo i porti tedeschi furono bloccati e navi mercantili tedesche vennero catturate, come facile preda, da incrociatori danesi, ma non fu possibile raggiungere i Danesi, protetti da navi da guerra, nella penisola di Sandewitt.
La Francia, proseguendo con sguardi sospettosi il risveglio politico del vicino fino allora così impotente, assunse un contegno ambiguo.
Lo zar Nicola stigmatizzò l'intervento della Prussia in favore dei ribelli come una «fellonia ».
L'Austria, l'inviato della quale a Francoforte aveva votato per la guerra federale, si tenne del tutto lontana dalla lotta e non pagò mai i contributi matricolari, che le spettavano, per la guerra.

In una così scabrosa condizione Federico Guglielmo ritenne opportuno intavolare trattative con la Danimarca. Con la mediazione della Svezia fu conclusa nella città svedese di Malmö, il 26 agosto, una tregua oltremodo favorevole alla Danimarca. La conoscenza del vergognoso trattato suscitò nel parlamento francofortese una tempesta d'indignazione, ma il ministero imperiale dovette, piegandosi all'inesorabile necessità, approvare la tregua il 16 settembre.
Lo sdegno per un simile «tradimento» produsse a Francoforte scene sanguinose. Due deputati di destra, il principe Lichnowsky e il generale di Auerswald, vennero assassinati in modo inumano da una inferocita masnada di popolani.
Quella rivoluzioncella mirava a introdurre «una giunta del Pubblico bene» e a «sospendere», come nel 1793, l'ordine legale; finché non avesse trionfato il principio dell'illimitata sovranità popolare. Si riuscì tuttavia a domare l'insurrezione, mentre al tempo stesso la sollevazione dei repubblicani nel Baden finiva compassionevolmente.

I più colti e prudenti, disgustati dalle violenze della folla e dall'abbagliante errore dei suoi condottieri, si ritrassero sempre più dal movimento. Anche a Vienna fra il governo e il partito popolare si era giunti a conflitti sempre più gravi, e in ottobre a una vera lotta.
I sorprendenti successi degli studenti e degli operai viennesi furono salutati con giubilo a Francoforte dalla Sinistra, perché «l'unica speranza, che rimaneva, d'un esito felice si fondava su Vienna».
Due delegati, Roberto Blum e Giulio Fröbel, dovevano portare ai liberatori della città imperiale un indirizzo d'omaggio.

Il dominio però del nero, rosso e giallo ebbe una rapida fine a Vienna. Il Windischgratz e lo Jellacic riportarono una facile vittoria sulle schiere male armate e difettosamente organizzate. Ambedue i parlamentari francofortesi furono, perché avevano preso parte tra le file degli studenti alla lotta, condannati a morte da un tribunale di guerra; il Fröbel ebbe la grazia, ma il Blum fu fucilato per diritto statario il 9 novembre a Brigittenau.

Il giudizio in sé era inattaccabile; pur nondimeno la morte del martire della libertà suscitò di nuovo in molte città tedesche una fanatica agitazione. Tanto il parlamento francofortese quanto altre rappresentanze e assemblee popolari chiesero la punizione del Windschgratz e dei rimanenti complici; però nel consiglio dell'Imperatore Ferdinando a Olmütz l'elemento militare aveva già conseguito un influsso decisivo, dato che le proteste contro il supplizio del Blum restarono senza alcuna efficacia.

Anche in Prussia fu dalla esagerazione delle esigenze democratiche ravvivata la resistenza contro la rivoluzione.
L'esercito prussiano non aveva mancato al suo dovere, come quello francese al tempo di Luigi XVI. Quando si manifestarano tendenze anarchiche, mancò ai ministri liberali coraggio e saldezza per combatterle. Gli umori, da un lato, nel campo democratico, dall'altro in quello militare e conservatore divennero sempre più tesi e ostili.

Federico Guglielmo stesso, cognato dello Zar e ossequioso alleato dell'Austria, aveva già rinunziato alla speranza di ottenere, con l'aiuto dei liberali, il mutamento della confederazione tedesca in un impero tedesco, ed era di nuovo tornato allo specifico prussianesimo. Il 2 novembre egli chiamò al potere un ministero rigidamente conservatore col Generale conte Brandenburg alla testa; il Generale Wrangel ritornò con le sue truppe vittoriose a Berlino; l'assemblea nazionale prussiana fu trasferita a Brandenburg, e poco dopo chiusa per una continuo atteggiamento alla disubbidienza.
L'umore popolare aveva in generale subìto un tal cambiamento che i provvedimenti del Governo furono lasciati prendere dalla gran maggioranza del popolo prussiano come un atto di politica necessità.

Già le fucilazioni a Brigittenau avevan fornito la prova che la costituente non poteva far assegnamento sull'Austria. Anche il programma tedesco del principe Schwarzenberg, posto nel novembre alla testa del ministero imperiale non era adatto ad accrescere l'influsso degli amici dell'Austria, del così detto partito dei grandi tedeschi.
Allora il Beckerat di Krefeld pronunziò la frase, che indicò da quel momento in poi la strada al movimento nazionale: «Sperare nell'Austria é la morte dell'unità tedesca»!

Quantunque il Governo prussiano combattesse poco meno rudemente l'opera della costituzione francofortese, pure un partito autorevole più per il valore dei suoi seguaci che per il numero accennò indefesso all'ufficio tedesco della Prussia e chiese la concessione del potere centrale alla Corona prussiana.
Allorché oltre a ciò, il principe Schwarzenberg dichiarò che il Governo austriaco non si sarebbe mai subordinato a un capo supremo eletto dal parlamento di Francoforte, ma tutt'alpiù avrebbe riconosciuto un direttorio federale, s'ingagliardì così tanto la fazione, dileggiata dagli avversari col nome, di «piccoli tedeschi», che una proposta presentata dal Welcker il 29 marzo 1849 di concedere al Re di Prussia la dignità imperiale ereditaria fu accolta con 267 voti.

Quanto però si fosse ancor lontani dalla concordia e dall'unità fu dimostrato già dal fatto che la metà dei deputati, fra cui quasi tutti gli Austriaci e i Bavaresi, votarono contro o si astennero. Pur nondimeno la notizia dell'elezione dell'imperatore fu salutata calorosamente da molti Tedeschi in tutte le regioni. Una deputazione dell'assemblea nazionale, alla testa della quale stava il presidente Simson, andò a Berlino per offrire all'erede della corona di Federico il grande la corona degli Ottoni e degli Hohenstaufen.
Federico Guglielmo, instabile e incerto anche in quelle critiche giornate, dichiarò da ultimo di voler accettare il potere esecutivo offertogli solo «con lo spontaneo consenso dei capi coronati, dei prìncipi e delle libere città della Germania».
Ancor poco prima egli aveva abbracciato Enrico di Gagern e lodato la sua amicizia: ora egli dichiarò a qualche intimo che non voleva accettare una corona «alla Luigi Filippo, raccattata sul lastricato», una corona «che puzzava di rivoluzione».

Veramente molti prìncipi tedeschi si dichiararono pronti a riconoscere l'elezione di Federico Guglielmo, ma proprio gli Stati maggiori, la Baviera, il Württemberg, la Sassonia e l'Annover si rifiutarono.
Si capisce quindi più facilmente che il 28 aprile succedesse il definitivo rifiuto del Re di Prussia. Tuttavia la nota prussiana incoraggiava a proseguire a discutere della costituzione, che con «le modificazioni richieste da una calma considerazione delle condizioni tedesche» poteva condursi sulla buona strada.

Così avvenne che il parlamento di Francoforte il 4 maggio diresse una nuova esortazione ai Governi e all'intero popolo tedesco, perché almeno fossero raccolti i punti fondamentali concordati della costituzione dell'impero: il potere legislativo doveva spettare a una dieta imperiale, formata da una lega degli Stati e da una camera popolare, quello esecutivo prima al reggente del maggiore degli Stati rappresentati alla dieta imperiale, come luogotenente dell'impero: «la dignità di capo supremo sarebbe senz'altro passata al Re di Prussia, purché questi riconoscesse la costituzione".

Le proposte della Sinistra, tendenti a una violenta sollevazione del popolo, furono respinte dalla maggioranza. Nondimeno il movimento in favore della costituzione imperiale assunse in Sassonia, nel Baden e in altri Stati un carattere rivoluzionario. I repubblicani e gli ugualitari confidavano di avere la forza di diventare il potere dominante, ma erano dovunque la minoranza, e tutti i loro sforzi non riuscirono a nulla.

La notizia delle nuove battaglie sulle barricate provocò anche nella Chiesa di San Paolo scene violentissime. E mentre la Sinistra pretendeva protezione per i campioni della costituzione imperiale, i gruppi moderati rifiutarono assolutamente di pigliare le parti degli insorti.
Numerosi deputati, richiamati dai loro Governi, abbandonarono Francoforte. La Sinistra, lasciata quasi sola, ottenne, per essere più vicina al movimento rivoluzionario nel Mezzogiorno della Germania il trasferimento del parlamento a Stoccarda, ma solo circa cento deputati, fra cui anche il canuto Uhland, vi si recarono.

Ma quando questo "parlamento del mozzicone" volle riunirsi il 18 giugno per la prima tornata, gli accessi all'aula delle sedute erano già occupati dai militari, e i deputati furono costretti dalle sciabole sguainate a separarsi.
Che triste fine di una assemblea, che alla sua inaugurazione era stata salutata da così superbe speranze!

L'alta marea dell'entusiasmo per una patria unita e libera calò; non c'era più da pensare a uno Stato popolare tedesco, ed anche la fede in uno Stato tedesco appariva di nuovo ai circoli dirigenti, come dopo la guerra d'indipendenza, un vero scandalo.

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201. 10) - LA SECONDA REPUBBLICA FRANCESE (1848-1852) > >

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