-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

L'EUROPA DOPO DUE RIVOLUZIONI - ( 1849 - 1871 )


202. 11) - LA REPRESSIONE DEL MOVIMENTO NAZIONALE
IN GERMANIA, IN AUSTRIA, IN UNGHERIA, IN ITALIA


L'inutile vittoria degli Ungheresi al Castello di Offen
E inutili in Italia le vittorie di Carlo Alberto dopo le "giornate"


GERMANIA, AUSTRIA, UNGHERIA


Come abbiamo visto in precedenza, Federico Guglielmo IV aveva rifiutato la corona imperiale offertagli dal parlamento di Francoforte, ma tuttavia non volle, come ebbe a dire, «in nessun modo gettare il manico dietro alla scure», ma invece proseguire a lavorare «in via legale» all'opera dell'unificazione tedesca.
Il suo desiderio, come egli scriveva al Re Massimiliano II di Baviera, mirava ad ottenere il potere centrale provvisorio dai capi coronati della Germania. «Qui sta, secondo la mia convinzione, la fine del predominio della rivoluzione e il principio della vittoriosa lotta contro la rivoluzione medesima. Con il conferimento della delegazione per parte dei legittimi sovrani, il Governo della Gernamia si trova dove non si trovava più da un anno, cioè, in alto»!

Ma questa unione, così Federico Guglielmo chiamava la vagheggiata raccolta dei prìncipi tedeschi sotto l'egemonia prussiana, non portò minimamente a un risultato soddisfacente, come non vi aveva portato il movimento venuto su poco prima dalle classi popolari.
Il Re Massimiliano nutriva per il suo intelligente cognato rispetto e ammirazione, ma non voleva saperne di una diminuzione dei suoi diritti sovrani; né diversamente la pensava Guglielmo del Württemberg: e pure i Re di Sassonia e dell'Annover recalcitravano a percorrere la via tracciata dalla Prussia.

Con tutto ciò si costituì, quale risultato della conferenza berlinese del 26 maggio 1849, la «lega dei tre Re» , «per la conservazione della sicurezza esterna ed interna della Germania», una specie di restaurazione della lega dei prìncipi del 1785.
Il Governo imperiale era costretto a stare quieto davanti al formarsi di uno Stato federale tedesco senza l'Austria, perché doveva usare tutte le proprie forze per domare la rivoluzione in Ungheria, e poteva rimanere tanto più calmo, in quanto non c'era da dubitare che la vana opera d'unificazione non sarebbe stata di lunga durata.

Il ministro annoverese conte Benningsen confessò apertamente all'inviato inglese che l'Annover aveva assecondato i desideri prussiani soltanto perché da tutta quella faccenda non si sarebbe ricavato nulla, e altrettanto il conte Beust dichiarò all'inviato inglese a Dresda che gli era stato obbligato ad entrare nella lega dalla dura pressione della Prussia e dal minaccioso movimento nel proprio paese, ma credeva d'essersi acquistato un merito per la buona causa avendo a tempo opportuno ammonito la Baviera.

Le truppe prussiane resero, è vero, preziosi servizi ai Governi della Germania meridionale nella occasione della repressione della rivoluzione nel Baden e nel Palatinato renano con i fatti d'arme di Waghausel e di Durlach, e i capi dei partiti nazionali e liberali, radunati a Gotha, nel giugno 1849, chiesero l'accesso al progetto di costituzione prussiano, ma appena con la vittoria dell'Austria in Italia si offriva la possiblità che il "castello imperiale" di Vienna si interessasse energicamente delle faccende tedesche, la Sassonia e l'Annover si ritirarono «dalla lega dei tre Re».

La piega dolorosa della questione dello Schleswig-Holstein offrì un'occasione gradita per attaccare la Prussia. La guerra con i Danesi era stata condotta con buon successo tanto per terra dai contingenti prussiani, bavaresi, sassoni e assíani, quanto per mare dalle poche navi tedesche disponibili, ma il Governo prussiano cominciava a aver paura delle sue vittorie.

Lo Zar Nicola detestava addirittura l'appoggio ai ribelli dello Schleswig-Holstein, e già i modesti inizi di una potenza marittima tedesca suscitavano in Inghilterra preoccupazioni per la pericolosa concorrenza. Egli non conosceva questa bandiera, fece dichiarare a Brema il Palmerston, quando dalle batterie di Helgoland fu fatto fuoco contro dei vapori da guerra tedeschi.

Stanca dei continui rimproveri russi ed inglesi, la Prussia seguitò a partecipare svogliatamente alla lotta e agli occhi dei patrioti tedeschi ebbe la colpa della grave sconfitta dei ribelli dello Schleswig-Holstein davanti a Fridericia.
Le accuse levatesi in parlamento e nella stampa produssero solo la conseguenza che il Governo prussiano accettò un progetto di mediazione inglese, che lasciò di nuovo ai Danesi i ducati dell'Elba, sia pure al prezzo di un'amministrazione separata per lo Schleswig.

I cattivi risultati della politica del Governo prussiano avevano fortemente diradato gli amici dei disegni accentratori di Federico Guglielmo. Con tutto ciò nel marzo 1850 furono compiute in Prussia e negli Stati minori rimastile fedeli le elezioni per la nuova «camera popolare»; il 20 marzo 1850 fu aperto ad Erfurt il «Parlamento dell'Unione». Ma per quanto il signor di Radowitz, l'uomo di fiducia di Federico Guglielmo IV, perorasse magnificamente in favore della necessità del risorgimento della Germania, nella stessa Berlino tutta l'opera per la formazione dell'Unione fu guardata dal partito conservatore monarchico come un errore della politica prussiana, mentre al Re medesimo dispiaceva tutto ciò che poteva interpretarsi quale opposizione alla veneranda casa imperiale.

Ad Erfurt fu, è vero, preparata una nuova costituzione per la Germania, ma non c'era da fare sicuro assegnamento sulla sua accettazione neppure per parte degli Stati minori. In un congresso di prìncipi, convocato a Berlino da Federico Guglielmo, apparve chiaramente su quali deboli basi poggiasse l'Unione. D'altre parte il timoniere della politica austriaca, il principe Felice Schwarzenberg, seppe astutamente contrariare i disegni prussiani sollecitando la restaurazione della costituzione federale, decaduta nel corso della rivoluzione.

Il 1° settembre 1850 fu riaperta la dieta federale a Francoforte; da principio però vi si fecero rappresentare soltanto l'Austria, gli Stati del centro e la Danimarca Holstein. Al tempo stesso anche il ministro bavarese von der Pfordten e altri statisti tedeschi si occuparono di progetti di riforma, ma non occorre fermarsi su queste aspirazioni e su queste proposte; erano tutte quante degli aborti.
Si trattava per l'avvenire della Germania, come già appariva ai politici chiaroveggenti, del dualismo fra le due grandi Potenze tedesche.
La questione costituzionale dell'Assia parve portasse ad un aperto conflitto. Un tentativo del ministro dell'Assia elettorale von Hassenpflug, che dalla voce popolare era chiamato «odio e maledizione degli Assiani», di abolire la costituzione del 1831, era andato a vuoto dinanzi all'ostinata resistenza della giunta degli Stati.
Allora lo Hassenpflug decretò lo stato d'assedio nel paese.

Ma quando anche l'esercito assunse un contegno frondista, il principe elettore Federico Guglielmo col suo ministro abbandonò l'Assia, e ricorse all'assistenza della dieta federale contro i suoi sudditi.
Il 21 settembre 1850 fu deciso in nome della confederazione di prendere tutti i provvedimenti necessari per ristabilire la legalità nell'Assia elettorale.
Ma siccome l'Assia elettorale almeno nominalmente era tuttavia membro dell'Unione, la contesa scoppiata fra il principe elettorale e i suoi Stati apparteneva alla giurisdizione del tribunale arbitrale dell'Unione stessa. Ora si doveva dimostrare, se il capo supremo della nuova federazione aveva la forza e la volontà di respingere un'intromissione ingiustificata.

È caratteristico delle vere condizioni della politica tedesca che ambedue le parti invocarono l'aiuto dello Zar Nicola.
Poichè l'unione poggiava su una base costituzionale, la sua esistenza all'autocrate era già odiosa; quindi si capiva benissimo da sè che lo Zar nella questione dell'Assia costituzionale parteggiasse in favore della dieta federale.

A Berlino le opinioni dei ministri erano divise. Il conte di Brandeburgo, che aveva trattato con lo Zar in Varsavia, ammoniva energicamente dinanzi al pericolo di una rottura con le Potenze imperiali: il Radowitz chiedeva l'immediata mobilitazione; la maggior parte degli altri ministri contestavano la sua richiesta, sebbene il principe Guglielmo di Prussia esigesse un contegno energico, e le tendenze belligeranti degli elementi militari si palesassero con turbolente manifestazioni.

Il Re non si poteva nascondere che la sua malleabilità in quel momento significasse un'umiliante sconfitta; ma la sua preoccupazione di spingere del tutto lo Zar nel campo austriaco prevalse su tutte le altre considerazioni. La «flessibilità» di Federico Guglielmo IV, lodata dal Ranke, non era in fondo che debolezza. Egli «col cuore spezzato» congedò il Radowitz; il 3 novembre il barone Ottone di Manteuffel assunse il ministero degli esteri, e proprio lo stesso giorno inviò allo Schwarzenberg una nota, che tenne conto di tutti i desideri dell'Austria e in compenso chiese solo la cessazione degli armamenti austriaci.

L'esercito prussiano fu, è vero, mobilitato, ma il Manteuffel dichiarò scusandosene coll'inviato austriaco che quel provvedimento mirava solo a calmare l'opinione pubblica. Nel frattempo le truppe bavaresi, incaricate dell'esecuzione federale, erano entrate nell'Assia elettorale e lo stesso avevano fatto quelle prussiane per proteggere gli Assiani fedeli alla costituzione.

L'8 novembre, a Bronzell, avvenne uno scontro d'avamposti. Per fortuna in quel giorno non semplicemente i politici dirigenti furono di poco rilievo, ma anche le vittime della politica. Furono feriti soltanto un paio di cacciatori austriaci e il cavallo di un ussaro prussiano (« Il cavallo bianco di Bronzell »).

Mentre da parte della Prussia la decisione di non abbandonare la via diplomatica toglieva ogni energia, lo Schwarzenberg compieva un atto risoluto avvertendo il Prokesch di chiedere i suoi passaporti, se non venisse ordinata subito la ritirata dei Prussiani dall'Assia.
Il Manteuffel sperava ancora di evitare questa vergognosa sconfitta con il sacrificio dell'Unione.

Il 15 novembre la Prussia nella riunione dei prìncipi propose l'abrogazione della costituzione del 26 maggio, cosicchè l'Unione si sciolse silenziosamente. Lo Schwarzenberg con tutto ciò insisteva sull'immediato sgombro dell'Assia, mentre anche Federico Guglielmo in un discorso del trono dichiarava che avrebbe difeso, se era necessario, con le armi il suo buon diritto.

Il duello decisivo sembrava sovrastare inevitabilmente; però il Re cedette di nuovo supplicando il giovane re Francesco Giuseppe a permettere, per risolvere pacificamente la questione, un convegno personale del Manteuffel con lo Schwarzenberg.
È una pura leggenda che il ministro imperiale al ricevere il dispaccio uscisse nella sarcastica frase: «Questa Prussia prima bisogna umiliarla e poi distruggerla»!
Certo é che lo Schwazenberg non si recò volentieri ad Olmütz e che avrebbe preferito una decisione con le armi. Più tardi disse al Beust in Dresda: «Ella avrebbe preferito che ci fossimo battuti: anch'io!»

Il 28 novembre i rappresentanti dell'Austria e della Prussia si riunirono nell'albergo della corona a Olmüt. Il risultato delle trattative fu l'incondizionata accettazione delle pretese austriache. La Prussia prestò il suo consenso all'esecuzione federale nell'Assia, all'assoggettamento dello Schleswig-Holstein alla corona della Danimarca, e al ristabilimento dell'antica costituzione federale.
Era una eccessiva illusione, quando Federico Guglielmo cercava di persuadere sè stesso che la convenzione di Olmütz era una grande fortuna per tutti gl'interessati, poiché, egli disse all'ambasciatore inglese lord Westmoreland, «così é stata impedita la vittoria della Prussia sull'Austria: vittoria che, data l'interna scissione della monarchia austriaca, sarebbe stata inevitabile».

Ma solo pochi in Prussia professavano una simile opinione. Fu accolta con dolore ed ira la notizia che lo Stato di Federico il grande, invece di cavar la spada per il suo onore violato, aveva mendicato solo il permesso di appoggiare lo Hassenpflug nella punizione del popolo assiano e la Danimarca nell'oppressione dei ducati elbani.
La Prussia aveva sofferto a Olmütz una disfatta più vergognosa che le giornate di Jena. La speranza di un più degno assetto della Germania secondo l'idea nazionale era sfumata; la santa alleanza, ma anche il predominio dell'impero russo sull'Austria e sulla Prussia eran ristabiliti in tutta la loro pienezza.

Anche le conferenze a Berlino e a Dresda "graziosamente" concesse dall'«angelo Protettore e Pacifico dell'Austria» - come tale fu - lo Schwarzenberg - celebrato in indirizzi gratulatorii di città austriache - non miravano ad altro che ad un modesto ritorno all'antica costituzione federale.

La dieta federale di Francoforte riprese nel maggio del 1851 la sua efficacia; con essa ritornarono l'antica contesa fra il partito austriaco dei grandi Tedeschi, le idee dell'Unione prussiana, e le aspirazioni trialistiche degli Stati secondari. Lo Schwarzenberg raccolse il maggior trionfo mediante il trattato di alleanza, concluso in Dresda, secondo il quale la Prussia garantiva per tre anni all'Impero austriaco i suoi possessi italiani seriamente pericolanti.

Andarono soltanto a vuoto le fatiche dello Schwarzenberg per distruggere la lega doganale: prezioso profitto per l'avvenire della Germania!
L'Austria forse non avrebbe ottenuto così meravigliosi buoni successi, se nel dicembre del 1848 non fosse avvenuto un cambiamento di regno. Il principe Schwarzenberg, l'anima del «forte Governo», che si era assunto come impegno di schiacciare la rivoluzione, il suo cognato principe Windischgratz, il «liberatore» di Vienna, e l'ambiziosa arciduchessa Sofia, la moglie dell'arciduca Francesco Carlo, il secondo figliolo dell'Imperatore Francesco I, non potevano chiudere gli occhi alla considerazione che un debole e inerte Governo di un vegliardo era impari alle tempeste minaccianti ogni ordine statale e monarchico.
Tutti costoro indussero l'Imperatore Ferdinando del tutto scoraggiato fin dalla sanguinosa giornata del marzo, ad abdicare in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe, figlio dell'arciduchessa Sofia.

Il 2 dicembre 1848 avvenne in Olmütz l'atto solenne dell'abdicazione. «L'ho fatto volentieri»! disse il bonario e vecchio Imperatore, mentre abbracciava il nipote. Chi avrebbe creduto in quei giorni tempestosi che quel giovane principe per sessanta anni sarebbe riuscito a tenere insieme, sebbene non senza dolorose perdite, le parti varie dell'Impero austriaco, tendenti di continuo a separarsi!
Lo stesso mutamento di regno dovette subito esser difeso contro pericolosi nemici. L'Ungheria, che già, dopo il manifesto imperiale contro il Kossuth del 7 novembre, si era incamminata sulla via della ribellione, dichiarò estorta l'abdicazione di Ferdinando e invalida la salita sul trono di Francesco Giuseppe. Il 13 dicembre uscì l'editto nazionale contro Francesco Giuseppe, detto il «rivoluzionario e Pubblico nemico».

In nessun Stato d'Europa un unico personaggio esercitò un influsso così decisivo nell'andamento degli eventi, come Luigi Kossuth in Ungheria. Per opera sua fu avviato e compiuto il violento mutamento del 1848; a lui deve tutto il nazionalismo magiaro e le conquiste, superanti ogni aspettativa dell'età contemporanea, quantunque la rivoluzione finisse da ultimo con una disfatta, .

Solo allo spirito ardente del Kossuth poteva riuscire di condurre alla vittoria le idee democratiche, in uno Stato di impronta così aristocratica, e unicamente con l'aiuto di quelle poteva conseguirsi combattendo la supremazia per la stirpe magiara. Già nel 1847 fra il Governo e gli Stati si era giunti a un serio dissidio intorno alla imposta leva militare, intorno alla riforma dell'ordinamento urbano, intorno all'unione doganale con l'Austria e altri problemi.

La contesa divampò ancor più violenta, giacché la rivoluzione del febbraio a Parigi, l'insurrezione a Vienna ebbero trascinato in una appassionata agitazione anche le associazioni dell'opposizione ungherese.
Il 12 settembre il Kossuth, dichiarandosi dittatore, chiamò la patria alle armi; la formazione di un regno d'Ungheria, separato dall'impero d'Austria, doveva essere il premio della lotta.
L'assassinio del generale imperiale Lamberg al ponte pensile fra Pest e Ofen per opera di una folla di fanatici (28 settembre) dette il segnale dello scoppio dell'insurrezione.
Le truppe imperiali furono battute in parecchi scontri; in tal modo aumentò il coraggio dei partigiani del Kossuth. L'ascesa poi sul trono di Francesco Giuseppe dette alla sollevazione anche una specie di colore legale, poiché i Magiari potevano invocare il principio essere impossibile disporre del loro trono senza consultare la nazione ungherese.

Dopo battaglie di esito vario la campagna invernale terminò con la completa vittoria degli "honved". Il 14 aprile 1849 il Kossuth annunziò alla dieta in Debreczin l'indipendenza dell'Ungheria insieme col principato di Transilvania e con i regni uniti di Croazia, Slavonia e Dalmazia; la dinastia d'Asburgo-Lorena fu dichiarata priva di tutti i suoi diritti e bandita per sempre dal regno ungherese.

Dopo l'espugnazione del castello di Ofen il 21 maggio l'intera Ungheria era libera. Allora però comparve un avversario più potente: lo Zar Nicola, per preservare il suo impero dal contagio rivoluzionario, fece avanzare le sue truppe sotto il comando del Paskievic in Ungheria.
Anche nel paese stesso c'erano molti avversari della dichiarazione d'indipendenza: fra questi si trovava pure il vittorioso condottiero, il difensore del paese, Arturo Goergey. Da lungo tempo avverso allo «smargiasso» Kossuth, si unì con altri amici della pace del "partito dei magnati".
Il dissidio fra il Governo e la direzione dell'esercito doveva naturalmente operare svantaggiosamente nell'andamento della lotta. Ben presto la causa ungherese era da considerarsi disperata; di fronte agli honved stavano forze austriache e russe più che doppie.

Il grande servigio dello Haynau verso l'Austria fu che egli con una serie di colpi velocemente diretti ebbe ragione degli insorti, prima che il Paskievic entrasse nella lotta. Con tutto ciò il frutto della vittoria cadde in mano ai Russi. Il Kossuth fuggì sul suolo turco, dopo aver sotterrato la corona regia di Santo Stefano presso Orsova. Il 13 agosto il Goergey col suo esercito si arrese ai Russi sul campo di Vilagos.
Era l'unico modo d'impedire un ulteriore inutile spargimento di sangue; ciò nonostante l'eroe di Ozora e d'Ofen apparve da allora in poi un traditore agli occhi del partito nazionale.

Dopo la repressione dell'insurrezione fu decretato un illimitato dispotismo militare nel paese domato. Nella storia dell'Austria non é raro notare un immediato succedersi di indolenza a lasciar correre oppure di esagerata repressione.
Il Generale d'esercito Haynau procedette contro tutti, la nobiltà, la borghesia e i contadini con severità draconiana. L'esercito ungherese fu sciolto e incorporato in reparti austriaci. Fu annunziato che la costituzione austriaca del 4 marzo 1849 avrebbe vigore anche per l'Ungheria e per i paesi uniti, ma parti notevoli di quella (a scapito dell'Ungheria) vennero poco dopo abrogate con autografi imperiali; il 31 dicembre 1851 fu abolita la costituzione generale dello Stato, e fu sostituita da un energico sistema governativo assoluto tutto accentrato a Vienna.

GLI EVENTI IN ITALIA

Sotto l'influsso del movimento liberale, che si agitavano in tutta l'Europa, il malumore per l'oppressiva signoria straniera anche nel regno lombardo-veneto, come fu già detto, si era sfogato in un'aperta rivoluzione.

 

Carlo Alberto di Sardegna dopo vari proclami....

... fattosi campione della indipendenza e sguainata la spada era giunto vittorioso (ma con inspiegabile ritardo) quasi sotto Verona, dove si era chiuso il comandante delle truppe imperiali, l'ottantaduenne Radetzky.
Qui egli stava, sicuro tra le fortezze del Quadrilatero, quando i nuovi croati misero a sua disposizione le truppe del Nugent. Si riprese la lotta. Ma se lo spirito e il valore dei piemontesi e anche dei volontari rimasti fedele alla causa nazionale, non erano mutati, mutati molto erano ormai il rapporto delle forze contrapposte e le condizioni politiche dei vari stati della penisola. La fortuna volse le spalle a Carlo Alberto sui colli Berici presso la eroica Vicenza.

La vittoria di Vicenza (10 giugno 1848) restituì agii austriaci la Venezia; poi dopo una seconda vittoria a Custoza (25 luglio 1848) le bianche divise poterono rientrare in Milano, che nel marzo avevano dovuto sgombrare come fuggitivi. Francia e Inghilterra offrirono la loro mediazione; pero Carlo Alberto, che i patriotti italiani ancora poche settimane prima avevano celebrato come la spada d'Italia, il Re liberatore, e che dopo la disfatta stigmatizzarono quale traditore, decise pochi mesi dopo di continuare la lotta.
Il Radetzky seppe dare ai suoi movimenti l'apparenza di volersi mantenere sulla difensiva nel cerchio delle fortezze; ma in silenzio prese tutte le disposizioni per gettarsi sul fianco del nemico con una furia sorprendente.

A Novara si venne il 23 marzo 1849 alla battaglia decisiva. La sfortuna si volse nuovamente contro Carlo Alberto. Sulla sera presso il canale della Bicocca fu spezzata l'ultima resistenza dei Sardi. Il Re si offrì bersaglio alle batterie nemiche, ma la morte disdegnò il suo olocausto.
Una domanda d'armistizio fu dal Radetzky respinta. Allora Carlo Alberto decise di agevolare al paese, mediante la sua abdicazione, l'accoglimento delle umilianti condizioni; lasciò il Governo al figlio maggiore Vittorio Emanuele e andò in volontario esilio ad Oporto, dove morì poche settimane dopo eroe sfortunato del Risorgimento Italiano; spazzata via l'infamante accusa di tradimento, divenne anzi il martire dell'idea unitaria.

Quanto più gravoso il regime poliziesco si consolidò di nuovo nelle province italiane, tanto più ardentemente i patrioti aspettavano non già, come prima, da un libero Stato popolare, ma sebbene dalla monarchia nazionale, dalla casa piemontese, la redenzione.
Al vecchio Radetzky e alle sue truppe valorose non era dovuto soltanto la salvezza dell'impero austriaco; tutti i seguaci della monarchia legittima vedevano in lui il glorioso domatore della rivoluzione, il campione della santa alleanza.

In relazione agli avvenimenti del 1849 merita d'esser ricordato che Federico Guglielmo IV concesse al vincitore di Novara il più alto ordine prussiano e che pure la guardia prussiana gli inviò un indirizzo d'omaggio.
Nel suo ringraziamento il Radetzky ricordò la fratellanza d'arme nella guerra di liberazione. Certo in quell'occasione non si rammentò che il Radetzky in un memoriale, composto subito dopo la grande battaglia di Lipsia, intorno alla distribuzione dei compiti militari fra gli alleati, espresse la convinzione che i Prussiani fossero «così, come allora si palesavano, le truppe meno desiderabili per la futura pace».

In Italia, da tempo era ormai apparso esser stata una illusione quella del Gioberti e del partito riformatore di aver sperato che il papato, conciliatosi con lo spirito dei tempi nuovi, compiesse l'unificazione dell'Italia.
Il Papa Pio IX non sarebbe potuto uscire anche volendo dalla torre della tradizione. Quando la rivoluzione di Parigi ebbe compiuto il suo giro trionfale attraverso l'Europa anch'egli, come abbiamo veduto, aveva acconsentito a concessioni che assomigliavano a una costituzione e aveva anche mobilitato contro l'Austria i suoi soldati.

Ma poi la sua stessa qualifica apostolica di capo di tutti i popoli gli aveva impedito di partecipare alla guerra. Così, nonostante la costituzione non aveva potuto dare nessuna partecipazione laica al Governo.
Fallita l'impresa di Carlo Alberto anche a Roma vi fu una ripresa di politica reazionaria che provocò una straordinaria agitazione. Per placare l'opinione pubblica fu chiamato alla testa del ministero il liberale conte Rossi, il quale si adoprò onestamente anche a conciliare l'autorità pontificia e la libertà costituzionale; ma ormai non era più possibile soddisfare il partito radicale.
Il 5 novembre il ministro fu dall'anarchico Costantini pugnalato sulla scala della cancelleria; Papa Pio dovette dinanzi al contegno del basso popolo ormai fanatizzato fuggire a Gaeta in carrozza in compagnia dell'inviato bavarese conte Spaur.

Subito fu proclamata in Roma la repubblica democratica, nella quale il Mazzini, l'Armellini, e il Saffi assunsero la dittatura. L'anima del triurnvirato fu il Mazzini,il radicale rivoluzionario, prodigiosamente attivo, inesorabile verso sé stesso e gli altri, il quale era infiammato, come il Rosmini, il Balbo e l'Azeglio, dal più puro amore d'Italia, ma considerava come unica meta degna una libera repubblica.
Forse il nuovo regime si sarebbe consolidato a Roma, se il Papa fuggiasco non avesse trovato un potente difensore in un ex conpagno dei Carbonari, nel nuovo presidente della repubblica francese, Luigi Napoleone.

Mentre lo zio un tempo aveva fatto portar via da Roma come prigioniero il venerando Pio VII, il nipote mise a disposizione del capo supremo della Chiesa le armi della Francia, quantunque il Ledril Rollin lo accusasse per questo nell'assemblea nazionale quale traditore della patria e dell'umanità.
Se egli espresse la speranza che i liberali romani stessi avrebbero ricevuto i fratelli latini come salvatori dal giogo dell'anarchia, non si trattava che di un'illusione. Quando il corpo di spedizione francese sotto l'Oudinot marciò contro Roma, l'assemblea nazionale romana incaricò il triunvirato di rispondere con la forza alla forza.

Quantunque la città fosse protetta quasi soltanto da mura mezzo cadenti senza fossati e fortificazioni avanzate, i difensori opposero una valorosa resistenza. In questa occasione per la prima volta si presentò sul proscenio della storia europea Giuseppe Garibaldi, l'uomo schietto dai grandi, calmi occhi, l'inarrivato maestro della guerra di bande, il più famoso condottiero dell'età nostra. Un uomo, come il Triestine lo proclama, che era certo l'unica figura storica degna di confronto con Giovanna d'Arco.
In Roma Garibaldi rivelò subito quell'efficacia fascinatrice con cui egli seppe trasformare giovani e vecchi, ricchi e poveri in ardenti patrioti, e in difensori della patria pronti al sacrificio.
L'assedio di Roma durò un mese intero. Solo dopo che ai Francesi fu riuscito d'occupare nottetempo i punti più importanti delle linee di difesa, il municipio intavolò trattative; Garibaldi si ritirò precipitosamente con qualche migliaio di uomini per la porta San Giovanni; il 3 luglio i Francesi entrarono in città; la proclamazione contemporanea della costituzione repubblicana sul Campidoglio non fu che una vana commedia.

L'Oudinot inviò al Papa le chiavi della città conquistata, però soltanto l'anno successivo, quando fu compiuta l'opera di vendetta contro il partito nazionale radicale, nonostante l'opposizione delle truppe d'occupazione francesi, papa Pio IX tornò a Roma, accolto dal popolo in tetro silenzio.

Il regno delle Due Sicilie sperimentò il più rapido trapasso da una politica costituzionale a una politica dinastico-assolutista. Per impedire il trapianto della rivoluzione siciliana a Napoli, il Re Ferdinando II fece innalzare nella sua capitale il tricolore italiano; fu convocata una rappresentanza popolare, anzi, fu perfino inviato un corpo di truppe per ripulire il giardino d'Esperia dei barbari invasori.
Ma la conversione non fu di lunga durata. Quando apparve chiaro che il Radetzky non era inferiore al Re di Sardegna, alleato con la rivoluzione a Milano e Venezia, e che il dominio dell'Austria in Italia non era ancora finito, il Re Ferdinando (oltre che ritirare il modesto appoggio ai Lombardi-Veneti) revocò le sue promesse liberali; ed i frequenti tumulti che seguirono vennero repressi con l'aiuto della fedele e valorosa guardia svizzera.
Nel settembre Messina fu bombardata contemporaneamente dalla cittadella e dalla flotta regia. Mezza città andò in cenere.

La condotta della guerra sprezzante ogni uso bellico indusse le Potenze occidentali ad offrire la loro mediazione, che però non riuscì. Nella successiva primavera il Generale Filangeri sopraffece i Siciliani e la legione straniera, comandata dal polacco Mieroslavski, a Catania.
Il 15 aprile, il vincitore, nominato duca di Taormina e luogotenente della Sicilia, fece il suo ingresso in Palermo, e riuscì ad assoggettare l'intera isola. Dopo la restaurazione dell'antica condizione di fatto nel regno delle Due Sicilie fu abolita ogni traccia rimasta di costituzionalismo, ma con i ribelli, eccettuati alcuni caporioni, si usò indulgenza; si rimediò in qualche modo alle finanze completamente rovinate; non era il caso di parlare di uno speciale governo.

Con tutto ciò si mantenne l'odio della popolazione: il regno rimase un centro principale di segrete cospirazioni. Nel frattempo però le armi si posavano; anche nei minori Stati della penisola il sistema conservatore aveva vinto, meno che in Piemonte, dove per la fermezza di Vittorio Emanuele II la costituzione e lo spirito d'indipendenza continuavano.

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