-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

159. I PRODROMI DELLA RIVOLUZIONE - INTRODUZIONE


L'epoca di Luigi XV - Riunione presso la casa di Madame Geoffrin nell'anno 1755
Fra i presenti, Buffon, D'Alambert, Montesquieu, Turgot, Quesnay, Rousseau, Diderot, Maupertius, Helvetius, ecc. ecc. assente Voltaire ma domina in fondo il suo busto.

Soltanto per breve tempo il ministero di Bute in Inghilterra conservò il potere dopo le due paci di Parigi e di Hubertusburg. Bute dominava nella Camera bassa, ma usandola con brutale impudenza, fino alla corruzione palese e fino all'acquisto di voti con denaro, si scavò la fossa da solo; con questi mezzi chi vuole governare non può fare del tutto a meno a lungo andare di un parlamentarismo sovrano.

Offriva abbastanza il fianco ad un attacco per l'irresolutezza, con la quale aveva condotto a termine la guerra dei Sette anni, e curato gli interessi mondiali dell'Inghilterra nella conclusione della pace, e si dica pure (lo abbiamo già accennato nei precedenti capitoli) per avere compromesso il buon nome inglese con la perfidia compiuta verso la Prussia.
Fino allora la fiducia del re, già suo alunno, e le sue molto intime relazioni con sua madre avevano mantenuto il Bute nella sua carica (che lui aveva tolto a Pitt). Ma all'inizio del 1763 Bute stesso vide che la sua parte era divenuta impossibilese non insostenibile ed era quindi finita la sua "avventura"; l'8 aprile diede le sue dimissioni.

Seguì allora un tentativo del re di governare personalmente con il parlamento, lasciando al ministro un ufficio soltanto esecutivo.
Nel 1765 re Giorgio III si trovò al punto di dover richiamare al governo il Pitt. Ma in questa occasione il Pitt fu innalzato al grado di conte di Chatham e con questo gli fu chiusa la Camera bassa. Gli fu così sottratto il terreno tattico, su cui aveva fondato la sua importanza nella storia dell'Inghilterra e fu da lui perduta presso il pubblico inglese anche la popolarità di capo degli «Whigs».

Pitt aveva cinquantotto anni, ma era esaurito di nervi, ed anche le altre sofferenze dell'uomo politico - in fondo quella medesima - lo avevano in questo tempo veramente affranto; bramava di allontanarsi dagli affari, cercando la quiete della campagna, ma poi non riuscì più sopportare quella oziosa quiete e la mancanza di partecipazione agli affari.
Soltanto quando nel 1768 depose il potere, divenne il «Vecchio» e rivide poi ancora splendidi giorni, come oratore sui più rilevanti affari del tempo in Inghilterra, la ribellione delle colonie americane e il trattamento da usare verso di loro.

Col malessere dell'Inghilterra, in parte dissimulato in parte onestamente riconosciuto, cagionato dal suo contegno verso la Prussia, si ricollegano degli avvenimenti, che in sé stessi sono episodici, ma hanno condotto alla redazione di una serie di articoli politici, divenuti celebri senza pari, cioè le lettere di «Junius».
Diede loro la mossa il discorso della Corona inglese del 1763, che con una ingenuità e una fatuità fin allora quasi inaudite parlava della fedeltà conservata dall'Inghilterra a Federico II nelle stipulazioni della pace; quello fu il segnale di uno scoppio di onesta indignazione contro il governo di Giorgio III.

Nel giornale temuto, il «North Briton», il direttore John Wilkes sollevò una severa protesta, nella quale con sufficiente forza di persuasione si sosteneva e si variava il tema «Federico II é stato vergognosamente abbandonato».
Nel corso di questo affare, Wilkes, che del resto era uomo alquanto spregiudicato e tutt'altro che buono, doveva essere imprigionato, poiché lo stesso parlamento si fece strumento di una persecuzione - pur contestata - secondo le leggi inglesi; Wilkes fuggì a Parigi, si arrischiò poi a tornare dopo alcuni anni, fu eletto deputato del Middlesex al Parlamento, che lo cacciò; eletto di nuovo fu di nuovo cacciato; di questi casi, che dettero da fare senza fine ai tribunali e al parlamento, s'impadronirono dunque quelle lettere di Junius.

Erano queste una critica incisiva, condotta con una dimostrazione inconfutabile e brillante contro tutto il sistema governativo e parlamentare di allora, in forma di lettere dirette a varie persone, il cui autore pseudonimo rimase nascosto da un impenetrabile segreto. Egli aveva bensì non solo i più ovvii motivi pratici, ma anche i più rilevanti di ordine morale per non lasciarsi scoprire.
Questo «Philo Junius» era difatti, come si é saputo molto più tardi, un giovane impiegato del ministero della guerra, Sir Filippo Francis, che cercava di farsi strada a danno di quelle stesse persone, da cui contemporaneamente riceveva promozioni e favori.

Le complicazioni, in cui si trovò la madrepatria inglese con le più antiche colonie dell'America settentrionale, e la guerra d'indipendenza, che ne ebbe origine, in uno sguardo retrospettivo hanno l'impronta del tutto prevalente di appartenere ad una «storia americana», che con esse comincia ad avere un carattere proprio; ma di questo periodo di storia la tratteremo nella storia dell'America.
Ma a questo proposito, qui, bisogna dire una parola, che cioè l'Inghilterra ha condotto anche questa guerra con tutto l'aiuto che le fu possibile ottenere di milizie tedesche. In fondo, considerando la cosa freddamente, questi trattati di assoldamento di truppe non erano molto diversi da quelli, che furono stipulati per la campagna nella Germania occidentale durante la guerra dei sette anni.

Allora però quelle truppe furono condotte contro la Francia, e la Germania vi scorse una lotta dei suoi figli contro una potenza vicina e rapace, divenuta sua nemica ereditaria dai tempi di Luigi XIV. Questa volta invece con quei trasporti di truppe, che avevano in sé qualche cosa di vergognoso, ed erano comunemente paragonati in qualche modo alla tratta dei negri verso l'America, si andava oltre oceano per battersi contro i «figli della libertà». Al soldo di un Paese che gridava ai quattro venti di essere la "madre della libertà"

I paesi tedeschi, i quali hanno dovuto sopportare che si fornissero soldati all'Inghilterra a profitto dell'erario dei loro sovrani, sono il Brunswick, dove il duca Carlo (17551780) con la sua corte spendereccia aveva messo a soqquadro la sua amministrazione al punto da dover prendere come correggente per la sua parsimonia il principe ereditario Carlo Guglielmo Ferdinando; l'Assia-Cassel sotto il suo «roi soleil» in miniatura; il langravio Federico (1760-1785); Hanau, dove governava come conte il principe ereditario di Assia-Cassel, Anhalt-Zerbst e Ansbach-Bayreuth. In tutto si fornirono 29.875 uomini, la maggior parte Assiani.

I piccoli principi soldati tedeschi del secolo XVIII, più spesso ricordati, quegli emuli del gran re prussiano, meno per politica che per inclinazione, rimasero estranei a questi fatti; portavano appunto nel loro cuore troppo amore ai loro soldati per offrirli in un simile commercio. Così il valoroso ed egregio Guglielmo di Schaumburg-Lippe, da noi già ricordato a proposito del Portogallo, che trasformò in soldati tutti i contadini del suo piccolo territorio e sul Wilhelmstein nello Steinhudermeer fondò quella scuola militare, il cui discepolo più celebre fu lo Scharnhorst, che la onora abbastanza.
E presso a lui il principe ereditario Luigi di Assia-Darmstadt, al cui territorio autonomo di Hanau apparteneva Pirmasens, allora piccola località in una delle più inospitali regioni dell'altopiano del Palatinato, dove egli teneva i suoi 2400 granatieri, esercitandoli con disciplina spartana; uomo che di vagabondi randagi, faceva degli abili soldati e degli abili calzolai. Poiché la fabbricazione dalle scarpe in Pirmasens, nota da lungo tempo e che oggi costituisce tutta la vita di quella città divenuta ormai notevole, risale alla occupazione manuale accessoria, alla quale il principe ereditario, che più tardi dimorò in Pirmansens anche come langravio, indirizzava i suoi granatieri, i quali portavano poi essi stessi in giro per il paese i loro prodotti per venderli ai villani e ai cittadini.

I sentimenti di Federico verso l'Inghilterra, dopo le sue note manifestazioni, non richiedono più alcuna spiegazione particolare. A questi sentimenti, che il re non si dava la pena di nascondere in nessun modo, piuttosto che ad un effettivo amore per gli Americani, andarono questi debitori del fatto che Federico nel 1777, rifiutando il passaggio, abbia notevolmente trattenuto le truppe mercenarie inglesi, provenienti da Ansbach-Bayreuth, da Hanau e da Zerbst e con questo abbia forse salvato l'indipendenza degli Americani.

Poiché i comandanti inglesi vollero aspettare l'arrivo di questi rinforzi tedeschi sul teatro della guerra, prima che osassero assalire Washington nel «campo della faine» di Valley Forge, e così questi poté uscire da una situazione alquanto scabrosa. La grande irritazione per le offese al diritto delle genti commesse sul mare dagli Inglesi, che muovevano a sdegno tutti gli Stati europei, e prima di tutti la Russia, ha contribuito a indurre Federico a venire anche da solo ad accordi con gli Americani nel trattato di amicizia e di commercio, concluso nel 1785 con i giovani Stati Uniti, il quale naturalmente includeva il riconoscimento della loro indipendenza.

Federico non é il primo sovrano europeo, che abbia fatto ciò; lo avevano preceduto specialmente la Francia e la Spagna, riconoscendo l'indipendenza americana, mentre combattevano già in suo favore. Il trattato non ha però mantenuto quello che Federico si riprometteva, cioè un'esportazione più attiva delle telerie di Bielefeld e della Slesia e di altri prodotti prussiani nell'America del nord, dove l'Inghilterra conservò il suo antico vantaggio.

Si realizzava quindi nei fatti, quello che già, mentre durava la guerra ed anche prima, avevano presagito molte voci spassionate in Inghilterra: che le colonie ribelli non si potrebbero più costringere alla sudditanza dell'Inghilterra; e che se invece si affrancavano, non solo si ristabilirebbero gli antichi profitti commerciali dai turbamenti e dalle interruzioni attuali, ma si accrescerebbero ancora.

Però quello che il trattato prusso-americano accenna nel presente e fa presagire per il futuro, sono gli sforzi di Federico per creare in via diplomatica un procedimento internazionale a favore di un diritto marittimo più umano e in questo s'incontrò col pensiero prediletto di Franklin. Questi sforzi non conseguirono all'inizio dei risultati reali, come neppure l'intesa corrispondente e ben determinata in apparenza delle potenze europee, per porre un termine al diritto del più forte, esercitato dagli Inglesi sul mare.
Poiché più che altrove per compiere qualche cosa sul mare od oltre il mare occorre prima possedere la forza necessaria.

Come poi questa forza avesse mutato nuovamente la situazione, lo fecero ricordare gli Americani stessi, quando dieci anni più tardi, quindi dopo la morte di Federico, doveva esser rinnovato il trattato di amicizia e di commercio del 1785; avevano essi dimenticato tutto quello che prima avevano sostenuto intorno alla immoralità delle violenze marittime, allorché tra le calamità della guerra gli Inglesi s'impadronivano dei bastimenti mercantili provenienti dalla Francia con armi e con munizioni; gli Americani dichiararono allora semplicemente che avevano ormai essi stessi delle navi e non potevano perciò rinunziare all'impiego eventuale della corsa marittima.

VENIAMO ORA ALLA FRANCIA

Il 10 maggio 1774 era morto di vaiolo Luigi XV di Francia. Nessuno della sua famiglia era stato vicino a lui all'inizio della malattia; tutti i suoi familiari, compresa la sua ultima favorita, la Dubarry, si tennero paurosamente lontani e la sua bara fu portata a San Dionigi senza cerimonie e senza solennità. Il giudizio più intimo di Luigi XV sul proprio governo di fronte al crescente disordine delle finanze, al dubbio sempre più aperto della Francia - ed anche delle stesse classi superiori interessate - sulla vitalità del tradizionale sistema monarchico, era stato questo, finchè era in vita lui a ritardare la rovina.
Lo aveva - dieci anni prima - detto anche la Pompadour, morta nel 1764: «Aprés nous le déluge». Ma finalmente ciò conveniva piuttosto a lei che al cristianissimo re di Francia e di Navarra, investito per grazia di Dio di un potere illimitato e perciò del carico di una esclusiva responsabilità.

Luigi XVI era figlio del Delfino, morto nel 1765. Con lui comincia alla Corte una cosa, che non si era più conosciuta da secoli, l'era della virtù, presso a poco nello stesso modo, in cui ne abbiamo segnalato l'annunzio nella vita cittadina. Ed inoltre comincia anche qui finalmente il governo delle buone intenzioni, non però quello di un dispotismo, che procede vigorosamente e tende ad uno scopo, ma di quella intenzione bonaria e tiepida, che non riesce a divenire una forza creatrice ed a vincere le resistenze esterne ed interne; incomincia il governo di un monarca giovane, ventenne, che per un certo tempo vuol rendere felici gli altri uomini e con molto ottimismo crede assolutamente impossibile che questo assunto sia difficile.

Nella sua prima mossa questo nuovo governo cercò di render lieta la nazione, cedendo piuttosto senza riflettere ai suoi desideri, segnatamente e in modo assai significante col ristabilire i « parlamenti ».
Questi parlamenti in Francia non erano corporazioni rappresentative, ma giudiziarie, di origine medioevale, e tenevano ad un tempo il luogo della magistratura permanente.

Erano indipendenti dal governo, in quanto che da Francesco I in poi gli uffici erano venali, e con l'andar del tempo, in aggiunta alla loro competenza giudiziaria, avevano usurpato un certo numero di attribuzioni politiche e fra queste il diritto divenuto tradizionale di opporsi alla validità degli editti reali, rifiutando di iscriverli nei loro registri; questo poteva poi essere conseguito a forza dal re, comparendo personalmente nel parlamento (lit de justice).
Da poco tempo però il potere dei parlamenti in Francia era stato di un sol colpo tolto di mezzo. Quello, che il gran Richelieu aveva inutilmente tentato con la limitazione dei parlamenti, lo fece nel 1771 Luigi XV o meglio il suo ministro Maupeou, liberando da loro il governo per mezzo di una semplice abolizione.

A dire il vero, questo era reso notevolmente più facile in quel tempo per il grande discredito in cui era caduta quella magistratura egoista ed interessata, e in modo del tutto speciale per il colpo, che aveva dato alla loro autorità la lotta di Voltaire contro la giustizia del tempo. L'averli dispensati dalla amministrazione della giustizia fu un atto dell'assolutismo livellatore, che avrebbe dovuto essere molto apprezzato da tutti coloro, che in Francia non erano interessati nei privilegi di quella casta.

Ma per la confusione, che regnava nelle idee, e per un sentimento ingenuo e di nessun valore storico dell'opinione pubblica indisciplinata, era derivato soltanto del chiasso contro la violenza di una monarchia, dalla quale si era purtroppo abituati a ricevere soltanto del male. Così Luigi XVI appunto per presentarsi al pubblico da «liberale», come ora diremmo, ristabilì i parlamenti, che erano tutt'altro che una istituzione liberale, ma anzi gli zelanti oppositori delle riforme, con le quali si sarebbe potuto andare avanti; e ben presto dovevano riconoscersi di nuovo come tali, di modo che Luigi XVI anche da parte sua finì col dover ricorrere alla violenza contro di loro.

Ma nel 1774 Maria Antonietta scrisse alla sua famiglia con molta soddisfazione che suo marito aveva ristabilito i parlamenti e che ormai in Francia nessuno era più infelice. Tuttavia sua madre, così coscienziosa ed accorta conservatrice, le rispose che "l'atto del re di riporre il suo potere in questa vecchia e corrotta corporazione era incomprensibile".

Il re Luigi aveva voluto nominare ministro il giansenista Machault ed aveva già fatto la minuta e preparato la copia di una lettera, che rendeva ragione di questa sua intenzione, descrivendo il valore personale del Machault. Ma all'ultimo momento una delle sue quattro zie, l'imperiosa Madama Adelaide, dietro la quale si nascondeva il confessore exgesuita, lo indusse ad inviare invece quella lettera essenzialmente personale al conte Maurepas ed a nominare ministro costui, il «vecchio pappagallo della reggenza», come lo chiama il Mirabeau padre.

Questo incidente è estremamente caratteristico del carattere del re. Aveva questi in mente quanto vi era di meglio; la tendenza umanitaria, o filantropica e antigesuitica di quel tempo era salita con lui sul trono di Francia; ma il nipote di Luigi XV sentiva del volere, del dovere e della perseveranza personale soltanto il disagio. Era pesante di corpo e di spirito; possedeva interamente il sentimento del dovere di un re, in quanto era sentimento, ma si teneva anche appagato se in certi casi un altro, o un'altra, sapeva strappargli di mano la decisione.

Maria Antonia di Austria, che nel 1770 era divenuta a quindici anni sua consorte, dopo che la sua immagine é stata a lungo sfigurata dalla leggenda rivoluzionaria e poi ritratta in modo estremamente sentimentale dal partito opposto - ci é nota abbastanza intimamente da non molto tempo per la pubblicazione del suo carteggio con la madre e con i fratelli ed inoltre per la corrispondenza confidenziale di Maria Teresa con l'ambasciatore austriaco a Parigi, il conte di Merey, a cui toccò il compito di consigliare in un certo modo, quale rappresentante della madre, la giovane delfina e regina.
Qui ci si presenta assai da vicino e personalmente questa signora, una giovane viennese piena di spirito e di intraprendenza, piena di vita sfavillante, abbastanza accorta ed istintivamente femminile per aver presto indovinato come essa poteva dirigere gli uomini ed anche per sapere in genere con chi doveva farlo.

In tutto questo si poteva dire appena seriamente istruita, di certo meno della maggior parte di quegli esseri femminili, che da tempi più o meno decorosi si erano sollevati alla situazione di favorite dirigenti. Tanto più che l'educazione della giovane arciduchessa era stata molto affrettata in seguito al suo fidanzamento e al suo precoce matrimonio; era stata quindi istruita quasi esclusivamente a parlar francese e ad esser versata in quello che era il «bon ton» della corte di Parigi, e del resto l'abbandono del modo tedesco veniva giustificato con lo scopo primario cui si mirava: l'unione di due potenze.

Qui poi ci viene in mente che Maria Teresa nei suoi maggiori frangenti con la Prussia poteva consolarsi che il suo Giuseppe (fratello di Maria Antonietta) scriveva un francese migliore, specialmente per l'ortografia, che non quel celebrato re di Sanssouci che gli aveva portato via in gioventù la Svevia.
Maria Antonietta era spensierata e di sentimenti leggeri, non però al punto che una vera macchia si trovi nella sua condotta coniugale; però l'avere svariati segreti personali e i suoi piccoli intrighi le piaceva molto ed anche lo scherzare col fuoco, anzi lo scherzare con l'apparenza del pericolo l'eccitava ed essa vi accondiscendeva volentieri.
La sua attività politica era in fondo cosa da dilettante, si dava solo una certa aria d'importanza ma era questa la tipica vanità femminile. Di promuovere una politica veramente austriaca, come le fu rimproverato fin dai primi tempi e fino alla fine, è alquanto falso, essa non ne aveva la capacità, né da Vienna si era mai presa sul serio tale molto vaga aspirazione.

Il suo più intimo critico e censore contemporaneo é stato sempre lo stesso Giuseppe II, anche se quando visitò di persona Parigi non si sottrasse al fascino della sorella nel suo splendore regale e se durante la sua presenza a corte ne divenne l'amico più affettuoso. Se Maria Antonietta in occasione della festa dell'incoronazione a Reims concesse un incontro ed un colloquio allo Choiseul, rovesciato dal potere ed esiliato sotto Luigi XV dal circolo della Dubarry - atto alquanto rischioso, di fronte al contegno correttamente poco favorevole del re, - ciò lo fece senza un piano prestabilito, ma soltanto per un'ingenua prova di fiducia e di affezione verso l'uomo, che aveva concluso l'alleanza austro-francese e il suo patto matrimoniale.
Ma appunto in questo modo la regina aveva i suoi piccoli capricci, ed inaspettata é la parola maligna «l'Autrichienne», maligna in un tempo, in cui non solo l'opinione pubblica in generale, ma anche lo stesso Luigi XVI personalmente avevano riconosciuto nella tendenza austriaca la radice di ogni male politico e delle storture, nelle quali la politica francese si era da tanto tempo ingrovigliata e avvinghiata come una malaerba, senza che si riuscisse a staccarsene o che se ne avesse la ferma risoluzione a farlo.

Maurepas (il ministro) non aveva soltanto il dono dello spirito cortigiano, che rendeva temuti i suoi epigrammi e che in un tempo assai remoto, nel 1749, gli era costato la perdita del portafoglio di ministro, quando la Pompadour se ne sentì offesa. Possedeva anche la pratica degli affari ma non recando pienamente al ministero un proprio programma e non essendo uomo da farsene uno, pensava naturalmente che la Francia in quella favorevole occasione del cambiamento di sovrano potesse ancora fare un esperimento dalle nuove idee.

Cosicchè quando fu proposto il nome di ANNE ROBERT JACQUES TURGOT (1727-1781), Luigi XVI acconsentì di cuore alla sua nomina. Così l'uomo, celebrato da lungo tempo e a ragione dall'opinione pubblica e che era del tutto isolato in quella generazione, la quale aveva avuto occasione di sperimentare già nella pratica i sentimenti umani e moderni che lo guidavano, fu posto a capo dell'amministrazione delle finanze in mezzo al giubilo sincero della Francia, da lui governata.

Ben ci dipinge la speranza e la soddisfazione destata da questa nomina nei circoli degli amici dei «lumi» quello, che scrisse al Voltaire il marchese di Condorcet, l'ardente partigiano degli enciclopedisti e il geniale precursore del positivismo del Comte: "che (con Turgot) si sentiva come se già stesse sotto la protezione della costituzione inglese".

Il nome dell'Inghilterra per tutti quei Francesi aveva la reputazione, non soggetta ad offuscarsi, di una perfetta felicità politica, e in questo non si lasciavano minimamente turbare, anche se qualche volta, come quando Giovanni Wilkes cerco rifugio in Francia, toccava loro di vedere un poco di realtà inglese non sempre del tutto rosea.

Turgot, come intendente provinciale di Limoges, era divenuto sotto molti aspetti il benefattore di una delle province più trascurate, e fino a quel tempo aveva rifiutato ogni promozione per restare là al suo posto. Aveva compiuto una diminuzione e una giusta distribuzione della «Taille» (imposta) nella sua provincia, aveva abolita la prestazione di servizio personale per la costruzione di strade e ristabilita nella giurisdizione del suo ufficio la libertà del commercio dei cereali, tutte conquiste sorprendenti, che aprivano una breccia o delle screpolature nel sistema allora dominante, e che il suo buon volere tuttavia seppe conseguire.

Perciò la Francia riconobbe in lui lo scrittore chiaroveggente di tecnica finanziaria e personalmente il fenomeno unico di un alto funzionario, che non accettava mance dai grossi appaltatori d'imposte. Così, dopo un lungo colloquio, che soddisfece molto il re Luigi, egli divenne «controleur général des finance».

Presto Turgot si accinse a fare un lavoro completo. Furono levati di mezzo i dazi interni, che esistevano non in tutte, ma in una parte delle province, e intralciavano tanto l'opera di provvedere le regioni, che soffrivano di carestia, col prodotto delle altre; fu abolito l'obbligo di ricorrere a un certo limitativo mercato, e fu reso libero il commercio dei cereali e delle farine.
Si doveva allora credere che, essendo questa la grossa questione, a cui da lungo tempo si rivolgeva l'attenzione del pubblico e che era stata oggetto di tanti desideri e di tante istanze, la riforma dovesse essere accolta con la massima soddisfazione.

Ma invece si verificò il fenomeno tipico che non si agitarono i soddisfatti, ma gli altri (che perdevano le loro "soddisfazioni"). In questo caso furono gli interessati nell'appalto delle imposte e nell'usura sui cereali, fonte di lauti guadagni; nel movimento messo in piazza da loro si gettò con un opuscolo anche il noto (e interessato) banchiere JACQUES NECKER (1732-1804). Era un giovane commerciante venuto da Ginevra a Parigi, dove aveva dei parenti, e come tanto spesso accadeva agli stranieri in mezzo ai Francesi, che in fondo avevano ottime disposizioni soltanto per i piccoli affari, ma erano molto meno abili nelle imprese grandiose - con un buon successo rapido e straordinario si era acquistato una situazione cospicua ed eminente, quale proprietario di un istituto bancario molto considerato ed influente per la sua solidità e per i suoi capitali. Alla corte di Luigi XV aveva già reso servizi preziosi e adeguatamente ricompensati, ma la sua ambizione non era del tutto appagata da questi riconoscimenti.
In tal modo, da quelli e da questi, fu scatenata un'agitazione contro quei provvedimenti dell'amministrazione finanziaria del Turgot, che soddisfacevano invece un reale desiderio del paese; agitazione che alimentate e strumentalizzate da una falsa demagogia, poi aumentò fino a tumulti e sollevazioni, approfittando dei disagi e degli attriti, che reca con se ogni mutamento radicale di una consuetudine.

Ne ebbe origine la «guerre de farine», che si propagò fino alla stessa Parigi, e come un precoce annunzio di ulteriori avvenimenti, si fecero penetrare nel palazzo reale delle turbe minacciose, che difficilmente avrebbero potuto dire perché fossero così agitate, erano i semplici e ignoranti "manovali della piazza"; e bastò loro un cenno perchè coprissero con le loro grida la voce del re, che parlava al popolo da un balcone.
Frattanto Turgot usciva incolume da questi casi e perseverava impavido nelle sue riforme. Abolì allora in generale le prestazioni di opera dei contadini, di cui principalmente si faceva conto per la costruzione e la manutenzione delle strade, inoltre abolì le corporazioni d'artigiani, ormai invecchiate nelle loro forme e nella loro utilità educatrice, e insieme abolì l'esclusività dei cosiddetti «diritti di maestranza» o «maitrises» nei mestieri.

Tutte queste misure erano rivolte contro il privilegio ed erano contenute appunto nell'orbita delle idee fisiocratiche, divenute rapidamente così popolari. Ma appunto per questo anche i parlamenti da poco ristabiliti, per questa alta missione giudiziario dell'ordinamento, si posero subito a reagire sistematicamente contro la monarchia riformatrice o meglio contro i suoi ministri. Ovviamente - come i "manovali della piazza" - solo strillando, e senza portare nuove idee.

Sarebbe una delle più notevoli intuizioni, che la storia ci possa offrire, se qui noi fossimo in condizione di scorgere il risultato delle mire del Turgot, connesse tra loro logicamente, nella loro attuazione, se questa fosse guidata ad essere più che il principio di un'opera ben presto interrotta. Il mondo delle idee fisiocratiche, nel quale il Turgot viveva, conteneva come ultima conseguenza pratica (in quanto questa era riconosciuta) il decentramento, e quindi, un principio del tutto opposto alla storia precedente ed alle disposizioni nazionali di allora.
Ma Turgot non pensava affatto ad attuare queste idee, adottando meccanicamente le forme inglesi, ma per mezzo di una vera educazione pubblica nella Francia stessa. La trasformazione della costituzione francese con la cooperazione della monarchia e del popolo non solo era riconosciuta apertamente nei piani di Turgot, ma questi mirava ad essa di per sé con tanto maggiore prontezza e decisione, in quanto a stabilire una rappresentanza nazionale occorreva guadagnare tanto tempo e permetterle in certo modo di crescere, adattandosi a tutte le sue funzioni.

Secondo questi piani del Turgot i Francesi dovevano prima di tutto imparare a governarsi da sé stessi o meglio ad influire sul governo per mezzo di rappresentanze comunali locali (e ciò lo aveva già realizzato nella sua Limoges), oltre a queste si dovevano poi formare corpi rappresentativi provinciali e finalmente una rappresentanza generale del regno.
Anche queste corporazioni superiori dovevano esercitare all'inizio soltanto una funzione consultiva per il governo e per i suoi organi, ma in modo che dopo un tempo conveniente questa funzione potesse accrescersi e divenire una competenza legislativa.
Era questo un esperimento, di cui nella Francia di quel tempo non era facile prevedere l'esito ed anche, nonostante tutti vari gradi che si proponeva di seguire, un esperimento molto arrischiato, perché un uomo di fine intuito, come Turgot, non poteva disconoscere che ad onta di ogni limitazione le aspirazioni politiche dei Francesi, divenute ormai impazienti, avrebbero condotto al più presto a richieste ancot più «radicali», anziché ad un lento lavoro pratico di creazione.

Però quell'esperimento era pur sempre meglio che un decisivo «troppo tardi», ed era il solo da cui potesse aspettarsi per trattenere e allontanare l'altra alternativa, cioè la rivoluzione.

Ma anche senza simili riflessioni, proprie di un'indole e di un ingegno così fine, il re non aveva alcuna voglia di seguire il suo ministro. Certamente tutto doveva esser fatto meglio e con maggior giudizio. Tuttavia ciò doveva accadere in un modo patriarcale, come se uno disposto a distribuire dei doni non volesse lasciarseli togliere di mano; quelle idee di Turgot non potevano adattarsi al carattere del re Luigi, lui dal basso non voleva che si mettesse bocca nelle sue intenzioni di render felice il suo popolo.
Se in tale momento un monarca è da altri reso inquieto e geloso rispetto a colui che vuol consigliarlo diversamente, egli considera il suo malessere come la prudenza di una mente superiore. Per queste ragioni Luigi si decise a governare da sé, contrariamente alle idee educative del Turgot, per quanto esse fossero derivate da una sua convinzione fissata e ben elaborata da gran tempo.

Luigi si persuase che erano utopie di un uomo, che voleva certo il bene del popolo, ma che rovescerebbe l'ordine costituito. Scrisse per proprio uso una dettagliata confutazione riservata, e il suo tono eccitato e beffardo, che parodiava burlescamente le parole usate da Turgot, ci mostra molto più una sua pregiudizievole avversione superficiale, piuttosto che delle considerazioni effettivamente a Turgot contrarie.
Riferendosi che la costituzione della Francia non corrispondeva più ai tempi, dati i cambiamenti della sua situazione esterna ed interna, affermava: «Sì, questo é il gran lamento del signor Turgot» e concludeva «Gli uomini delle novità hanno bisogno di una France plus qu'anglaise».

Mentre si esplorava la via, di cui abbiamo detto, si doveva impedire che si accettasse senza esame il parlamentarismo inglese o per un totale arretramento del governo o per una vittoria violenta della nazione sulla monarchia.

Così Turgot il 12 maggio 1776 ricevette il suo congedo. Non fu più ricevuto dal re, ma in compenso re Luigi volle mostrarsi nobile verso di lui, offrendo all'uomo levato così in fretta di mezzo, una pensione molto maggiore di quella che gli sarebeb aspetta come ministro a rfiposo.
E la differenza involontaria del diverso modo di sentire dei "due" si manifesta nel fatto che Turgot la rifiutò, perché desiderava non restare a carico dello «Stato».

Ora il (banchiere) Necker poteva divenire ministro; egli che da lungo tempo si era buttato dagli affari privati in una attività da pubblicista, che richiamava su lui l'attenzione del pubblico, e in un elogio del Colbert, coronato dall'Accademia, si era eretto a difensore del mercantilismo scosso dalle nuove idee.
Quel medesimo re, reso già inquieto dal Turgot, nato da nobile famiglia, accettò allora come salvatore dell' "ancien régime" un uomo nuovo borghese, un protestante, straniero di nascita. Non senza un riserbo caratteristico e che si considerava importante, derivato dall'opposizione latente appunto di questo «ancien régime», Necker divenne non già «contrôleur» delle finanze, ma «directeur», cosa, a cui acconsentì volentieri.

Così dunque la abilità negli affari, veramente grande, di questo finanziere, autore della propria fortuna, fu posta allora in attività, sopra ogni altra cosa per riempire le casse dello Stato (ma prima di tutto le sue) senza grandi riforme o mutamenti fondamentali, col sistema dei grossi prestiti sotto l'unica garanzia della considerazione personale e del credito che aveva "lui" il nuovo ministro.
Si evitava un fallimento, a prezzo di uno molto maggiore in avvenire. La riforma, di cui tanto si era parlato e che il re stesso voleva, si limitava a dei sedativi, a dei piccoli mezzi, a sanare alcuni sintomi in luogo dei mali più profondi.

Il ministero del Necker godeva del favore dei circoli dominanti, che accettarono il ministro borghese per condurre avanti i propri affari; ed egli non poteva demeritare questo favore, procedendo in quel senso
Tuttavia giunse abbastanza presto il momento, nel quale i furbeschi artifici di banca non erano più sufficienti. E allora Necker compose il suo celebre «compte rendu» del 1781 (dove mette le mani in avanti, e rivela il dissesto, le spese folli e gli incredibili sprechi della Corte); una guazzabuglio computistico, nella quale, trasportando nella parte straordinaria le spese e gli impegni più gravi, si riuscì a stabilire il pareggio delle spese con le entrate e perfino un certo avanzo nel bilancio ordinario.

Con questa base il ministro, per potersi sostenere, ricorse alle idee del Turgot, almeno in quanto egli voleva limitare la dissipazione del denaro pubblico e certo innanzi tutto nella stessa Corte. Si trattava quindi ancora soltanto di una riforma parziale, non di una riforma profonda e generale. La fiducia delle classi dominanti, che non si poteva più mantenere, doveva per questo ministero essere con rapida mossa sostituita da una nuova popolarità presso il gran pubblico. Il Necker perciò richiese al re il permesso di pubblicare il «compte rendu », e riuscì ad ottenerlo; fu questa una cosa inaudita in Francia e a ben considerarla, una concessione maggiore al controllo del pubblico sugli atti del governo, che non l'istituzione di corpi rappresentativi consultivi.

Difatti Necker fece in tutta l'Europa un gran rumore con il sottoporre il suo rapporto alla pubblica opinione. Ma il pubblico francese appunto per la negligenza del Necker non era stato mai meno nella condizione, a cui il Turgot avrebbe voluto avviarlo, di poter difendere il ministro contro l'indignazione dei circoli dominanti in Francia per uffici o per proprietà fondiarie.
Il «compte rendu» così pubblicato per le stampe divenne appunto la leva per quello che esso era destinato a stornare.

Queste alcune cifre indicative: - Il Debito Pubblico ammontava a circa lire 2.340.000.000 - Gli interessi annui dovuti sul Debito Pubblico erano di circa Lire 425.000.000 - Spesa pubblica corrente annuale circa lire 360.000.000 - Spese della corte lire 200.000.000.
A fronte di una uscita annuale fissa di circa lire 985.000.000 le entrate correnti per imposte, tasse, ecc. ammontavano a circa lire 600.000.000. La cifra relativa di queste entrate è molto incerta, solo virtuale, in quanto la maggior parte dei nobili versava acconti sulle imposte dovute con ritardo di anni.

(Ma non era tutto. Perchè solo dieci anni dopo il 1° aprile 1790 fu poi reso di pubblico dominio il "Libro Rosso" con la lista dettagliata delle spese della Corte. Ecco alcune cifre rilevate nel "Libro Rosso":
- a favore dei fratelli del re: 28 milioni - doni e gratificazioni a terzi: 6 milioni
- pensioni e trattamenti di favore: 2 milioni - elemosine: 254.000 lire - indennità, prestiti, anticipi: 15 milioni
- acquisizioni, contributi: 21 milioni - interessi finanziari: 6 milioni - contatti (?) con l'estero: 136 milioni.
- spese varie: 2 milioni - spese personali del re e della regina: 11,5 milioni
Il totale è di circa 230 milioni.
Il salario annuale di un operaio parigino lo era di circa 450 lire.
(re e regina hanno quindi speso in un anno pari ai salari annui di 25.555 operai)
(La famosa "collana" dello "scandalo", costava 1.600.000 lire, pari a 3500 salari).

Questa era la Francia di questo periodo:

Nobilta' 370.000
Clero 190.000
Funzionari pubblici, militari 500.000
Operai specializzati, artigiani,
professionisti, commercianti, borghesi
4.700.000
Contadini piccoli proprietari 11.000.000
Salariati agricoli 7.000.000
Manovalanza generica 4.240.000
Totale popolazione 1789 28.000.000

Nobilta' e clero (560.000 soggetti ) detenevano il 66% delle terre
Piccoli proprietari (11.000.000 soggetti ) detenevano il 33% delle terre

I SALARI GIORNALIERI DI UN OPERAIO SPECIALIZZATO: 30-35 SOLDI
DI UN UOMO DI FATICA, MANOVALE: 15-25 SOLDI
DI UN SALARIATO AGRICOLO: 12-18 SOLDI
(L'ORARIO DI LAVORO DALLE 10 ALLE 14 ORE GIORNALIERE - 20 SOLDI EQUIVALEVA A UNA LIRA
SALARIO ANNUO QUINDI DI MEDIA DALLE 360 LIRE ALLE 540 LIRE

IL COSTO DEGLI ALIMENTARI
PANE 2 SOLDI LA LIBBRA (453 GRAMMI)
CARNE BOVINA E SUINA  5-6 SOLDI LA LIBBRA
VINO 5 SOLDI LA PINTA (1,136 LITRI)

 

Nell'anno 1781 Necker fu abbandonato dal re, assediato dagli irresponsabili, che lo circondavano (ma forse anche perchè - per difendere il suo fallimento aveva messo in piazza i conti della spendereccia corte).

L'eredità da lui lasciata fu un debito pubblico nuovamente divenuto gigantesco e un accrescimento delle difficoltà interne fino ad una piena confusione. Poco prima era morto il Turgot e nell'anno medesimo 1781, morì anche il Maurepas; affidata a nuovi uomini per lo più sconosciuti, la nazione mosse incontro ad un avvenire privo di una meta determinata e sempre più oscuro.

In quegli stessi anni la Francia combatteva la sua guerra di rivincita, alla quale anelava fin dal 1762, contro l'Inghilterra, sostenendo gli Americani del Nord. Nel 1774 questi nel congresso di Filadelfia avevano ancora evitato la parola "indipendenza". Si contava allora sulle molte e importanti voci, che in Inghilterra si levavano a patrocinare un accomodamento con le colonie ribelli per mezzo di una benevola loro affrancazione, effettiva se non del tutto aperta; allora si erano appena rivolti gli sguardi alla Francia. Ma fin dal 1765, sotto l'influsso delle fantasie del Rousseau, l'entusiasmo dei Francesi per l'America, per il paese della semplicità genuina e della libertà conforme alla natura, divenne abbastanza sensibile e manifesto, anche agli Americani stessi, perché questi non fossero spinti fortemente a guadagnarsi da quel lato degli ausiliari per il gran fine cui miravano.
Difensore appassionato ed interessato ad un tempo dell'aiuto da porgere all'America fu in Francia il Beaumarchais, il celebre autore del libretto «Barbiere di Siviglia » (e più tardi del «Matrimonio di Figaro»), come di altre commedie e scritti, dove erano gustosamente derise le antiche classi sociali; queste opere procurarono all'audace poeta una popolarità straordinaria e, circostanza abbastanza significante dell'intima decadenza di quella vecchia Francia, avevano riportato appunto nei circoli di questa un applauso ironico e sagace.

Mentre così in Europa l'«ancien régime» moriva ridendo di sé stesso, gli Americani del Nord aggiungevano ormai alla loro dichiarazione d'indipendenza del 4 luglio 1776 un programma, che parlava di diritti naturali, di uguaglianza, di libertà e prometteva di far seguire a questo una dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Questo era però uno sfogo del bisogno di porre sopra una base teorica, costitutiva e ispiratrice d'entusiasmo, quei fini pratici per i quali si combatteva e la nuova democrazia repubblicana, che sorgeva da quelle circostanze di fatto; era in fondo però alquanto superfluo rispetto a tutto il carattere del nuovo popolo di coloni, che aveva avuto così origine; era una cosa sommamente non americana, ma concepita assai più intimamente secondo lo spirito e l'enfasi francese; era un atto di carattere politicamente utile, formulato con istinto più sicuro per la nazione di Montesquieu e di Rousseau.

Alla fine del 1766 comparve personalmente nella capitale francese Beniamino Franklin, il prototipo di tutti i galantuomini, che sanno quello che vogliono, prodotti d'allora in poi dall'era della vita costituzionale. L''accorto cittadino della nuova America, che apertamente rinunciava alle esteriorità dell'«ancien régime », una vivente personificazione dell'uomo semplice e sano, quale lo vide pieno d'entusiasmo la Francia.

Fece a Parigi un'impressione immensa, anche sulle persone più illustri, e Parigi è sempre anche la Francia in seguito all'accentramento compiutosi qui da secoli, non solo di energie politiche, ma anche di idee e dell'attenzione del pubblico.
Da parte sua Franklin si guadagnò abilmente l'animo dei Parigini per mezzo della stampa, che non si stancava di predicare ai lettori l'identità della causa degli Stati Uniti combattenti con quella della «libertà» e dell'«incivilimento».

Per l'entusiasmo destato da d'allora l'impresa privata del Beaumarchais (la ditta «Rodrigo Hortalez et C.ie» di Parigi) fu sostenuta dai governi francese e spagnolo con mezzi considerevoli (fra l'altro neppure coperti) per fornire agli Americani armi e munizioni di guerra di ogni tipo, compresi quelli provenienti dagli arsenali dello Stato francese.
Con queste, essendo in terribili strettezze finanziarie, furono soccorsi gli Americani nella loro lotta con gli Inglesi, sebbene il ricco Beaumarchais dovesse fallire per la sua partecipazione a quell'impresa, perché in seguito agli Americani non venne in mente (!) di pagare il materiale da guerra fornito da Hortalez et C.ie.

Nel 1778 seguì il trattato ufficiale francese di amicizia e di aiuto con gli Americani, al quale nel 1779 acconsentì anche la Spagna.

La pace di Versailles, che nel 1783 pose termine a questa guerra fece restituire alla Francia la Senegambia, Tabago e alcuni piccoli possedimenti, perduti nel 1762, ma la guerra aveva purtroppo anche accresciuto di nuovo il debito della Francia di 1750 milioni.
Ma questa guerra (o aiuti di guerra) era stata combattuta per il principio dei diritti dell'uomo, della libertà, della repubblica. Dunque la Francia ufficiale davanti alla nazione si giustificò facendo credere che si era messa a capo di queste moderne idee. Ma che strano: fino allora aveva trascurato, e anzi perfino impedito che queste idee fossero applicate alla sua propria situazione.

Quindi, dopo la vittoria d'importanza mondiale da essa riportata nelle foreste della Virginia (per difendere quelle idee di libertà e indipendenza) ora era impossibile trattenere il Paese dal sollevarsi di fronte alla stessa monarchia francese; e le richieste espresse con piena convinzione e con coraggio, iniziavano ad essere se non soddisfatte anche piuttosto minacciose.

Nell'anno stesso, in cui fu conclusa la pace di Versailles, dopo due anni d'indecisione e di disordine, la Francia aveva finalmente ottenuto un ministero, che potesse considerarsi come tale, nella persona di CHARLES ALEXANDRE CALONNE (1734-1802). E questo nei suoi inizi - come da lungo tempo non si era visto - ebbe decisamente la fisionomia di un ministero dell' «ancien régime» e come tale si presentò.
Calonne era stato intendente a Metz e a Lilla e possedeva soltanto la pratica del solito sistema antiquato amministrativo e quindi del tradizionale mal governo. Aveva però dello spirito, del vero «esprit», era il "vedente" tra i "ciechi" dei vecchi circoli, e aveva almeno fatto certi studi di tecnica finanziaria e di economia politica; passava poi per uomo, che comprendesse meglio le cose, era in grado di sapere perché le faceva e conosceva i suoi precedenti insuccessi come funzionario, attribuiti però non a lui ma alle circostanze.

Poiché un debito gigantesco gravava sulle finanze dello Stato, Calonne cominciò a porre in pratica quella massima, che é propria dei capitalisti privati rovinati dal risparmio "la faccia franca e sorridente anche nella estrema dissipazione". Che per farsi venire l'ottimismo è buona cosa , non però in una simile pessimistica situazione, dove importante per andare avanti era ora il credito. Ma tutte le casse erano vuote. Come fare?

La Corte si rallegrava ancora una volta di veder come ministro uno spiritoso e allegro cavaliere, invece del Necker rigido, di una calma tutta ginevrina, che non apparteneva a quei circoli e che così presto si era rivelato quale predicatore di parsimonia solo per guadagnarsi della popolarità; inoltre dopo il tiro mancino di Necker, la Corte si rallegrava di avere a dirigere le finanze dello Stato chi non soltanto non rimproverava alla Corte le sue dilapidazioni, ma anzi le richiedeva proprio dalle finanze per il maggior bene della Francia.

Ed anche questa volta parve che il successo desse ragione alle «idee» del Ministero. Nuovi prestiti, ai quali non era stato il caso di pensare nei due anni d'interregno ministeriale, furono sottoscritti in modo brillante; dando denaro a iosa, che viene rapidamente sprecato in ogni modo possibile, ma non per un qualsiasi ammortamento dei debiti.
Così vanno le cose, finché riescono ad andare da sé. «Signora, se la cosa é possibile, é già fatta !» è la risposta di Calonne a Maria Antonietta, risposta divenuta proverbiale e famosa. Ma un giorno non sarà più possibile, perché gl'interessi del debito dello Stato inghiottono già la metà di tutte le sue entrate ordinarie, e precisamente si vive già pur sempre con le entrate dell'anno prossimo già messe totalmente a debito.

A questo punto anche Calonne dové ricorrere, come Necker, all'espediente di amministrare con un'apparenza di serietà secondo le idee del Turgot, di avviare riforme per acquistare così la fiducia nella nazione e guadagnare tempo a fine di ristabilire il credito esausto, e di giungere a questo impegnandovi in un modo qualsiasi dei rappresentanti della nazione.
Per tale piano si trovò la forma di una convocazione di notabili, che avvenne il 6 agosto 1787.


I notabili di Calonne non erano quelli che aveva avuto in mente il Turgot. Ma Luigi aveva respinto la proposta del Turgot di un suo corpo amministrativo come una novità inaudita, una diminuzione della monarchia; eppure quelli di Turgot erano qualche cosa di storico e con essi la monarchia aveva potuto accordarsi anche in passato.

Ma questo era successo nel secolo XIV, poi di nuovo nel secolo XVI; sotto Enrico II si era istituita come una giunta consultiva con un certo numero notabili, scelti in modo speciale tra i membri degli «etats généraux», le antiche assemblee francesi; così avveniva anche altrove, per es. in Germania, dove, come é noto, nel Württemberg e inoltre nel Meclemburgo nel secolo XVI dalle sessioni delle antiche assemblee degli Stati ebbe origine una simile giunta permanente.

In Francia questo tipo di notabili erano stati in seguito messi da parte, insieme con le assemblee stesse degli Stati, dall'assolutismo regio, che si stava continuamente innalzando dai tempi di Enrico IV; Richelieu li aveva convocati l'ultima volta e poi li aveva tolti di mezzo.

Si radunarono dunque all'inizio del 1787 in Versailles, in numero di circa 130, uomini delle antiche classi dominanti ed inoltre anche alcuni «maires» e alcuni rappresentanti della classe dei contadini, chiamati dal re; questi rappresentanti aggregati del terzo stato scomparivano però nel gran numero di principi di sangue, di aristocratici proprietari e di membri dell'alto clero.
I notabili erano stati convocati con lo scopo particolare di metter mano a delle riforme che erano contrarie al loro interesse personale.
Era questo un pretendere da loro un atteggiamento saggio e generoso del bene comune, cosa che in circostanze adatte può condurre ad ottimi risultati, ma che in quel caso doveva fallire.

I notabili francesi, secondo l'espediente a cui ricorse allora anche il Calonne, dovevano cooperare ad abolire l'esenzione delle classi privilegiate dalle imposte e ad estendere a tutti la «taille», imponendola quindi anche sulle spalle più robuste, per procurare finalmente alla Francia una sana ripartizione delle imposte e un aumento molto considerevole delle fonti di entrata; dovevano inoltre aiutare ad istituire delle rappresentanze provinciali.
Tutte cose, che il Turgot per primo aveva ideato praticamente per la Francia, e con le quali aveva suggerito questo concetto, a cui i governi pieni di contraddizioni, che gli tennero dietro, hanno saputo attenersi, appena avevano bisogno di ricorrervi.

Ma i notabili da parte loro richiesero cose del tutto diverse da quelle, per cui li avevano convocati: volevano difatti non solo dare il loro parere su quanto era loro richiesto, ma domandarono chiarimenti, posero questioni di propria iniziativa e chiesero notizie particolareggiate sul disavanzo gigantesco e la presentazione degli atti del ministero alla loro assemblea.
In parte li spingeva l'agitazione generale a cagione del disavanzo, svelato dal Calonne di propria iniziativa e senza riguardi nella sua proposta. Ma quelli come rappresentanti della nazione, volevano mostrarsi disposti ad andare in queste cose fino al fondo, ma questo desiderio era solo tattica per poi presentare contro proposte e che non erano altro che quelle di premunirsi dalla violazione del loro privilegio in materie d'imposte. Alcuni su queste lucravano e molti altri non le pagavano affatto.

Così con la massima rapidità si giunse ad un'aspra lotta con i notabili, per mezzo dei quali Calonne si era voluto trarre d'impaccio. La conclusione fu che siccome re Luigi non si arrischiava ad accordare al ministro di rimandare a casa i notabili, si dovette licenziare anche questo ministro nel momento in cui, obbedendo alle necessità e non ad un proprio impulso, era finalmente arrivato nell'aprile del 1787 ad una certa serietà ed energia nelle sue mire di riforme.
Ad una di queste si giunse; seguendo l'idea, accolta con fervore dal popolo e che il governo aveva spacciato come parte del suo programma e per uno degli oggetti di discussione, il governo aveva già cominciato ad istituire nelle singole province i corpi consultivi e rappresentativi, equiparando per numero il terzo stato alla nobiltà ed al clero presi insieme.
Con questo senza molte difficoltà si era ormai attuata in una sua parte la famosa ricetta di Turgot a suo tempo respinta.

Queste rappresentanze provinciali cominciarono ben presto la lotta con gl'intendenti locali, che esse per la loro stessa istituzione dovevano consigliare. In questo momento non si poté più dominare il mezzo, che adoperato a tempo debito avrebbe potuto esser utile come educatore. Per il malcontento troppo a lungo accumulato queste assemblee, invece di tenersi alla loro funzione ed ai pratici risultati utili, che con quella si potevano conseguire nella loro provincia, si mutarono in rappresentanze manifeste del malcontento radicale, della brama di opposizione, delle affermazioni più gravi, e si crucciarono della disuguaglianza sostanziale, per cui il terzo stato doveva avere uguali diritti politici, mentre al pareggiamento del carico delle imposte era rimasto per strada.

Questi deputati nella vecchia burocrazia, che eran chiamati a sostenere, negli antichi ordinamenti in genere vedevano semplicemente degli avversari, dei nemici, contro il quale la nazione li mandava a combattere.
Così dalla convocazione dei corpi rappresentatavi in singole province, invece di una pacificazione e un miglioramento dell'assetto esistente, ebbe origine già lotta, la paralisi dell'amministrazione della provincia e già fin del 1788 iniziarono delle piccole rivoluzione locali.

Re Luigi - licenziato Calonne - mise il ministero in mano a un uomo, sotto la cui guida i notabili avevano determinato la caduta di Calonne; era costui l'arcivescovo da Tolosa, Loménie de Brienne. Con lui si verificò ancora una volta il fenomeno frequente che l'opposizione, appena deve governare ella stessa, non trova alcun'altra via, se non quella a cui si era già opposta.
Certo nel caso concreto il mezzo escogitato dal nuovo ministro aveva un'altra mira; era una tassa di bollo estesa, produttiva e nei singoli casi veramente non molto gravosa.
Ma i notabili avevano combattuto contro Calonne soprattutto per conseguire una sorveglianza sullo Stato e sulla sua gestione finanziaria. Anche questa volta non volevano essere una macchina che approvava, per aiutare il governo ad incassare le proprie entrate, coprendolo col proprio nome.

Si ristabilì così l'aspetto della situazione, qual'era sotto Calonne. In tutte queste vicende ministeriali si immischiava inoltre l'influenza personale della regina, che ormai, avendo dato alla Francia diversi figli, dopo una penosa attesa di otto anni fino alla nascita del delfino, si faceva seriamente avanti e stimava importante e necessario volgere la sua attenzione su quanto faceva il governo.
L 'arcivescovo Loménie de Brienne non era certo un grand'uomo, ma un uomo d'affari attivo e ambizioso e soprattutto un uomo che abbagliava a prima vista; di lui Giuseppe II aveva già detto che era il personaggio più rilevante tra gli uomini di stato francese. Si adoperava perché i notabili fossero rimandati a casa al più presto e intendeva dare uno sviluppo maggiore alle assemblee provinciali, che estese a tutte le province e per le quali stabilì il principio democratico della votazione per testa e non per stati.

Invece al parlamento di Parigi mostrò come avesse avuto ragione il Turgot, dichiarando che il ristabilire questo corpo da mente ristretta e di idee retrive era stato uno sproposito del giovane re; al parlamento difatti rifiutò di registrare l'imposizione delle nuove tasse.

In questo nuovo conflitto, sorto tra gli organi governativi, il pubblico francese agitato rimase fedele all'ingenua opinione di vedere sempre difesa la sua causa là dove si faceva opposizione.
Loménie de Brienne nel frattempo, non intimidito dai malumore, esiliò a Troyes il parlamento, che metteva in questione anche il diritto del re di tenere un «lit de justice».
A Troyes questi signori, divenuti popolari in modo tanto singolare, si fecero senza molto attendere arrendevoli e acconsentirono a registrare la nuova imposta, per comprare il loro ritorno a Parigi.
Fu poi svelata al parlamento di Parigi l'intenzione di Loménie de Brienne di togliere di mezzo del tutto questo corpo dopo l'esperienza fatta, tornando alle misure del Maupeou.

Allora il parlamento, avendo già sperimentato una volta quale appoggio gli poteva dare l'opinione pubblica, ad un tratto si fece sostenitore di idee totalmente moderne, che di rado in precedenza erano presenti nella loro mente di quei signori ; si appellò all'opinione pubblica, parlò di diritti dell'uomo, della ragione universale e dichiarò che il popolo francese aveva diritto alla convocazione degli Stati generali, perché esaminassero le nuove imposizioni finanziarie.

Gli Stati del regno - états généraux -, a dire il vero, non avevano nulla di moderno; paragonati invece con l'attività effettiva del potere assoluto, erano qualche cosa di reazionario, di antiquato, di feudale e clericale; ma accennando ad essi il parlamento non fece che esprimere pubblicamente e in modo non privo d'importanza un pensiero, che già era per l'aria.

Poiché una volta che il governo aveva cominciato a trattare con dei rappresentanti qualsiasi dei governati e non si era concluso niente con i notabili, che erano in origine una specie di scelta tra gli antichi Stati del regno, era ovvio di rivolgersi agli stessi Stati Generali, poiché non era più possibile di addossare l'incarico delle riforme soltanto ad un governo, che non fosse sorretta dai consigli del pubblico. Era con l'aria che tirava nelle province anche pericoloso.
Così tutti gli enti politici interessati erano venuti a concorrere insieme nel favorire la riforma e lo spirito moderno, cosa veramente di grande importanza e di alto significato nel disordine generale e nel generale dissesto dei modi precedenti di governo. E per quanto quel concorso fosse in parte dovuto a semplici motivi di opportunità, vi entrava tuttavia anche in molta parte la persuasione che finalmente dovesse accadere qualche cosa di essenziale e possibilmente di compiuto e che per questo fosse divenuto indispensabile la forma costituzionale.

Nel «lit de justice» del 13 novembre 1787, che riuscì molto drammatico, re Luigi XVI con tono severo espose in un suo discorso la sua situazione di fronte al parlamento. Richiese la registrazione di cinque nuovi prestiti per la somma totale di 429 milioni; la convocazione degli Stati generali fu in sostanza consentita, ma bensì soltanto per il termine un po' troppo remoto: nell'anno 1792; fu annunciata poi la riforma dei parlamenti e secondo le idee del Montesquieu e quelle moderne, vi era una più esatta distinzione della competenza giudiziaria da quella politica.

Si sollevò allora con un consenso sorprendente tutta l'opinione pubblica in favore dei parlamenti, per quanto fosse presa da fanatismo per la separazione dei poteri e per le leggi inglesi, mentre i parlamenti combattevano per la loro esistenza tradizionale, e a fine di deviare il colpo, che li minacciava si misero dal canto loro a regolare la monarchia costituzionale nel suo ordinamento, come se fossero una costituente.
Ed anche la provincia si levò attivamente, ed é molto difficile dire con esattezza per quale o contro quale tendenza lo facesse. Nel Delfinato le antiche assemblee feudali si raccolsero di proprio arbitrio e fecero al terzo stato tutte le belle promesse possibili, invitando le altre province ad unirsi a loro per ottenere ad ogni modo la convocazione immediata degli Stati generali.

In genere appunto il terzo stato in questo periodo rimase inerte e piuttosto spettatore. Erano in fondo i vecchi circoli, il parlamento, la nobiltà e il clero che si opponevano alla riforma, dirigendosi nel senso di una generale opposizione contro la monarchia e approfittando per questo di ogni mezzo.
Nel disordine illimitato e nella confusione di quella situazione nell'agosto 1788 si ritirò dal Ministero il Loménie de Brienne, dopo essersi impegnato a convocare gli stati fin dal 1789.
In questo momento apparve ancora come l'unica risorsa - perché era ritenuto capace di una inesauribile fertilità mentale ma anche di mezzi, che nel momento erano efficaci ed indispensabili - il Necker.

Lui stesso si stimava come salvatore e non soltanto per il momento. Come un ministro inglese col parlamento, con a fianco gli Stati generali e in un'azione reciproca con essi, voleva rimettere le cose in carreggiata e intendeva approfittare dell'esperienza per passare ad un nuovo periodo organico della vita politica costituzionale della Francia.
Aveva però bisogno di apparire credibile. Certo aveva fino allora dimostrato una confusione puerile d'idee ad ogni mutamento dell'opinione pubblica. Ma anche altre epoche hanno sofferto per questo, e la forza creatrice, che le ha trasformate, ha dovuto quasi sempre venire a patti con le condizioni speciali del momento; il rovesciamento delle idee spicca con netti contorni soltanto agli occhi dello storico che viene dopo, poiché l'immagine nel suo insieme si abbraccia con maggior chiarezza e tranquillità che non sia possibile ai contemporanei, posti fra cento impulsi e influenze, che s'incrociano in ogni senso.

Ciò che poteva far sperare in un sorgere ordinato di un nuovo stato di cose - evitando, diremo noi oggi, la rivoluzione - era la buona volontà sempre pronta dell'autorità suprema; erano inoltre i tempi migliori, in confronto con quelli di Luigi XV. Vi erano ora degli uomini di governo, ormai dominati effettivamente dal sentimento del dovere o dalla coscienza o dall'idea del diritto di tutti ad esistere, uomini che, preparati o costretti alla riforma, avrebbero cooperato con una rappresentanza rispettabile e colta della nazione, quale dovevano crearla le elezioni agli Stati generali.
E si doveva infine ammettere, come facevano presagirei casi del Delfinato, che anche nelle feudalità non mancasse del tutto la buona volontà. Da secoli esclusa dal governo, e col fine urgente di fondare un migliore stato della nazione stava sorgendo una impazienza e un entusiasmo per la riunione degli Stati Generali, capace di condurre alla vittoria e ad una felice attuazione le idee di giustizia e di uguaglianza, i nuovi ideali dei diritti e della dignità dell'uomo.

Le finanze dello Stato in verità erano giunte a una condizione sempre più sconfortante. Qui pareva che stesse la difficoltà principale e per eliminarla si dovevano svincolare e mettere in gioco tutte le energie buone e dotate di valore. Del resto la condizione del maggior numero dei singoli individui era già divenuta più tollerabile da Turgot in poi, e il benessere delle classi medie, grazie alla ricchezza naturale del paese, non era di certo diminuito ma semmai cresciuto.
Tale ci si presenta l'immagine di quella Francia, che allora con aspettative grandissime attendeva l'adunarsi degli Stati generali. Vi mancava però sempre una cosa, cioè la forza che potesse arrestare il corso naturale di una rivoluzione, cominciata da lungo tempo in modo latente, e lo potesse arrestare per mezzo di una buona e vigorosa coscienza e di una vigorosa e buona volontà nel potere responsabile di una tale difesa, ma era necessario una personalità eminente in tutto il suo essere e non soltanto intellettualmente superiore.

Però la provvidenza non fece alla Francia il dono di un uomo simile, ma nell'anno 1788 le inflisse una nuova calamità, che colpiva più gravemente gl'individui che non il peso delle imposte pur tanto aspre e la preoccupazione intorno alle condizioni finanziarie dello Stato.
Questa calamità fu una cattiva raccolta generale, a cui seguì una carestia, aggravata dal rumore delle sommosse e delle accuse più violente. Né la popolazione francese in genere era disposta ad uno studio serio, faticoso e quasi disperato dei rimedi possibili, quando nel 1789 si adunarono a Versailles gli Stati generali.
Questi stessi non sono riusciti a tanto, avendo subito perduto d'occhio quello, per cui la monarchia li aveva convocati, cioè la questione finanziaria e i provvedimenti che essa richiedeva. I tre stati soprattutto si sapevano minacciati o messi là come a difesa, in seguito alla persuasione dovunque diffusa ed ormai incrollabile che l'ordine esistente fosse ad ogni modo in contraddizione con le dottrine democratiche universalmente ammesse, che racchiudevano in sé la salvezza e che si era imparato a formulare già da decenni.

Questa aspettativa della Francia, quale era rappresentata in seno agli Stati generali, non era disposta e pronta a venire in aiuto alla monarchia, che guidava la nazione, ma solo capace di formulare accuse e fare recriminazioni, che si mutavano in odio, appena si pronunciava il nome di Maria Antonietta, dell'«Autrichienne», di «Madame Deficit».
Fu difatti sempre molto esagerata l'influenza della regina sul re e sul governo e il presunto danno prodotto da questa influenza. E inoltre quello che le arrecò altrettanto male, non avendo essa potuto guadagnarsi l'amore e l'indulgenza della Francia, pur così galante, fu l'avere, come donna, fatto non poco spreco del rispetto sentito per lei, così che il famigerato «affare della collana» (pur nell'ipotesi della sua innocenza) bastò a distruggere irrimediabilmente ciò che di quel rispetto rimaneva.

Con la convocazione degli Stati generali, per una serie inesorabile di circostanze, volge al suo termine la vecchia Francia monarchica dei Borboni; e l'uomo che scorge con perfetta chiarezza questo nuovo cammino in tutte le sue fatali e tristi tappe, le vede già annunciate. Apprezzandole, si assicura una candidatura per il terzo stato; l'uomo é il figlio dell'«Ami des hommes», Onorato Gabriele Riquetti, conte di Mirabeau

 

 

INTRODUZIONE

La scossa violenta, che dal 1789 al 18155 rintronò per tutta l'Europa, ha spezzato le ultime catene medioevali ed appianato il terreno per l'epoca attuale. È stata uno dei più gagliardi e dei più importanti fra tutti i movimenti politici, avendo dichiarato la guerra a tutto l'ordine di cose stabilito non solo all'interno, ma anche al di là dei confini del paese, dove ebbe origine.
Quello che Platone aveva un giorno sognato come pensatore, cioè la trasformazione forzata delle relazioni politiche, economiche e sociali secondo i principi della ragione, ebbe allora vita e forma.

Le condizioni della Francia monarchica erano patologiche e la Corona non poteva risanarle. Così le nuove idee allora sorte divennero una potenza e si volsero verso un rivolgimento violento. Rousseau aveva predicato la sovranità della nazione, annunciato i diritti dell'uomo e il contratto sociale; un cupo mormorio andava brontolando di una limitazione ed anche di una abolizione della monarchia, della nobiltà e del clero; anche il socialismo era conosciuto e spiegato e approfondito nei libri del tempo.
Con la mente più o meno piena di simili idee i rappresentanti della Francia si radunarono con l'ottima intenzione di prestare aiuto alla loro patria. Ma con tutto ciò capitarono in una via scoscesa, furono oltrepassati e spinti sempre più oltre dai «club» e dalla piazza, quindi dai poteri non legali, finché degli ideali primitivi non rimase più che una caricatura che ispirava solo più orrore.

A questa trasformazione molto ha contribuito la «frase», retaggio naturale dei Francesi. Anche le tre grandi parole molto significative, le idee fondamentali della rivoluzione, formavano una menzogna inconsciamente consapevole. Esse erano: libertà, uguaglianza e fratellanza. Concepite filosoficamente come cose irreali da silenziosi pensatori, dovevano ad un tratto divenire fatti, senza che si vedesse o si volesse vedere il loro contrario.

Non esiste una pura libertà, ma soltanto una libertà determinata, a seconda delle circostanze, e questa può svolgersi soltanto nell'ordine. La libertà senza alcun vincolo conduce a divinizzare l'« io », alla signoria del più forte, del più accorto, del più scaltro, essa provoca la guerra di tutti contro tutti, la servitù di uomini innumerevoli.

Altrettanto inattuabile è l'uguaglianza, poiché gli uomini sono differenti per natura. Quindi attuare l'uguaglianza non può significare altra cosa che la smania di un inconsiderato o violento livellamento, la negazione delle differenze esistenti, la distruzione della personalità; essa va a finire al privilegio del debole, alla signoria della moltitudine, al proletariato universale. Per quanto le due idee facciano una bella figura espresse in parole, in realtà si escludono l'un l'altra, poiché la libertà produce una disuguaglianza forzata e l'uguaglianza pure una coattiva mancanza di libertà. Questo ha riconosciuto giustamente il filosofo Saint-Martin ed ha aggiunto ancora la fratellanza.

Ma gli uomini sono esseri individuali e non si sentono punto fratelli fra loro. Poiché i sentimenti fraterni non si possono imporre, la fratellanza fallisce al pari della libertà e dell'uguaglianza. La poca chiarezza di queste idee fondamentali é stata la ragione principale del disordine e della violenza della rivoluzione. All'inizio non si credette di essere mai abbastanza liberi, poi si cercò d'imporre l'uguaglianza col sangue e col ferro, ma con questo si ricadde in una servitù, prima democratica e poi militare, molto peggiore che non fosse stata quella sotto la monarchia.

La vera rivoluzione in sostanza ha solamente distrutto. Ha fatto un lavoro intellettuale di carattere moderno, ma non aveva l'attitudine a trasformare le sue idee in fatti ordinati. Queste idee miravano ad erigere un nuovo edificio politico, ma si volsero altrove in una vendetta dei proletari e in continui misfatti.
La Francia con forze morbosamente accresciute infuriò in un delirio febbrile, nel quale la nazione poté compiere tutto, essere tutto e tutto sopportare per giungere finalmente ad un terribile e fatale indebolimento.

La rivoluzione infranse ogni cosa che si sollevava sulle altre, soffocò i suoi propri figli, i suoi propri strumenti in fiumi di sangue, finché la violenta tragedia si mutò in una complicata commedia d'intreccio, nella quale si consumarono le sue ultime forze e finalmente tutti si curvarono dinanzi al governo della sciabola.
Appunto perché la rivoluzione aveva terribilmente appianato la via ad una dittatura militare fu così facile il condurvela; tuttavia questa non era un ascensione, ma uno scioglimento.
Con mano sicura il nuovo signore sul suolo coperto di rovine innalzò un poderoso edificio politico di stile moderno. Durante il consolato e il primo periodo dell'impero prese il luogo della distruzione un'opera attivamente creatrice.
Se la rivoluzione si può chiamare una tempesta primaverile devastatrice, seguì ad essa una primavera feconda ed un'estate, nella quale maturarono i frutti, destinati spesso a disseccarsi sotto un sole torrido.
Quanto più l'impero ascendeva nella sua vita esteriore e tanto più si paralizzava la sua energia creatrice.
Né bastava a tanti avvenimenti lo spazio chiuso entro i confini della patria. Fin dagli antichi tempi la Francia ha nutrito l'ardente desiderio di un vasto dominio. Il grande Carlo, figura genuina di principe tedesco, si cambiò per i Francesi in «Charlemagne», nel campione eroico di una potenza mondiale gallica.

Ogni volta che s'innalzarono politicamente, questa sete di conquista li spinse oltre le loro frontiere e così avvenne allora. Li guidavano le idee in fermento, le passioni selvagge della rivoluzione, che si consideravano come accettate da tutti e destinate a render felici i popoli, e perciò si volevano offrire all'intera umanità, se non con le buone, almeno con la forca.
Piena di novello vigore quella stirpe ringiovanita si oppose a tutta l'Europa monarchica, creò degli eserciti, che per numero e per potenza sorpassarono ogni altro, finché venuti in mano al più gran condottiero dell'età moderna, inondarono il continente da Cadice a Mosca.
Il sogno nazionale di una grande associazione di popoli sotto la supremazia gallica parve avverarsi. La repubblica francese aumentò da ogni lato, formando un impero gallico internazionale con una corona di stati vassalli.
Questo però urtava e minacciava le condizioni di vita dei popoli, che si pretendeva di render felici. E i popoli si sollevarono, ridestandosi a nuova vita intima ed esteriore, e mossero ad una guerra santa per la loro indipendenza politica e per la loro stessa esistenza come nazione.

Quel medesimo spirito nazionale, che aveva reso la Francia irresistibile, la condusse alla sua caduta, e il rappresentante della nazione francese finì prigioniero dell'Inghilterra, in una remota isola rocciosa.
La rivoluzione nel suo carattere intimo ed esclusivo é stata schiettamente francese e solo a Waterloo lo spirito di Danton e di Robespierre ha dovuto soccombere.
A dire il vero, l'eccesso aveva prodotto un moto retrogrado; alla rivoluzione segui la reazione. È perciò l'Heigel poté dire giustamente: «In mezzo ai gemiti ed ai ruggiti di furore si udiva da lungi il suono delle campane della resurrezione».

Tuttavia con la Rivoluzione comincia la vera età moderna. Come sua conquista più importante si può considerare la liberazione dell'individuo, che poté districarsi dalle ristrettezze, in cui la classe lo teneva incatenato. Furono attenuate la benedizione e la maledizione, che derivavano dalla nascita, e fino ad un certo punto furono eliminate, a vantaggio delle doti naturali e dell'energia personale. Come l'uomo così la nazione si risvegliò alla coscienza di sé stessa; il suo carattere in precedenza assopito, fu scosso e ridestato e condusse alla formazione del sentimento nazionale.
Così in luogo delle antiche classi nobiliari e del «particolarismo» provinciale vennero il cittadino e lo Stato. Entro lo Stato il cittadino ottenne di partecipare al governo e all'amministrazione; a fianco della Corona si posero le Camere dei parlamenti, derivate dall'elezione di tutta la cittadinanza.

All'esterno l'andamento delle cose non fu più determinato dai gabinetti o non lo fu più in modo esclusivo, ma i bisogni, i prodotti e le passioni nazionali divennero la forza motrice nella storia universale. Fu annunciata la «buona novella» del lavoro, e la vita economica ottenne la supremazie.
Lo spirito delle moltitudini lottò per essere libero, la pianura del contadino, che fino allora aveva avuto la prevalenza, dovette cedere dinanzi alla potenza della città del cittadino, accanto all'agricoltura si pose l'industria e il dominio delle grandi città cominciò il suo corso vittorioso.

Le condizioni della proprietà e della ricchezza, la società e lo Stato si mutarono molte volte integralmente. Si poterono distribuire con giustizia maggiore i diritti e gli obblighi, si fondarono un'amministrazione unitaria e un diritto e una legge uniforme, si dette ordine al sistema monetario, si separò la Chiesa dallo Stato, e il matrimonio e la vita di famiglia si concepirono giuridicamente quali forme della vita civile.
Scuole e istituti di cultura furono aperti a tutti e migliorati, il capitale e la stampa s'innalzarono fino a divenire delle grandi potenze. Perfino la semplificazione delle misure e dei pesi risale alla rivoluzione francese, che ci dette le misure metriche e il sistema decimale.

Il rivolgimento ci appare così come un fatto d'importanza immensa. Esso creò cose buone e preziose, ma ad un tempo anche gravi pericoli. Liberando l'individuo scatenò le sue brame e le sue passioni e aumentò il suo egoismo. Lo spinse con mano ruvida nella lotta moderna per l'esistenza, e non concesse più alcun riposo alla società, a causa di questa lotta e del desiderio ardente di cambiamento e miglioramento.

La poderosa trasformazione del pensiero, dei sentimenti, della condotta e della vita, operata dalla rivoluzione francese é divenuta l'atmosfera vitale, nella quale anche oggi noi respiriamo.

Ma come cominciò questa rivoluzione
e quali erano le vere cause ?

LE CAUSE DELLA RIVOLUZIONE > >

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