-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

03 - FORME DI GOVERNO - COMUNI - SIGNORIE - TIRANNI - CONDOTTIERI

Il fenomeno più notevole dell'evoluzione storica d'Italia nel corso del secolo fine XIII inizio XIV è l'ostinato riaffermarsi del dispotismo e della supremazia della classi nobiliare sul comune cittadino e sulla borghesia industriosa e sempre più intraprendente.
È un caso questo in cui ogni teoria di evoluzionismo naturale non saprebbe dare ragione di un risultato dovuto a cause e fattori storici molteplici e complessi ed al peso della tradizione. Forse il regime feudale dei tempi della soggezione all'impero con i suoi marchesi, vicari e podestà abituò per sempre le città e le campagne alla dominazioni di singoli signori appartenenti alla classe nobiliare.

Certo è che quando le città divenute libere si trovarono nella necessità di difendersi dai vicini, e nella cerchia delle stesse mura fu difficili mantenere l'ordine in mezzo ad una società agitata dall'urto di interessi contrastanti, non sanno cosa fare, ed ecco che essi tornano volontariamente a scegliere nella stessa città o a chiamare dal di fuori dei nobili per farne dei giudici, dei capi civili o dei condottieri militari.

Queste cariche non nacquero fin dall'inizio come uffici cittadini nel senso che le loro funzioni si estendessero a tutta la città, ma vennero istituiti o per determinati quartieri, o per certe industrie e corporazioni o semplicemente per difendere i popolani contro certi tiranni. I titolari assunsero vari nomi: consoli, rettori, capitani e talora anche gonfalonieri a causa del gonfalone che recavano.

Da queste funzioni si sviluppò poi il famoso istituto delle signorie; per lo più gli individui ad esse chiamati riuscirono a impadronirsi del potere solo in grazia della propria abilità e con le sole loro forze, e i più fortunati a fondare delle signorie ereditarie; in qualche caso - perchè ci sapevano fare - giovò loro anche l'ausilio di una nomina imperiale o di un vicariato imperiale.
Data la posizione giuridica maldefinita e malferma di questi signori e la misura spesso scarsa di poteri loro conferiti inizialmente, dipendeva dalla loro capacità ed abilità di sapersi impadronire arbitrariamente del timone dello Stato e dirigerne la politica secondo le proprie vedute personali, oppure fallire nel compito.

E il rischio dell'impresa non era mai piccolo, perché la critica di queste irrequiete città era irragionevole, tagliente, spesso volubile e la disistima fra nobili e popolani diventavano mortali. È perciò che moltissimi naufragarono fin da principio, e moltissimi altri dovettero poi ritirarsi ingloriosamente dalla scena, spesso cacciati o addirittura brutalmente eliminati.

Solo in circostanze molto favorevoli avvenne che il signore, invecchiato nella sua carica, poté con l'autorità acquistata o col terrore imposto, consolidare talmente la sua signoria fino a giungere di renderla ereditaria nella sua famiglia. Però spesso il figlio del signore, pur trovando spianata più d'ogni altro la via al potere, deve pur lottare nuovamente per conquistarsi la posizione paterna e per riuscire a conservarla in seguito.

Al tempo di Dante dominava sulle città ghibelline di Pisa e Lucca il temuto Uguccione della Faggiola, aretino. A Lucca fungeva da suo vicario il figlio Neri. Ma questi dovette cedere il campo ad un prepotente e baldanzoso rampollo della famiglia degli Interminelli, a carico del quale aveva avuto la malaugurata idea di voler fare eseguire una sentenza.

Era Castruccio Castracani, il quale a sua volta dal 1316 divenne il caporione della parte ghibellina in Lucca e capitano della città: egli era destinato a divenire uno dei più fortunati signori, come certamente era uno dei più violenti. Egli sconfisse i fiorentini in campo aperto, e costrinse i Pistoiesi a mettersi al suo seguito. Ludovico il Bavaro, che temporaneamente ridestò in Italia la memoria dell'Impero, si appoggiò a lui, lo creò duca di Lucca, signore di Pisa e tollerò, costrettovi dalla necessità, che Castruccio si assoggettasse più di 300 castelli.
Ma allorché, colto da una febbre, morì nel settembre 1328, questo tiranno poté trasmettere a suo figlio Arrigo delle pretese alla signoria, ma non le forze e l'abilità per mantenersela.

Più fortunati furono ma solo per alcune generazioni gli Scaligeri a Verona ed i Carrara a Padova. Una durevole signoria riuscirono invece a fondare soltanto gli Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova ed i Montefeltro ad Urbino. Bisogna osservare a Mantova...

 

... ed a Ferrara gli antichi castelli massicci e tetri delle famiglie dominanti per comprendere gli inizi di queste signorie e la prima fortuna di questi principi le cui corti dovevano più tardi diventare così luminose e brillanti.
Prima c'è da credere che, oltre a qualche forziere, armadi, scaffali e dei sedili ricoperti di velluto, in quelle tetre stanze vi fosse ben poco da ammirare. La vita di questi castelli non era solo sobria, ma era decisamente pessima, da incubo.

A Verona in un primo tempo Ezzelino da Romano, creatura di Federico II, aveva instaurato quella feroce tirannia, che Albertino Mussato descrisse affinché servisse di monito ai suoi concittadini. In seguito venne in auge uno Scaligero (nel 1259), all'inizio come podestà della Mercadanza, poi come podestà del popolo. Egli fondò quella dinastia della cui potenza e splendore parlano ancora così chiaramente i massicci palazzi di Piazza dei Signori e le superbe e sontuose arcate degli Scaligeri davanti alla chiesa di S. Maria antica.
Cangrande della Scala ospitò Dante e fu vicario imperiale di Arrigo VII. Poi la razza degli Scaligeri degenerò; Can Signorio ed Antonio giunsero alla signoria attraverso il fratricidio.

Gli estremi contrapposti, della signoria affidata ad uno straniero, e della signoria esclusivamente affidata ad un concittadino, ci offrono nel XIV secolo Firenze e Milano. In un momento di gravi angustie i Fiorentini chiamarono il duca Carlo di Calabria, figlio del re di Napoli, il quale sino alla propria morte (1328) si fece rappresentare a Firenze dal conte Gualtiero di Brienne duca d'Atene. Passarono poi alcuni anni in cui la città fu sotto la mutevole influenza di signori forestieri, sinché nel 1341 i Fiorentini chiamarono nuovamente il duca d'Atene, investendolo questa volta di autorità personale. Costui instaurò una vera e propria signoria a suo vantaggio; con l'appoggio delle famiglie nobili egli cominciò col deprimere la borghesia ricca, il popolo grasso, favorendo anche le corporazioni inferiori e gli artigiani che così abituò al governo ed all'amministrazione della cosa pubblica.
In seguito pose il freno anche alla nobiltà, e per un momento sembrò dovesse riuscirgli di imporre la propria signoria su una larga base popolare. Ma l'arroganza e la sfrontata immoralità del suo entourage, composto in maggioranza di francesi, irritarono ugualmente tutte le classi della cittadinanza; così il francese fu costretto prima a consegnare il suo odiatissimo capitano di polizia, Guglielmo d'Assisi, e poi ad abdicare egli stesso (1° agosto 1343).

Un pittore del tempo, Tommaso di Stefano, chiamato Giottino, fu incaricato di dipingere pitture infamanti del duca e dei suoi seguaci; ci é rimasta una allegoria della cacciata del duca d'Atene nelle Stinche, le prigioni di Stato: la santa cui era dedicato il giorno della cacciata, Sant'Anna, benedice il popolo armato ed il suo gonfalone, mentre un genio scaccia il tiranno che é portato in braccio dal demone dell'impostura e della frode.
Dopo la cacciata del duca venne ripristinato il governo popolare con la prevalenza della borghesia ricca, e benché non siano mancati anche in seguito i caporioni ambiziosi che tentar
ono spesso di aizzare il basso popolo e servirsene per i loro fini, tuttavia a Firenze una signoria non riuscì mai più a prender piede.

È bensì vero che dopo il tumulto dei Ciompi (1378) il supremo potere fu per un certo tempo nelle mani del fattore d'una fabbrica, ma dopo la restaurazione del 1381 le lotte vertono sempre tra fazioni o famiglie del popolo grasso che aspiravano alla preminenza nel governo del comune. A lungo i Medici lottarono con la più distinta famiglia degli Albizzi; ma allorché molto più tardi i Medici riuscirono a conquistare alla propria casa una specie di principato, le antiche forme della costituzione del comune rimasero in sostanza immutate, ed altre famiglie come i Pitti, gli Strozzi, i Rucellai gareggiarono con loro nelle dimore sontuose e nelle cappelle artisticamente decorate.

In maniera sotto ogni riguardo opposta si svolsero le cose a Milano. Qui non si ebbe mai un Signore forestiero. Una delle più distinte famiglie della città, quella anzi che era già titolare del vescovado milanese, acquistò anche la signoria ed immediatamente la trasformò in tirannide. I Visconti furono indubbiamente la più splendida famiglia di tiranni italiani di questa epoca, ed in alcuni dei loro rappresentanti anche la più scellerata, in quanto costoro nelle lotte per conservare od accrescere la propria potenza non ascoltarono o disprezzarono i più elementari dettami della coscienza. Furono tuttavia la famiglia più fortunata, perché riuscirono ad allargare il loro dominio, all'inizio ristretto a Milano, poi fino a formarsi un vasto principato nel centro della più fertile plaga d'Italia.
Dal 1277 la signoria dei Visconti può dirsi consolidata; e anch'essi ricevono titoli e diritti dall'impero; Matteo Visconti fu nominato vicario imperiale da Arrigo VII (1311) e Giangaleazzo duca da re Venceslao (1395).

Questo Giangaleazzo fu il vero e proprio fondatore del più vasto dominio visconteo. Egli arrivò al potere, togliendo di mezzo suo zio Bernabò e suo figlio, che gettò in una prigione senza mai più lasciarli uscir fuori. Dopo ciò instaurò la propria tirannide spiegando una energia senza pari e rivestendola di uno sfarzo e di una magnificenza favolosa. La paurosa ammirazione che egli riscosse gli fece attribuire il nome di Conte di virtù. Fondò il Duomo di Milano e con ciò costrinse cinque secoli a servire alle sue idee; fondò pure il più meraviglioso di tutti i chiostri, l'incantata Certosa di Pavia.
Il suo governo fu un dispotismo razionale; promosse l'incremento dei commerci, favorì le scienze e resse lo stato mediante una burocrazia ben organizzata e raffinatamente sorvegliata; ma soprattutto fece una politica estera in grande stile traendone sempre vantaggi per sé.

Giangaleazzo ottenne prima pacificamente che i Gonzaga, gli Este ed i Carrara si sottomettessero alla sua egemonia; poi tentò la fortuna con inauditi colpi d'audacia.
Nella seconda metà del XIV secolo Venezia, fino allora rimasta potenza essenzialmente marinara, estende il suo dominio entro terra e prende posto nella famiglia delle potenze continentali italiane; da tempo essa imponeva al continente i prezzi del sale e dei cereali e finora non aveva avuto bisogno di far grandi sforzi per regolare a suo arbitrio il proprio traffico commerciale. Ma ora essa ebbe un primo urto con Cangrande della Scala, poi un secondo con Francesco Carrara, signori di Padova.
I Veneziani riuscirono bensì a guadagnarsi l'aiuto digli Scaligeri contro i Carrara, ma in compenso questi ultimi furono sostenuti dai Visconti e rimasero vincitori (1380).

Il primo contraccolpo della sconfitta fu risentito da Antonio della Scala che cadde vittima del malcontento destatosi nella propria città; nell'autunno del 1387 crollò per sempre la tirannide degli Scaligeri un tempo così potenti. I loro dominii restarono liberi; ma Giangaleazzo, invece di dividerli con i Carrara, si prese tutto per sé; e quando i Carrara minacciarono di allearsi con i Veneziani ai suoi danni, seppe sventare i loro piani, non solo, ma ottenne a sua volta l'alleanza con S. Marco ai danni di Padova.
Un anno dopo gli Scaligeri anche i Carrara caddero piuttosto ingloriosamente (1388); i più finirono segregati nei castelli viscontei di Como e di Asti; un solo Carrara riuscì a rifugiarsi a Firenze, d'onde cercò di intrigare ai danni di Milano.

Da parte sua il Visconti, inebriato dei successi conseguiti, non si mostrò alieno dal tentare l'espansione del suo dominio verso sud. Infatti nell'aprile del 1390, in alleanza con gli Este e coi Gonzaga, dichiarò la guerra a Firenze, ed a tale scopo allargò ben presto la rete delle alleanze.
I fiorentini non si limitarono a mandare in Lombardia il loro condottiero Giovanni Acuto, un inglese (Hawkwood), ma seppero guadagnarsi appoggio anche in Francia, d'onde venne in Italia il conte Giovanni d'Armagnac alla testa di un corpo di cavalieri.
Ma i generali di Giangaleazzo, specialmente Jacopo dal Verme e dal 1397 l'ancor più eminente Facino Cane, non solo seppero fronteggiare tutti i più gravi pericoli, ma riuscirono ad estendere la potenza del proprio signore a dispetto della vasta coalizione formatasi contro di lui.
Il tradimento consegnò Pisa al duca, e Siena gli si sottomise volontariamente.

Venne poi la volta di Perugia che andò perduta per la Santa Sede; anzi il vicario dei Visconti qui insediato si impadronì pure di Assisi, Nocera e Spoleto quali pertinenze di Perugia. Mai il pericolo per la libertà di Firenze era stato maggiore. La sfortunata spedizione di Ruperto del Palatinato in Lombardia non arrecò alcun sollievo; e persino i Bentivogli di Bologna dovettero cedere il posto al Visconti.
A questo punto Giangaleazzo decise realmente di farsi incoronare re d'Italia a Firenze; ma non ne ebbe tempo perché una epidemia lo tolse di mezzo il 3 settembre 1402.

Il lato più sorprendente dei successi di questo Visconti é che egli tutto diresse ed a tutto provvide, standosene fermo e rinchiuso nel suo castello di Milano; egli non aveva neppure un esercito proprio, e tanto meno possedeva requisiti di capacità militare e di valore personale. Le sue armi furono il denaro e l'azione diplomatica. Tutto ciò peraltro gli fu reso possibile in grazia del particolare sviluppo che avevano assunto ovunque in Italia gli ordinamenti militari. Non vi erano infatti quasi più che eserciti mercenari che, a seconda del bisogno, si assoldavano per il tramite dei loro capi; questi, i Condottieri, divennero a un tempo generali ed impresari; e, vendendo il rischio cui esponevano la propria vita a prezzo sempre più alto, assursero a veri e propri arbitri della situazione politica; si arrogarono anche il diritto di togliere e concedere signorie, di decidere delle sorti di città, principati, non esclusi i territori della Santa Sede.

Quindi la professione di condottiere divenne in sempre maggior misura la meta di tutte le menti intraprendenti ed i cuori ardimentosi della nobiltà. Col formarsi e consolidarsi delle grandi signorie che andarono sempre più concentrando i numerosi staterelli preesistenti in vasti aggregati statali, gli ambiziosi e animosi che prima avrebbero potuto aspirare a diventar podestà, capitani, signori e tiranni, si diedero al mestiere di condottieri, di impresari dell'industria della guerra.
Ne derivò che questo mestiere suscitò una viva concorrenza tra coloro che lo esercitavano, e spinse a farne oggetto di studio razionale. E difatti accanto a figure di condottieri che agiscono coi più brutali sistemi, degni di bande di masnadieri, ne vediamo contemporaneamente altre che incarnano i primi inizi dell'arte militare moderna per i metodi dell'organizzazione: veri tipi di generali e strateghi. Tuttavia alla lunga non si poteva reggere se non chi alla capacità militare aggiungeva l'acume politico e l'astuzia calcolatrice, ed inoltre aveva la stoffa per sapersi cattivare i soldati e tenerli lungamente fedeli alla propria bandiera.

Data l'esigenza di tante qualità, le immagini che il XV secolo ci ha tramandate dei suoi condottieri non sono nel loro genere esagerate. Quelle altere e imponenti figure di soldati, due delle quali - quella di Giovanni Acuto e di Niccolò Marucci - i Fiorentini fecero dipingere sulle pareti del loro Duomo più grandi del naturale, coperte della loro armatura ed a cavallo: quel cauto ed accorto Gattamelata di Padova e il magnifico Colleoni di Venezia...

... sono tutta gente che non ha combattuto né vinto battaglie d'importanza storica mondiale: erano degli imprenditori come i mercanti e i tiranni che li pagavano; ma erano il fiore della loro classe, splendide personalità dotate di sconfinata energia; e quindi é perfettamente giusto che sia stato tramandato ai posteri il loro lato migliore, l'imponenza della loro figura.

Che poi essi siano stati modellati in proporzioni sempre più ragguardevoli e grandiose é dovuto allo stile artistico in voga nei vari tempi, e si può dire che i condottieri più recenti immeritatamente sono presentati in dimensioni più cospicue in confronto ai più vecchi.
Vi furono momenti in cui questi condottieri si fecero campioni dell'integrità ed unità dello Stato sotto lo scettro di una sola persona. Nel 1412, allorché il figlio di Giangaleazzo Vìsconti, Giovanni Maria, cadde in Santo Stefano sotto il pugnale dei congiurati, si dovete solamente al condottiere Facino Cane se la successione fu assicurata a Filippo Maria Visconti.
Il condottiere era già divenuto così intimo del tiranno, che il giovane Visconti si procurò la miglior garanzia per la propria sorte avvenire sposando, dopo la morte di Facino Cane, la costui vedova, alla quale l'esercito si riteneva legato dal vincolo di fedeltà.

Per questo poté pure avverarsi che nel 1447, dopo l'estinzione della casa dei Visconti, un condottiere, che aveva sposato una figlia naturale del tiranno, accampasse pretese al ducato rimasto vacante. Francesco Sforza, senza dubbio il più eminente di questi avventurieri, s'impossessò della corona ducale non come parente illegittimo, ma come condottiere. Il 25 maggio 1450 egli fece il suo ingresso a Milano, dove ben presto governò, al pari dei Visconti, con magnificenza ed energia. È per ostentazione di fasto e splendore che egli, come quasi tutti i tiranni, chiamò alla sua corte anche artisti ed umanisti. Tutti questi svariati talenti, come furono a contatto, si riconobbero spiritualmente affini e predestinati a dominare.

IL QUATTROCENTO. ARTISTI, ERUDITI, POETI E SANTI.

Né i favori di cui le fu larga natura, né le grandi e fortunate vicende della sua storia bastano a renderci spiegabile che Firenze, oltre ai più abili lanaiuoli e banchieri, abbia prodotto già nel periodo gotico il massimo poeta ed il più illustre artista; e che da allora in poi - quasi che essa abbia intelligentemente saputo mutuare il capitale di cultura intellettuale ed artistica che per virtù propria si era formato - anche ogni ulteriore variazione e progresso della Scultura abbia dovuto ricevere l'impulso più poderoso proprio da Firenze. Nella seconda metà del XIV secolo, allorché l'aristocrazia popolana, all'apogeo della sua potenza, pose mano all'edificio del Duomo con sempre crescenti ideali di magnificenza, e pretese dagli architetti l'impossibile nei riguardi della vastità ed altezza della sua cupola; allorché fu costruita la maestosa Loggia dei Lanzi accanto al Palazzo Vecchio, sede del Comune, per semplice desiderio di fasto e di pompa; allorché le corporazioni e le famiglie gareggiarono nello splendore delle loro chiese e cappelle piccole e grandi; allorché i ricchi mercanti eressero fuori delle porte della città ville ben difese, ma amene, e dentro la città, in luogo delle alte torri inospitali, i larghi e bassi palazzi ancora oggi così suggestivi, vennero a crearsi per la seconda volta le condizioni di fatto e d'ambiente favorevoli ad una grandiosa rifioritura delle arti.

E infatti al principio del XV secolo l'arte fiorentina manifestò una nuova e stupefacente energia di sviluppo, una capacità di giovarsi di tutto il buono dell'arte antica e di procedere a nuove conquiste superandone le difficoltà. Masaccio (1401-1428), il pittore prima di ogni altro perfetto, fu il primo a dar rilievo alle figure, a dare nei suoi quadri il senso dello spazio e della profondità, senza per questo derogare dallo stile grandioso.

Morì a 27 anni. Chissà cosa avrebbe fatto se fosse vissuto altri 50 anni!!!
Quando morì, Brunelleschi (già 50 enne) comprese che molti anni sarebbero passati prima che sulla scena della pittura non solo italiana apparisse un uomo capace di raccoglierne l'eredità "Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita". E con quel "noi" indicava tutta la Firenze artistica del tempo. Ma non immaginava anche oltre quel tempo.
Siate curiosi, avvicinatevi a un quadro o a un affresco di Masaccio, guardate la pennellata, così "espressionistica", così "moderna"; e soffermatevi sul grande intensissimo "realismo" dei personaggi. A Firenze, alla Cappella dei Carmini, in "La cacciata dal Paradiso" l'urlo angoscioso di Eva sembra voler raggiungere l'infinito; e così la vergogna di Adamo che si copre il viso con le mani, sembra andare incontro al doloroso destino di tuttti gli uomini nel mondo. Niente retorica, ma solo espressione intensissima; sorprendente in quell'epoca.
L'opera del giovanissimo Masaccio influenzò e in certo senso determinò l'arte pittorica a lui successiva: dall'Angelico al Lippi, da Leonardo a Michelangelo, a Raffaello e oltre. Generazioni di artisti l'anno sempre considerata fondamentale, ravvisandosi spesso discepoli e continuatori di quella. Compresi i moderni, perchè la "modernità" di Masaccio ancora oggi è valida!

Io personalmente dipingo da cinquant'anni; ho inoltre visitato tutti i musei d'Europa, ma quando sono davanti a questa immagine, mi viene un brivido; e quando guardo il suo autoritratto mi viene un nodo alla gola per la commozione.

Lo scultore Donatello (1386-1466 - lui campò 80 anni!) riprodusse come era suo proposito il vero, ma lo nobilitò col suo finissimo senso dell'armonia; e come entrambi nella rispettiva arte si studiarono anche di raggiungere la perfezione nella tecnica dell'esecuzione, così l'architetto Brunelleschi (1377-1446- ) attese con pari energia a risolvere i problemi dell'arte costruttiva e della prospettiva delle singole parti degli edifici.

Leon Battista Alberti, tornando nel 1428 a Firenze poté con giubilo constatare che si procedeva verso le altissime vette dell'arte e che non si era in nulla inferiori agli antichi. Masaccio che era morto proprio in quell'anno, le sue opere erano lì a dimostrarlo.
Opere memorabili attestano ancora a Firenze come allora un nuovo stile tendesse a sostituirsi all'antico. Nel 1402, allorché fu indetta una gara per la costruzione di una seconda porta di bronzo per il Battistero e fu dato come tema il sacrificio d'Abramo, vennero presentati numerosi saggi; di essi sono giunti sino a noi per l'appunto i più istruttivi, cioè i progetti del Ghiberti e del Brunelleschi. Ottenne la preferenza il bassorilievo del Ghiberti per la bellezza della sua linea, ma non fu meno ammirato il robusto "realismo" del Brunelleschi.

Ora, appunto a questo indirizzo realistico era riservato l'immediato avvenire. Infatti cominciò ora a verificarsi un generale mutamento di gusto artistico in confronto all'età precedente; si mirò a riprodurre i particolari del vero, così come l'occhio umano con l'attenta osservazione li vede, si preferirono le linee dure ma espressive, si volle la perfetta illusione dello spazio, la perfetta e profonda prospettiva, la dovizia delle raffigurazioni con vivi contrasti di ombre svariate e di luci vibranti.
Di pari passo con gli esperimenti e tentativi pratici procedette la discussione e la critica sui dati dell'osservazione, ed i frutti di questo lavorio vennero raccolti in scritti tecnici: "a chi cammina su un prato soleggiato, appare verde nel viso", dice l'Alberti nel capitolo relativo ai raggi riflessi.

Ma questa tendenza a tornare allo studio ed all'imitazione della natura dovette fare i conti con quelli che erano i pregi reali della vecchia scuola: la composizione lineare, il movimento ritmico, il panneggiamento idealizzato e il gesto imponente; caratteristiche tutte che indubbiamente erano convenienti ai soggetti tradizionali delle raffigurazioni artistiche dell'epoca, giacché l'arte era pur sempre quasi esclusivamente occupata ad abbellire solo chiese ed altari e il suo genere di gran lunga prevalente, l'affresco, era destinato a parlare al popolo dalle pareti delle chiese a modo di una penetrante predicazione.

Se alla figura che incarnava sotto forma umana un pensiero ed un sentimento sacro si restituivano le fattezze veristicamente naturali e la si staccava dal mondo ideale del fondo d'oro per ricollocarla nello spazio reale, se la scena diveniva più affollata ed il movimento pienamente naturale, tutto ciò non poteva a meno di tornare a discapito dell'effetto religioso.
La raffigurazione del soprannaturale doveva necessariamente subir pregiudizio dal trionfo del naturalismo. E perciò molti esitarono ad abbracciare il nuovo indirizzo. Le nuove conquiste dell'arte servirono bensì anche nei soggetti religiosi alla rappresentazione toccante di quanto in essi vi era di realmente umano; ma il pio pittore di San Marco, che con tanta evidenza seppe esprimere tutto il fervore dell'anima mistica di S. Francesco, diede prova di grande saggezza quando per raffigurare il meraviglioso ed il soprannaturale non si staccò dalla grandiosa semplicità del vecchio stile.

La trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor non è mai stata concepita in maniera così sublime e profonda come nell'affresco del Beato Angelico, che, nascosto in una misera cella di un convento, era un tempo dedicato unicamente alla giornaliera edificazione di un frate domenicano.

Le caratteristiche del vecchio stile non sono mai sparite in alcuni artisti, in alcuni per sentimento religioso, in altri piuttosto per ragioni artistiche. Ma la gran massa dei pittori e scultori si diede allo studio del vero e si lasciò guidare dalla materiale percezione dei propri occhi e non da preconcetti idealistici.
Ed ognuno seguì una via propria e la propria esperienza personale. Di qui la quantità di individualità artistiche, in luogo delle «scuole» del Trecento; di qui pure la predilezione per la riproduzione di persone viventi e reali.
Quasi oltre i limiti della discrezione pullulano nei dipinti di quest'epoca le teste ritratte da personalità del tempo e persino intere famiglie e parentele prendono il posto di attori nelle scene bibliche; gli stessi fatti delle sacre storie non sono più composti con intendimenti didattico-religiosi, ma con intendimenti poetici, e lo stile severo e grandioso cede il posto alla maniera di genere.

Poi questi artisti considerarono anche le sacre storie come semplici scene della vita reale e non si fecero scupoli, nell'interesse egoistico della loro arte, di farle oggetto di esperimenti tecnici, del modo di veder le figure, del miglior modo di far risaltare il dipinto, della migliore disposizione architettonica. Particolarmente il nudo umano attrasse l'attenzione; onde le raffigurazioni di Adamo e del corpo di Gesù sono molto numerose. Si percorse tutta la scala delle attività, dall'arido studio di osservazione realistica alla fantasticheria stravagante.
Seria cura fu dedicata allo studio delle proporzioni geometriche delle raffigurazioni ed alla prospettiva, la quale portò ad indagini matematiche, al pari che le armature delle costruzioni e la preparazione delle forme e modelli per la fusione del bronzo costrinsero a fare una serie di sperimenti tecnici.

Firenze appare in tutto la più favorita dal genio delle arti; ma non mancarono ovunque in Italia analoghi fenomeni di ripresa degli studi artistici. Nella cerchia dei domini veneziani verso la fine del secolo sorse Andrea Mantegna (1431-1506) che con la sua potenza espressiva, non la cedette in nulla ai fiorentini (si veda la straordinaria prospettiva in un opera profana come la Camera degli Sposi a Mantova .....

o la drammatica prospettiva in un opera sacra come il "Cristo morto" oggi a Brera, Milano) ...

...ed in Lombardia Leonardo da Vinci (1452-1519) completò il suo gran libro della natura, sui cui fenomeni aveva per tutta la sua lunga vita indagato e sperimentato.

Di modo che questo secolo da ultimo assistette in tutta l'Italia centrale e settentrionale ad una grandiosa resurrezione delle arti, ad un ri-nascimento, non tanto dell'antichità, quanto della natura.
Tuttavia l'influenza dell'antichità non va trascurata. Il vecchio Niccolò Pisano (nel pulpito del Battistero di Pisa) aveva cominciato col copiare gli antichi sarcofaghi e nel farlo aveva posto le basi del rinnovamento dell'arte plastica. In seguito egli stesso si era ispirato agli antichi modelli, ma aveva già manifestato maggiore indipendenza.
Ora ci si mosse, è vero, alla scoperta della natura, all'imitazione del reale, ma nello stesso tempo dotti e neoricchi amatori di cose d'arte si improvvisarono pellegrini a Roma ma solo per visitare le antiche rovine, e persino in Grecia, come il giovane mercante anconitano Ciriaco, e fecero collezioni di iscrizioni, fregi e statue.

Nessuno possedeva collezioni d'arte antica così ricche come quella dello Squarcione di Padova, né alcuno aveva tanto fervore quanto lui per l'antichità, e molti artisti che erano suoi ospiti, non escluso l'inarrivabile Mantegna, subirono l'influenza del suo museo. La decorazione si ispirò a modelli e motivi antichi, e si prese sempre più gusto a trattare soggetti desunti dall'antichità.

Il grandioso Trionfo di Cesare del Mantegna é come una esposizione di questa nuova maniera e di tutto lo scenario, come i costumi e la suppellettile necessaria a riprodurre l'ambiente del tempo. Gli innumerevoli archi trionfali, frammenti di antiche mura e rovine che riempiono i fondi dei quadri denunziano tutti la stessa tendenza romantica e l'affetto per l'antichità.
Poggio Bracciolini, segretario pontificio, che dal concilio di Costanza si era recato a S. Gallo per cer
carvi dei classici, batté nel ritorno la campagna romana a caccia di iscrizioni, cippi, statue, e racconta come i contadini lo guardassero meravigliati quando egli strappava l'edera dalle lapidi per decifrarle.
Anch'egli fu un collezionista di cose d'arte antica. In Grecia comprò una testa di Giunone, una Minerva ed un Bacco, e ne scrisse pieno di meraviglia a Niccolò Niccoli, e si noti bene che aggiunse: «Donatello li ha visti anche lui e ne è rimasto assai incantato».

Le principali famiglie fiorentine ebbero ben presto le loro collezioni d'arte antica, e come Donatello - da Cosimo dei Medici - così più tardi il Verrocchio e Michelangelo furono chiamati dai suoi successori a restaurarle. Ora sarebbe stato ben strano se gli acuti ed avidi occhi di simili artisti non avessero tratto profitto dalla visione di tanti tesori di bellezza; e si deve invece ritenere che di non pochi insegnamenti ed ispirazioni essi siano andati debitori all'antichità.

In un ramo dell'arte, l'architettura, le influenze dell'arte antica sono così evidenti che, rispetto ad essa, la parola rinascimento vuol proprio dire rinascimento dell'antichità. Fin molto avanti nel XV secolo si continuò ad imitare lo stile gotico anche perché si dovette completare ciò che si era ormai cominciato a costruire in quello stile.

Ma già a inizio dello stesso secolo Filippo Brunelleschi, allora orafo di professione, si era aggirato a Roma fra le rovine per studiare e cercare di cogliere le «proporzioni musicali» degli antichi.
Da questi studi egli ricavò realmente l'idea di un nuovo stile, e, siccome poco dopo il suo ritorno a Firenze ebbe la fortuna di risolvere il vecchio problema della cupola del Duomo, si giurò sulla sua parola come un tempo su quella del Petrarca, e si fu molto disposti a prender gusto alle nuove forme architettoniche da lui concepite.

Certo nel popolo fiorentino, nel quale l'importazione del goticismo francese aveva avuto il valore di un semplice accessorio, vivevano già tendenze stilistiche atte a preparare il rinnovamento, tuttavia è straordinario che il Brunelleschi sia stato capace di staccarsi così completamente dallo stile gotico e di ideare ambienti del tutto nuovi, e insieme pure le decorazioni.

Egli tuttavia cominciò con la sacrestia della chiesa di San Lorenzo e con la cappella dei Pazzi, e si narra che il popolo corse a vedere e rimase stupefatto della «nuova e bella maniera»: colonne, trabeazione rettilinea e decorazioni di motivo antico invece di archi a sesto acuto e pilastri. Da questo momento gli architetti, che quasi tutti erano anche scultori o pittori, non cessarono più dallo studiare i monumenti antichi, dal disegnarli e trarne ispirazione per i loro progetti di edifici. Cominciano a fiorire in quantità quei quaderni di schizzi che noi oggi sfogliamo con riverenza.

Malgrado i molti vari requisiti di attitudini e disposizione, di educazione e di mezzi che richiedono le varie arti e l'attività letteraria, esse non mancarono di esercitare una profonda influenza l'una sull'altra e di essere perciò coltivate contemporaneamente; il che trova la sua più completa espressione nell'apparire di personalità assolutamente universali.
Forse è dovuto alla stupefacente versatilità di ingegno ed alla sorprendente spregiudicata disinvoltura di questi uomini se alla cultura quattrocentesca venne per lungo tempo ancora risparmiato un più aspro conflitto dei suoi elementi contraddittori.

 

Per un certo tempo si può persino dire che si ebbero accenni ad una conciliazione. Anche sotto questo aspetto si presenta come una schietta personalità universale del XV secolo il fiorentino LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472); egli aveva studiato giurisprudenza; aveva cultura classica, aveva ricevuto gli ordini ecclesiastici e ne godeva i benefici senza esser prete, anche se non mancava di tendenze clericali.
Scrisse una commedia in versi latini, ma, lungi dal proporsi di diventare un dotto umanista, dedicò la sua massima attività piuttosto agli scopi pratici, agli esercizi fisici e alle arti: ginnastica, equitazione, disegno, e architettura. Amò la società e i passatempi, studiò la musica, e nel tempo stesso ideò grandiosi progetti architettonici; scrisse così libri sul governo della famiglia, come sulla pittura ed ebbe il coraggio di difendere il volgare contro il latino.
Dall'immagine, così asciutta assomiglia a un manager dei nostri tempi moderni.

Eppure forse nessuno dei suoi contemporanei fu così imbevuto come lui dello spirito degli antichi. Il suo umanesimo é un culto dell'uomo in tutta la sua nobiltà, e la sua religione fortemente impregnata di sentimenti estetici ha in fondo ben poco in comune con la religione cristiana.


Egli edificò per il piccolo tiranno di Rimini un tempio (Maltestiano) nella più pesante architettura antica e deve aver corrisposto anche al suo modo di sentire che sotto le profonde ombre di quegli archi siano state sepolte le reliquie, non di asceti, ma degli umanisti che Sigismondo Malatesta aveva portato dalla Grecia.

La conciliazione poté facilmente effettuarsi perché in sostanza tutta questa rinascenza del XV e XVI secolo mirò più alla risurrezione di quella stessa antichità latina dalla quale già era derivata la vecchia cultura ecclesiastica.
Nel modo di pensare e di sentire questa età è rimasta immune da influenze elleniche come nella poesia e nell'arte. Poiché le conoscenze di lingua greca e i pochi barlumi di filosofia greca che in questa epoca pervennero nella ristretta cerchia delle persone di più alta cultura, arrivarono loro attraverso il neoplatonismo, vale a dire quel ramo del pensiero filosofico greco che aveva già da tempo tentato lo stretto connubio col cristianesimo, e quindi servì a rinsaldare piuttosto le tendenze cristiane che le tendenze pagane del sentimento generale.

Oltre Venezia e la bassa Italia, anche il resto della penisola non aveva mai perduto completamente il contatto col mondo greco. Le relazioni politiche vennero poi ravvivate dal pericolo turco; ma anche esse aprirono la via a relazioni intellettuali che portarono in occidente grammatici greci e manoscritti greci. Anche se a Venezia l'influenza bizantina datava da oltre sei secoli,

Già nel XIV secolo la più meritevole di menzione é la missione di Crisolara che procurò alla più vecchia generazione di umanisti fiorentini la prima mediocre conoscenza della lingua greca.
Un contributo molto maggiore alla diffusione del greco in Italia arrecò poi Francesco Filelfo, che aveva studiato a Padova, si era recato a Costantinopoli come segretario del bailo veneziano, e là aveva dimorato a lungo in qualità di ambasciatore presso l'imperatore Giovanni Paleologo.
Nel 1427 tornò in patria e spiegò una intensa attività come insegnante, prima a Bologna, poi a Firenze e altrove. La sua vita posteriore peraltro fu quella dell'uomo celebre ma privo di intrinseco valore, e offrì il poco edificante spettacolo della suscettibilità vanitosa in continuo contrasto con l'atteggiamento pitocco, dissipato e privo di dignità.
Non bisogna sentirsi delusi nel vedere questi geniali soggetti rasentare così da vicino l'immoralità come i signori rasentavano da vicino il delitto; la grandezza dell'epoca non consiste nelle sue qualità morali, ma negli obiettivi che si propose e riuscì a raggiungere con la tensione di tutte le sue energie intellettuali.

Quando in questo modo si era formata una certa base di preparazione agli studi greci, e già si possedevano svariate, benché inadeguate, traduzioni di autori greci, come ad es. di Platone, giunse il grande avvenimento del Concilio di Firenze per l'unione della chiesa greca alla romana. Il papa Eugenio IV aveva fissato ai Greci per la prosecuzione del Concilio e la definizione delle trattative concernenti l'unione la sede di Firenze, ove egli allora risiedeva a causa del contegno ostile dei suoi romani.

Il 6 luglio 1439 l'unione venne accettata dai Greci ed il relativo trattato fu letto pubblicamente nel Duomo di Firenze. Le sonore parole di questa pergamena velavano un mercato in ultima analisi indegno ed inutile, perché, ad onta del riconoscimento dell'autorità del pontefice romano in essa contenuto, era vana ormai la speranza di ridurre a dipendenza la chiesa greca. Ma il Concilio presenta tuttavia un grande interesse per la distinta schiera di dotti ed ecclesiastici che in quella occasione giunsero a Firenze.

Chi più di tutti fece impressione profonda con la sua parola ed esercitò influenza, fu il più che ottantenne Gemisto Pletone della regione dell'antica Sparta. Questo profeta di una filosofia basata in gran parte su idee platoniche tanto più fece scuola a Firenze, in quanto altri greci vollero contro di lui difendere ancora l'idolo della scolastica, Aristotele.
Gli umanisti fiorentini, appena ebbero preso interesse a questi studi filosofici controversi, vi si diedero ben presto con vera passione; e nientemeno che lo stesso Cosimo dei Medici, il più ragguardevole mercante fiorentino, del quale si poté dire che col solo prestigio governava la repubblica, trovò nelle dottrine di una filosofia rivestita di tinta religiosa la consolazione della sua non certo felice vecchiaia.

Da questo momento gli studi di filosofia greca non cessarono più a Firenze. Giovanni Argiropulo, molto legato alla casa dei Medici, dedicò al vecchio Cosimo le sue traduzioni di Aristotele, ed anch'egli disputò con lui, del quale esaltò la somma « humanitas », su problemi morali e filosofici.
I dotti fiorentini poi, oltre che con la sapienza universale di Aristotele, si cimentarono con la «teologia di Platone» e con la «filosofia di Paolo»; e siccome qua e là si cominciò a studiare ed imparare anche l'ebraico, ben presto non pochi desiderosi di apprendere dalle parti di Francia, Inghilterra, Svezia ed Olanda poterono, recandosi a Firenze, procurarvisi tutti gli arnesi necessari al rinnovamento della teologia; e la rinnovarono di fatto, ma notoriamente in un indirizzo che li portò assai lontani dalla rinascenza italiana.

In Firenze invece l'ardore per la filosofia platonica non fece che rinsaldare l'attaccamento alle dottrine tradizionali della Chiesa. Tuttavia sarebbe un grande errore accentuare esageratamente la deficienza in questa epoca del sentimento di devozione ai precetti della chiesa o addirittura del sentimento religioso, quasi che simili cose non suscitassero ormai che un interesse estetico-intellettuale.
L'ambiente della Riforma non si contrappone a quello della rinascenza per ragioni di fede o di religiosità maggiore o minore, ma per ragioni di sentimento morale. La fede e la devozione sono in questi tempi invece un reale bisogno. La speculazione filosofico-religiosa è ancora accoppiata, come a tempo della scolastica, con gli impulsi del sentimento mistico, e l'una e l'altro sono tuttora elementi essenziali di questa cultura.

Se nella «buona società» si ostentava disprezzo per il monaco pezzente e ignorante, ciò non vuol dire che tutto l'ambiente sociale non rimanesse dominato ed inerme quando si trovava di fronte alla genialità di un vero canto. L'emergere di una personalità perfetta in un dato senso non fallì mai il suo effetto su questo popolo sempre più dotato di senso artistico; essa suscitò la più calda esaltazione e la più profonda commozione; e sull'artista partecipe ed interprete di tutte le vibrazioni dell'anima del popolo queste incarnazioni del soprannaturale sotto forma umana devono avere agito al pari di ispirazioni divine.

È in quest'epoca che vissero e spiegarono la loro vasta influenza S. Antonio da Padova, S. Bernardino, Santa Caterina da Siena ed una lunga serie di altri santi. La giovane santa senese, con la completa rinunzia al godimento dei sensi, volle ancor viva elevarsi al di sopra di questo mondo, ed, assorta in celesti visioni, gustò, le immense gioie della grazia divina. Essa credette, come S. Francesco d'Assisi, di portare le stimmate di Gesù Cristo sul proprio corpo e credette sentire al dito l'anello d'oro del suo sposo celeste al pari della sua omonima Caterina d'Alessandria. Ma essa non si tenne rinchiusa nella sua cella; essa uscì dal chiostro ed andò a portare la sua parola fra il popolo, ed il povero popolo amò questa soave fanciulla come la sua «dolcissima mamma». Essa appianò contese tra le famiglie e fece udire la sua voce a principi e papi. Nel 1376 i fiorentini la trovarono ad Avignone quale mediatrice di pace, e senza alcuna timidezza essa parlò davanti ad assemblee di cardinali, come in molte delle sue lettere lanciò accuse infocate contro la corruzione mondana della curia.

Che il vecchio Cosimo dei Medici sulla sera si recasse nel convento di San Marco e vi si trattenesse a ragionar della fede con S. Antonino, che noi conosciamo come uno scolastico molto arretrato, non deve per nulla destare meraviglia e non contraddice all'interesse ch'egli dimostrava per la filosofia di Platone, sulla quale, dopo i giorni dei greci, continuò ad illuminarlo il figlio del suo medico, il giovane sacerdote Marsilio Ficino.

Soltanto più tardi - e sempre a Firenze - si ebbe un grande e drammatico conflitto tra gli elementi antitetici della cultura del rinascimento, allorché essi, incarnati in personalità di eccezionale carattere, si urtarono decisamente, ed intrecciandosi ad antagonismi di carattere politico, poterono tradursi in avvenimenti storici concreti.

La casa dei Medici non continuò a conservare il tenore di vita del vecchio Cosimo. Non che il palazzo di quest'ultimo fosse chiuso alle usanze signorili od al principesco splendore; prova ne sia che il giovane milanese Galeazzo Sforza mandò una volta a suo padre una lettera entusiastica per descrivergli una giornata da lui passata presso Cosimo dei Medici nella sua villa di Careggi, dove si banchettò festosamente ed un cantore fece onore all'ospite dicendo le lodi di suo padre, laudi nelle quali al giovanetto apparvero particolarmente encomiabili le «nove Muse, le antiche istorie ed i nomi romani».
Ma, nonostante ciò, Cosimo rimase sempre e soprat
tutto l'uomo politico riflessivo e l'uomo d'affari operoso, mentre figlio e nipoti lasciarono a desiderare sotto questi riguardi.

In compenso l'ospitale Gareggi e le altre ville divennero assai più festose ed animate. Finché Lorenzo, che meritatamente fu chiamato il Magnifico, sentì sul suo capo il sole della gioventù, il suo agile ingegno si abbandonò a tutti i godimenti della vita allora divenuta così varia, dimostrando in tutto una virtuosità forse senza pari: amori ed amicizie, musica ed esercizi fisici, studi, arti e dotte conversazioni occuparono l'intera sua giornata, avvicendandosi senza interruzione.
Egli poetò e scrisse ed ogni nuova creazione delle arti belle ed ogni contributo scientifico trovò in lui entusiastica accoglienza e reale interessamento. Il suo amico del cuore, Angelo Poliziano, era un filologo illuminato ed un poeta nato. Forse a noi ora il suo poemetto della Giostra, scritto per esaltare il fratello di Lorenzo, Giuliano dei Medici, può sembrare una vuota frivolezza; ma ad onta di ciò ci sentiamo trascinati dalle leggiadre immagini, dalle graziose scene, dalle sorprendenti trovate e dall'intima naturalezza. La ninfa Simonetta dai capelli d'oro e dalla veste a fiorami è sorpresa dal cacciatore Giuliano, ma, dopo il primo breve dialogo, ella si allontana veloce e ...

"...con gli occhi più lieti e più ridenti ,
Tal che il ciel tutto asserenò d'intorno
Mosse sovra l'erbetta a passi lenti
Con atto d'amorosa grazia adorno....)

Nei suoi Canti carnascialeschi, Lorenzo trae alcuni personaggi dalla mitologia che celebrano la bellezza della vita e la gioia dell'amore. Tuttavia fa lapidarie riflessioni con profonde note di malinconia, esprimendo così in modo intenso il sentimento della precarietà e l'inquietudine:
«Quant'è bella giovinezza,
Che si fugge tuttavia!
Chi vuol essere lieto, sia:
Di doman non c'è certezza»

Più grossolano è invece Luigi Pulci che parodiò in senso comico-erotico la leggenda romanzesca di Orlando, che più tardi doveva essere presa tanto sul serio a Ferrara. Ma chi vorrà sostenere che la sua maniera era comune e dominante nell'ambiente mediceo? Il vero è che qui non si rinunziava a nulla di tutti i reali valori che la cultura aveva accumulato. Come si leggeva assiduamente Dante e si tornava a rimare nello stile del Petrarca e della canzone popolare, così non si rinunziava alla più recente conquista, quella delle riunioni platoniche, e Marsilio Ficino pose a Careggi la scena d'un banchetto di intellettuali da lui descritto ad imitazione del simposio di Platone. Vi si pronunziavano delle orazioni e vi si conversava e discuteva di argomenti filosofici, di poesia, della vita attiva e contemplativa e dell'amare.

Si era umanisti e tuttavia si trovava gusto ad usare il volgare, si rasentava la leggerezza e tuttavia si credeva spesso di essere religiosissimi. Non fa meraviglia che in un simile ambiente Botticelli abbia illustrato contemporaneamente Dante e il Boccaccio, abbia dato alle sue madonne la figura di belle dame piene di sentimento, ed abbia dipinto, nello stile del Poliziano per quanto ha tratto all'inventiva, ma nel resto dietro indicazioni ricevute da eruditi, la nascita di Venere ed i quadri, solo di recente rettamente interpretati come «scene nuziali»: l'unione del poeta con la satira e le nozze di Mercurio con la filologia; entrambi i primi importanti tentativi di riproduzione di antichi soggetti rimaneggiati secondo il sentimento personale dell'artista.

E come, rievocando l'antico, vi si introduceva la sentimentalità moderna, così non si aveva scrupolo di tradurre in un linguaggio, possibile soltanto per gli antichi, le raffigurazioni delle idee e dei sentimenti cristiani; memorabile a tal riguardo l'angelo nudo che sta dinanzi alla Madonna del Signorelli a Perugia. Sandro Botticelli non fu propriamente un pittore, ma fu un interprete, e come tale ha per noi inestimabile valore. Gli amici di Careggi non erano certo così pudibondi come i suoi quadri, ma erano alle volte affetti da altrettanto sentimentalismo.
La loro radiosa giornata però volgeva al tramonto, e i tumulti popolari dovevano ben presto ammonirli che essi vivevano in questo mondo e non nelle isole della felicità.

Lorenzo dei Medici era così fiducioso di sé che non badò ai segni premonitori, sinché nel 1478 lo sorprese la congiura dei Pazzi. Il complotto era stato preparato da tempo e da lunga mano con la complicità di alte personalità forestiere. Durante una messa solenne nel Duomo, proprio al momento in cui il sacerdote alzava l'ostia, dei sicari si lanciarono, armati di pugnali, su Lorenzo e Giuliano dei Medici che assistevano al servizio divino. Il bel Giuliano cadde ucciso sul colpo, mentre Lorenzo con l'aiuto del Poliziano riuscì a stento a salvarsi nella vicina sagrestia.
Reazioni violente contro tirannidi già vecchie o imminenti se ne ebbero allora in più di uno stato italiano; quella di Firenze giunse dalle famiglie della nuova aristocrazia contro le quali i Medici si erano comportati in modo sempre meno riguardoso. Il tumulto in Duomo e per le vie fu gravissimo; ma ancora una volta i seguaci dei Medici riuscirono a trionfarne.

Dopo il fattaccio Lorenzo tentò di instaurare addirittura la tirannide. Egli accentrò nelle sue mani il governo dello Stato e la gestione del denaro pubblico, e benché la sua spiccata personalità si segnalasse anche per il coraggio e la risolutezza, ciononostante l'odio contro il suo governo personale si propagò così largamente nella democratica e guelfa Firenze, che ben presto a farlo esplodere non occorse che il sorgere di un capo, il quale fosse qualcosa di più che un altro Signore.

E questo capo sorse nella persona del domenicano Gerolamo Savonarola.

Questo frate veemente era nativo di Ferrara. Dal 1490 visse costantemente nel convento di San Marco a Firenze. All'inizio predicò soltanto contro il bigottismo esteriore esaltando la vera devozione, quella intima del cuore; poi dagli argomenti religiosi passò agli argomenti mondani, e nelle prediche quaresimali del 1491 cominciò - questa volta nelle vaste navate del Duomo - a spiegare al popolo i segni dei tempi mutati che il suo signore non voleva comprendere.
La folla angosciata lo udì preannunciare la morte di grandi principi, non escluso Lorenzo; e la profezia si avverò. Il morente Magnifico fece chiamare a sé nella villa di Careggi il lugubre monaco; ma ben presto si seppe che i due si erano lasciati più nemici che mai. Quando poi, come il Savonarola aveva profetizzato, il re di Francia invase realmente l'Italia per conquistare definitivamente il reame di Napoli ereditato dagli Angiò, e le piccole signorie, impotenti a resistergli, perdettero ogni coraggio, la democrazia fiorentina prese nuovamente in mano i propri destini, scacciò i Medici e obbedì alla parola dei Monaco di San Marco.

E questi, nella piena della sua ira e del suo orrore per la coltura mondana, distrusse tutto ciò che sotto i Medici era sembrato bello e buono.
«Voi donne, che fate pompa dei vostri monili, delle vostre chiome, delle vostre belle mani, io vi dico che siete tutte brutte ed odiose».
«Voi artisti commettete un grande peccato col dipingere il tale o la tale sulle pareti delle chiese, cosicché per le strade si sente dire: quella è la Maddalena, quello è S. Giovanni, quella è la Vergine ».

Egli sferzò la vanità dei principi, la frivolezza degli artisti, la sconfinata smania di godimenti del popolo. In nome dell'antica fede religiosa egli levò un atto d'accusa contro tutta la nuova cultura, che si era svolta sotto i suoi occhi.
Ma questa cultura mondana era stata accettata anche dal capo medesimo della chiesa. E il Savonarola venne mandato al supplizio per ordine di papa Alessandro VI, il 23 maggio 1498...

... mentre proprio il figlio di Lorenzo il Magnifico divenne papa
sotto il nome di Leone X.

Diamo uno sguardo
a questo papato delle Rinascenza


IL PAPATO NELLA RINASCENZA > >

PAGINA INIZIO - PAGINA INDICE