STRATIFICAZIONE DELLA SOCIETA’ VENETA
NELLA PRIMA META’ DEL XX SECOLO

di Nicola Bertazzolo

Il Veneto è stato fino al secondo dopoguerra terra di agricoltura e piccolo commercio, caratterizzata da povertà diffusa, un’economia arretrata e infine da un insufficiente livello di sviluppo tecnologico dovuto essenzialmente all’assenteismo dei padroni.

Il signore veneziano che vive in un palazzo sul Canal Grande si disinteressava della conduzione delle sue tenute di terraferma: all’aristocrazia veneta mancava (in parte manca ancora oggi) la capacità imprenditoriale tipica del nobile lombardo e, se vogliamo, toscano. Come gli sceicchi del petrolio, preferiva vivere sulla rendita dei propri terreni che spendere una sola lira nell’innovazione tecnologica.

Questa classe parassitaria, sciattona e assenteista rappresentava i cosiddetti “paroni” (padroni), coloro che detenevano il potere economico e politico. Non a caso erano sempre gli stessi a occupare i posti chiave nell’amministrazione politica locale, anche in Parlamento .

Fino alla fine dell’Ottocento i grandi possidenti non si preoccuparono di innovare il settore agricolo secondo criteri di efficienza e profitto, lasciando le cose come stavano. Si può notare come non manchino punti in comune con i grandi latifondisti meridionali. Solo dopo l’istituzione di società agrarie (come la Toscana aveva fatto ben 100 anni prima!) l’aristocrazia terriera prese parte allo sviluppo economico aprendo la via alle bonifiche e all’aumento di redditività dei terreni.

Un gradino sotto gli aristocratici vi erano i borghesi: forti nel vicentino (i vari Marzotto e Rossi hanno fatto la storia dell’industria non solo veneta ma italiana) ma privi di una grande forza nel resto della regione a causa dell’aristocrazia ancora fortissima e della Chiesa, ostinata a difendere i propri privilegi contro il liberalismo, espressione della borghesia.

Ciò non toglie tuttavia che negli anni ’20 e ’30 grandi aziende a gestione capitalistica si fossero sostituite alle tenute nobiliari, fornendo in più di un caso un modello di sviluppo per l’area circostante (come l’azienda agricola delle Assicurazioni Generali a Cà Corniani, Caorle).
Fu solo a partire dal secondo dopoguerra però che la borghesia riuscì definitavente a prevalere sulle classi dominanti preesistenti.

Proseguendo troviamo gli artigiani di paese. Si trattava (anche oggi) di gente che gestiva una piccola attività in paese, possedeva un piccolo appezzamento dato in affitto o coltivato in proprio e che in caso di necessità emigrava all’estero alcuni anni per poi tornare al villaggio e svolgere l’attività di sempre.

Di tendenze conservatrici e da sempre devota alla Chiesa, questa “classe media” sarà prima liberale, poi (dopo il 1926) fascista e, dopo la guerra e l’avvento della Repubblica, democristiana.

Per il periodo preso in esame, il “piazzarotto” (cioè colui che vive in centro) è di solito il sarto, l’oste, il barbiere o il fabbro di paese. Le figlie di solito servono nelle case padronali o lavorano in qualche filanda. I ragazzi invece o aiutano il padre nello svolgimento dell’attività o in certi casi entrano in Curia. In ogni caso si tratta di gente che aguzzando il proprio ingegno e utilizzando espedienti e inventiva riuscivano a vivere decentemente senza essere necessariamente sottoposti al rigido controllo padronale.

Il contadino, invece, era costretto a sottostare al volere del padrone se non voleva perdere il posto.
Considerati inferiori dai piccoli proprietari, i contadini vivevano in grandi case coloniche sparse nelle campagne, che dovevano coltivare per conto del proprietario.

Tutto apparteneva al padrone: la terra, la casa, spesso gli attrezzi e il bestiame. Insomma il contadino si trovava schiacciato nella morsa del grande redditiero; spesso si indebitava fino al collo con lui, il proprietario consigliava di votare questo o quel candidato alle elezioni, se il contadino comprava qualcosa lo faceva solo nei negozi del padrone e così via: un rapporto di sottomissione assoluta.

Visti dai cittadini come taccagni, religiosi e rispettosi delle tradizioni, i contadini rappresentano ancora nel Ventennio il gruppo sociale più numeroso, e quello maggiormente impegnato nell’opera di bonifica e di ristrutturazione del comparto agricolo (per ovvie ragioni).

Al fondo della scala sociale troviamo i braccianti agricoli: si tratta di intere famiglie che non possedevano un campo da coltivare, e che erano costrette a vagare per le campagne e a lavorare per salari miseri in quelle zone dove vi era forte domanda di braccia per lavorare la terra. Saranno loro a beneficiare in misura massima dalle bonifiche e dalle riforme agrarie. In prima linea durante gli scioperi del primo dopoguerra, i braccianti resteranno sempre, anche durante l’era fascista, la classe sociale più politicizzata, e confluiranno poi nella Resistenza e quindi nel PCI.



I braccianti vivevano nei casoni: si tratta di tipiche case di paglia diffuse lungo la litoranea veneta e consistono in una capanna circolare con tetto a punta costruita con strame o paglia su di uno scheletro in legno. Il pavimento era in terra battuta e non esisteva né energia elettrica, né servizi igienici né acqua corrente. Ancora negli anni ’50 saranno abitate, scomparendo però rapidamente sotto la spinta del progresso.
Dopo questa rapida presentazione delle varie classi sociali presenti nell’area veneziana, si andrà a vedere, partendo dal “biennio rosso” per arrivare allo scoppio della seconda guerra mondiale, come la società di queste zone si sia evoluta in questo brevissimo arco di tempo.

PROLOGO: L’INVASIONE AUSTRIACA DEL VENETO ORIENTALE (1917-1918)

l’Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915 a fianco dell’Intesa per conquistare le terre irredente dell’Istria e del Trentino, ancora sottoposte al dominio austro-ungarico. Anche dal Veneto partirono numerosi soldati per il fronte dell’Isonzo e per le montagne trentine. Vista inizialmente come un evento distante, la guerra cominciò a farsi sentire nelle case di tutta Italia quando i primi soldati partirono per il fronte.

Già nel 1915 si ebbero in molti paesi le prime notizie di concittadini caduti. I postini e i parroci portavano la triste notizia ai famigliari e tenevano in contatto le famiglie con i soldati, perché in quegli anni molti erano analfabeti.
Nel 1916 gli aerei austriaci iniziarono a bombardare il Veneto, arrivando fino al Piave (a quei tempi 200 km non erano una passeggiata).

E si arrivò al 24 ottobre 1917, il giorno della disfatta di Caporetto.
Già il 26 ottobre veneti e friulani seppero della falla che si era aperta nel nostro schieramento tra Plezzo e Tolmino, ma pochi vedevano la tragedia che di li a poco sarebbe seguita. Solo dopo lo sfollamento degli ospedali militari e la fuga dei primi profughi e degli sbandati fece comprendere a tutti quanto il pericolo fosse grande. Dopo poche settimane le truppe austro-ungariche e tedesche occuparono l’intero Friuli e il Veneto Orientale, fermandosi sul Piave bloccati dai problemi logistici dell’esercito.

Nelle zone occupate le comunicazioni telefoniche e telegrafiche così come i servizi ferroviari furono soppressi, e mancava anche l’energia elettrica. Le amministrazioni comunali svolsero un compito fondamentale nell’ assistere i profughi e aiutarli nella fuga e ad accaparrare derrate alimentari per coloro che rimasero.

A metà novembre arrivarono gli austriaci, mentre le varie amministrazioni comunali partivano per l’esilio. I nuovi arrivati non trovarono alcuna autorità costituita, e promossero a sindaci i parroci, quando non erano loro stessi a assumersi il comando del comune. In Veneto Orientale si insediarono numerosi comandi,oltre a numerosi ospedali militari che dovevano assistere un numero crescente di feriti. La dominazione austriaca fu particolarmente dura nei primi mesi: requisizioni, saccheggi e violenze di ogni genere. Solo in seguito la situazione migliorò grazie all’umanità di alcuni ufficiali e, probabilmente, alla crisi dell’esercito austriaco.

Fondamentale fu il ruolo svolto dai parroci, tutti rimasti nelle loro parrocchie: furono loro a mantenere i contatti con le autorità, a fornire alla popolazione viveri e abitazioni, a confortare la gente in un momento tanto difficile.

Gli austriaci nel corso dell’inverno decisero di allagare artificialmente l’area tra Piave e Livenza in modo da rallentare una possibile avanzata nemica. Così facendo si distrusse una campagna fertile, ma soprattutto si favorì l’avanzata della malaria. Oltre 150.000 uomini furono colpiti dalla malattia e costretti ad abbandonare la prima linea.

Il 24 ottobre 1918 (anniversario di Caporetto) l’esercito italiano lanciò l’offensiva finale contro l’esercito austriaco. In pochi giorni l’esercito imperiale fu costretto alla resa. Impressionanti le testimonianze dell’epoca che parlano di scene apocalittiche sul fronte e della rovinosa fuga di soldati affamati, dalle divise lacere, ormai rassegnati.

Il 4 novembre era finalmente finita la guerra, quella guerra che provocò 600.000 morti. Le nostre truppe avevano già liberato il Veneto Orientale e il Friuli, trovando uno spettacolo desolante.

NICOLA BERTAZZOLO


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