CRONOLOGIA
di VENEZIA

20.000 - 193 d.C. 238-567 568-803
804-1172 1175-1284 1284- 1364
1364 - 1501 1501-2000 CRONO-BIOGRAFIA DEI DOGI

LA NOBILTA' e il POPOLO di VENEZIA

di Eugenio Musatti

Dopo la Serrata del Maggior Consiglio (del 1296 more veneto - cioè 1297) e per le successive restrizioni, appartenevano ad esso quelli soltanto (meno rarissime eccezioni di nuovi ammessi per meriti insigni o per speciale favore) che ne avevano il diritto per essere stati, del medesimo Consiglio, nell'ultimo quadriennio. Tale ammissione si fece per conseguenza, ereditaria nelle famiglie nobili, a detrimento del popolo, come se, date certe condizioni di moralità e d'intelligenza, indispensabili al retto esercizio dei diritti politici, non dovesse legittimamente partecipare esso pure al governo della cosa pubblica.
Però l'aristocrazia veneziana, nonostante i suoi difetti, seppe condurre la patria all'apogeo della gloria, della potenza e della ricchezza, finché, per le mutate condizioni della civiltà europea (incompatibile in un regime di privilegi) e per l'antagonismo tra la nobiltà riformista e la nobiltà conservatrice, dovete cedere necessariamente alla forza ineluttabile delle cose.

I nobili si potevano distinguere in tre classi, non per differenza di titoli e di prerogative, ma per essere più evidente l'antichità della loro origine.
La prima classe comprendeva le famiglie dei dodici tribuni (Contarini, Morosini, Badoer otim, Partecipazi, Tiepolo, Michiel, Sanudo otim Candiani, Gradenigo otim Tradonico o Gradonico, Menino, Falier, Dandolo, Polani e Barozzi) che, vero o no, elessero il primo doge ; le quattro famiglie che, insieme ad esse, segnarono il contratto di fondazione del monastero di San Giorgio Maggiore, cioè: Giustinian, Corner o Cornaro, Bragadin e Bembo, e le seguenti otto casade esistenti molto prima della cosiddetta serrata, del Maggior Consiglio: Baseggio, Querini, Soranzo, Salamoni, Zen, Zorzi, Zane e Dolfin.
La seconda classe comprendeva tutti i patrizi che formavano il Maggior Consiglio in seguito alla serrata e le trenta famiglie
aggregate alla nobiltà veneziana per speciali benemerenze.
La terza annoverava coloro che acquistarono il patriziato o per concorso, o per la somma di centomila ducati a profitto dell'erario stremato dai bisogni della guerra. A queste varie categorie si dovrebbe però aggiungerne una quarta costituita dai sovrani ed altri principi o personaggi esteri, tra cui tutti i nipoti dei pontefici, da Innocenzo VIII (Giambattista Cibo) a Pio VI (Gian-Angelo Braschi).
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L'aristocrazia ereditaria ebbe la sua vera sanzione con la legge 31 agosto 1506, che istituiva il cosidetto "Libro d'oro" (da non confondersi con il "Libro della Nobiltà" pura - la prima classe, che guardave le altre con disprezzo) per registrare legalmente le prove della nobiltà (matrimoni e nascite) all'ufficio dell'Avogaria.
Tutti i nobili, pervenuti all'età di venticinque anni, avevano accesso, dietro l'esame de' loro titoli fatto dagli Avogadori, al Maggior Consiglio, il vero sovrano della Repubblica ; ma vi erano ammessi comunque trenta patrizi più giovani (dai vent'anni compiuti) estratti a sorte ogni anno il giorno di Santa Barbara (4 dicembre).
Nel 1367 si contavano a Venezia 204 case nobili, mentre nell'ultimo dicembre del 1796 il "libro d'oro"ne registrava 111 soltanto, rappresentate al Maggior Consiglio da 1218 individui, ognuno dei quali (meno rare eccezioni) aveva diretta ingerenza nel mare magnum di un'amministrazione che si dovette ancor più ampliare per sovvenire ai bisogni dei nobili poveri, che (non potendo più arricchirsi col commercio a mano a mano scemato) chiedevano la loro parte di beneficio nel governo aristocratico.

La veste dei nobili consisteva nella toga di panno nero a maniche larghe, con fodera, l'inverno di vai, e l'estate di dossi, di faine e d'ermesini, ma di colore paonazzo per i savi del Collegio, gli avogadori ed i capi delle Quarantie. Però ne' giorni solenni i senatori portavano la veste rossa o di velluto o di damasco, secondo la stagione. In luogo poi del cappuccio, andato in disuso, si sostituì una berretta di lana, tinta in nero, soppannata di seta, rotonda e alquanto larga, chiamata berretta a tozzo, finchè, venuta nel 1668 la moda delle parrucche incipriate, non servì più la berretta a coprire il capo, ma fu portata in mano quasi a corredo ed a complemento dell'abito portato in pubblico.
Rimase invece conservata quella striscia di panno chiamata stola, che aveva lo stesso colore delle veste: rossa ad esempio quella dei Capi del Consiglio decemvirale, degli Avogadori di Comun e del Cancellier grande, purpurea quelle dei senatori, violacea l'altra dei Savi grandi e dei Consiglieri ducali.

Adottate dai nobili, in via ordinaria, le fogge francesi, non potevano farsi vedere in piazza San Marco, e men che meno comparire negli uffici, senza la toga patrizia, per cui s'introdusse, negli ultimi tempi, il costume di tenere un piccolo appartamento sulla Piazza medesima o nelle sue vicinanze per poter vestirsi e spogliarsi, riposare, ricevere visite o attendere alle proprie particolari faccende. (Si propagò questa moda, dei "Casini" che divennero successivamente luoghi di geniali riunioni, ma anche di gioco e di illeciti amori. Ben presto questi "casini" diventarono perfino il noto sinonimo di "casa di piacere").

I doviziosi patrizi, che, insigniti delle più alte dignità dello Stato, dovevano spendere anche dei propri denari, abitavano in sontuosi palazzi, mentre quelli -patrizi pure loro ma decaduti- che avevamo bisogno di pubblici impieghi per vivere, dimoravano, per lo più, nella contrada di San Barnaba, nel sestiere di Dorsoduro, detti perciò barnaboti. I palazzi dei primi erano sorprendenti per architettura ed arredi, giacchè all'esteriore ricchezza di marmi e d'ornamenti corrispondeva la magnificenza interna: mobili dei legni più rari e costosi, lavorati con squisita maestria, storiati e ad intagli, sofà asiatici, sedie delle stoffe più preziose riempivano le camere e le sale, cui si aggiungevano fregi, quadri e statue, accoppiando alla mollezza orientale il gusto eccellente dell'arte italiana. Nelle camere da letto erano lenzuola finemente lavorate a ricamo, cuscini di seta e coperte di panni d'oro e d'argento; d'oro e con pietre preziose erano le spazzole, i pettini, gli specchi, perfino gli alari dei caminetti, tanto che il frate Pietro Casola milanese (di passaggio a Venezia, nel 1498, per recarsi a Gerusalemme) non esitò d'asserire che tanta abbondanza d'oro non lo doveva aver posseduto neppure il re Salomone.)

« La camera in cui fu a far visita ad una Dolfin, allora da parto, l'abbagliò per modo ch'ei dice troppa sarebbe stata tanta magnificenza alla stessa duchessa di Milano non che a semplice dama. L'ornamento di quella camera, la quale pur non si estendeva oltre alle dodici braccia, si poteva stimare il valore di duemila ducati (zecchini); era il soffitto tutto d'oro e azzurro oltramarino, le pareti così ben lavorate da non potersi dire; una sola lettiera del valore di cinquecento ducati; nè minor ricchezza mostravano le cortine, gli arredi del letto, il vestito della puerpera, cui facevano corteo venticinque donne tanto coperte di gioie da superare ogni credenza.
«Ho considerato -scrive il buon frate- le qualità da questi gentilhomeni venetiani, che sono per la maior parte belli homini e grandi, astuti, e in le loro faccende molto scaltri; e bisogna chi (ha) a contrastare con loro tenda bene le oregie e li ogii (occhi); sono alteri; credo sia per il grande dominio che hanno. E quando nasce uno fiolo ad un venetiano, per se dicono che è "nato uno signore al mondo". In nel viver suo a caxa son molto modesti, fora di caxa molto liberali. Mantiene la città di Venetia lo antiquo modo suo nel vestire longo, e col colore come si voglia. Non uscisse de giorno mai persona de casa se non è vestito de longo e per la maior - parte de negro.... abito certo pieno de fede e de gravità; pareano tutti doctori de lege e quando uno se parisse (usciva) fora de casa senza la sua toga sarebbe reputato pazzo ».
(Viaggio di Pietro Casola a Gerusalemme, autografo esistente nella Biblioteca Trivulzio, Milano)


Fu appunto per questa disparità di colori che il Senato decretò, nel 1631, che l'abito ordinario di tutti i nobili fosse di panno nero con ampie maniche, onde, accettate poi le fogge francesi, essi solevano coprirle (vergognando quasi d'avere lasciata l'avita toga) d'un tabarro o ferraiolo, bianco per l'ordinario, rosso per gala, e turchino pel maltempo, di seta o di panno, foderato o no, secondo la stagione.
(Simili interventi furon fatti gia nel 1562 per le gondole: Il Senato volle porre freno alla dilagante mania di grandezza e di lusso, e regolamentare la materia. Il fatto che uno aveva soldi non doveva aver il diritto di farsi una barca più grande e ostacolare i canali di transito agli altri, si volle così una democraticizzazione e una regolamentazione nelle misure; ma anche nella sobrietà. Quindi si votò una legge che tutte le gondole dovevano essere rigorosamente NERE, senza nessun altro fregio se non un semplice simbolo, e che la misura doveva essere per tutti - ricchi e poveri- 11 metri lunga, 1,75 larga, 7 quintali di peso.)

Il recarsi in villa nell'autunno era divenuto un bisogno generale, per cui si profondevano somme favolose che mandavano in rovina dei patrimoni. Centotrenta e più palazzi ornavano il Terraglio (la bellissima strada che da Mestre va sino a Treviso) e le rive del Brenta, lungo la strada che da Padova conduce al marigne delle lagune. In quei siti deliziosi, ove regnava sempre la più grande opulenza, abbondavano le stanze principesche (quella di Stra, dei Pisani, ne aveva 198 di locali; quella del Conarini a Piazzola sul Brenta solo qualcuna in meno, ma entrambe erano affrescate dal Tiepolo): poi i cocchi dorati, i superbi cavalli; i lacchè, le servidorame a ricche livree (alcune famiglie come i Pisani, i Mocenigo, i Contarini, ecc. tenevano fino a 40-50 servitori e possedevano dalle sei alle dieci gondole); numerosi i lauti pranzi, più laute cene, veglie prolungate fino a giorno , giuochi ruinosi, concerti musicali, novellatori di galanti avventure, parassiti, poeti, tutto quanto poteva render la vita - almeno nelle sue esteriori apparenze- un sogno dorato.

"Ma, non di rado, si offrivano ai numerosi ospiti più modesti trattenimenti: e quindi erano là pronti rulli volanti (specie di gioco dei birilli, o moderno bowling - Ndr.) ed il famoso
giuoco dell'oca, che si faceva specialmente nelle sere di maltempo, rifocillandosi, negl'intermezzi, con le cucciole (castagne bollite nell'acqua) e qualche bicchiere di vino dolce, oppure, nelle belle serate non disdegnavano i patrizi di condurre i loro amici forestieri nelle abitazioni dei propri coloni per assistere alle veglie che le femmine, intente a filare il lino, usavano tenere nelle stalle. C' era gran diletto l'udir da qualche vecchierella narrare le stravagantissime fiabe delle fate e degli stregoni e ancor più vedere come a quei racconti la brigatella rustica stava estatica ed a bocca aperta se li beveva". Talvolta il trattenimento variava, e si udiva cantar da qualche villanello certe semplici villotte (canzoni contadinesche) accompagnate dal suono di un colascione (una specie di chitarra) e più spesso da un piombè (una specie di scacciapensieri) con un piacere indicibile di tutti gli astanti".

"Riguardo poi al matrimonio, tra nobili, è noto ch'esso veniva promulgato solennemente nella corte del palazzo ducale. Al mattino si portava lo sposo a ricevere le congratulazioni del doge e dei senatori, senza ch'egli avesse ancora veduta la predestinata compagna della sua vita, perchè solo allora si fissava il giorno per sottoscrivere il contratto.
In tale occasione il padre della sposa invitava alla propria casa tutti gli amici, che venivano ricevuti all'uscio da lui stesso e dal futuro suo genero. In una sala, dov'era proibito l'ingresso alle femmine, si raccoglieva l'allegra comitiva per attendere che s'aprisse la porta, da cui doveva mostrarsi la sposa vestita di candido drappo, colle chiome sparse, e, secondo l'uso romano, tenuta a mano dal paraninfo, che, a Venezia, era ordinariamente il maestro di ballo destinato ad insegnarle alcune danze per il dì delle nozze.
I cuori di tutti battevano in quell'istante, che decideva, o di una simpatia messaggera di una unione felice o di una avversione sorgente di rammarichi eterni ".
(Paoletti, Il fiore di Venezia, IV, p.76)
Il paraninfo conduceva quindi la trepidante donzella ad inginocchiarsi dinanzi al padre, alla madre ed agli altri più prossimi parenti per averne la consueta benedizione.
Concluso il contratto, che ne' primi tempi si stipulava talvolta nel pubblico palazzo ed al cospetto del doge medesimo, mentre suonavano le trombe ed i pifferi, la sposa si avvicinava ad ognuno degl'invitati dai quali riceveva omaggi e congratulazioni.
Finalmente, sull'albeggiare del giorno prefisso, i fidanzati, preceduti da un drappello di suonatori ed accompagnati da' parenti e dagli amici, si portavano al tempio.
Vigeva l'uso
ab antico che, nella cerimonia nuziale, quattro uomini tenessero i lembi del velo alzato sopra la testa degli sposi, che si soleva ornare con corone di fiori. Ma, nel XIII secolo, questo rito fu modificato, si sostituì il velo con un drappo rosso foderato d'ermellino, che avvolgeva le spalle dell'amorosa coppia: il cingimento della corona venne però limitato in seguito alla sola fidanzata, la quale indossava una veste bianca di seta o di velluto chermisino, anziché il manto damascato aperto ai lati e foderato d'ermellino (sotto cui si scorgeva una volta, la veste ugualmente in damasco a fasce verdi rossastre con ricami in oro), mentre lo sposo portava la sua toga patrizia.

Dalle leggi appare chiaro quanto fosse il lusso nella occasione di nozze, onde furono proibite le cene con intervento di donne dal giorno di San Michele a tutto il carnevale.
Così pure una determinazione del 1334, importante per le fogge e gli arredi che di quel tempo ci fa conoscere, ricorda vesti e guarnizioni di stoffa d'oro ricamata ad ago, o d'oro massiccio, di velluti e drappi di varie sorta e colori (sciamiti); ricchi fregi di perle, d'oro o d'argento, sulle cappe o nelle acconciature; pelli rare e costose, lunghi strascichi alle vesti, preziose cinture con agorai, coltellini ed altri ciondoli che da quelle pendevano; ci parla della lunga comitiva di servi e fantesche che conduceva seco chi andava al pranzo di nozze, del gran numero degl'invitati, per cui fu duopo limitare l'accompagnamento a non più di settanta donne maritate e dieci donzelle, e proibire allo sposo d'invitare più di quaranta matrone e quindici donzelle per ricevere la sposa".
(Romanin, St. doc. di Ven, vol III, pag 347)

« Talvolta, senza la cerimonia del tempio, il matrimonio si celebrava privatamente nella casa dello sposo. Allora dal detto paraninfo, dopo aver la sposa ricevute le benedizioni dai parenti, veniva condotta nel mezzo della sala onde dare la mano al suo sposo e ricevere la benedizione dal sacerdote o dal patriarca. Compiuta tale cerimonia gli sposi si davano un bacio pubblicamente, mentre un grido universale gli stimolava a ripetere i baci, pegno di un amore nuovo del tutto. Indi si cominciava a dar fiato agli strumenti musicali, al suono dei quali la sposa tutta sola ballava due o tre balli figurali; dopo di che un giovane gentiluomo, stretto parente di lei, le porgeva la mano e lo stesso facevano tutti gli altri verso le dame presenti. Unite le coppie si aprivano esse un sentiero in mezzo alla calca e passavano dall'una all'altra stanza. Quel ballo durava fino a notte alta, succedendo ai primi sempre nuovi danzanti. Veniva dopo il lauto banchetto... »
.(Paoletti, Il fiore di Venezia, p.77)

Molte leggi furono emanate per frenare il lusso dei simposi nuziali (limitandosi il numero dei convitati, delle pietanze, ecc.), come pure quello del vestiario muliebre ; donde la vesta, ossia l'abito di seta nera, ed il leggiadro zendaletto (una specie di grande foulard), leggerissimo drappo di seta nera, divenuto l'abito, per così dire, nazionale, che graziosamente appuntalo sul capo con malizia copriva e discopriva il volto, con eleganza si attorcigliava alla vita, dandogli il potere veramente magico di abbellire le brutte, e di fare maggiormente spiccar le attrattive delle belle ».

Ma, nonostante le tante leggi suntuarie (del 9 luglio del 1671, che probiva i lacchè, paggi e staffieri) e la vigilanza dei Provveditori alle Pompe, deputali a mantenere una saggia moderazione, nelle vesti, negli arredi e nelle feste, le belle dame veneziane o prevaricavano a costo di pagare l'ammenda loro comminata o ricorrevano fino al supremo gerarca della Chiesa per ottenere il permesso di portare vesti ed ornamenti proibiti.

Le patrizie, di solito uscivano raramente a piedi, giammai sole od in gondola scoperta, neppure nei cosidetti "freschi" o corse sul Canal grande. Ma, negli ultimi tempi, vennero le mode d'oltr'alpe, e, con esse, una certa "libertà di costumi", onde, fattesi anche le gentildonne più intraprendenti , introdussero l'uso del cavalier servente per essere accompagnate nelle visite, ai passeggi ed ai teatri «uso contro il quale fu esageratamente esclamato, e fattone carico, quando era comune anche altrove". (
Romanin, St. Doc. di Ven. IX, p.13. Che fa notare che si solito questo cavalier servente non era il solito cicisbeo galante, ma un uomo attempato, di solito amico di casa).

Tuttavia a tale rilassatezza contribuiva però lo sbagliato metodo di educazione che i patrizi si ostinavano a seguire per le loro fanciulle. Lontane da società, da feste e spettacoli pubblici così frequenti a Venezia, erano allevate in una appartata stanza del palazzo, oppure (il che accadeva molto spesso) nei conventi, ove ricevevano una istruzione del tutto rudimentale. Indi pervenute poi al matrimonio, senz'alcuna precedente conoscenza personale dello sposo ed ignare del tutto del mondo e dei suoi pericoli, si trovavano ad un tratto sbalzate da una quasi totale clausura, in mezzo al vortice di esso, smaniose di godere, e ovviamente esposte a tutte le seduzioni ».
(Ib. p.14).

Ed ora dirò di un'altra classe della popolazione, che non era nobile, che non partecipava agli onori cittadini e agli uffici pubblici, ma che non era da meno del patriziato nell'amore alla patria e nel contribuire alle sue glorie con la virtù e con l'opera.

Allorquando, alla morte del doge Vitale Michiel II, fu stabilito un nuovo metodo di elezione, si venne allo espediente (per calmare le giuste ire del popolo, spogliato del suo legittimo diritto) che il principe (Doge) fosse eletto, tra gli ottimati, dagli undici elettori nominati dal Maggior Consiglio, ma la scelta non era valida se non veniva approvata dal popolo. Questo, non ancora interamente escluso dal Maggior Consiglio, si contentava dunque di esercitare il diritto di approvare il Doge, e sebbene le elezioni annue del Consiglio medesimo cadessero quasi tutte sui nobili, quelli ch'erano i più ricchi e potenti, il popolo di questo non si lagnava, sia perché vedeva retta ed inflessibile la giustizia amministrarsi sui primi del pari che sugli ultimi cittadini, o perché era molto occupato nelle industrie e ne' traffici allora così fiorenti. Perciò il popolo, avendo la parte principale nel commercio e nelle arti, considerava le guerre, in cui era impegnata la Repubblica, d'interesse puramente nazionale, e vi accorreva con patriottico entusiasmo. Viva San Marco! gridò quell'uomo del popolo che piantava il vessillo sulla torre di Costantinopoli: Viva San Marco! gridava il prode Vettor Pisani al popolo, che nell'ora del supremo pericolo, aveva chiesto la sua liberazione dal carcere, onde lo guidasse alla vittoria. (entusiasmi patriottici simili risuonarono anche nel 1848, con Manin)

Stabilita successivamente, come dissi, l'aristocrazia ereditaria con la famosa serrata del Maggior Consiglio, seguita da varie restrizioni, e con l'istituzione del Libro d'oro (da non confondersi con il "Libro della Nobiltà"), sorse, accanto alla nobiltà, l'ordine dei cittadini. Cittadino di Venezia era in antico chiunque faceva parte della concione ; ma abolita questa forma di autorità collettiva ed escluso il popolo, i
mediocres (che, coi majores ed i minores, costituivano il Commune Venetiarum) formarono il secondo ordine dello Stato, ch'ebbe nome di cittadini originari. Questa parte più eletta del popolo esercitava le professioni liberali (medicina, avvocatura, notariato; ecc.), le arti nobili (architettura, pittura, scultura) e la mercatura.
Tolto, dunque, al popolo il suo diritto d'ingerenza nella sovranità, di questa non ne rimase che una lontana memoria, e solo nella presentazione che ad esso si faceva del nuovo Doge, quando (il giorno dopo l'elezione) il
serenissimo principe recavasi alla basilica di San Marco, ove, fra i due elettori più anziani, si mostrava alla moltitudine dall' ambone o tribuna dei cantori, mentre le campane suonavano a gloria.
Ma chi credesse che il popolo lasciasse imporsi il giogo dall'aristocrazia perché avvilito, senza coscienza politica, senza morale domestica, si troverebbe in errore al pari di quello cui fosse dato ad intendere che il governo volesse ignorante e vizioso il popolo per poterlo dominare più sicuramente. «Possiamo con franchezza asserire il contrario, e asserire possiamo, che anche nell'ultimo secolo era nel popolo religione, morale, severità di costumi, la tabe venuta da oltremonte non avendo penetrato nelle minori ed infine classi».

Certo che queste potevano dirsi ignoranti, se per istruzione si voglia intendere lo svolgimento delle sole facoltà intellettuali per mezzo della scuola; ma il popolo veneziano aveva una educazione propria in virtù delle sue tradizioni orali, dei suoi stessi costumi e del sentimento religioso intimamente collegato al sentimento patriottico, ond'era il solo in Europa che avesse una propria letteratura. In effetto le gloriose gesta della Repubblica, le epoche più memorabili della sua storia, le sue feste e l'origine di esse, le guerre passate e le presenti, erano dagli scrittori verseggiate nel dolce idioma nativo e tramandate alla memoria del popolo, che, in tal modo,
conosceva e commentava i principali avvenimenti della sua patria.
Oltre ciò gli aurei versi dell'Ariosto e del Tasso o quelli di Virgilio, d'Orazio o di Giovenale erano letti dai popolani nel più puro dialetto, ridotti alla loro intelligenza e da essi cantali per le piazze, per le strade, per i canali. "Cantano (così l'immortale commediografo veneziano) i mercatanti spacciando le loro mercanzie, cantano gli operai abbandonando il loro lavoro, cantano i barcaioli aspettando i loro padroni. Il fondo del carattere della nazione é l'allegria, ed il fondo del linguaggio veneto é la lepidezza"
(Memorie del sig. Goldoni, Ediz. Zatta, vol. 1, p, 254),

Essendo stata la città d'Eraclea il teatro principale delle contenzioni tra i popoli delle Lagune, rimase, anche dopo il trasferimento della sede del governo da Malamocco a Rialto, una specie d'antagonismo tra gli abitatori dei lidi (come appunto gli Eracleani), e quelli delle isole: onde le due opposte fazioni, lasciato l'antico nome, si chiamarono a Venezia dei Nicolotti e dei Castellani, traendo il nome dai due punti estremi ed opposti della città. La prima (distinta dalla fascia nera attorno le reni e dal berretto d'eguale colore) comprendeva tutti quelli che stavano di là dal Canal Grande verso occidente, la seconda (contrassegnata dal berretto e dalla fascia di tinta rossa) coloro che abitavano di qua dal Canale verso oriente. «La linea che divide le due fazioni é singolare e tale che mal si saprebbe descrivere. Non le divide il Canal Grande, che pur mette nella città due grandi e naturali partizioni, congiunte insieme dal ponte di Rialto, pertanto si hanno Nicolotti e Castellani sì nell'una e nell'altra parte del canale. Non sono divise come se si tirasse una linea che partisse la città per mezzo via il ponte di Rialto. E' una divisione singolare, che comprendendo varie delle antiche isole in ogni fazione, mostra la verità dell'origine e il ridursi nella città delle parti diverse della consociazione. Le isole stesse che restarono abitate, appartenevano all'una o all'altra delle fazioni secondo il luogo dove nacque il cittadino; il forastiero secondo il luogo dove per la prima volta pose il piede venendo in città ».
Principale gara di queste fazioni, divenute affatto innocue alla pubblica tranquillità, erano le cosiddette forze d'Ercole, delle quali dirò nell'ultimo capitolo (feste e spettacoli), senza che la vittoria dell'uno o dell' altro partito avesse mai a provocare cruente rappresaglie così che, nell'ora del supremo pericolo per la patria, più non si conoscevano né Castellani, né Nicolotti, ma tutti Veneziani, tutti figli di San Marco.
Il grosso della popolazione operaia componevasi di arsenalotti, pescatori, barcaiuoli, artigiani propriamente detti (vetrai, conciapielli, scalpellini, ecc.). I primi, oltre che lavoranti e custodi dell'Arsenale, erano incaricati di spegnere gl'incendi ed avevano la guardia del Maggior Consiglio, sotto gli ordini dei procuratori di San Marco, che, durante le sue sessioni, risiedevano per turno nella
loggetta del Campanile posta di fronte il palazzo ducale. Gli arsenalotti andavano armati di brandistocchi (un arma simile alla picca) e d'un legno dipinto in rosso, che tenevano in mano a guisa di bastone.
Nessuna milizia stanziale nella città, nessuna divisa militare. V'era un corpo di milizia civica od urbana, detto i
bombardieri o bombisti, composto di cittadini della classe media e del ceto popolare. Gli ufficiali erano pure veneziani, e come i semplici bombisti, appartenevano alle arti ed al piccolo commercio. Questo corpo (da 400 a 500 uomini), costituito in forma di sodalizio, aveva per protettrice Santa Barbara, martire di Nicomedia, ed un locale o scuola in vicinanza alla chiesa di Santa Maria Formosa. L'uniforme consisteva in un soprabito, velada turchina, mostre, paramani e fodere rosse, bottoni d'oro, brache corte al ginocchio e panciotti (gilet) gialli, in pelle di dante, calzette bianche, scarpe con nastro o fibbie d'argento, piccolo cappello nero tricuspidale, ossia tripuntito, con coccarda a colori bleu e giallo ; nelle mostre, o parate di gala, brandivano certe picche o piccole alabarde più o meno ornate, secondo il rispettivo grado ed il capriccio degli ufficiali.

I bombardieri si esercitavano al bersaglio di San Nicolò del Lido o a quello di San Bonaventura a Sant'Alvise, ed assistevano, come guardie d'onore, alle porte ed alle stanze de' palazzi, al solenne ingresso de' procuratori di San Marco e del Doge, o in occasione di altre pubbliche feste, nelle quali, tanto esso che i membri della Serenissima Signoria, i senatori, ecc. si presentavano al popolo senza corteggio d'armati. «Erano armi sole l'amore del popolo, quella mutua confidenza dei governati e dei governanti, ch'é salda base dei governi, per la quale un fante dei magistrati e il suo berretto rosso, con sopra una medaglia coll'immagine di San Marco, bastavano a dominare e condurre tutto il popolo».
(Venezia e le sue lagune, vol. 1, p.192).

Quando l'aristocrazia ereditaria rimase sola signora della Repubblica, si volle lasciare al popolo almeno un'ombra di rappresentanza nel cosiddetto "
gastaldo dei Nicolotti", che il volgo soleva chiamare " 'el doge dei Nicolotti". Era esso, infatti, il capo dei pescatori della parrocchia o contrada di San Nicolò dei Mendicoli (la parte di popolazione povera e di pescatori che appunto dimorava in quella zona) il quale, eletto pure lui con solenne apparato, godeva alcuni privilegi ma nessuna autorità.
Morto il "Gastaldo grande", che si seppelliva con gran pompa, i più anziani di quella contrada si presentavano a Sua Serenità ed all'Eccellentissimo Collegio per avvisarli della morte del loro capo ; in seguito a che il Doge, d'intesa col Senato, delegava appunto un segretario del Consiglio de' Pregadi, onde presiedesse all'elezione del suo successore.
«Stabilitosi il giorno, si danno tre segnali alla Campana (di San Nicolò), congregando, tutti quelli che devono intervenire alla
ballottazione del nuovo Governatore e Gastaldo, finito il terzo segnale compariva (il segretario) con veste lunga a manica a comco (gomito) di colore paonazzo, e con la stola, del medesimo colore sopra le spalle. Il Segretario accompagnato da due Coadiutori giovani della Cancelleria ducale, entrando questi in chiesa di San Nicolò dopo aver fatte le solite orazioni, si andavano a porre nel mezzo dei dodici Precedenti, i quali il giorno prima di questa elezione venivano eletti solo per questo incarico; sedendo poi sopra al signor Secretario, il molto Reverendo signor Piovano di quella Chiesa, a cui dal signor Segretario veniva dato il luogo.
Con questo ordine postisi tutti a sedere, il Secretario ordina e comanda che non si possa essere ammessi a questa ballottazione di Castaldo Grande salvo che Nicolotti pescadori, nativi nella stessa comunità di San Nicolò e San Raffaele».
(Notizia sull'elezione del Gastaldo, busta 798, doc. 20, Bibl. Univ. di Padova)
Il Segretario senatoriale invita quindi tutti coloro che aspirano alla dignità gastaldizia a dichiarare il proprio nome, che viene subito annotato dai suoi coadiutori in un foglio di carta, ove si registrano pure i nomi di quelli che debbono votare.
Chiuse le porte del tempio, si fanno entrare i concorrenti nella Sacrestia, e di mano in mano che i coadiutori ne pubblicano i nomi il candidato rientra in chiesa per salire sul pulpito e dire ciò che più gli pare opportuno ad assicurarsi una favorevole ballottazione.

Prima ch'essa abbia luogo, viene cantato dai preti di San Nicolò, al suono dell'organo', il "
Veni creator Spiritus", finito il quale (e detta l'orazione "ad postulandam gratiam Spiritus Sancii") il piovano tiene un breve sermone "esortando cadauno di quelli sopra la loro coscienza a voler eleggere il migliore e più sufficiente».
"Allora il segretario del Senato levasi in piedi ed alzando con la mano destra la sua stola, così si esprime: « Padri, Fratelli e Figliuoli, avendo il Serenissimo Principe, e Serenissima Signoria, intesa la richiesta che gli faceste, perché (a) questa balottatione mandasse uno dei suoi Secretarii, la Serenità sua é stata contenta per mantenervi li vostri Privileggi, e antiche consuetudini, onde ha quà mandato me N.... oggi, e così vi esorto, in conformità di quello, che dal vostro molto Reverendo -Signor Piovano vi é stato detto far elettione di Persona da bene, e sufficiente, e che possa essere di sodisfattione- a Sua Serenità, et alla Città tutta; e che si abbia causa di laudarvi, e conservarvi, e accrescervi le vostre antiche consuetudini, avendo massimamente voi bisogno di un Gastaldo, che ben regga le cose nostre».
Dettoquesto si dà inizio alla ballottazione, per cui quello che ottiene la maggioranza viene levato (dagli anziani) dalla Sacristia e condotto sull'altar maggiore, dove, postosi in ginocchio dinanzi al SS. Sacramento, presta a Dio ed al Segretario (quale rappresentante del Doge e della Serenissima Signoria) il seguente giuramento di fedeltà: «Noi N..... Dei gratia Gastaldo grande di San Nicolò, e San Raffaele, giuro sopra di questo Altare, e sopra "Haec sacra Dei Evangelia", e nelle vostre mani: "Haec administrationem sine fraude et bona fide conservare ».
Quindi il Segretario prende lo stendardo con l'insegna di San Nicolò protettore dei Nicolotti, e lo porge al loro nuovo capo con queste parole "Consignamus Vexillum Sancti Nicolai in Nome del Serenissimo Principe, e Serenissima Signoria, in segno che voi siete Capo Gastaldo, e Principale del Popolo di San Nicolò, e San Raffaele ».
Subito dopo viene intonato il
Te Deum, finito il quale, si aprono le porte della Chiesa, le cui campane uniscono i loro festosi concerti alle giulive acclamazioni del popolo.
All'indomani della sua elezione, il nuovo Gastaldo, preceduto da trombe e tamburi, non che dal vessillifero, ed accompagnato dal pievano di San Niccolò, dai parenti e dagli amici, si presentava al Collegio per dar parte della sua nomina al Doge ed alla Serenissima Signoria, a fine di riceverne la conferma. Introdotto nell'aula da un segretario del Senato, il principe lo "esortava ad esser buon padre di quella famiglia et ossequioso alla pubblica maestà, che ciò facendo egli medesimo gli sarebbe sempre protettore, e lo assisterebbe nelle occasioni ».
(Mutinelli, Lessico Veneziano,, p. 144)
Dopo queste parole l'eletto si appressava al Doge, ed inginocchiatosi a' suoi piedi gli baciava la mano, indi il manto. Si restituiva poi con lo stesso seguito, alla propria contrada per assistere alla messa solenne cantata dal pievano, ed invitava al suo desco i parenti e gli amici, mentre, al di fuori, i suoi comparrocchialí festeggiavano il fausto avvenimento con maschere ed altri segni d'allegrezza.

Il
doge dei Nicolotti (ch'era, in sostanza, un capopopolo formalmente riconosciuto dal governo) indossava nelle pubbliche funzioni un'ampia veste di raso o di tabì chermisino o di panno scarlatto con pelli di dossi o di vai, secondo la stagione, calze chermisine, scarpe di marocchino del medesimo colore, e portava una piccola parrucca nera rotonda, berretta da gentiluomo, guanti bianchi.
Egli poi aveva non solo il privilegio di seguire il Doge con una barchetta, legata alla poppa del
Bucintoro, allo "sposalizio del mare", cioé nel giorno dell'Ascensione, ma anche il diritto d'esigere una tassa sopra tutte le barche pescherecce della sua contrada o parrocchia, e di tenere due banchi da pescivendolo nelle pescherie di San Marco e di Rialto, in modo che la sua entrata annua sommava a lire milletrecentosessantasette"

Così il capo dell'aristocrazia e quello dell'infima classe s'avvicinavano in certe occasioni solenni, simboleggiando, se non l'eguaglianza che più non esisteva,
un'armonia sociale, una comunanza di patriottici sentimenti tra popolo ed ottimati, per cui solo Venezia poté salire a tanta rinomanza.

Anche i barcaiuoli avevano la loro corporazione assai numerosa, essendo il maneggio del remo sempre la professione favorita del buon popolo veneziano. Non riusciranno perciò tediare al lettore alcune notizie tratte dalla
Mariegola (matricola) originale, ch'ebbi la ventura di scoprire nella Biblioteca Universitaria di Padova.
Come le Mariegole delle altre corporazioni, in cui stavano scritte le loro leggi statutarie, questa dei barcaioli é in pergamena, adorna di due bellissime miniature rappresentanti l'una Cristo crocefisso, l'altra San Giovanni Battista, protettore della Confraternita. Precedono lo statuto i capitoli dell'accordo stabilito con la chiesa di San Silvestro:
Anno millesimo quingentesimo sextodecimo lndictione quarta "Die sexto mensis Januarij"
(a tergo della prima carta non segnata)

!.... Chel prefato reverendo piouan col capitolo sia obligado cantar una messa cum diacono e sottodiacono ogni quarta Domenega da cadaun mese et cum lorgano et far la procession e tuto segundo lusanza.
« Item che siano obligadi ogni venere celebrar una messa per l'anima di defuncti et andar su le arche cum laqua sancta juxta consuetum « Item che I (essi) siano obligati solemnisar la festa de San Zuan baptista ogni anno cantando primi et secundi vesperi le la messa solenne cum la procession juxta el solito
«Itero chel prefato piouan et Capitolo siano obligadi al mancho tre de loro esser presenti quando saranno portadi i corpi a sepelir de la scuola in la sua arca et far l'offitio sopra dicto corpo, segundo el consueto
«Per converso veramente essa scuola gastaldo e Compagni sieno obligadi dar a esso Capitolo soldi vinti de pisoli (soldi piccoli, Una lira veneta era divisa in 20 soldi, e un soldo diviso in 12 soldi piccoli o denari) ogni quarta Domenega de mese per elemosina per el cantar de la messa » .
Ed a carta 1 segnata:
« In nome de Dio amen. Qua comensa el Capitolo de l'arte de i barcaruolj de Venetia.
'"In nome de Dio amen 1453 die tertio decimo octobre. Conzo sia cosa che davanti a nui Provedadorj de Comun et Justisieri vechj , comparesse el Gaslaldo cum prioribus boni homeni de la arte di barcaruoli digando che molti e molti mali se cometcua contro la forma de i ordini in danno e prejudicio de li zentilhomeni e merchadanli e de apri boni homeni de Venexia.... considerando che per l'offitio a mi (a me Gastaldo) ) come so cotal cosa e cossi simele hauemo acorezer (a correggere) et semo tegnudi deliberassemo de proceder cum opportuno remedio e al presente poner alguni ordeni li qual uni trovassemo esser ala Camera dela zusticia cum algune adition e Capitolazion si come de sotto per singulo se contien » .

Seguono gli articoli, di cui riferirò concisamente i principali per dare soltanto un'idea al lettore d'alcune discipline che regolavano allora la numerosa classe dei barcaioli veneziani, prototipi d'onestà, coraggio, intelligenza e franchezza, nonostante la loro innata abitudine del bestemmiare e del questionare tra essi (che però non trascende quasi mai in vie di fatto).

« De non lazar (lasciare) vogar alguno solo menor de anni 18 »
« Che non se debia partir el barcaruol de la barca da puo che la nolezada (dopo noleggiata) »
« Che cadaun possa acusar tutti quelli che contrafara"
« De quello che die (devono) pagar quelli ch'enctra in larte »
"Anchora ordeneremo che tutti i barcaruoli qual vora intrar in la dita arte damo (damò, ossia da ora) in avanti paga liure quattro de pizoli »
"De tuor licencia quando li uuol congregarse insieme (carte 5 tergo) »
« Anchoia che quando li homeni del arte se uoia congregar insembre per necessità del arte deba vegnir avanti li signori Justixieri a tuor licencia »
«A chi inzuziasse (insultasse) i Santi»
« Anchoia uolemo che se nessun dei nostri fradelli inzuziasse Dio o santa Maria siando (essendo) ala scuola pagi per cadauna fiada (fiata) soldi 20 e chi inzuziasse santo o santa pagi per cadauna fiada soldi 10 »

Seguono poi due importantissimi decreti del Consiglio dei X, che dimostrano come il governo ne volesse rendere obbligatoria l'inscrizione al sodalizio, né pretendesse che le disposizioni statutarie fossero applicabili ai non ascritti.

«20 giugno 1459 (Capi del Consiglio dei X Luca Vendramin, Jacopo Dandolo e Bernardo Venier).
.... « Item che chi vuol esser de questa mariegola (matricola) sia e chi non vol esser non sia ».
« 1465 adì 26 mazo (maggio).
« I Segnori Cauj (Capi) del Conscio de X zoe (cioè) m. Domenego Vitturi e m. Vettoi Soranzo comanda che le leze (le leggi) et ordeni sciiti in questo libro e matricola se intenda valer et obseruarse in quelli barcaroli soli li qual in la scuola de barcaruoli vuol o vorà stare e non in
li altri ».

Al pari delle sei Scuole grandi, anche le minori dipendevano dunque, nei riguardi politici, dal Consiglio dei X, il quale aveva perciò formalmente decretato non potersene fondare di nuove senza la sua approvazione.
I ventiquattro segretari del Senato ed i quattro segretari del Consiglio dei X, i ventiquattro notai ducali ordinari ed i notai ducali straordinari, gli avvocati fiscali delle varie magistrature ed i ragionieri, scelti tutti nell'ordine cittadinesco, appartenevano alla
Scuola della Carità, la più antica di tutte; i commercianti a quella di San Rocco, la più ricca delle confraternite; molti dotti secolari e gran parte, dei ministeriali (impiegati subalterni) a quella di San Giovanni Evangelista; i negozianti della Merceria, gli orefici ed i principali capi del setificio a quella di San Marco; i cittadini originari a quella della Misericordia; i più 'insigni artisti a quella, infine, di San Teodoro.
Ognuna di queste sei Scuole aveva il proprio, capo chiamato Guardiano grande, col titolo di magnifico, il sottoguardiano ed il vicario, i quali formavano l'ufficio di presidenza. Vi erano inoltre i dodici aggiunti, non che alcuni ufficiali minori, che, assieme alla presidenza, costituivano la banca, cioé il nerbo del governo della confraternita, ove tutti gli ascritti avevano eguale diritto ai suffragi ; ma nessun patrizio poteva essere eletto nelle cariche principali. Queste sei Scuole, dice il Sansovino, maritano ogni anno senza alcun dubbio più di 1500 donzelle e con l'entrate dei lasci de i testamenti. Dispensano similmente ogni anno case, danari, farine, mantelli e altre cose alla povertà per notabil somma d'oro; perciocchè ogn'una d'esse Fraterne ha di rendita intorno a cinque o sei mila ducati di stabili e di poderi».
Ma, oltre che il mutuo soccorso e la beneficenza verso i poveri, le Scuole grandi offrirono più volte grosse somme di danaro alla Repubblica, specialmente in occasione di guerra. Ma anche le minori confraternite, ossia le corporazioni d'arti e mestieri, diedero buon numero di soldati e di marinai.
Il 10 luglio 1539, ad es., la scuola della Misericordia chiedeva al Consiglio dei X licenza d'assoldare, a proprie spese, centocinquanta uomini in servizio delle galere e d'accettare, tra i propri confratelli, settanta volontari, che "vadano a militare in armata"; così la scuola di San Marco ed altre.
(Il numero massimo dei confratelli per le cinque sei grandi scuole era prescritto in non più di 560, quella di San Marco 660, mentre le altre inferiori ne contavano poco più o poco meno un centinaio)
Nel 1708 le Scuole grandi ebbero sovvenzioni dal Governo con ben trecentomila ducati e centottomila nel 1796, nel quale anno anche i minori sodalizi (Scuole dette Arti) ne diedero in dono alla Serenissima 42.581, come si trae dai registri dell'Archivio di Stato.(
Mutinelli - direttore del patrio archivio) Lessico Veneto", pagg. 364 e 365)

L'origine di queste confraterne rimonta al 1260 con l'istituzione della
Scuola della Carità nella contrada di San Leonardo, donde fu trasferita prima alla Giudecca, poi presso la chiesa di Santa Maria della Carità (ora Istituto di Belle Arti). Ad imitazione dì questa, sorse, nel mese di marzo dell'anno seguente, la scuola di San Giovanni Evangelista, che da Sant'Apollinare (volg. Sant' Aponal) passò nella parrocchia di San Stefano abate (volg. San Stin) Cessata con la soppressione generale de' sodalizi religiosi e laicali decretatasi dopo la caduta della Repubblica.
Invece la confraternita di
San Rocco, in riguardo alle sue benemerenze verso l' umanità ed alla magnificenza della propria sede, illustrata dal pennello del Tintoretto, fu ripristinata fino dal 1806 ; e, sebbene rimanesse ferma l'avocazione de' suoi beni al Demanio, venne provveduta d'un congruo assegno governativo (che poi -succeduto il governo italiano a quello austriaco- continuerà il Re d'Italia a versarlo).
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Tra le scuole minori accennerò quelle dei
Luganegheri (salsicciai), la cui matricola prescriveva «che alcuno del mestier non possi comprar più de tre porci alla volta e ciò perché ognun dell'arte possa vivere, e che il ricco non abbia a soffocar el povero » (Cicogna, Iscrizioni venete, VI, pag.800); dei Mercanti, unitisi in una sola società sotto il triplice nome di Santa Maria, di San Cristoforo e di San Francesco; degli artisti, de' tessitori di panni serici (textores pannorum sericorum), la cui arte occupava in ultimo 6344 persone, tra uomini, donne e ragazzi; de' varoteri o pellicciai, onde, per
esservi ascritti, richiedevansi negli aspiranti sei anni di "garzonato" e due di "lavorenza" con pruova; de' senseri (sensali), accresciuti sino al numero di duecentoventi, per l'aggregazione de' quali, alla rispettiva Confraternita, esigevasi non solo la fede di buoni costumi, ma l'assicurazione di "non esser soggetti a biastema" (bestemmia).

Oltre alle Scuole delle Arti vi era la Confraternita di Santa Maria e San Girolamo deputata alla giustizia in San Fantino, che fu assunta nella protezione del Consiglio dei Dieci col decreto 31 maggio 1533, e veniva da esso soccorsa nelle maggiori necessità perché «con tanta diligentia non solamente accompagna quelli che devono essere giustitiati alla morte ; ma provede anco alla salute delle anime loro col mezo de religiosi che manda a confortarli e mantenirli nella fede cristiana ».
Un altro sodalizio, che pur merita speciale menzione, sebbene non appartenesse alle arti, è quello
degli zoppi, di cui fa cenno il seguente documento pubblicato dall'illustre senatore Flaminio Cornaro. «Missier Giacomo Molesini ora detto Moresini, che portano (per arme gentilizia) la Tressa (treccia) azzurra in campo d'oro fabricò (920) il loco detto l'Anzolo Gabriele, ora chiamata la Scuola della Nonziata de zotti (zoppi) .... »
La famiglia Morosini concesse infatti l'oratorio alla Confraternita de' poveri zoppi (1° novembre 1392), e questa donazione fu confermata il 10 luglio 1527 da Francesco e Leonardo fratelli Morosini, a condizione ch'essi ed i loro discendenti fossero riconosciuti come unici e perpetui protettori. Ond'é che il più vecchio della famiglia interveniva il 25 marzo d'ogni anno (festa dell'Annunziata) alla messa che si celebrava in quell'oratorio.
La Scuola, i cui membri si recavano ogni anno nel mese d'aprile presso la famiglia Contarini alla Carità, dov'erano servili al nobile desco, maritava le figlie de' propri confratelli, le quali, se nascevano dopo l'inscrizione del padre nel sodalizio, riscuotevano dieci ducati, e, se prima, non ne ricevevano che cinque.
Le scuole pie, come i collegi delle arti, erano utili istituzioni che diffondevano nel popolo il sentimento della moralità, la mutua benevolenza, e ne ingentilivano l'anima per mezzo di quegli stessi esercizi religiosi che, sotto governi meno indipendenti della Repubblica Veneta, si sarebbero considerati fomiti d'oscurantismo.»
(Cecchetti , La Repubblica di Venezia e la Corte di ROm, pag. 256).

Nel 1732 il numero delle confraternite era salito nientemeno che a duecento e novanta (non comprese le scuole del Venerabile o del Santissimo, ora costituite in tutte le parrocchie da cittadiini che si eleggono le proprie cariche); per cui il Consiglio dei X, considerando che a tale moltiplicità contribuiva non solo il "puro divoto impulso, una anche un certo spirito di vanità, donde causavano lo sperpero di sostanze patrimoniali ed i conflitti tra scuole e parrocchie, decretava che - « non possa in avvenire permettersi la erezione di qualunque Scola Picciola, sia con titolo di suffragio, sovegno o confraternita.... »

Anzi, posteriormente, si sospesero 147 scuole, confraternite, suffragi e capitelli, eretti nelle chiese e contrade di Venezia senza permesso, dividendosi le rimanenti istituzioni in tre classi: le due prime ne comprendevano ottanta, che, avendo fondi sufficienti, si lasciarono sussistere sotto la vigilanza dei Provveditori di Comun ; le altre centocinquanta della terza classe vennero abolite, e gli argenti di loro proprietà convertiti in denaro, investito in zecca, il cui interesse annuale doveva essere rivolto a profitto dell'Ospizio dei mendicanti, quello eretto, ai SS. Giovanni e Paolo, su disegno dello Scamozzi, ne' primi anni del secolo diciasettesimo.

Testo integrale da
Storia di Venezia, di Eugenio Musatti
Prima edizione originale, Ed. Treves, 1914

Nelle due prossime puntate (in cantiere) parleremo delle
LEGGI e FINANZE e delle FESTE e SPETTACOLI a Venezia

20.000 - 193 d.C. 238-567 568-803
804-1172 1175-1284 1284- 1364
1364 - 1501 1501-2000 CRONO-BIOGRAFIA DEI DOGI


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