ANNO 1796

NAPOLEONE BONAPARTE IN ITALIA 


Sopra- I Francesi passano il Po, alla Ca' Rossa, davanti a Piacenza (19 aprile 1796)
Sotto . La rivolta antifrancese a Pavia ( 26 maggio 1796)

BATTAGLIE DI FOMBIO E DI CODOGNO - IL BONAPARTE E IL DUCA DI PARMA E PIACENZA - BATTAGLIA AL PONTE DI LODI - NAPOLEONE BONAPARTE A MILANO - TUMULTI ANTIFRANCESI A BINASCO E A PAVIA - AUSTRIACI E FRANCESI VIOLANO LA NEUTRALITÀ DI VENEZIA - BATTAGLIA DI BORGHETTO E OCCUPAZIONE FRANCESE DI PESCHIERA E VERONA - TREGUA FRA IL BONAPARTE E IL RE DI NAPOLI -SEDIZIONI DI TORTONA - I FRANCESI A BOLOGNA, A FERRARA, A RAVENNA, AD IMOLA E A FAENZA - TREGUA TRA I FRANCESI E LA SANTA SEDE - I FRANCESI IN TOSCANA - IL BONAPARTE E GENOVA - REGGIO SI RIBELLA AL DUCA ERCOLE - IL WURMSER IN ITALIA - SCONFITTE AUSTRIACHE- IL BONAPARTE A TRENTO - NUOVE SCONFITTE AUSTRIACHE - ASSEDIO DI MANTOVA - LA LOMBARDIA SOTTO I FRANCESI - OCCUPAZIONE FRANCESE DI MODENA - VOTI PER L'UNITÀ D'ITALIA - IL CONGRESSO CISPADANO DI MODENA - LE GUARDIE CIVICHE E LE PRIME LEGIONI ITALIANE

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BATTAGLIE DI FOMBIO E DI CODOGNO - IL BONAPARTE E IL DUCA DI PARMA E PIACENZA - BATTAGLIA AL PONTE DI LODI - IL BONAPARTE A MILANO - TUMULTI ANTIFRANCESI A BINASCO E A PAVIA

Prima ancora della pace di Cherasco (del 28 aprile), ma con il Re Sardo in pugno, Napoleone si era affrettato il 25 aprile, ad inviare il suo fidatissimo aiutante di campo Junot e il fratello Giuseppe Bonaparte, a Parigi, (via Nizza) con un lungo dispaccio esplicativo della sua opera e col fastoso corredo di ventuno bandiere catturate agli austro-sardi nei combattimenti da Montenotte a Mondovì; fatto poi l'armistizio di Cherasco, inviò altri trofei e il testo della convenzione tramite Murat (altro aiutante di campo di N.) che con una veloce galoppata via Moncenisio giunse a Parigi prima di Junot e Giuseppe.

Napoleone aveva lanciato su questa strada, questo soggetto perché piuttosto "guascone", "vero attore da circo", era l'uomo che ci voleva, cioè abilissimo ad ammansire il Direttorio e a fargli ratificare la convenzione.
Ciò che N. voleva ottenere, riuscì benissimo a Murat il 7 maggio, quando non solo al Direttorio ma a tutta Parigi portò la lieta novella. Poi trofei e bandiere ufficialmente e pomposamente presentate da Murat con una cerimonia trionfale il 9 maggio, scosse il Direttorio, che non potè rimase insensibile alla gioia popolare che i successi in Italia del giovane generale avevano suscitato a Parigi. E se a Parigi la popolarità di Napoleone già prima di partire era notevole, l'eco delle sue vittorie, e soprattutto la popolarità in crescita, impressionò e preoccupò il Direttorio, che con una risposta immediata fin dal 7 maggio, aveva già ratificato la convenzione con il Re Sardo, ma nello steso tempo prescriveva a Napoleone azioni che però non erano nei progetti del Corso, progetti concepiti intorno al successivo svolgimento della sua campagna in Italia. Infatti gli annunciavano una divisione nel comando di due eserciti che dovevano formarsi per proseguire la guerra in Italia. Prescrizione che per poco non indusse Bonaparte a dar le dimissioni e ad abbandonare l'Italia. Non era il tipo che poteva spartire i successi con un altro.
(Ricordiamo che per coprire il viaggio da Parigi al Q.G. di Napoleone occorrevano circa 5-6 giorni. E quando arrivarono le disposizioni del Direttorio, Napoleone con la prospettiva di una marcia trionfale senza molti ostacoli fino a Milano, aveva il 13 maggio già superato il PO ed era alle porte di Lodi. Dove poi si svolse la famosa "Battaglia al Ponte di Lodi",

Il testo di queste disposizioni le abbiamo integrali. Sono riportate nel prezioso e accuratissimo libro "La battaglia al ponte di Lodi" di G. Agnelli, ed. Biancardi, Lodi, 1934.
(lo riportiamo in pagine a parte, interamente dedicate al messaggio di Cornot, ricevuto da Napoleone al suo Q.G. proprio a Lodi, durante la cosiddetta "Settimana Lodigiana" 8-15 maggio 1796)
VEDI QUI
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Noi ora torniano per il momento in Piemonte.

Nei patti dell'armistizio di Cherasco, in seguito alla richiesta di NAPOLEONE BONAPARTE, il re di Sardegna VITTORIO AMEDEO III, fra le altre assegnazioni, concedeva ai Francesi il passaggio del Po sotto Valenza; ma da quelle parti aveva preso posizione con il suo esercito il generale austriaco BEAULIEU; il Bonaparte, forse non fidandosi delle promesse del sabaudo, giocando d'astuzia, il 7 maggio del 1796, alla testa di oltre trentamila uomini, passò invece il fiume alla Ca' Rossa, poco sopra Piacenza (l'antica Domus Rubea romana distrutta dalle invasioni barbariche).

"Il passaggio del Po fu una delle più importanti operazione strategiche della campagna. Era stato scommesso che i Francesi per varcarlo avrebbero impiegato due mesi. Lo varcarono in un giorno! condotti com'erano da un generale in capo di cui la pridenza, il discernimento, la saggezza delle combinazioni militari, la sagacità delle operazioni debbono dargli per la gloria ed il merito, la preminenza sui più rinomati generali d'Europa".
L'estensore di queste righe era Desjardins, in Campagne des Francais en Italie, Tom. IV, libraire Ponthieu, Paris. Era l'anno 1798 e il fervoroso elogio rivolto dall'autore a Bonaparte per le sue qualità di condottiero d'eserciti, ha assunto un valore di un vaticinio, poi stato così spettacolarmente confermato dalla storia.

"Dopo Lodi, ebbi l'impressione che potevo fare grandi cose" ricorderà Napoleone nel Memoriale di Sant'Elena. Ed infatti, da Lodi scrisse questa ottimistica lettera a Carnot, con un programma che si svolse proprio come l'aveva presentato in poche righe, queste:

Al cittadino Carnot
Quartier generale, Lodi, 22 floreale, anno IV (11 maggio 1796)


" La battaglia di Lodi, mio caro direttore, conquista alla Repubblica tutta la Lombardia. I nemici hanno lasciato duemila uomini nel castello di Milano, che io necessariamente vado ad investire. Voi potete contare nei vostri calcoli come se io fossi a Milano, non ci vado domani perché voglio inseguire Beaulieu e cercar di profittare del suo delirio per batterlo ancora una volta.
E' possibile che attacchi Mantova quanto prima. Se io prendo questa piazza nulla più mi arresta per penetrare nella Baviera. Entro due decadi io posso trovarmi nel cuore della Germania. Non potreste voi combinare i miei movimenti con le operazioni di codeste due armate? M'immagino che ormai ci si batta sul Reno; se l'armistizio continuasse, l'armata d'Italia sarebbe schiacciata. Se le due armate del Reno entrano in campagna io vi prego di darmi partecipazione della loro posizione e di ciò che voi sperate ch'esse possano fare, allo scopo di servirmi di tali notizie per entrare in Tirolo oppure per fermarmi all'Adige. Sarebbe degno della Repubblica di arrivare a firmare il trattato di pace con le tre armate riunite, nel cuore della Baviera o dell'Austria, stupefatte. Quanto a me, se sta nei vostri progetti che le due armate del Reno avanzino, varcherò il Tirolo prima che l'imperatore se ne sia seriamente accorto.
Se fosse possibile avere un buon commissario ordinatore, quegli che si trova qui sarebbe buono in sottordine, ma egli non ha sufficiente ardore né testa per essere in capo. BONAPARTE.
(DOCUMENTO IV" La battaglia al ponte di Lodi" di G. Agnelli, ed. Biancardi, Lodi, 1934).


Quando seppe dell'attraversamento del Po, il Beaulieu mandò incontro ai Francesi il generale LIPTAY con otto battaglioni ed otto squadroni; ma era troppo tardi; gli uomini di Bonaparte, essendo già passati in gran numero, assalirono il nemico a Fombio e qui ebbe luogo un aspro combattimento in cui si distinse per bravura un reparto italiano di cavalleria napoletana comandata dal colonnello FEDERICI; ma alla fine assieme agli Austriaci dovettero volgere le spalle, e darsi alla fuga verso Pizzighettone, inseguiti dal generale francese LA HARPE.

Quello stesso giorno (8 maggio) i Francesi entrarono a Codogno. Durante la notte furono assaliti da sei battaglioni di fanteria nemica e da altrettanti squadroni di cavalleria austriaca e napoletana, i quali, non sapendo della ritirata del Liptay, stavano correndo in suo aiuto. Accanito fu anche questo improvviso scontro avvenuto nelle tenebre. E purtroppo nel grande caos che si era creato in questo piccolo paese, alcuni reparti francesi si spararono addosso l'un l'altro e dovettero piangere la morte del valoroso La Harpe e quindici granatieri, uccisi per sbaglio dagli stessi Francesi. La mattina del 9 il BEAULIEU, vedendo che tutto l'esercito nemico era passato ed era di forze superiori alle sue, si ritirò prima a Casalpusterlengo, poi ulteriormente arretrando a Lodi.

Prima di marciare su Milano, il Bonaparte volle trarre profitto dalla vicinanza di Piacenza per incassare denari. In Francia, al Direttorio, alla partenza per la campagna in Italia, gli avevano dato un po' di denaro sufficiente per qualche mese, e gli avevano suggerito che in Italia poi "doveva arrangiarsi"; che le casse francesi erano vuote, quindi poche speranze di ricevere ulteriori aiuti finanziari. Non dimentichiamo che la campagna in Italia affidata a Napoleone con il suo valido ma raffazzonato esercito, era un attacco considerato poco più che un diversivo; scopo principale: tenere impegnati alcuni eserciti austriaci in Italia, mentre il grosso dell'esercito repubblicano francese guidato da Jourdan e dal Moreau, attaccava e impegnava l'Austria sul Reno. Nessuno lontanamente immaginava che questo ventisettenne a poco più di un anno di distanza, e cioè l'8 aprile 1797, avrebbe imposto al vinto Imperatore d'Austra l'armistizio di Leoben, standosene quasi alle porte di Vienna, dopo avergli distrutto ben quattro eserciti.

Nel ducato di Piacenza il Bonaparte assunse un contegno così ostile che il duca concesse quanto il conquistatore chiedeva: due milioni di lire, duemila buoi, mille e settecento cavalli, grano, avena e venti quadri di gran valore. Era questa la prima delle numerose "espropriazione" di oggetti d'arte che i Francesi effettuarono in Italia per abbellire - "come diceva il Carnet" - il regno della libertà. Neppure il duca di Modena sfuggì alle mire del Bonaparte; i patti a lui imposti furono anzi più gravi di quelli cui dovette sottostare il suo vicino: sette milioni e mezzo di lire, due milioni e mezzo in approvvigionamenti e venti opere d'arte.

La notte del 9 il BEAULIEU partiva per Crema; il luogotenente austriaco SEBBOTTENDORF, che era a Lodi con novemila e seicento soldati, usciva dalla città e si ritirava dietro l'Adda, lasciando nell'abitato un battaglione e al ponte di Lodi due squadroni al comando del generale ROSSELLINI, incaricato di sgombrare le salmerie.

Il Ponte di Lodi era il vecchio ponte di legno lungo all'incirca duecento metri e largo dai sette agli otto, appoggiato su quarabtaquattro piloni pure il legno, costituito da palafitte e punte saldamente confitte nel letto del fiume. In tempo di normale portata d'acqua il ponte si alzava dal pelo dell'acqua circa tre metri. Fu poi distrutto e incendiato più tardi nella ritirata di Radetzky il 25 luglio del 1848.

La mattina del 10 il Bonaparte entrò a Lodi e subito diede ordine ai suoi di forzare il ponte, difeso dal Sebbottendorf che aveva sotto di sé il WUBASSOWICH e il COLLI. Sotto il micidiale fuoco dell'artiglieria nemica, seimila granatieri e carabinieri francesi con alla testa il Massena, il Berthier, il Cervoni e il Lannes si lanciarono all'assalto e per un momento ebbero ragione col loro impeto della resistenza degli Austriaci; ma questi, sferrata la controffensiva con le riserve e la cavalleria napoletana, riuscirono a respingere i repubblicani e avrebbero guadagnato la giornata se dalle vie di Rolo, Cadilana e Fossano non fossero giunti rinforzi francesi che li costrinsero a ripiegare su Crema. La loro ritirata fu protetta dagli squadroni napoletani che anche questa volta offrirono prova di bravura respingendo sovente gli assalti degli inseguitori.

Dall'11 al 13 maggio i Francesi occuparono Crema, Pizzighettone, Cremona e Pavia senza incontrare ostacoli, anzi in quest'ultima città l'AUGEREAU ebbe liete accoglienze, specialmente dai novatori, i quali per tutta una settimana si diedero ad eccessi deplorevoli, oltraggiando i rappresentanti del comune, atterrando la statua romana detta il "Recisole" e rovinando il sarcofago di Bianca di Savoia sepolta in quella città.
Dopo la presa di Lodi, la caduta di Milano non poteva essere che imminente. L'imbelle arciduca FERDINANDO, governatore, era già partito il giorno 9, lasciando nel castello una guarnigione di duemila soldati, e i decurioni, impressionati dalle agitazioni dei democratici, a tutt'altro pensavano che non a difender la città dal Bonaparte. Anzi incaricarono perfino i conti GIUSEPPE RESTA e FRANCESCO MALZI di andare incontro al generalissimo repubblicano e di presentargli gli omaggi della capitale. I due inviati incontrarono a Melegnano (13 maggio) NAPOLEONE BONAPARTE, che li accolse affabilmente, e li assicurò che avrebbe rispettato la religione e i beni dei cittadini ed avrebbe permesso loro di scegliersi un qualsiasi governo, eccettuato l'austriaco.

Il 14 maggio alla cascina Colombara fuori porta Romana, don FRANCESCO NAVA, vicario, accompagnato da otto delegati del Municipio, sei della Congregazione di Stato, due dell'Arcivescovo ed altri del supremo Tribunale e dei Collegi dei Giurisperiti e dei Casuidici, si fece incontro al MASSENA, che avanzava con i suoi reparti e gli presentò le chiavi della città. Il generale, ricevendole, disse. "Le piglio da buon repubblicano e desidero restituirle ad un popolo che apra gli occhi sopra i suoi veri interessi". Il giorno dopo, il Bonaparte, ricevuto fuori porta Romana l'omaggio dei medesimi delegati e ripetute le stesse assicurazioni date dal Massena, entrò con il grosso dell'esercito a Milano, passando sotto un arco di trionfale di fiori, fra il popolo festante e due ali di militi urbani, dirigendosi poi al palazzo arciducale, dove accolse una deputazione del "club dei patrioti". Tutto il giorno le bande suonarono gli inni repubblicani, le vie furono animate, e alla luce delle luminarie la plebe seguitò a danzare tutta la notte, mentre uomini e donne ostentavano sul cappello o sul petto coccarde tricolori.

Il Bonaparte diceva ai Milanesi di portare la libertà, ma intanto requisiva i cavalli da sella, richiedeva tremila fucili, vuotava le casse dello Stato, dell'Ospedale Maggior, del Capitolo della Metropolitana e delle opere pie, imponeva un tributo di venti milioni, portava via le opere d'arte, cimeli preziosi della biblioteca di Brera e dell'Ambrosiana e pregevoli raccolte scientifiche.
Quanto alla "libertà" il generalissimo si limitò a permettere che gli scalmanati piantassero tutti gli alberi che volevano, licenziò i sessanta decurioni, costituì un'Agenzia militare composta di tre francesi che, sotto la direzione del generale DESPINOYS, doveva governare la città, e a far parte della nuova "municipalità" mise FRANCESCO VISCONTI, il duca GIOVAN GALEAZZO SERBELLONI, il proposto LATTUADA, il giureconsulto FEDELE SOPRANSI, l'avvocato SOMMARIVA, il conte GAETANO PORRO, membri del Club patriottico, PIETRO VERRI, il VISMARA, il BRAMBILLA, l'ingegner MERLO, CARLO NICOLI e il poeta GIUSEPPE PARINI.

Il 23 maggio Bonaparte partiva per Lodi e lasciava il Despinoys ad assediare il castello di Milano che doveva arrendersi un mese dopo. In quei venti giorni di dominazione in Lombardia, i Francesi avevano commesso tanti furti ed avevano tenuto un contegno così sprezzante da suscitare un vivo malcontento nelle popolazioni. Tumulti nacquero a Como e a Varese; a Milano un gruppo di popolani tentò di abbattere l'albero della libertà in piazza del Duomo. Più gravi furono le agitazioni a Binasco e a Pavia che si ribellarono apertamente.
A Pavia, partito il 21 maggio l'Augerau, era rimasto un presidio di quattrocentosessanta soldati comandato dal LEPISTRE. Qui uno sciame di contadini guidati da don PAOLO BIANCHI, curato di Trivolzio, da un frate, VAGO, e dal capomastro BARBIERI, era penetrata in città, aveva disarmato le sentinelle, preso il vecchio generale Haquin, che a stento fu poi liberato, si era data ai saccheggi e agli eccidi ed aveva costretta la guarnigione ad arrendersi.

A punire Binasco fu mandato il Lannes che per vendicarsi appiccò fuoco al paese. A domare i Pavesi ci andò invece lo stesso Bonaparte che entrati il 25 maggio i suoi soldati posero la città a sacco. Per impedire che altri disordini si producessero nella Lombardia, il generalissimo fece relegare in Francia circa sessanta nobili pavesi e milanesi, fece condannare a morte i caporioni, sciolse la società patriottica di Milano perché con le sue intemperanze era causa di tumulti ed ordinò, a tutti i cittadini, sotto minaccia di gravissime pene per i trasgressori, di consegnare le armi.


LA NEUTRALITÀ VENETA VIOLATA - BATTAGLIA DI BORGHETTO E OCCUPAZIONE FRANCESE DI PESCHIERA E VERONA - TREGUA COL RE DI NAPOLI - SEDIZIONE DI TORTONA - I FRANCESI NELLO STATO PONTIFICIO - TREGUA CON LA S. SEDE - IL BONAPARTE IN TOSCANA - RIVOLTA DI REGGIO

Assicurata la quiete dei territori conquistati, il Bonaparte pensò a cacciare fuori del resto della penisola gli Austriaci del Beaulieu, il quale aveva munito piuttosto bene la fortezza di Mantova e da questa difendeva la linea del Mincio. Al Bonaparte per portare a termine la sua impresa gli era necessario operare in territorio veneto e Napoleone non esitò a violare la neutralità di Venezia, anche perché gli stessi austriaci avevano dato l'esempio: dopo la battaglia di Lodi, passando per il Cremasco e per il Bresciano si erano rifugiati a Peschiera. Per questo fatto Napoleone si era lagnato con il CENTARINI podestà veneziano di Crema - e quindi il 26 il Bonaparte facendosi pochi scrupoli non indugiò ad imitarli.
Concentrò poi a Bergamo e a Brescia tre divisioni e in quest'ultima città pose, il 29 maggio, il suo quartiere generale. Il giorno dopo passò il Mincio a Borghetto, sconfiggendo gli Austriaci e catturando molti prigionieri, tra cui il principe di CUTÒ comandante della cavalleria napoletana, quindi si impadronì di Peschiera, abbandonata dal Beaulieu, che si ritirava verso il Trentino e il Tirolo.

Al nemico non rimaneva che Mantova, città difficile da espugnare e che gli Austriaci potevano soccorrere scendendo dalla valle dell'Adige. Il Bonaparte decise di impedire il passo da quella parte ai nemici occupando Verona, appartenente alla Repubblica Veneta. Per conseguire lo scopo si mostrò sdegnato contro Venezia, accusandola di aver dato asilo per due anni nel suo territorio al pretendente al trono di Francia, di aver permesso agli imperiali l'ingresso in Peschiera e infine di intese segrete con l'Austria; poi minacciò di incendiare Verona e, spaventato bene il governo della Serenissima che era da anni incapace di atti energici, la occupò il 10 di giugno.

Il 4 dello stesso mese, a Roverbella, il Bonaparte ricevette FRANCESCO BATTAGIA e NICOLÒ ERIZZO, inviati della repubblica veneta e il giorno dopo concluse a Brescia con il principe BELMONTE PIGNATELLI, ambasciatore del re di Napoli, una tregua con questo sovrano a patto che le sue navi abbandonassero la flotta britannica e la cavalleria napoletana, lasciati gli Austriaci, si ritirasse a Crema, a Bergamo e a Brescia.
Dal 13 al 17 giugno l'attività del generalissimo fu rivolta a soffocare una ribellione scoppiata a Tortona e nei dintorni. In quelle campagne e nei feudi imperiali i contadini si erano sollevati, avevano ucciso alcuni soldati francesi del presidio di Arquata e avevano innalzato su questa terra la bandiera austriaca. Fu mandato a reprimere i moti il generale LANNES con mille e duecento uomini, il quale appiccò il fuoco alle case dei ribelli, fece fucilare i caporioni della rivolta, si fece dare ostaggi ed obbligò tutte le comunità vicine a consegnare le armi e a giurare fedeltà alla Francia.

Accantonata parte delle truppe e posto l'assedio a Mantova, il generalissimo francese volse il pensiero all'Italia centrale e con poche migliaia di uomini dal 18 al 23 giugno occupò Forte Urbano, Bologna, Ferrara, Ravenna, Imola e Faenza, imponendo, ovunque andasse, tributi ed obbligando le popolazioni a fornirgli tutto ciò che occorreva alla vita del suo esercito. Ma anche manomettendo i depositi dei Monti di Pietà, spogliando le chiese, le pinacoteche e i musei.
Tuttavia Bologna lo accolse come un liberatore ed egli non solo garantì ai cittadini di restituire gli antichi privilegi aboliti dal governo pontificio, ma conferì al Senato la suprema autorità ed ordinò che fossero posti in libertà tutti coloro che nel 1794 erano stati condannati come complici dello ZAMBONI e del DE ROLANDIS, le cui ossa, nel 1798, dissotterrate e chiuse in un'urna, dovevano esser portate in trionfo alla Montagnola e posta in cima alla colonna del mercato.

Mentre il Bonaparte si trovava a Bologna, la Curia Romana, atterrita dai suoi progressi, gli inviò il D'AZARA e il marchese GRANDI perché trattassero con il Generalissimo un amichevole componimento. Il Bonaparte chiese quaranta milioni, il tesoro della Santa Casa di Loreto, duemila codici vaticani e duecento opere d'arte e inoltre che fossero cacciati gli emigrati francesi dagli stati pontifici, ed infine che il Papa emanasse una bolla a favore della repubblica.
Il 23 giugno fu pattuita una tregua. Il Bonaparte sgombrava Faenza e restituiva Ravenna, ma rimaneva in possesso delle legazioni di Ferrara e di Bologna e si riservava il diritto di presidiare Ancona. La Curia Romana doveva pagare un indennizzo alla famiglia Bassville, scarcerare i prigionieri politici, consegnare cinquecento codici e cento opere d'arte e pagare infine ventuno milione di lire.
Inoltre PIO VI il 5 di luglio indirizzò un "Breve" ai cattolici francesi esortandoli ad ubbidire alle autorità e affermando che la Chiesa non avversava l'osservanza delle leggi civili. E perché si giungesse alla pace, il 30 giugno furono mandati a Parigi il conte CRISTOFORO PIERACCHI, il segretario EVANGELISTI e il padre domenicano GRANDI.

Non soddisfatto di avere già occupato alcune legazioni pontificie, il Bonaparte ordinò al Lannes di invadere Massa e Carrara con il pretesto che erano vecchi feudi imperiali. La reggenza ducale vi fu abolita, vi furono insediati municipi elettivi e le casse pubbliche e i monti di Pietà come era ormai prassi furono vuotate (30 giugno-5 luglio)
Nello stesso tempo il generale Vaubois, seguito dal Bonaparte, dopo essere stato a Pistoia entrava a Livorno, dove sperava di impadronirsi delle navi e delle merci britanniche che vi si trovavano; ma gli Inglesi, avvertiti in tempo, erano riusciti a mettere in salvo su sessanta navi buona parte delle loro ricchezze; il generalissimo, indignato contro il governatore SPANNOCCHI, lo fece arrestare e tradurre a Firenze, ed ordinò che tutti i beni dei negozianti britannici, austriaci e russi fossero confiscati. Lasciato quindi il Vaubois con un presidio di duemilaottocento soldati, andò a visitare un vecchio parente a San Miniato poi il 30 giugno entrò a Firenze con il generale Berthier e una parte del suo stato maggiore. Per rappresaglia, dietro ordine dell'ELLIOT, gli Inglesi occuparono Portoferraio nell'isola d'Elba ed effettuarono uno sbarco nella maremma toscana.

Neppure Lucca rimase salva dall'arrivo dei francesi e dovette pagare come sussidio di guerra trecentomila lire. Genova, per qualche tempo, seppe sfuggire alla richiesta di questi "sussidi", ma nel settembre del 1796, essendo stata un naviglio francese predato da una nave inglese a S. Pierdarena, la repubblica dovette, per imposizione del Bonaparte, cacciare il ministro austriaco e chiudere i porti liguri alle navi britanniche e alcuni mesi dopo, con una convenzione stipulata a Parigi, Genova fu obbligata a lasciare entrare i soldati francesi nel suo territorio e promettere di pagare parecchi milioni.

Fu in questo tempo che il Bonaparte ordinò ai generali Casalta e Gentili di cacciare - come abbiamo narrato in altre pagine - gli Inglesi dalla Corsica.
Qualche mese prima, i Reggiani si erano levati a tumulto e il 26 agosto avevano cacciato il presidio ducale. Acquistata la libertà, tentarono di fare insorgere anche i vicini Modenesi, ma le truppe della guarnigione repressero nel sangue un moto sedizioso; anche se poi un editto della Reggenza promettendo di abbassare le tasse, acquietò del tutto i cittadini.
Risultati migliori non ebbero altri tentativi dei Reggiani di estendere la rivoluzione repubblicana nei territori vicini; come a Rubiera, Correggio e Brescello che non vollero saperne; o come gli abitanti di Scandiano, che li assalirono li insultarono e tolsero loro la voglia di ritentare la prova.


IL WURDZSER IN ITALIA - SCONFITTE AUSTRIACHE - IL BONAPARTE A TRENTO
NUOVE SCONFITTE AUSTRIACHE ASSEDIO DI MANTOVA
LA LOMBARDIA SOTTO I FRANCESI

Essendo stata annunziata la discesa in Italia del maresciallo WURMSER alla testa di cinquantaquattromila uomini, il Bonaparte nei primi di luglio ritornò in Lombardia, mise all'assedio di Mantova il Serrurier con dodicimila soldati, mandò quindicimila e quattrocento uomini al comando del Massena presso Rivoli, quattromila e quattrocento con il Sauret li collocò a Salò in riva al lago di Garda, cinquemila e trecento a Legnago come riserva, sul Mincio settemila e seicento fanti comandati dal Despinoys e millecinquecento cavalli agli ordini del Kilmaine.
Verso la fine del mese dello stesso luglio comparvero le truppe austriache. Avanzavano con tre colonne: quella del generale QUOSDANOWICH, forte di diciassettemila uomini che attraverso la valle del Chiese puntava su Brescia; quella del MESZAROS, di cinquemila uomini che scendeva attraverso la valle del Brenta; e i ventiquattromila soldati guidati dallo stesso maresciallo WURMSER che calavano dal Tirolo e attraverso Trento dalla Val d'Adige si dirigevano ovviamente su Verona.
Il disegno del maresciallo austriaco era evidente: minacciare i Francesi alla destra e avvolgerli dalla sinistra. Le prime operazioni furono favorevoli agli Austriaci; Massena fu respinto a Rivoli, il Sauret fu sloggiato da Salò, Brescia fu occupata dal Quosdanowich, che vi fece prigionieri i soldati della guarnigione e i generali Murat, Lannes e Lanusse.

Ma Napoleone Bonaparte non si sgomentò a questi primi insuccessi; abilmente sgombrò da Verona e da Legnago, tolse l'assedio da Mantova, dove il 30 luglio il Wurmser entrò credendosi vittorioso, e riunite tutte le sue forze alla sinistra del Mincio affrontò il Quosdanowich presso Lonato e, col tempestivo intervento del Massena, in una battaglia memorabile, lo sconfisse e lo ributtò su Gavardo, quindi riprese Brescia e Salò (31 luglio-1 agosto 1796).

Dopo queste vittorie, il generalissimo francese, avendo saputo che il Liptay aveva passato il Mincio a Valeggio, ordinò all'Augereau e al Kilmaine di andare a porsi a Montichiari, al Despinoys, al Sauret e al Dollemagne di tener dietro al Quosdanowich sopra Gavardo, e al Massena di rimanere nel centro, a Lonato. Dal canto suo il Wurmser passava il giorno 3 il Mincio a Goito informandone il Quosdanowich che comandava all'Ocskai di occupare Desenzano e molestare il Massena a Lonato.
Qui si combatté con accanimento da entrambi le parti, ma alla fine i Francesi sbaragliarono completamente gli Austriaci. Questa sconfitta consigliò il Quosdanowich, che si preparava ad assalire Salò, a ritirarsi verso il Trentino, mentre il Bonaparte, lasciato il Sauret ad inseguirlo, andava a sostenere l'Augerati, il quale, riconquistata dopo una dura battaglia Castiglione al Liptay, costringeva (ed era proprio quello che voleva Napoleone) proprio l'avanguardia del Wurmser a retrocedere verso le colline di Cavriana (4 agosto).
Il giorno 5 il Bonaparte affrontò il generalissimo austriaco presso Castiglione e opportunamente aiutato dal Serrurier che minacciava alle spalle il nemico, lo sconfisse clamorosamente e lo costrinse a ripassare il Mincio e a ritirarsi verso Rovereto inseguito dal Massena.

La campagna non era durata che una settimana; circa diecimila uomini avevano perso gli Austriaci e le cose erano tornate al punto di prima. I Francesi, infatti, avevano nuovamente rioccupato Verona e Legnago ed erano tornati ad assediare Mantova. Perdite non inferiori al nemico aveva in verità sofferto anche il Bonaparte, ma tutte quelle vittorie avevano accresciuto il suo prestigio e gli avevano procurato già la fama di invincibile.

Dopo i primi successi del WURMSER (del 30 luglio, l'illusoria entrata a Mantova, lasciata dai francesi) si era però sparsa la voce che i Francesi erano stati pienamente sconfitti, che Napoleone Bonaparte era stato ferito, e che gli Austriaci erano in procinto di riconquistare tutti i territori perduti. Questa voce aveva fatto rialzare il capo agli austriacanti, tumulti erano sorti qua e là e il re di Napoli, alla testa di un esercito, pareva che volesse marciare verso Mantova, mentre la Curia Romana già pensava di bandire una guerra contro la Francia e si adoperava per riavere dalla sua parte le legazioni perse.

Il Bonaparte si curava poco di queste voci: anzi già aveva altro in mente e si preparava a marciare su Trieste e Vienna; ma ben presto dovette rivolgere altrove il pensiero. Il Wurmser aveva raccolto un esercito di circa quarantamila uomini ed aveva ricevuto l'ordine dall'imperatore di scendere in Lombardia.
Il Bonaparte volle prevenirlo: lasciati ottomila soldati sotto Mantova e tremila a Verona e a Legnago, risalì la Valle dell'Adige, sconfisse il generale austriaco Davidowich, al quale prese venticinque cannoni e seimila uomini e il 3 di settembre giunse davanti a Trento.
Qui il Bonaparte seppe che il Wurmser era sceso per la valle del Brenta con venticinquemila soldati proponendosi di passar l'Adige a Legnago, liberare Mantova e prendere alle spalle i Francesi mentre il Davidowich li avrebbe assaliti di fronte. Ma quest'ultimo, sconfitto più volte, si era ritirato oltre Bolzano e il Bonaparte, sicuro di non ricever da lui molestie, da Trento varcato il colle di Levico, attraverso la Val Sugana, piombò addosso agli Austriaci, prima a Primolano poi presso Bassano (7-8 settembre 1796) e li sbaragliò.

Il Wurmser, essendogli stata preclusa la ritirata verso Nord, prese in gran fretta la via di Vicenza e, protetto dal generale Ott, che seppe trattenere a Cerea il Massena e a Roncoferraro il Sahuget, riuscì, dopo aver perso lungo la strada molte salmerie, trentacinque cannoni, sette bandiere e un gran numero di soldati, entrare il 12 settembre a Mantova con seimila uomini, duemilacinquecento dei quali furono posti tre giorni dopo fuori combattimento in una battaglia combattuta nel sobborgo di S. Giorgo.

Il 22 settembre, lasciato il Kilmaine all'assedio di Mantova, Napoleone Bonaparte fece ritorno a Milano ed assistette alla celebrazione del quinto annuale della repubblica francese. Discorsi furono pronunciati in piazza del Duomo, dove alla presenza di un carro allegorico fu piantato un nuovo albero della libertà; un banchetto patriottico ebbe luogo nel palazzo municipale, inoltre vi furono corse, cortei, spari d'artiglierie e la sera al teatro della Canobbiana fu rappresentata la "Virginia" dell'ALFIERI.

" "…Le feste civiche - "scrive il Fianchetti" - del rimanente erano scarso conforto ai pesi dell'invasione, aggravati dalla ignoranza burbanzosa e dalla rapacità spudorata di molti commissari francesi. Non essendo ancora interamente saldato il tributo di venti milioni imposto alle province di Milano e di Mantova, il Direttorio aveva mandato per reclamarne la riscossione e per dar sesto all'arruffata amministrazione militare, un certo PINSOT, uomo così inetto che, dopo poche settimane, dovette rimuoverlo. Costui, di concerto con alcuni Municipalisti che "..in vita loro non avevano pensato mai alla scienza del tributo…" (questo esclamava il grande economista PIETRO VERRI, testimonio giustamente indignato), immaginava metodi di riparto quali non si userebbe "…su di un'isola scoperta nel mar Pacifico..", e per ben cinque volte mutando sistema emanò e ammonticchiò editti sopra editti, i quali si rivelavano tutti inattuabili; fino al punto che la Municipalità, con la minaccia del carcere e dell'espropriazione, impose alle famiglie più agiate tasse decretate ad arbitrio.

"…Né cessarono tuttavia le estorsioni scandalose e gli abusi d'ogni maniera..."
; anzi "…venivano come fiocchi di neve -racconta il Verri medesimo- le lettere requisitorie: Termine 24 ore somministrate al magazzino militare tanto panno blu, tanto panno bianco. - Termine dodici ore, quarantacinquemila braccia di tela, cappelli, stivali, morsi, briglie, sciabole, fieno, avena, bovi, frumento, vino, lardo, letti, lenzuoli, coperte di lana ecc…." e ancora "….Gli infatuati Municipalisti, rendendosi strumenti di saccheggio prolungato della loro patria, da prima vuotarono la cassa civica, poi si presero la roba dove la trovavano, infine ne ordinavano dell'altra senza pagarla, di modo che il debito del Comune salì a 4 milioni e più; e la milizia urbana dovette allontanare dal Broletto gli operai tumultuanti, che richiedevano la mercede dovuta alle loro fatiche..".

Per rimediare in parte a questa intollerabile situazione, l'amministrazione generale della Lombardia pensò bene di assumere il carico delle somministrazioni occorrenti all'esercito francese, e a tal fine stabili una nuova tassa di un milione al mese, sostituendola al "mensuale" e ad altri carichi dell'antico sistema (16 agosto 1796).
Di più impose un prestito forzoso sopra 19 famiglie ricche, imputate di aristocrazia o ree di essersi ritirate in campagna; e, obbligandole a sborsare dalle 50 alle 300 mila lire, raccolse oltre due milioni (27 settembre 1796).
Grazie a questi provvedimenti fu tolta di mezzo la così detta "Agenzia militare", ma non è che vennero meno le malversazioni e le angherie dei soliti speculatori. Contro costoro si ripromise di "combattere a oltranza" lo stesso Bonaparte, il quale, fin dai primi tempi dell'invasione, amava scoprire e punire i colpevoli che disonoravano il nome francese.

Informato delle "requisizioni abusive" che gli abitanti del Mantovano avevano subito, aveva indetto il 24 di luglio tre assemblee di delegati dei Municipi per raccogliere le loro giuste lagnanze. Poi, quando le fasi della guerra gli presero tutto il suo tempo, con i poteri conferitogli, aveva concesso il 30 agosto a una Commissione di cinque probi ufficiali il "diritto di accusare davanti un consiglio di guerra i dilapidatori", e nell'introduzione del decreto dichiarava: "..Conquistammo l'Italia per migliorare la sorte dei suoi popoli; vi ponemmo contribuzioni per dare alla patria nostra un giusto compenso, e ai soldati un meritato premio del loro valore; ma non fu mai intenzione del Governo Francese di permettere gli abusi d'ogni maniera e le scandalose estorsioni di cui si sono fatti autori parecchi agenti del seguito dell'esercito..". - E come abbiamo visto anche di speculatori locali senza scrupolo.

Presto Napoleone ebbe ad accorgersi che tutti i rimedi erano rimasti inefficaci, e che i miseri popoli del Milanese e del Mantovano, taglieggiati da una moltitudine di ladri e di truffatori, soffrivano pene da far indignare "da far fremere la natura". Quindi fin dai primi di ottobre si pose lui stesso a dare la caccia ai più spudorati ladri, sia denunciandoli al Direttorio, sia imprigionando o sottomettendo a tribunali militari molti amministratori, commissari ed ufficiali. Forse avrebbe preferito fare subito vendetta sommaria; poiché gli provocava perfino dolore, che giudici altrettanto venali mandasse questa gente troppo spesso assolta. Cosicchè rassomigliava il campo francese ad una fiera dove tutto si comprava, si vendeva e si metteva all'asta".

OCCUPAZIONE FRANCESE DI MODENA
VOTI PER L'UNITA D'ITALIA IL CONGRESSO CISPADANO DI MODENA
LE GUARDIE CIVICHE E LE PRIME LEGIONI ITALIANE

Mentre cercava di porre termine agli abusi, il Bonaparte pensava di privare del potere l'ultimo estense e di ridurre in forma democratica anche il ducato di Modena. Il 4 ottobre in un violento manifesto, rimproverato aspramente il duca di star lontano dal suo stato, di lasciar che i tributi gravassero solo sui sudditi, e di impiegare le entrate solo per aggregare i nemici della Francia, dichiarò rotta la tregua, e proclamò che Modena e Reggio passavano sotto la protezione dell'esercito francese e minacciò chiunque osava rivolgere atti di ostilità contro questi due territori.
Alle parole seguirono subito i fatti: Modena fu occupata, i reggenti e il presidio furono fatti prigionieri, fu piantato l'albero della libertà (lo stesso si fece a Correggio, a Scandiano e a Carpi) e furono istituiti un Comitato di Governo di sette membri ed una Municipalità di quindici che prestarono giuramento di fedeltà alla Francia. Il 13 ottobre il Bonaparte faceva il suo ingresso a Modena fra le accoglienze entusiastiche dei novatori.
I novatori oramai, nelle regioni d'Italia occupate dai Francesi, erano enormemente cresciuti di numero. Una parte era fedele alla Francia e al Bonaparte; un'altra parte invece aspirava alla libertà assoluta e desiderava una costituzione indipendente. Entrambe turbolente ed intemperanti.

Si faceva strada nella coscienza degli Italiani il concetto dell'unità della patria, che non era più sogno di poeti e strumento di retori, ma aspirazione viva che non era celata ma era esposta e discussa. L'amministrazione generale della Lombardia bandiva un concorso sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia" (27 settembre 1796); a questo quesito rispondeva l'11 ottobre il "Monitore Bolognese" dicendo che era necessario che l' Italia diventasse una vera nazione, unita, libera e retta da un saggio governo democratico; ma già fin dal 1° ottobre, il RANZA, agitatore piemontese, sosteneva, in un opuscolo, l'idea di una confederazione di stati e, più in concreto, il Senato di Bologna proponeva al Bonaparte una confederazione repubblicana delle province italiane liberate dalla Francia.

Condivisa dal Bonaparte fu l'idea espressa dal senato bolognese. Prevedeva che l'Austria, non più minacciata sul Reno, essendo stati battuti a Nerescheim e ad Amberg gli eserciti repubblicani del Jourdan e del Moreau, "…avrebbe presto concentrato i suoi sforzi solo contro di lui e temeva di non aver forze sufficienti da contrapporle, specialmente se i Governi italiani ne approfittavano per assalirlo alle spalle, dal momento che il Direttorio non gli mandava gli aiuti richiesti.
A lui occorreva spaventare i Principi italiani, e specialmente il Papa, di cui più temeva, per indurli a concludere subito le trattative di pace con il Direttorio, seguendo l'esempio del Re di Napoli; e pensava di avvalersi dei popoli della penisola italiana sottratti alle antiche Signorie, sia per avere pronta la loro gioventù da unire alle proprie schiere, sia per non essere costretto, ove si rinnovasse la guerra con l'Austria a distrarre parte dell'esercito francese per proteggersi le spalle contro le insidie e forse anche le aperta ostilità dei suoi nemici italiani. (Franchetti) ". (come, di fatto, poi avvenne).

Il Bonaparte scriveva al GARRAU il 9 ottobre del 1796: "…Bisognerebbe a mio avviso riunire a Bologna o a Modena un congresso di deputati degli stati di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio. Essi dovrebbero esser nominati dai vari governi in numero tale da procurare all'assemblea un centinaio di intervenuti. Voi potreste farne la distribuzione in proporzione degli abitanti, favorendo un po' Reggio. Occorrerebbe includervi nobili, preti, cardinali, commercianti, uomini d'ogni classe, abitualmente stimati e patrioti. Nel congresso si tratterebbe dell'organizzazione di una "legione italiana" e si costituirebbe una specie di "federazione" per la difesa comune. Poi si potrebbero inviare diversi deputati a Parigi per, domandare la libertà e l'indipendenza. Questo congresso non dovrebbe esser convocato da noi, ma soltanto per mezzo di lettere private. Ciò produrrebbe un grande effetto e sarebbe un motivo di diffidenza e d'allarme per le potenze d'Europa. Indispensabile non trascurare alcun mezzo per rispondere al fanatismo di Roma, per procurarci degli amici e per assicurarci le spalle e i fianchi. Io desidererei che tale congresso fosse tenuto il 23 del corrente mese".

Il GARRAU eseguì le istruzioni ricevute e il 16 ottobre del 1796 si riunirono a Modena ventidue deputati di questa città, trentasei di Bologna, trenta di Ferrara e ventuno di Reggio.
Il congresso, sotto la presidenza di quell' ANTONIO ALDINO che nel 1794 aveva assunto la difesa dei congiurati bolognesi, continuò le sue sedute nei due giorni successivi, dichiarò costituita sotto il nome di CISPADANA la confederazione fra le quattro province e ne diede comunicazione (che era un invito) ai popoli della Romagna e a quelli delle altri parti della penisola.
"… Oh libertà! - vi si diceva - intorno a te si raccolgono i Cispadani e da te animati e protetti faranno rivivere la grandezza e la gloria della loro nazione. Al nostro esempio scuoteremo forse altri Popoli che cercheranno di emularci, e noi, benedicendo l'Arbitro delle Nazioni, che migliore vuole la loro sorte, stenderemo loro la mano per trarli fuori dell'abisso ove essi giacciono, come respingeremo con coraggio chi potesse mai lusingarsi di trarvi dentro noi stessi ".

Il congresso inoltre stabilì di convocare nel mese di novembre una seconda assemblea per sancire l'ordinamento della confederazione e decretò di costituire una guardia civica con un comitato di difesa composto di cinque compagnie di cacciatori a cavallo e due divisioni d'artiglieria.
Il comando fu dato prima al generale RUSCA, poi allo SCARABELLI PEDOCA e i quadri furono formati da ufficiali francesi ed italiani. La legione cispadana fu modellata su quella lombarda, che era sorta il 9 ottobre, comandata dal LAHOZ e composta di tremilacinquecento fanti, centocinquanta cacciatori a cavallo, seicento cacciatori e un nucleo di artiglieri;
aveva per bandiera il tricolore, bianco rosso e verde
e la divisa di panno verde con risvolti rossi, ghette nere cappello nero sormontato da pennacchio tricolore e ornato di una placca con il motto "libertà italiana" e bottoni col nome della legione e le parole "libertà, uguaglianza".

Queste legioni costituirono il nucleo dell'esercito del futuro Regno Italico. E quel vessillo a tre colori, la futura bandiera d'Italia.


Mentre a Modena nasceva la Cispadana, cessava di vivere Amedeo III di Savoia; gli succedeva sul trono Carlo Emanuele IV.
Mentre altri trattati di pace con altri stati italiani venivano stipulati a Parigi

trattiamo quindi questo periodo che va dal 1796 al 1797 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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