ATTO VANNUCCI (seconda parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA

* I FRATELLI CORONA - I FRATELLI FILOMARINO
E ALTRE VITTIME

* I MARTIRI DI PICERNO, DI ALTAMURA E DI VENAFRO


Il re e la regina di Napoli, per odio insensato alle idee di libertà, tormentavano e scannavano i sudditi, e per odio furibondo alla Repubblica rovinarono e persero il loro Regno.
Nell'anno 1798, quando i Francesi si furono impadroniti di Roma, la fama della Repubblica inaugurata sul Campidoglio venne più tremenda che mai a disturbare i sonni di Ferdinando Borbone e di Carolina austriaca. Spartaco era davvero alle porte. Perciò, malgrado la neutralità già promessa all'ammiraglio Latouche, e dei trattati di pace conclusi più tardi con la Francia, il 22 novembre del 1798 un manifesto del re di Napoli disse esplicitamente che egli muoveva col suo esercito per riconquistare al Papa lo Stato che gli avevano tolto i Francesi. E immediatamente proruppe negli Stati romani con 50,000 uomini capitanati dal Mack tedesco, e marciando a gran giornate, giunse a Roma ai 29 novembre. All'appressarsi dei Napoletani si ritirarono da Roma i Francesi, che erano in piccolo numero, e con essi la più parte degli amanti della Repubblica. Ma alcuni di questi « confidenti alle regali promesse di clemenza, o si arrischiarono, o dal fato prescritti, restarono ; e nel giorno stesso furono imprigionati o morti : due fratelli di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al proprio re, furono per comando di lui presi ed uccisi. La plebe scatenata, sotto velo di fede a Dio e al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei operava disordini gravi e delitti»
(COLLETTA, lib. III, cap. 3, § 33).

Il re di Napoli venne, vide e fuggì. I Francesi, guidati dal generale Championnet, quantunque avessero poche forze, appena ebbero modo a raccogliersi, batterono da ogni parte il nemico, e gli tolsero molte armi e bandiere. Il re, travestitosi, tornò a Napoli con precipitosissima fuga. I Francesi allora ripreso cuore, da assaliti divennero assalitori e mossero alla volta di Napoli il 20 dicembre. Alle prime intimazioni si arresero le fortezze di Civitella, di Gaeta e di Pescara, per la viltà dei loro comandanti. Poi avanzarono animosamente per espugnare la fortezza di Capua, e di lì muovere sulla capitale. A Napoli tremavano gli uomini di libero animo, notati sui libri della polizia, e da essa perseguitati. Tuttavia si adunavano segretamente, e per salvar vita e libertà cospiravano a favore dei Francesi, avvisavano il generale Championnet di affrettare l'impresa, e gli promettevano aiuti potentissimi.

Ma più di tutti tremavano il re, e la regina, e i loro ministri. Non credendosi ormai più sicuri, partirono per la Sicilia il 21 dicembre, recando seco i mobili più preziosi dei regali palazzi, tutte le ricchezze dei musei, tutte le ricchezze dello Stato, cento milioni di lire : e lasciando il Regno senz'ordine, senza leggi, e nella miseria. Rimase vicario generale Francesco Pignatelli, uomo ignorante e allevato alle bassezze di corte. Corse voce che la regina partendo avesse dato ordine a lui di scatenare il popolo, di produrre l'anarchia, di portare la città all'ultima rovina. Tutto perisca, gridava essa, purché non vada in mano de' Francesi.
Sulle prime l'ordine fu mantenuto dalla milizia urbana creata dai magistrati municipali, che assunsero il governo della città e dello Stato. Ma presto essi vennero alle prese col vicario, perchè mentre studiavano di frenare i tumulti, esso faceva ogni opera per concitarli coll'aiuto della plebe più abietta.
I Francesi intanto minacciavano più da vicino.

Il vicario, per acquistar tempo, il 12 gennaio del 1799 fece tregua con essi, cedendo la fortezza di Capua e promettendo di pagare due milioni e mezzo di ducati. Il dì 14 vennero a Napoli i commissari dell'esercito per avere il pattuito denaro. Il popolo, credendosi tradito, si scatenò, a mala pena i commissarii, aiutati dalla guardia urbana, nella notte poterono sottrarsi colla fuga. Anche il vicario fuggì in Sicilia, e fu imprigionato dal re (« Pignatelli aveva ricevuto ordine dalla corte, che se i Francesi si approssimavano alle porte di Napoli, di incendiare l'arsenale, fare scoppiare una mina sotto alla città, e di ridurre il castello Santelmo in cenere bombardandolo. Pignatelli non ebbe tempo ad eseguire tutte queste esecrabili scelleraggini. Fuggì a Palermo, dove fu imprigionato, per non avere eseguito i comandi).

Nel giorno seguente il popolo disarmò la guardia urbana, prese i Castelli ove trovò 40.000 fucili, aprì le prigioni e unì à sè numero grande di uomini fàcinorosi. Sulle prime percorse la città con dei tumulti, ma senza fare nessun insulto ai cittadini pacifici. Poi proruppe a sfrenata licenza e gli amatori di libertà correvano gràve pericolo, perchè odiati dalla plebe ignorante, eccitata a sdegno feroce da unà turba grande di preti e di frati ribaldi, e di altri vili lacchè del dispotismo caduto, i quali erano pronti a usare ogni àrte più tristà per rialzarlo.
Il 18 gennaio fu per l' infelice città un giorno di terrore e di strage. Si vedevano preti e frati in abiti sacerdotali per le chiese e su per le piazze accendere con furore cieco le anime della credulità della plebe, e spingerla ad assalire furiosamente le persone e le case di chiunque fosse sospetto di amare le cose nuove, di essere fautore di Repubblica.

E repubblicani erano allora tutti gli uomini più rispettabili per senno e per onestà di costumi. E contro di essi si mostrarono brutalmente feroci tutti i difensori dei dispotismo. Fra i tanti casi pietosi e tremendi à cui accennano le storie, di uno è fatta pàrticolare menzione. Un servo della nobile casà Filomarino accusò i suoi padroni di essere giacobini, e di preparare un gran convito ai Francesi, che dicevansi pronti a entrare nella città la sera stessa. Per questa accusa il duca Ascanio della Torre e il suo fratello abate Clemente Filomarino furono vittime del furore plebeo. Erano due uomini lodati dagli onesti per virtù, per dolci costumi, per dottrina, e per nobile ingegno, gli aguzzini, condotti dallo scellerato servo, trassero con furore dal palazzo quei disgraziati. Contro la turba irrompente tornarono vane le preghiere e le grida disperate di una vecchia madre, le lacrime di una giovane, sposa, e dei figli innocenti. I due fratelli furono messi in catene e tratti fuori della porta della casa paternà per essere fucilati. Ma l' infame servo, ritenendo che questa morte era troppo dolce per dei giacobini, propose che fossero bruciati a fuoco lento, e subito fu seguito il feroce consiglio.

Trascinàti violentemente nella via Nuova della Marina, furono posti sopra un rogo, e in mezzo alle urla oscene di plebe inferocita, finirono la vita dopo tre ore di atroci tormenti. La loro casa, che era delle più ricche e magnifiche, fu saccheggiata e data in preda alle fiamme. Le preziose masserizie, una scelta biblioteca, una raccolta di rare incisioni, un magnifico gabinetto di storia naturale, ricchezze preziose di natura è di arte, tutto perì per opera del popolo ferocemente istigato dai regii e dai preti. Altre stragi si fecero altrove : gli onesti si riparavano in luoghi nascosti. La città
intera, narra Vincenzo Cuoco (Visse dal 1770 al 1823. Fu lo storico della rivoluzione napoletana del 1799), non offrì più che un vasto spettacolo di saccheggi, d'incendi, di lutto, di orrori, e di replicate immagini di morte.

Furono uccisi nella città anche i due fratelli Donato e Onofrio Scategna di Lecce, prete il primo, avvocato il secondo. Per le province si mandarono orde di prezzolati briganti, che per amore di preda tutto mettevano a guasto e a rovina. I fratelli Brigida di Termoli, giovanetti virtuosissimi, erano da poco rientrati nella casa paterna dopo avere, per ordine del tribunale inquisitorio, sofferto quattro anni di durissimo carcere. Appena riveduta la luce del giorno e avuto il tempo di consolare i lunghi dolori di una infelicissima madre, furono sbranati dall'infame masnada, ed ebbero saccheggiata e rovinata la casa. La stessa fine toccò a Gennaro di Casacalenda, a cui i ricordi del tempo danno lode di rara virtù, e di rarissima altezza di animo. Fu depredato ed ucciso : e ai suoi figli lasciati nella miseria non rimase altro conforto che la fama delle virtù e delle azioni paterne.
Questi erano tempi di bestiali ferocie, e di orribili infamie, nei quali chi moriva era il meno infelice.

I MARTIRI DI PICERNO, DI ALTAMURA E DI VENAFRO

I Repubblicani, che erano gli uomini più virtuosi della nazione, dappertutto seppero onoratamente morire e confermare la loro fede col sangue. Alle orde del cardinal Ruffo
(Fabrizio Ruffo (1744-1827) di Napoli. Fu elevato alla porpora nel 1791, e nel 1799 sbarcò a Reggio Calabria come Vicario Regio, per riconquistare il Regno a Ferdinando I, riparatosi con la corte in Sicilia. Avanzò al comando di orde brigantesche, seminando crudeltà e stragi sui suoi passi e il 13 giugno 1799 entrato in Napoli, sguinzagliò la plebe a inferocire contro i fautori della Repubblica Partenopea.) sulle prime opposero eroico valore : ma non combattendo con armi pari, non potevano vincere. I Repubblicani erano umani e generosi : i regii, schiuma di plebe agitata dalle più feroci voglie, ladri, contrabbandieri, vili scherani combattenti colle armi di Giuda. Ciononostante in nessun luogo ebbero facile vittoria. I Repubblicani, nulla curando fuorché il proprio onore e il trionfo della libertà, incontravano la morte con animo intrepido, e vedevano con sublime calma l' incendio delle loro città. Le terre di Calabria e di Puglia, che più furono flagellate dalla bestiale ferocia dei regii, si immortalarono anche per fatti egregi operati dai liberali. Ricordiamo altre sciagure non di individui, ma di popoli, e con le sciagure l'eroismo che li rendeva sublimi.

La piccola città di Picerno, prossima a Potenza in Basilicata, era caldissima seguace di Repubblica. Appena sentì i nuovi ordini stabiliti a Napoli, li celebrò con feste sacre e profane. Tutti corsero alla chiesa "a render grazie al Dio d' Israele, che aveva visitato e redento il suo popolo". Poi si unirono in Parlamento, ed il primo atto della libertà, scrive Vincenzo Cuoco, fu quello di chieder conto dell'uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non violenze : chi fu presente a quella adunanza udì con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno che proponeva mezzi violenti ; "non conviene a noi, che ci lagniamo dell' ingiustizia degli altri, il darne l'esempio".

Quando poi videro appressarsi le masnade del cardinale, chiusero loro in faccia le porte, e combattendo con maraviglioso ardimento, le respinsero più d'una voita. La città fu cinta d'assedio, e allora i cittadini dalle mura fecero il loro estremo, e lieti in cuore morivano martiri della patria. Quando le munizioni finirono, se ne procacciarono altre fondendo le canne degli organi, i piombi delle finestre, gli utensili domestici ; e facendo arme di tutto. « I sacerdoti -scrive Pietro Colletta- eccitavano alla guerra con devote preghiere nelle chiese e nelle piazze : i troppo vecchi, i troppo giovani si arrabbiavano per il loro debole stato : le donne prendevano cura pietosa dei feriti : e molte, vestite come uomini, combattevano a fianco dei mariti o de' fratelli ; ingannando il nemico non per le mutate vesti ma per valore. Tanta virtù ebbe mercede, dimodoché la città non cadde prima che non cadessero la provincia e lo Stato ».

Qui caddero da eroi i due fratelli Girolamo e Michele Vaccaro, gentiluomini di Avigliano, che furono a capo di tutto il movimento politico di Basilicata a quel tempo ; e con essi dettero intrepidamente la vita alla libertà altre 68 persone, i cui nomi, rimasti ignoti fin qui, stanno scritti nei libri parrocchiali della chiesa di S. Niccolao di Picerno, sotto la data dei 10 maggio 1799, da dove poi furono estratti e pubblicati da un amoroso e attento ricercatore dei martiri di quella regione.(Vedi G. FORTUNATO, deputato al Parlamento, I Martiri di Picerno 10 maggio 1790. Roma, Tipo grafia Eredi Botta, 1882).

Prove di stupendo valore dettero i Repubblicani agli assalti di Sansevero, di Andria e di Trani. Degnamente patirono le estreme calamità ad Altamura, città grande di Puglia, forte per sito e monumenti, fortissima pel valore degli abitatori, ardentissimi tutti dell'amore di libertà. « Il cardinal Ruffo, fattosi audace dalle improvvise fortune, pose il campo a vista delle mura, e cominciò la guerra. I Borboniani, peggiorati in disciplina, miglioravano nell'arte, accresciuti di veterani e di ufficiali e soldati mandati dalla Sicilia o venuti volontari alle ventura da quella parte : avevano cannoni, macchine di guerra, ingegneri di campo ed artiglieri; superavano d'ogni cosa l'opposta parte, fuorché d'animo cosicché gli assalti per molti giorni tornando vani e mesti, crebbe lo sdegno degli assalitori e l'ardimento dei contrari. Si vedevano dalle mura nel campo le religiose cerimonie del cardinale, che, avendo eretto altare dove non giungesse offesa, faceva nel mattino celebrar messa; ed egli, decorato di porpora, lodava i trapassati del giorno innanzi, si raccomandava loro come ad anime beate, e benediceva con la croce le armi che in quel giorno si apparecchiavano contro alla città" ribelle a Dio e al re".

« Dentro la quale città si vedevano altri moti e religioni : adoravano pur essi la croce, ma in chiesa, si concitavano al campo con le voci e i simboli di libertà. Erano scarse le provviste del vivere, scarsissime quelle di guerra : e se la liberalità de' ricchi e la parsimonia dei cittadini davano rimedio all'una penuria, la guerra viva e continua accresceva il peso dell'altra. Fusero a proiettili tutti i metalli delle case, mancò l'arte a fondere le campane : nei tiri a mitraglie, non andando a segno le pietre, usarono le monete di rame : né cessò lo sparo delle artiglierie che alla fine della polvere ; ed allora il nemico, avvicinate alle mura le batterie de' cannoni, ed aperte le brecce, intimò resa a discrezione. La quale andò negata, di modoché non altro valeva (se la natura del Cardinale non fosse in quel giorno mutata) che serbar molte vite degli assalitori, nessuna de' cittadini; e morir questi straziati senza pericolo degli uccisori ; e, privati d'armi e di vendetta, sentir la morte più dura.

Perciò gli Altamurani, difendendo le brecce col ferro e con travi e sassi, uccisero molti nemici; e quando videro presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guarnita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de' rimasti furono tristissime; nessuna pietà sentirono i vincitori donne, vecchi, fanciulli, tutti uccisi ; un convento di vergini profanato ; tutte le malvagità, tutte le lascivie saziate ; non ad Andria e non a Trani, forse ad Alesia ed a Sagunto possono assomigliare le rovine e le stragi di Altamura. Quello inferno durò tre giorni ; e nel quarto il Cardinale, assolvendo i peccati dell'esercito, lo benedisse, e procedé a Gravina, che pose pure quella a sacco ».

Nel fondo della Campania la città di Venafro resisté lungamente a Mammone, orribile mostro che beveva il sangue umano in un cranio, e che in due mesi di insurrezione, insieme coi suoi satelliti, fece uccidere ottocento infelici. I paesi di Lucania fecero prodigi di eroico valore.
Ma, nonstante tutti questi sforzi stupendi, e della virtù in ogni parte mostrata dai Repubblicani, e del martirio nobilmente sofferto, le armi borboniche trionfavano e imperversavano in molte province. Legni siciliani ed inglesi correvano lungo le marine ed animavano la ribellione. Russi e Turchi venivano da Corfù ai lidi di Puglia. E i Francesi, invece di aiutare la Repubblica, partivano al tristo annunzio delle sconfitte patite dalle loro armi in Lombardia, e alla certezza che dappertutto insorgeva e imperversava plebe spaventevole per numero e atrocità, lasciando solamente deboli presidii nei Castelli di Napoli, e nelle fortezze di Capua, di Gaeta e di Pescara.
Tutto precipitava e il governo della Repubblica napoletana non aveva più modo di resistere all' impetuoso torrente. Nuovi tormenti e nuovi tormentati ci stanno ora davanti. Il cardinale Ruffo procede coi suoi sgherri, e si appresta a contaminare le vie di Napoli del più puro e più nobile sangue italiano. Il fiore della nazione perirà sui patiboli, o sotto il coltello di plebe fatta furibonda da preti, da frati, e da altri vili sgherri del
dispotismo.



I CINQUANTA EROI DI VIGLIENA



La Repubblica napoletana ormai si restringe alla capitale e a un piccolo spazio all' intorno. Il cardinale Ruffo avanza furiosamente, nè le popolazioni repubblicane del Cilento valgono ad arrestarlo, perché ha seco Russi, Turchi e plebe sfrenata. Si avvicina a Napoli spirando vendetta e furore : e per opera sua la monarchia si restaura coi saccheggi, colle stragi, e con ogni tipo di atti nefandi. Ai Repubblicani non rimane più che la consolazione di salvare l'onore : e tutti hanno questa consolazione suprema.
A poca distanza da Napoli, nelle vicinanze di Portici, era il piccolo Forte di Vigliena posto a difender la costa; e qui avvenne un episodio stupendo, degno di andar insieme coi fatti immortali di cui favellano le storie degli antichi popoli liberi. Lo difendevano centocinquanta calabresi, preti, laici, nobili, plebei, tutti uomini amanti di libertà, e fermamente risoluti a morire per essa. Il prete Antonio Toscano di Cosenza li comandava, e per grandezza di animo era degno di presiedere gente che diceva : "Noi cerchiam morte : darla o riceverla è per noi tutt'uno : solo vogliamo che la patria sia libera, e noi vendicati".

Appena si presentarono le torme del Cardinale, le batterie di Vigliena risposero con fuoco vivissimo, e arrestarono la marcia dei nemici verso la capitale. Ruffo ordinò ad una banda de' suoi Calabresi più prodi che pigliassero il Forte. Allora si vide spettacolo orribile di Calabresi ferocemente gareggianti di coraggio da una parte e dall'altra in una guerra fratricida. Gli assalitori fecero l'estremo possibile, e dopo sforzi stupendi furono costretti a ritirarsi e chieder soccorso. Il Cardinale spedì loro soccorsi di Russi e di Turchi, con batterie di cannoni, per mezzo dei quali ricominciò battaglia più micidiale. Aperte con un incessante martellamento larghe brecce e quasi distrutte le mura, i Borboniani intimarono la resa, e al rifiuto dei difensori, si precipitarono furiosamente l'assalto. Per due volte respinti, alla terza entrarono nel Forte, e presero a combattere ad armi corte : ma il piccolo spazio impediva loro la battaglia, si ferivano tra sé stessi senza poter nuocere come volevano agli avversari combattenti che reagivano da veri leoni.

Molti degli assalitori perirono, caddero la più parte degli assaliti : eppure fra quest'ultimi nessuno parlava di arrendersi, né di sopravvivere alla libertà. Ridotti a meno di sessanta, si tenevano stretti in un angolo, facendo eroica difesa. Il numero diminuiva ad ogni istante, ma non scemava il coraggio, e alle intimazioni di arrendersi rispondevano con più disperate ferite. Era impossibile resistere più lungamente a tanta soverchianza di forze : ma tutti, guardando con animo sereno la morte, stettero fermamente concordi a non darsi in mano all'aborrito nemico.

Perciò il comandante-prete ANTONIO TOSCANO, interprete del volere dei prodi compagni, trascinandosi ferito com'era al magazzino della polvere, gli diede fuoco, invocando Dio e la libertà, e fece di sé e de' suoi solenne vendetta. Con un terribile scoppio saltarono in aria i vinti e vincitori : più di un centinaio morirono nell'immensa rovina, tanto che agli abitanti della vicina città parve lo scoppio di un vulcano. Di tutti i difensori di Vigliena sopravvisse uno solo nominato FABIANI, il quale, accortosi del disperato attacco, prima del grande disastro dello scoppio, si gettò nel mare, e nuotando riparò a Castel Nuovo, ove raccontò le gesta del mirabile fatto degli eroi di Vigliena.
"Chi, guardando le rovine di Vigliena -scrive FRANCESCO LOMONACO (Patriota, filosofo e biografo. Insegnò all'Università di Pavia e perì anneagto nel Ticino), non sarà preso di ammirazione, é un uomo a cui la schiavitù ha tolta la facoltà di pensare e di sentire. Io farei imprimere sui rottami di quel Forte l' iscrizione : "Passeggero ! annunzia a tutti i nemici della tirannide, a tutte le anime libere, che imitino il nostro esempio, anziché vegetare all'ombra del dispotismo".

ALTRE VITTIME DELLA GUERRA CIVILE

Il cardinal Ruffo, passando sui cadaveri de' suoi e dei nemici, avanzava sempre più verso la città, ed era quasi alle porte. Sulle rive del Sebeto trovò resistenza maggiore. La città era difesa da una forte legione di Calabresi armati a tutela della Repubblica. I cittadini vecchi o infermi guardavano i Castelli : i giovani e i robusti andavano in campo dove credevano di fare più danno al nemico. Da ogni parte i Repubblicani accorsero al ponte della Maddalena per arrestare le turbe irrompenti, lieti che quella fosse l'ultima fatica che desse loro morte o vittoria, e attestasse alle genti quanto possa la virtù che vuole la libertà. « Cominciata la zuffa - narra il Colletta, morivano d'ambo le parti : ed incerta pendeva la vittoria, stando sopra una sponda numero infinito, e sull'altra virtù estrema e maggior arte. Fra guerrieri sciolti e volontari andava Luigi Serio (Geniale scrittore di versi dialettali e di melodrammi, ebbe titolo di poeta di corte e la cattedra di eloquenza all'Università nel 1771. Al tempo della Repubblica Partenopea scrisse un Ragionamento al Popolo.

Era nato a Vico Equense nel 1748.) avvocato dotto, fecondo, guida un tempo e amico all' imperatore Giuseppe II : ma contrario al re Borbone) per sofferta tirannide, più bramoso di morte che paziente alla servitù. Egli, avendo in casa tre nipoti per nome De Turris, giovani timidi e molli, allo sparo della ritirata disse loro: "Andiamo a combattere il nemico ; e lloro ricordandogli la sua età senile, la quasi cecità, la inesperienza alla guerra, la mancanza delle armi, lo pregavano di non esporre a certa e inutile rovina sé e la famiglia. Al che lo zio : Ho avuto dal ministro della guerra quattro gruppi di soldati e duecento cariche. Sarà facile cogliere alla folla mirandola d'appresso. Voi seguitemi : se non temeremo la morte, avremo almeno, prima di morire, alcune dolcezze di vendetta. Tutti andarono. Il vecchio, per grande animo e natural difetto agli occhi non vedendo il pericolo, procedeva combattendo con le armi e con la voce. Morì sulle sponde del Sebeio, nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili dell' ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato né cercato abbastanza, restò senza tomba : ma spero che su questa pagina le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di meraviglia ».

In quel fatto morì anche l'abate GIUSEPPE CESIARI, lui pure uomo valente per eccellenza di lettere, e caldo di nobilissimo amore di patria. Era direttore degli archivi reali; aveva difeso energicamente i diritti napoletani contro le pretensioni della Corte di Roma ; e poi sedé fra i rappresentanti del popolo. Da ultimo andò ardito alla battaglia e gloriosamente morì per la libertà.
Di colpo di mitraglia vi periva anche il generale GIUSEPPE WIRTZ, svizzero al servizio della Repubblica Partenopea, stato già commissario per l'organizzazione delle truppe coi generali Massa e Federici, e coi cittadini Francesco Pignatelli e Vincenzo Palumbo : la sua morte dette la vittoria ai nemici, e non giovò il meraviglioso coraggio della legione calabrese, che anche qui fece le maggiori prodezze. I Repubblicani si ritirarono nella città : il governo si riparò nei Castelli, ove andarono anche molti soldati per avere patti onorevoli. Le truppe nemiche entrarono in varie contrade di Napoli, ove i lazzaroni e i regi gridarono viva al re e fecero dimostrazioni di pazza gioia. Nel giorno appresso (14 giugno), aiutati da Russi e Turchi, assalirono il Castello del Carmine, che aveva deboli mura e presidio di soli centoventi uomini. Questi, vedendosi non atti a resistere, chiesero di capitolare. Mentre le trattative pendevano

funi da pozzo o da qualunque altro uso, uccidevano le persone e tutto mettevano a ruba e a fuoco. Un macellaio perciò fu ucciso con crudele supplizio, e la sua testa fu portata per la città in cima a una baionetta. Scene orribili da tutte le parti. Molti fuggivano travestiti, e si nascondevano nelle case più miserabili e meno sospette, ma spesso anche queste non erano asilo sicuro. Alcuni cercarono scampo nelle fogne, donde uscivano la sera in cerca di cibo. Ma accortisi di ciò i lazzaroni; si ponevano a guardia delle uscite, e quando alcuno di quei miseri veniva fuori, lo uccidevano ferocemente, e ne portavano la testa al Cardinale, che premiava il misfatto con dieci ducati. Il furore della monarchia, o la paura, indussero gli uomini a mostrarsi belve feroci. Narrano di un padre che, per piacere al re, o per salvare sé stesso, dette il proprio figlio in mano ai carnefici. Uomini che furono testimoni oculari dipinsero con colori tristissimi l'aspetto della città in quei giorni d'inferno. « I vincitori -scrive il Colletta - correvano sopra i vinti ; chi non era guerriero della Santa Fede o plebeo, incontrato, era ucciso : quindi le strade e le piazze bruttate di cadaveri, gli onesti fuggitivi o nascosti, i ribaldi armati ed audaci ; risse tra questi per gare di vendetta o di guadagni : grida, lamenti, chiuso il Foro, vuote le chiese, le vie deserte o popolate a tumulto, aspetto di città mesta e confusa, come allora espugnata.... I servi, i nemici e i falsi amici denunziavano alla plebe le case che dicevano essere dei ribelli, per invogliare ad assalire quelle e a uccidere questi. Traendo i prigioni per le vie nudi e legati, li trafiggevano con le armi, li avvilivano con colpi villani e lordure sulla faccia : genti d'ogni età, di ogni sesso, antichi magistrati, egregie donne, già madri della patria, erano trascinati a quei supplizi ; così che i pericoli della passata guerra, la insolenza delle bande regie, le ultime disperazioni dei Repubblicani, tutti i timori degli scorsi giorni, al paragone delle presenti calamità parevano tollerabili.... Dicendo che i Repubblicani portavano sul corpo indelebilmente disegnata la donna o l'albero della libertà, facevano spogliar nudi i giovani militari o cittadini, ed era la bellezza e grandezza della persona stimolo maggiore alla crudeltà ».

Ad onta di queste nefandezze, i Repubblicani con eroico coraggio rimanevano fermi nel proposito di vender cara la vita. Un giorno, radunatisi sulla piazza nazionale, vi celebrarono solennemente i funerali ai loro compagni caduti martiri della libertà. Il vescovo della Torre, rappresentante del corpo legislativo, ne disse l'orazione funebre. La pia cerimonia fu seguita da un pubblico banchetto, nel quale ardenti furono le parole e i saluti alle ombre di tutti quelli che si erano immolati alla patria.

Il cardinal Ruffo, disperando di vincere colla forza i Castelli, il giorno 15 giugno pubblicò l'intenzione del re di perdonare tutti quei ribelli ma a condizione di deporre le armi. Che ponessero fine alle offese, ed egli stesso avrebbe fatto cessare il fuoco contro i Castelli. Quindi i Repubblicani, dopo vari consulti sulle presenti necessità, alla fine deliberarono di capitolare a condizioni onorate, e mandando messaggi al Cardinale, convennero che i Castelli Nuovo e dell'Uovo con armi e munizioni si consegnerebbero ai commissari del re e de' suoi alleati, l' Inghilterra, la Russia e la Porta Ottomana ; che i presidii repubblicani dei suddetti Castelli uscirebbero con gli onori di guerra, sarebbero rispettati e garantiti nella persona e nei beni : che potevano scegliere di imbarcarsi sopra navi parlamentari per esser portati a Tolone, o restare nel Regno, sicuri da ogni rappresaglia per sé e per le famiglie ; che quelle condizioni e quei patti sarebbero comuni alle persone dei due sessi rinchiusi ne' Forti, ai prigionieri repubblicani presi dalle truppe regie o alleate nel corso della guerra ; che i presidii repubblicani non sarebbero usciti dai Castelli prima che fossero pronte a salpare le navi per coloro che decidevano a partire.

Questi patti furono segnati dal Ruffo, dal generale Micheroux, dai comandanti inglese, russo, e turco, e da due capi repubblicani. Tutto era concordato le navi erano già pronte per quelli che volevano recarsi in terra straniera, non mancava che il vento propizio, quando il giorno 28 di giugno si vide comparire la flotta inglese condotta da NELSON (
Horatio Nelson - 1758-1805- , celeberrimo ammiraglio inglese. Distrusse nel 1798 la flotta francese ad Abukir, e nel 1805 vinse la flotta franco-spagnola a Trafalgar, dove morì. Macchiò la sua fama con le stragi dei Repubblicani partenopei, in complicità con Ferdinando I).
. Quest'uomo che fin qui era stato un prode e onorato uomo di guerra, non si vergognò di infangare la sua fama facendosi vile strumento di un dispotismo turpe, che contro ogni diritto annullava una capitolazione conclusa da chi aveva pieni poteri. Fu un tradimento de' più vituperosi che si vedessero mai : e Nelson, indotto a farsene strumento dalle carezze di una mala femmina inglese ( Amy Lyon (Emma Liona), donna di cattiva vita, amante prima e poi moglie di sir William Hamilton, ambasciatore inglese a Napoli e qui poi datasi al Nelson. Era amica e confidente della Regina Maria Carolina) appena giunse nel porto pubblicò un editto del re Ferdinando che dichiarava: i re non patteggiare con i sudditi: essere abusivi e nulli gli atti del suo Vicario: volere egli esercitare la piena autorità sopra i ribelli. Questa violazione iniqua dei patti, sacri anche ai barbari, pose il re Ferdinando Borbone nel numero dei tiranni più esecrabili che abbiano contristato la terra, e moltiplicò i martiri della libertà.

 

GIUSEPPE SCHIPANI - AGAMENNONE SPANÓ
PASQUALE BATTISTESSA

Appena che Nelson si fu dichiarato protettore del re spergiuro, corsero i commissari regi alle navi, presero i Repubblicani che si erano arresi sulla fede del vicario reale, e li condussero legati alle prigioni, in mezzo a folla di plebe oscenamente plaudente. Le prigioni si popolarono degli uomini più degni di onore per altezza d' ingegno, per innocenza di costumi, per nobiltà di virtù cittadine. Furono gettati nei sotterranei dei Castelli, ove custodi spietati li martoriavano colle catene, colla fame, colla sete, con le percosse. Nella sola città trentamila cittadini languivano miseramente in orride carceri. Molti anche i prigionieri di guerra.

GUGLIELMO PEPE (*) che, quantunque giovanetto, si trovò fra questi, ricorda con particolarità i dolori di tutti. Dopo aver patito ogni tipo d'insulti, dapprima i prigionieri furono condotti in una vasta stanza terreno, davanti ai pubblici granai. Fu uno spettacolo che faceva compassione. Si vedevano confusi tra la moltitudine molti uomini notevoli per eccellenza d'ingegno e di studi : vi erano preti, frati, artisti, ufficiali di tutti i gradi, riconoscibili dal volto quando non erano troppo coperti di sangue. Alcuni erano perfino seminudi, perchè gli sgherri avevano tolto loro anche la camicia. Ma in quello stato di suprema miseria la maggior parte mantenevano animo forte e intrepido : senza dir parola ma severi con se stessi, disprezzavano la fortuna e sfidavano dignitosamente la propria sorte. Trasportati negli insalubri cameroni dei Granili, stettero in una sola stanza più di trecento ammassati come bestie. Un luogo infernale, senza aria respirabile: tutto contaminato di mortifera puzza. Il primo giorno patirono i tormenti della fame e della sete, perché non fu dato loro né cibo nè bevanda di sorta.
Poi furono trasportati in altre prigioni. Alla Vicaria ve ne erano circa duemila si confortavano scambievolmente, trattenendosi in discorsi morali e politici, e discutendo sugli errori che avevano causato la rovina della Repubblica. I poeti cantavano all'improvviso versi in lode della libertà : gli oratori arringavano: il professor FILIPPO GUIDI dava per due ore al giorno lezione di matematiche a un gran numero di ascoltatori. Altri parlavano di storia, di geografia e di astronomia. Mirabili soprattutto, per la loro calma, apparivano i giovani, che l'entusiasmo della libertà rendeva forti ad ogni tormento.
Ogni giorno il numero dei prigionieri scemava, e con esso il numero dei viventi. Quando uno era chiamato dai giudici, quasi sempre era certo che usciva per andare sulla forca.

Il 30 di giugno, re Ferdinando, arrivato nella rada di Napoli, aveva messo fuori una legge contro i rei di Stato, per la quale più di 40.000 cittadini erano minacciati della pena di morte, e molti più dell'esilio. E per eseguire i suoi feroci voleri aveva creato una giunta di Stato composta di tristissimi uomini, più tristo dei quali era VINCENZO SPECIALE, nativo di Sicilia, spregiatore di ogni giustizia, furioso amante della tirannide, insultatore crudele dei prigionieri, iniquo falsatore dei processi, insomma, usciva dalla schiuma dei scellerati, dunque degno ministro delle ire di Carolina e di Ferdinando Borbone. Una delle sue prime vittime fu il generale GIUSEPPE SCHIPANO.
Questi era nato a Catanzaro in Calabria. Datosi di buon'ora al mestiere delle armi, ai tempi del governo regio fu alfiere, ma non si trovò mai a combattere. Sotto la Repubblica fu innalzato al grado di generale, perché valoroso e caldo amante di libertà. Scoppiata la controrivoluzione nelle province, fu spedito con una schiera di Repubblicani a reprimere gl'insorti delle Calabrie. Egli non aveva l'esperienza di guerra necessaria a simile impresa. Quindi, invece di andare diretto al suo fine, appena giunto alla prima frontiera della Calabria Citeriore, commise l'errore di arrestarsi a prendere Castelluccia, ove vide la bandiera borbonica. Era un piccolo villaggio sulla cima di un monte, al quale vi si saliva per sentieri scoscesi. L' impresa era difficile per la forza del luogo. Pochi difensori gli fecero fronte, e dopo ostinato contrasto, lo costrinsero a ritirarsi mal concio a Salerno. Dopo ebbe l' incarico di sottomettere SCIARPA, già sbirro del tribunale di Salerno, e ora capo di bande composte di galeotti e di altri scellerati raccolti nelle vicine campagne. Anche in questa impresa Schipani non ebbe fortuna migliore.

Andò a Palma, bruciò i ritratti del re e della regina, arringò il popolo, esaltò il governo della Repubblica, e poi fu costretto a ritirarsi in faccia al nemico. La fortuna gli continuava contraria: ma non lo abbandonò mai la fama di coraggioso e intrepido nei più grandi pericoli. All'avvicinarsi del cardinal Ruffo, non potendo ritirarsi a Napoli, si fortificò sopra un colle presso Torre dell'Annunziata, disposto ad attendere gli ordini della Repubblica. Aveva una piccola schiera, composta per lo più di giovani ardentissimi della libertà, che fatti esperti dal continuo esercizio, molestavano il nemico coll'arte e con prove di egregio valore. Le comunicazioni con Napoli, per la parte di terra, erano state interrotte dalle bande nemiche, infestati tutti i dintorni : rimaneva aperta solamente la via di mare, protetta dalla flottiglia repubblicana sotto il governo dell'ammiraglio CARACCIOLO. Per questa via il 13 giugno il governo mandò avviso a Schipani, pregandolo di andare subito in soccorso della travagliata città.

Egli conduceva solamente 1500 soldati, e il Cardinale aveva intorno a Napoli 40,000 uomini. Quindi, previde facilmente essere cosa impossibile condurre a buon termine questa impresa rischiosa, e salvare la Repubblica. Eppure, risoluto a qualunque cimento, stabilì la partenza all'alba del giorno seguente. Nell'atto di partire parlò ai suoi prodi e per maggiormente infiammarli, mostrò essere necessario di vincere o morire fra i più crudeli tormenti sopra un palco infame: ricordò loro le spose, i figli, i padri, gli amici che esposti al vitupero e alla morte li attendevano come liberatori. Quantunque fosse chiaro il pericolo a cui andavano incontro, tutti risposero con unanime grido, e rinnovando sulle armi il giuramento di viver liberi o di morire, si misero in marcia.

La grande strada che conduce a Napoli, passando per Portici, era ingombra di truppe russe e siciliane. I Calabresi occupavano le alture. Schipani guidava i suoi a traverso a mille pericoli, e li rincuorava con quel sorriso che manifesta la calma dell'anima. Procedendo arditamente, respinsero il nemico da Torre del Greco fino a Resina, e sebbene di continuo molestati dall'interno delle case fiancheggianti la strada, s'impadronirono di quattro cannoni. Entrati in Resina, furono arrestati da un fuoco vivissimo di batteria, che li fulminava e li distruggeva. Schipani, ordinati i suoi in battaglione quadrato, resisteva da tutte le parti e forse vinceva la prova difficilissima, se una schiera di Dalmati, che egli aveva spedito ad assalire i nemici da un' altra parte, non si rivolgeva contro di lui. Accadde una orribile carneficina, e il sangue corse a torrenti. Nessuno dei Repubblicani cedette : perirono quasi tutti sul campo di battaglia, difendendosi da eroi fino alla morte. I prigionieri furono incatenati e spogliati e straziati.

GUGLIELMO PEPE (*) racconta che, avendo difficoltà a levarsi gli stivali, uno sgherro che li voleva, lo minacciò di tagliargli le gambe. Schipani fece la parti di duce e di soldato : combatte da leone, e cercò nel campo la morte dei liberi. Ma non ebbe la ventura di morire con i suoi. Rimasto ferito, si travestì e tentò di salvarsi, e mentre correva la campagna, fu tradito e consegnato agli sgherri regii che lo condussero all' isola di Procida. Essa era già ritornata in mano della tirannide, e vi stava SPECIALE, giudice del tribunale, che Vincenzo Cuoco chiama con ragione un macellaio di carne umana. Appena giunto colà, fu da quel tribunale mandato alla forca.

Per ordine di Speciale perirono a Procida anche il generale AGAMENNONE SPANO', nativo di Reggio in Calabria, e PASCQUALE BATTISTESSA, gentiluomo napoletano. Spanò aveva militato anche ai tempi del re nei bassi gradi dell'esercito. La Repubblica lo dichiarò generale e gli dette l' incarico di combattere De Cesare, uno dei capi delle bande nemiche. Fu vinto nelle strette di Monteforte e cadde in mano dei regii e finì sulla forca. Battistessa, padre di molti figliuoli, era uomo di grande onestà. Amava la libertà, ma nessun atto di violenza fece per essa.

Dopo essere stato sospeso sulla forca per ventiquattro ore, fu tratto per esser trasportato alla sepoltura. Mentre lo tiravano giù dalla forca, videro che dava ancora segni di vita; domandarono a Speciale cosa bisognava fare, lui rispose "prima scannatelo poi seppellitelo".

(*) Guglielom Pepe - Generale napoletano, vissuto dal 1783 al 1855. Ebbe molta parte nei moti del '20, e comandò le forze costituzionali contro gli Austriaci, che lo vinsero a Rieti. Tornato nel 1848 dall'esilio, condusse 15 mila soldati napoletani contro gli Austriaci nella pianura padana. Richiamato dal Re, non obbedì, passò il Po e difese Venezia assediata. Morì a Torino prima di vedere l' Italia libera e indipendente).


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Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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