ATTO VANNUCCI (terza parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA

FRANCESCO CARACCIOLO

 

Era di casa illustre per antichi fatti, ma soprattutto risplendeva per le sue nobili opere, per le virtù di buon cittadino e amantissimo della patria, per la dottrina e per la esperienza delle faccende di mare, nelle quali con i suoi marinai napoletani, con intrepidezza si era misurato in ogni cimento; in tempi meno tristi, al dire dei coetanei, avrebbe avuto animo e ingegno atti a creare e a governare una potente marina.
Se tristizia di tempi e di uomini gli impedì questa gloria, nessuno poté impedire che la fama lo ricordasse come uno dei duci più valenti e intrepidi dell'età sua, splendore dell'armata napoletana, difensore magnanimo della libera patria.

Era nato ai 18 gennaio del 1752 a Mergellina, nella casa su cui ora si vede questa iscrizione messa da MARIANO D'AYALA (
Generale, patriota e scrittore di cose patrie., Anch'egli, come il Vannucci, ricercò documenti e ricordi della vita di coloro che soffrirono e morirono per la redenzione d'Italia; anch'egli fu in prigione e in esilio. (1809-1877). "Qui nacque Francesco Caracciolo Ammiraglio", strangolato nel 1799. Si diede al mare fin da fanciullo, e a 21 anni ebbe il primo comando ; nè i contrasti dei prepotenti, insorti più volte ad attraversarlo, poterono impedirgli di correre onoratamente per la sua via. Nel 1779 andò in Inghilterra istruttore dei giovani ufficiali napoletani destinati a combattere la guerra d'America. Reduce a Napoli nel 1781, fu tenente di vascello nel 1782, e capitano di fregata nell'anno dopo, e lo vediamo successivamente sulle fregate Minerva, Pallade e Sirena combattere valorosamente i Barbareschi di Algeri e i Pirati del Mediterraneo ; poi, divenuto capitano di vascello rel 1790, fare ardite prove sul Tancredi, nella infelice impresa (1793) degli Inglesi, Spagnoli e Napoletani contro Tolone (A Tolone fece il suo esordio il giovanissimo Bonaparte, quando si trattò di ritoglierla agli Inglesi) ; e l'anno dopo con la flotta anglo-napoletana nel mare di Savona combattere vittoriosamente il naviglio francese, e far prigioniero il Censore, vascello di Francia, e dagli Inglesi aver lode per la sua intrepidezza e il suo sapere. Poi, contrariato dagli invidiosi per il suo forte operare, costruì e armò navi mercantili a sue spese, per alimentare la passione del mare e dei lunghi viaggi. Il 10 gennaio 1798, elevato al primo grado di generale, s'imbarcò sul Sannita, che doveva essere l'ultimo campo delle sue glorie, l'ultimo segno dell'altrui gelosia.

Con questo vascello accompagnò le navi che conducevano a Palermo il re fuggitivo e la corte. Nella navigazione verso la Sicilia, lo sorprese una terribile tempesta. La nave che portava la regia famiglia, e che era comandata da Nelson, rimase danneggiata, e corse pure il pericolo gravissimo di naufragare. Mentre, quella governata dal Caracciolo, o per miglior senno o per fortuna, procedeva sicura nella tempesta e pareva che comandasse essa le furie dei venti. Il re ne dette pubblica lode al valente ammiraglio, e destò l' invidia di Nelson, che la lode al Caracciolo reputò essere un rimprovero fatto a lui.
Al malanimo dell'Inglese si unirono anche le malevolenze e gli insulti dell'Acton
(John Acton (1737-1811) di origine francese. Era allora primo ministro del Re di Napoli e favorito della Regina Carolina), per cui il Caracciolo, mandato poi a disarmare il Sannita a Messina, chiese le dimissione e se ne tornò a Napoli, dove poco dopo, fortemente pregato dai preposti alle cose di mare, dette i suoi servigi alla patria; e, presa la direzione del ministero della marina e il comando delle forze navali; finchè il 5 aprile con un proclama mostrò ai cittadini gli scellerati nemici contro i quali bisognava combattere, e si mise risoluto e ardito a guidare la difficile impresa.
La marina era ridotta a miserissimi termini. Il re, nel partire per Sicilia, aveva dato ordine di bruciare le navi dell'arsenale e del porto, perché non andassero in mano ai Francesi. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche cannoniere furono arse in cospetto della città mesta e costernata di quel tristo spettacolo. Erano scampate dall' incendio solo alcune barche vecchie e inservibili. Caracciolo le riattò, le agguerrì; fabbricò nuovi legni, mise in ordine un piccolo naviglio per difendere la Repubblica, e fece delle belle azioni.

Legni inglesi e siciliani si erano impadroniti delle isole d' Ischia e di Procida, da qui bloccavano il porto e tentavano di sbarcare sulle coste : e Caracciolo mosse contro di essi, e fece prova di cacciarli, e di riprender le isole. «Sciolsero dal Porto di Napoli - scrive Pietro Colletta- i Repubblicani entusiasti per l'impresa, benché tre contro dieci, valorosamente combattendo un giorno intero, arrecarono molti danni ai nemici; stavano sul punto di porre il piede nella terra di Procida, quando il vento, che aveva soffiato contrario tutto il giorno, infuriò e costrinse le piccole navi della Repubblica a tornare in porto : non vincitrici, ma nemmeno vinte, riportanti lodi dell'audacia e dell'arte».
Caracciolo fece tutto quello che consigliavano il senno della guerra e l'amore per la libera patria. Adoperandosi con sagacità e con destrezza, tenne gl' Inglesi lontani dalla costa, sostenne il forte di Vigliena, dette animo al generale Schipani, e difese i dintorni di Napoli. Da ultimo poi, quando Ruffo con le sue bande stringeva l'infelice città, Caracciolo, tenendosi col piccolo naviglio quanto più poteva vicino alla riva, bersagliava il nemico di fianco, mentre i Repubblicani usciti da Napoli lo assalivano di faccia sul ponte della Maddalena.
Ma tutto precipitava, e non vi era senno o virtù che potessero salvare dal furore dei barbari, e dalla viltà crudele di un iniquo re.
Dopo la capitolazione, Caracciolo, fidandosi ai giuramenti, si ritirò a Calvizzano, feudo dei suoi avi materni, poche miglia distante da Napoli. Ma poi sentita violata la capitolazione, si nascose per aspettare tempo e occasione per fuggire il pericolo. Ma un suo domestico lo tradì, e fu consegnato ai carnefici. Nelson lo chiese a Ruffo, e si credette che a questa domanda lo muovesse il desiderio di salvare un valoroso che più volte gli era stato compagno alla gloria nelle battaglie navali. E già si applaudiva al generoso pensiero che si supponeva in lui, quando apparve certo che l' Inglese chiedeva Caracciolo per sfogare la sua rabbia contro di lui, e aggiungere questa viltà agli altri delitti. « Sul proprio vascello adunò una corte marziale di ufficiali napoletani ne fece capo il conte di Thurn, perché primo in grado; la qual corte, udite le accuse, quindi l'accusato (in discorso, dato che il processo scritto mancava) credè giusta l' inchiesta di esaminare i documenti e i testimoni della innocenza ; di che avvisato lord Nelson, scrisse : "non essere necessarie altre dimore".
E allora quel senato di schiavi condannò l'nfelice Caracciolo a perpetua prigionia ; ma Nelson, saputa dal presidente Thurn la sentenza, replicò la morte. E morte fu scritto dove leggevasi prigionia. Si sciolse l'infame concilio alle due ore dopo mezzodì ; e nel punto stesso Francesco Caracciolo, patrizio napoletano, ammiraglio di armata, dotto in arte, felice in guerra, chiaro per acquistate glorie, meritevole per servigi di sette lustri alla patria ed al re, cittadino egregio e modesto, tradito dal servo nelle domestiche pareti, tradito dal compagno d'armi lord Nelson, tradito dagli ufficiali suoi giudici, che tante volte aveva in guerra onorati, cinto di catene, ospitato sulla fregata napoletana la Minerva (rinomata ancor essa tra i navigli per le sue felici battaglie), appiccato ad un'antenna della nave, il 28 giugno 1799, come pubblico malfattore, spirò la vita, e restò esposto per chi a ludibrio, per chi a pietà, fino alla notte; quando, staccato e legato il cadavere con un peso ai piedi, fu gettato in mare ».

Comunque andò incontrò la morte con animo tranquillissimo. Vincenzo Cuoco narra che, quando gli fu comunicata la sentenza, passeggiava sul cassero ragionando della costruzione di un legno inglese che gli stava vicino. Udito che bisognava morire, continuò il suo ragionamento, e al marinaio che doveva preparargli il capestro e che era commosso di profonda pietà, gli disse: "sbrigati: è ben grazioso che mentre io debbo morire tu debba piangere".
Dopo che il corpo fu gettato nel mare, il re che era nel porto « vide da lontano delle onde che spingevano verso il vascello, un cadavere, tutto fuor dell'acqua, e a viso alzato, con chiome sparse, che gli andava incontro veloce quasi minaccioso".

Conosciute le misere spoglie, il re disse: Caracciolo ?! E volgendosi inorridito, chiese confuso: "ma che vuol quel morto!" Al che, nell'universal sbalordimento e silenzio de' circostanti il cappellano pietosamente replicò: "Direi che viene a domandare cristiana sepoltura". - "Se l'abbia", rispose il re, e andò solo e pensieroso alla sua stanza » (Colletta, Storia del Reame di Napoli).


Il cadavere fu raccolto dai marinari che tanto lo amavano, e sepolto nella chiesa della Madonna della Catena, ebbe gli uffici supremi che furono solenni, perché onorati dalle lacrime dei poveri abitanti di quella contrada, i quali, ora, sinceramente piangevano l'uomo stato sempre per essi esempio benefattore e padre amoroso.

ELEONORA FONSECA PIMENTEL


La persecuzione dei despoti napoletani che superò in crudeltà quelle di tutti i più feroci tiranni, mentre contaminava la città col sangue degli uomini più venerandi, non risparmiò neppure le donne.
L'aver mostrato un senso di umanità ; l'avere legami di parentela o di amicizia con un fautore di Repubblica esponeva le più nobili e virtuose donne agli strazi del popolo furibondo, alle ire della corte, alle vendette di Carolina.

Le mogli, le madri, le sorelle dei Repubblicani furono barbaramente trattate. Fra esse si ricordano la madre e le sorelle del conte di Ruvo, e le duchesse di Cassano e di Popoli, colpevoli della sottoscrizione patriottica, trascinate alle prigioni della Vicaria in mezzo a feroci grida di plebe; e una Proto, una Fasulo. Alcune furono ingiuriate e martoriate : altre tenute lungo tempo in prigione e poi mandate in esilio. Nè mancarono le condanne di morte : anche il sangue femminile tinse le mannaie del re Ferdinando Borbone.
Eleonora Fonseca Pimentel lasciò il nobile capo sul palco infame. Splendeva di tutte le qualità che più si lodano in donna ; era bella, gentile, graziosa, adorna di santi costumi ; e di più aveva quello che molte donne non hanno, sensi virili ed energico cuore : rassomigliava alle antiche donne più celebrate per altezza di animo.
Era nata poco dopo la metà del secolo XVIII
(Nacque il 20 agosto 1748, in Roma, durante l'esilio di suo padre in questa città ) di una delle più note famiglie di Napoli. Della bellezza del corpo, che era singolarissima in lei e che la rese ammirata tra tutte le donne dell'età sua, non trasse argomento di vanità. Non contenta a questi volgari trionfi, rivolse tutto il pensiero a procacciarsi più nobile e più durevole gloria. Si dette agli studi, e mostrò profondo e rapido ingegno. Per i suoi primi Saggi poetici ebbe grandi conforti onorevoli dal Metastasio, che quei versi disse degnissimi di "somma lode, considerati unicamente in sè stessi e simili a portento", avuto riguardo all'età della gentile donzella : e fu detta nuova Saffo e decima musa da Filippo Martino di Benevento (Nel suo poema Hirpini poétae), e regina delle Muse dal Campolongo (Napoletano, vissuto dal 1733 al 1801 e successo a G. B. Vico nella cattedra universitaria): e per la sua dottrina nella storia naturale nelle scienze più ardue fu ammirata dallo scienziato Lazzaro Spallanzani.
La chiamarono in corte, ma colla sua anima pura e sdegnosa di ogni bassezza non poteva rimanere tra le turpi tristizie di Carolina, e tra le stupidezze del re Ferdinando, e scomparve da quell'antro di crudeltà e di lussuria.

Piena di amore per tutte le belle e nobili cose, messe in cima ad ogni pensiero la sua bella patria, accolse con entusiasmo le nuove idee di libertà venute dalla Senna al Sebeto, e giurò odio immortale ai tiranni, che menavano a osceno e crudelissimo strazio la più lieta regione d'Italia. All'avvicinar dei Francesi, adoprò tutto il credito che le davano la fortuna e l' ingegno per aprir loro le porte. E quando l'esercito, condotto dal generale Championnet, sovrastava alla città, e nell' interno di essa il furore plebeo minacciava sterminio a tutti gli amatori del viver libero, ella mostrò quanta intrepidezza avesse nel cuore, e a questa intrepidezza dovette la propria salute. Avvisata che correva pericolo, ella raccolse intorno a sè tutte le donne più ardimentose della sua parte, le armò, e ponendosi a capo di esse, attraversò le vie di Napoli piene di popolo inferocito, e riuscì con le compagne a giungere illesa in Sant' Elmo.

Divenuti vittoriosi i partigiani di libertà e proclamata la Repubblica, la generosa donna, a gara coi cittadini migliori, volse tutto l' ingegno a mostrare la bontà e la bellezza dei nuovi ordini, creduti apportatori di felicità universale ; e a questo effetto scrisse il Monitore Napoletano, nel quale trasfuse tutta la sua anima ardente, studiandosi di rendere impossibile il ritorno della tirannide con l'accendere in tutti l'amore di libertà che sentiva in sè stessa. Nè solo cogli scritti si adoperava per la Repubblica : parlava, eccitava, usava ogni arte per tirare i cittadini a sacrificare le sostanze e la vita alla patria. La casa sua era il convegno dei Repubblicani più generosi. Vi facevano capo tutti gli uomini più dotti e più virtuosi, e per le esortazioni, per l'eloquenza e per l'esempio di essa a maggior virtù s' infiammavano.

In un tempo in cui un sol pensiero e un solo affetto di patria bastavano per l'estrema condanna, non è da domandare quale fosse la sentenza che di questa eroica donna pronunziò la giunta di Stato. Condannata alla forca per avere scritto il Monitore Napoletano, ascoltò la sentenza con fermo animo, e prima di avviarsi al patibolo chiese e bevve caffè, e pronunziò queste parole: "Forsan et haec olim meminisse iuvabit
(Cuoco, Saggio storico).

Le forche furono piantate sulla piazza del Mercato, nel luogo stesso ove già perì Corradino di Svevia (Nipote di Federico II di Svevia, nato in Germania nel 1252. Venne a 14 anni in Italia, chiamato dai Ghibellini, e mosso da Roma per riconquistare il Regno di Napoli agli Svevi, perduto da Manfredi a Benevento, fu sconfitto da Carlo d'Angiò e da questi fatto decapitare a Napoli il 29 ottobre 1268, nella piazza del mercato).

Eleonora percorse lo spazio dalla prigione alla piazza in sembiante di donna maggiore della disgrazia. La folla che l'attorniava era immensa, e gridava a lei che prima di morire facesse plauso al re Ferdinando. Essa, con mano e con voce, chiese un istante di silenzio alle turbe feroci per dire le sue ultime estreme parole, che sarebbero state degne di quella grande anima. Stava cominciando a parlare, quando i carnefici, temendo un tumulto, le troncarono la parola e la vita. Era il giorno 20 agosto del 1799.

 

ETTORE CARAFFA Conte di RUVO

Ettore Caraffa, nato a Napoli nel 1772, fu una delle più forti e animose nature che si vedessero mai. In lui voglie ardentissime, animo fiero, ardire incredibile, amore, alle imprese più audaci, disprezzo di ogni pericolo, prontezza nel prendere, e fermezza nel mantenere i partiti, che, senza badare ai modi, stimasse buoni a conseguire i suoi intenti. In vita e in morte ogni suo atto rivelò questa indole energica, questa forza di animo più singolare che rara.
Discendeva dell' illustre e potente famiglia dei duchi di Andria, ed aveva il titolo di conte di Ruvo. Ma nè di questo nè dei molti altri titoli ereditati non si riteneva contento, perché in essi non ravvisava merito alcuno ; e non credé che le avite ricchezze potessero dargli né felicità né splendore in mezzo a un popolo di schiavi. Quindi si dette a cercare a sé e agli altri stato migliore.

Le nuove idee di libertà che andavano attorno gli invasero e gli agitarono l'anima, e lo spinsero per la difficile via delle cospirazioni. S'intendeva con la gioventù più ardente di novità, quantunque, per le condizioni di sua famiglia, fosse costretto di usare a corte. Egli fece ristampare di nascosto la nuova costituzione repubblicana di Francia e interveniva a eccitare dovunque di libertà si parlasse.

Perciò nel 1795 fu con molti altri arrestato -come abbiamo letto in altre pagine- e condotto in Sant' Elmo. Anche in prigione non celava i suoi arditi disegni. Qui fattosi amico a molti dei giovani ufficiali che presiedevano alla guardia del Forte, colle sue calde parole destò in molti gran simpatia per i giovani caduti martiri della libertà sotto la scure borbonica, ed accese nei loro cuori l'amore della Repubblica. Alcuni furono presi da tanto affetto per lui, ch'egli non dubitò di manifestare il disegno di fuggire dal Castello, e di chiedere che lo aiutassero alla pericolosa impresa. Alcuni rifiutarono di prestarsi all'opera, dicendo essere cosa vituperevole tradire il proprio dovere : ma altri erano d'avviso contrario, e risposero che per la libertà e per la salute dei difensori di essa è debito di buon cittadino affrontare la morte e anche l' infamia.

Alla fine il luogotenente Ferdinando Aprile, nato a Caltagirone in Sicilia, più ardito degli altri, si offrì aiuto e compagno di fuga, con l'appoggio della figlia di un ufficiale del presidio, la quale, presa di amore per il conte di Ruvo, lo calò con una corda dalle mura del Castello. I fuggenti ebbero sorte diversa : il luogotenente Aprile fu subito ripreso e condannato alla pena di morte, che per grazia regia fu commutata in quella del carcere perpetuo nella orrida fossa del Maretimo.
Il conte di Ruvo, più fortunato, si rifugiò in casa amica a Portici, e di là per difficili vie raggiunse Milano, e tornò nel Regno, unito ai Francesi, che molto amavano il suo ardito ingegno, e lo ritenevano, quale era, strumento potentissimo di rivoluzione.

Egli era uomo di guerra : e quando alla Repubblica Partenopea sopravvennero i tempi difficili, fu spedito a condurre i Repubblicani contro il cardinale Ruffo, che metteva a incendio e a rovina le lontane province. Andò coi Francesi destinati a comprimere le Puglie, ed ebbe il governo di una legione composta di uomini arditi e degni di esser comandati da lui che era arditissimo. Invano gli si opposero ostacoli : gli ostacoli non valevano che a fargli operare prodigi. La città di Andria, già feudo di sua famiglia, faceva potente ostacolo alle parti repubblicane, perché forte di mura, e difesa da diecimila borboniani, soccorsi dagli abitatori che erano 17 mila. Egli usò di ogni arte per indurre gli abitanti a mutar consiglio, adoprò preghiere e lusinghe. Ma le parole tornarono vane, e fu mestieri di altri argomenti. I Francesi e i legionari del conte Ruvo corsero animosi all'assalto, e fecero una battaglia terribile, con grande strage dall'una parte e dall'altra.

La città fu battuta con le artiglierie, fu assalita con le scale. Si vedeva il conte Ruvo correre con una lunga scala sopra le spalle : non si curava della tempesta di palle, che spargevano dappertutto la morte : aveva in mano una bandiera repubblicana, e la nuda spada ; esplorava l'altezza delle mura per cercare dove la scala giungesse ; e trovato il luogo, ascendeva intrepidamente, ed entrava primo e solo nella combattuta città. Qui fece fierissime cose, reso inflessibile da necessità di guerra e di parte. Ma cessato il furore, si dimostrò generoso ; e le memorie del tempo non tacciono di un pietoso suo atto. Si espose al pericolo di essere ucciso per salvare dalla violenza di due feroci Francesi una giovinetta di onesta famiglia, e la salvò uccidendo uno di quei furibondi. Prove di maraviglioso valore e di animo indomabile dette anche nella espugnazione di Trani, la quale, come Andria, consigliò che fosse distrutta. E quando i Pugliesi ricorrevano a lui per far togliere o scemare i tributi di guerra, egli citava, in esempio di necessaria severità, Andria sua, per suo voto bruciata : diceva imparassero a soffrire da lui, che dava alla patria le ricchezze della casa, la grandezza del nome, il riposo, la vita.

La presenza di lui in Puglia era di un gran giovamento, perché lì col suo nome e colle sue aderenze contribuiva molto a rincuorare i timidi, e a tener vivo l'amore della Repubblica. Laonde fu tristo consiglio quello dei governanti che lo richiamarono di là, ove poteva sostenere la patria in quei difficili tempi. Fu mandato contro Pronio, capo di bande in Abruzzo. Sebbene avesse una piccola schiera, dapprima combattè ferocemente all'aperto e fece prove stupende. Ma poi, assalito da un numero molto maggiore, fu costretto a lasciare la campagna e ritirarsi nella fortezza di Pescara. L'aveva ben fornita di munizioni, e col suo bravo aiutante Ginevra vi durò fino all'ultimo. Dopo la rovina della Repubblica, avvisato della capitolazione, cedé la fortezza alle condizioni dei Castelli di Napoli, e venne coi suoi compagni alla capitale per imbarcarsi e serbare la vendetta a tempi migliori. Fu invece con i suoi compagni imprigionato, fu condannato dall'empio tribunale di sangue, e davanti alla morte si mostrò intrepido, animoso, imperturbato, come era stato davanti a tutti i pericoli in guerra.
Fu condotto incatenato davanti al giudice Sambuti che, spregiando il nobile contegno del prigioniero, prese a dirgli villane parole, degne della sua anima di sgherro vilissimo. Il prigioniero «ruppe le ingiurie dicendogli: se fossimo entrambi liberi, parleresti più cauto: ti fanno audace queste catene: e gli agitò i polsi sul viso. Quel vile, impallidito, comandò che il prigioniero partisse ; ma non appena uscito, scrisse la sentenza, che al dì seguente mandò al forte. Egli, nobile, dovendo morir di mannaia, volle giacere supino, per vedere, a dispregio, scendere dall'alto la macchina che i vili temono ».


GABRIELE MANTHONE'

Per più mesi, quasi ogni giorno, il mastro di giustizia fu molto affaccendato a muover forche e mannaie, a decapitare o strozzare gli uomini che più onoravano la patria colle virtù dell'animo e dell' ingegno: magistrati, sapienti, vescovi, preti, donne, onesti cittadini, ministri, rappresentanti del popolo, prodi ufficiali e soldati.
Tra questi ultimi era GABRIELE MANTHONE' , grande nella persona e nell'animo, per natura eloquente, destro maneggiatore di armi fino dai suoi più giovani anni, valoroso, e sempre autore o seguace dei più forti e generosi consigli. Nato ai 23 ottobre del 1764 a Pescara da un Savoiardo, aiutante maggiore nel presidio di quella fortezza, studiò le armi dotte nell'Accademia di Napoli. Era ufficiale delle artiglierie nel 1787, capitano tenente nel 1789, e capitano comandante nel 1798, dopo aver presieduto alla fabbrica delle armi a Torre dell'Annunziata, ove dette splendide prove d'integrità e di coraggio col resistere fortemente ai prepotenti e ai corruttori.

Nella rivoluzione s'infiammò di grande amore per le cose nuove, e cospirò con i cittadini più autorevoli ma, spregiatore di ogni gente straniera, non amava i Francesi. Quindi, allorché Championnet al suo entrare in Napoli poneva taglia di guerra di due milioni e cinquecentomila ducati, e poi ai reclami rispondeva ferocemente con
guai ai vinti dell'antico duce dei Galli incendiatori di Roma, Manthonè, che fu uno dei cinque, che con a capo GIUSEPPE ABBAMONTI, andarono a lui ambasciatori della città, dopo il discorso del presidente, studioso di richiamare in Francese ai termini della giustizia, e a domande di cose possibili, soldatescamente gli rammentò che i Napoletani non erano vinti, che egli aveva preso la città nei loro aiuti, che non potrebbe mantenerla se essi si staccassero da lui. Poi aggiunse : « Esci, per farne prova, dalle mura, e ritorna, se puoi : quando sarai tornato imporrai debitamente taglia di guerra, e ti si addiranno sul labbro in comando di conquistatore, e l'empio motto, perchè ti piace, di Brenno ».

Nella Repubblica fu legislatore, diresse i ministeri della guerra e degli esteri. Avrebbe potuto andare a Parigi con i messaggi spediti a fare riconoscere la nuova costituzione della Repubblica, ma non volle, e alla moglie che, presaga dell'avvenire, con preghiere e con lacrime lo eccitava a partire, rispose intenerito, ma fermo : "Margherita, il pericolo è qui, e qui è necessario che io rimanga con i migliori".
In lui i Repubblicani avevano gran fede, come in uomo di fortissimo animo e di smisurato coraggio. Trovandosi al supremo governo delle armi in tempi difficilissimi, fece tutti i provvedimenti possibili. Per sicurezza della città ordinò meglio la guardia nazionale, ne accese nell'amore della Repubblica, ne dette armi e bandiere con pompa solenne, ne fece capi Bassetti, Gennaro Serra e Francesco Grimandi.
Al comando della piazza propose in generane Federici, e agli ordini del generale Oronzio Massa confidò in Castelnuovo.

Ma la guerra si presentava più forte e minacciosa di quella che fosse stato pensato. Manthoné, che dapprima errò tenendo in poco conto il moto del Ruffo, e non provvide con modi straordinari a reprimerlo, quando vide il feroce Cardinale avanzarsi fortissimo alla volta di Napoli, ricorse alla carità cittadina per aver nuovi e più forti aiuti alla guerra, e riscaldò tutti gli animi. Nel consiglio legislativo propose in decreto che alle madri private dei figli per la libertà si desse largo stipendio ed onore : e fatta la proposizione, concludeva il discorso: "Cittadini legislatori, io spero che mia madre domandi l'adempimento del generoso decreto. Poi propose di mettersi egli stesso al comando delle truppe destinate a far testa al nemico, per ispirare maggior fiducia ai soldati, che attribuivano le disfatte alla inesperienza dei capi. Fece un appello agli emigrati Calabresi, che risposero energicamente e si dissero pronti a morire per la patria. E allora in ministro soggiunse: "Il governo applaudisce ai moti generosi delle vostre anime, e la Repubblica, che ha nel suo seno eroi come voi, non può perire giammai". Manthoné, magnanimo e valorosissimo, misurava dal proprio il valore degli altri, e credeva che dieci Repubblicani vincerebbero mille contrari. Con queste speranze partì alla testa di seimila uomini contro in nemico, lasciando la guardia della città ai prodi Calabresi. Dapprima vinse tutte le piccole bande d' insorti sparse per le campagne: ma quando ebbe raggiunto il grosso dell'esercito, si trovò circondato e soverchiato da un numero così grande, che fu costretto a ritirarsi come vinto, abbandonando i cannoni.

La città, che attendeva ansiosamente cose nuove da questa spedizione, nella quale erano le ultime speranze della Repubblica, si riempì di costernazione all'annunzio della disfatta. Bloccati da tutte le parti, scarsi di vettovaglie, non avevano altro partito che quello di vendere caramente la vita, a questo si volsero tutti i più generosi. Manthoné e tutti gli ufficiali e ministri vegliavano giorno e notte a difesa contro i nemici esterni e interni. Alla fine, ricorrendo agli estremi partiti, egli solo fra tutti proponeva che i patriotti ricoveratisi nei Castelli, con la guarnigione francese di Sant' Elmo facessero una sortita notturna per liberare parecchie migliaia di Repubblicani tenuti in prigione, e quindi marciare con essi su Capua e Gaeta. Così 5000 Francesi e circa 15.000 Repubblicani, riunendosi ai patriotti di Roma e alle guarnigioni delle altre province d'Italia, avrebbero provveduto a sé stessi e alla Repubblica. Il pensiero, benché audacissimo, era grande e magnanimo, e forse poteva recarsi ad effetto ma non ebbe l'approvazione degli altri, che inorridivano al pensiero di lasciare la città in balia delle ferocissime orde del Ruffo, e dall'altro canto speravano dal nemico patti onorati. E li ebbero ma furori traditi dal Nelson, dal Ruffo, e dall'iniquo re Ferdinando, e lasciarono la vita sul patibolo.
Gabriele Manthoné, condotto alla presenza di Speciale, e interrogato da lui quali cose avesse fatte per la Repubblica : Grandi, rispose, non bastevoli, ma finimmo capitolando.... Eccitato a discolparsi e a difendersi, rispose : Ho capitolato. Speciale aggiunse : Non basta. E Manthoné : Ed io non ho ragione per chi dispregia la santità dei trattati.
Condannato a morte, camminava col capestro al collo, con fronte alta e ferma. I suoi compagni d'armi e di ufficio erano con lui. Mancava solamente Bassetti. Domandatone, fu risposto che si era salvata la vita col tradire i compagni. A questa trista novella Manthoné imprecò morte infame al vile assassino, e senza mutare né viso nè atto salì sereno al patibolo. «Non é pietra», scrive Mariano D'Ayala, «che rammenti alla pietà dei cittadini le opere e la morte di quel generoso. Solo avanza una carta, che noi stessi leggemmo, e che dice così : - Fo fede io qui, sotto segretario della compagnia dei Bianchi della giustizia di questa città, sotto il titolo di Sancta Maria succurre miseris, che nel giorno 24 settembre del 1799 D. Gabriele Manthoné, siccome reo di Stato, munito dei santissimi sacramenti, fu dai nostri fratelli assistito a ben morire, ed il suo cadavere dagli stessi fratelli fu officiato nella Chiesa del Carmine Maggiore, dove ricevé l'ecclesiastica sepoltura".
Questa carta conservasi tuttavia da suo figlio Cesare, il quale non ebbe mai conosciuto suo padre, essendone ancora incinta la madre all'epoca della morte : ed ecco quali eredità lasciano in Italia i padri ai loro figliuoli ! »

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Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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