ATTO VANNUCCI (quarta parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA

FRANCESCO MARIO PAGANO

 

Francesco Mario Pagano, nato nel 1748 a Brianza, piccolo luogo della Basilicata, fu educato a Napoli alla scuola di ANTONIO GENOVESI (1), e degli altri filosofi che rendevano quella città florida di libere e alte dottrine. Giovinetto ancora, intervenne alla conversazione dell' erudito Grimaldi (2), che radunava in sua casa gli uomini piú valenti e con essi si intratteneva di scienze e di lettere. Vi era fra gli altri Gaetano Filangieri, il quale, preso dell'ingegno che Pagano mostrava, e de' suoi modi ingenui e dell'angelico candore dell'anima, gli portò grandissimo amore, e con i suoi consigli valse a rendere più viva e a mostrarsi la fiamma che al giovinetto stava chiusa nel cuore.

Pagano divenne avvocato, e nell'esercizio della sua professione più specialmente rivolse gli studi alla parte criminale, perché al suo cuore era più dolce salvare la vita che le sostanze dei cittadini. Alla profonda dottrina univa gagliarda e sapiente eloquenza, e le sue difese menarono rumore : perciò tutti i pensieri si rivolsero a lui quando bisognò nominare il professore di diritto criminale all' Università degli studi. Egli, conoscendo i vizi del foro, divenuto turpe mercato di leggi e luogo d'iniquità, si dette vigorosamente a combatterli in mezzo a un numero grande di giovani plaudenti ai sublimi pensieri, alle benefiche dottrine, alla facile eloquenza del venerato maestro, che educava gli animi, stenebrava le menti, cacciava via la barbarie, ed era salutato il Platone di Napoli.
Avuto anche l' incarico di proporre una riforma della procedura criminale, contaminata da abusi mostruosi, e datosi all'opera con tutto il fervore di un ardente filantropo; con tutta la scienza di un gran filosofo, svelò i vecchi abusi, indicò i rimedi, pose i fondamenti della procedura moderna e insegnò i modi di trovare il reo senza far perire l' innocente. La sua opera che, come quella di Beccaria (3), segnava un' éra gloriosa negli annali dell'umanità, fu lodata da tutti i giureconsulti di Europa, fu tradotta in tutte le lingue, e ne ebbe la menzione onorevole dell'Assemblea nazionale di Francia.

Nè qui si rimase nel suo ardente amore per gli uomini. Nei Saggi Politici, spingendo più avanti lo sguardo, esaminò gli ordinamenti sociali, percorse le epoche principali della civiltà, e considerandola da un alto punto di vista, agitò le più gravi questioni sull'ordine naturale e politico delle società civili. Con tocchi stupendi tracciò l'origine e i progressi degli ordinamenti civili, descrisse le vicende del genere umano, fece una filosofia della storia. « Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano, dice Vincenzo Cuoco, voi non rinvenite che l'orme di Pagano che vi possano servire di guida a raggiungere i voli del Vico ».
I liberi pensieri del filosofo gli suscitarono contro il vespaio dei falsi devoti. Ma egli vinse la guerra, perchè l'opera, difesa validamente da lui, fu giudicata e sostenuta dai teologi Conforti (4) e Morone, che erano anche filosofi, e perché allora il vento tirava fortemente contro le pretendenze di Roma.
A riposar l'animo dai gravi studi scrisse tre tragedie: il Gerbino (1780), gli Esuli Tebani (1787), il Corradino (1789), più componimenti lirici, che rimasero inediti, un melodramma sopra Agamennone, stampato nell'anno suddetto, e una commedia intesa a mettere in burla l'entusiasmo degl' Italiani per le cose degli stranieri, e soprattutto dei Francesi, di cui fanaticamente si accoglievano a Napoli i costumi, i modi, ogni frivolezza, massime nel mondo elegante.

Intanto sopravvenivano tempi gravissimi : le idee vagheggiate dai filosofi cominciavano a divenire fatti, e all'umanità si preparavano men tristi destini. Mario Pagano amava la democrazia quanto aborriva il mostro immane del dispotismo ; ma non credeva possibile abbatterlo durevolmente con idee, con rivoluzione e con forze portate di fuori. Non tutti erano dello stesso pensiero : i più ardenti amatori di libertà non vedevano altro modo a conseguire i loro desideri che l'aiuto e l' imitazione di Francia. E a questo intento furono ordite numerose congiure : la polizia riempì le prigioni, i giudici condannarono, e il boia impiccò.

Scarsi erano allora i difensori degli accusati politici, perché si sapeva che la difesa, permessa solo in apparenza, senza giovare alle vittime, traeva addosso agli avvocati le persecuzioni della regina e dei suoi vili sgherri. Ma Pagano, pronto sempre a volgersi animoso ovunque fosse da fare un'opera buona, corse alla difesa degli imputati, e fece tutto ciò che amore di umanità e forza d'ingegno consigliavano per salvare dalla morte i giovanetti Galiani, Vitaliani e De Deo. Non riuscì nell'impresa, ma ebbe il supremo conforto di aver fatto il debito suo, senza lasciarsi vincere da umano riguardo.
In quei tempi tristissimi bastava avere probità, ingegno e dottrina per divenire vittima della tirannide. Contro questi capi di accusa non vi era scampo. Quindi Mario Pagano, già in gran sospetto alla corte come uomo integerrimo e di alto ingegno e dottissimo, divenne più che sospetto quando lo ebbero visto difendere, con amore pari alla scienza, gli accusati di alto tradimento. Lo si voleva arrestare, ma prima di giungere a questo, la regina, che lo sapeva stimato e amato molto dalla città, tentò di guadagnarlo alla sua parte. Tentar di vincere con lusinghe Mario Pagano era una regia stoltezza, che finì come tutte le stoltezze finiscono.

Gli dettero la carica di giudice nel tribunale dell'Ammiragliato, sperando di trarlo, per questa via, ad essere amico e sostenitore della tirannide. Egli conservò tutta l' indipendenza del suo forte animo, tutta la sua integrità, tutto l'amore che nutriva ardentissimo per la giustizia. Perciò si fece molti nemici fra i tristi colleghi che s'ingrassavano invece con le ingiustizie e i soprusi. UNo di questi era l' iniquissimo Vanni, presidente della Giunta di Stato. Egli, che odiava il valente avvocato per il fervore usato nel difendere gli imputati politici, ora odiò mortalmente l'onesto giudice che perseguitava i furfanti da lui favoriti ; e, per levarlo di mezzo, lo rappresentò al re e alla regina come uomo pericoloso allo Stato. Il tentativo del tristo riuscì, Pagano fu chiuso in un orrido sotterraneo, ove stette per tredici mesi, avendo per letto la terra coperta di immondezze, privo di ogni conforto di leggere e scrivere, tormentato da tutti i dolori.

Dopo lo misero in un carcere meno tristo, e qui egli scrisse il discorso del Bello, che sembra nato in mezzo alle dolcezze della pace e alle più soavi delizie. Colla fantasia e coll'affetto della sua purissima anima andò a cercare fuori del carcere le imagini che non trovava intorno a sè. Alla fine, dopo quattro anni, non trovando un motivo per condannarlo, i suoi giudici lo misero in libertà, ma non dichiararono la sua innocenza, che era certa per mille prove. Spogliato degli ufficii di professore e di giudice, e impedito anche di fare l'avvocato, appena ne ebbe il modo fuggì da quella terra di maledizione, e a gran rischio di essere arrestato lungo la via, si rifugiò a Roma. Qui ebbe onori e dimostrazioni di stima e di affetto : ma poco poté rimanervi, perché sul finire del 1798 vi entrarono le truppe napoletane capitanate dal Mack e dal re Ferdinando. Allora cercò rifugio nella Repubblica Cisalpina, e fu dagli uomini liberi festeggiato e onorato a Milano, d'onde poco dopo, all'annunzio della rivoluzione napoletana, fece ritorno alla patria, ove il generale Championnet lo aveva posto nel numero dei destinati a governare provvisoriamente la Repubblica Partenopea.

Nel giorno solenne in cui entrava cogli altri in ufficio, Pagano, si rivolse alla festante moltitudine, e parlò in questo modo: « Sì, cittadini, siamo liberi : godiamo ; ma ricordiamo che la libertà siede sopra uno sgabello d'armi, di tributi e di virtù, e che le armi in Repubblica non si posano, né i tributi scemano, se la virtù non eccede. A questi tre obbietti intenderanno le costituzioni e le leggi del governo. Voi, però che libero é il dire, aiutate gli ingegni nostri noi accetteremo con gratitudine i consigli, li seguiremo, se buoni. Ma udite, giovani ardenti di libertà, che qui vi palesate per l'allegrezza che vi brilla negli occhi, udite gli avvisi di un uomo incanutito, più che per anni, nei pensieri di patria e negli stenti delle prigioni, correte all'armi, e siate nelle armi obbedienti al comando. Tutte le virtù adornano le Repubbliche, ma la virtù che più splende sta nei campi ; il senno, l'eloquenza, l' ingegno fanno avanzare gli Stati: ma è il valore guerriero che li conserva; le Repubbliche de' primi popoli, perché in Repubblica le società cominciano, erano rozze, ignoranti, barbare, ma durevoli, perché guerriere. Le Repubbliche di civiltà corrotta invece presto caddero, benché abbondassero buone leggi, statuti, oratori, tutti i sostegni e gli incitamenti alla virtù, ma le infingarde aveano tollerato che le armi cadessero. Perciò, in voi più che in noi stanno le speranze di libertà. Il governo provvisorio, nel dirsi legittimo e costituito, intende da questo istante ai suoi debiti; e voi, strenui giovani, correte da questo istante ai debiti vostri, date i vostri nomi alle bandiere di libertà che ravviserete dai tre colori ».

Poi eletto rappresentante del popolo per la commissione legislativa, fece ogni sforzo a sostegno della libertà e della giustizia. Per amore del giusto prese a difendere la causa dei baroni. Egli aborriva il mostro del feudalismo, che già era stato distrutto, ma chiedeva che dopo annullati gli ingiusti privilegi, si restaurassero i baroni dei danni patiti nei loro possessi. Ai democratici più furiosi che gli si rivolsero contro e gli dissero ingiurie, egli, non perdendo mai il coraggio, rispose con solenni parole, rispose più solennemente coi fatti, continuando a rendere alla libertà tutti i servigi che poteva.
Il governo della Repubblica era per la più parte composto di uomini generosissimi, i quali credevano viltà vendicarsi degli antichi strumenti della tirannide. Mario Pagano, quantunque avesse sofferta la persecuzione e il carcere, si mostrò più generoso degli altri. Citava sempre la lettera che Dione scrisse ai suoi nemici quando rese la libertà a Siracusa, e ripeteva le parole che Vespasiano, elevato all'impero, mandò a dire ad un suo nemico, cioé che d'ora in poi egli non aveva più da temere nulla da lui.

Ebbe incarico di fare la nuova costituzione della Repubblica, e vi applicò tutto l'ingegno, e in breve la compì, con l'aiuto di Giuseppe Logoteta e di Giuseppe Cestari (5). Fu accusato di aver troppo servilmente seguito le idee francesi, ma questa accusa va a quelli che gli fecero un obbligo di non dipartirsi dalle basi della costituzione dell'anno terzo. Pure vi introdusse più ordini nuovi, che furono lodati di tanta bontà. Fra questi contavasi il tribunale censorio, destinato a vegliare al mantenimento dei buoni costumi e alla correzione dei tristi. Fu lodato anche il corpo degli efori (antica magistratura di Sparta), che eletti dal popolo, dovevano vegliare perché la costituzione fosse mantenuta in ogni sua parte, e al bisogno si riformasse. Gli efori sostenevano la sovranità popolare, impedivano le gare i sovvertimenti civili. Ma non vi fu tempo di mettere alla prova i nuovi ordini, perché i nemici erano alle porte di Napoli. Allora Mario Pagano, lasciate le parti di legislatore, corse alle armi e tentò di difendere col braccio quella causa per la quale più non valevano i consigli.
Fatta la capitolazione, fu arrestato sulla nave che, secondo i patti, doveva condurlo in Francia, e fu tenuto per più mesi in prigione. Condotto poi davanti al tribunale di morte e richiesto di difendersi, rispose : che egli credeva inutile ogni difesa; che per continua malvagità di uomini e tirannia di governo gli era odiosa la vita; che sperava pace dopo la morte. E morì impavido e tranquillo il giorno 29 ottobre 1799, con Domenico Cirillo e Ignazio Ciaia (7).

Sugli estremi momenti di questo nobilissimo martire é una bella pagina di Terenzio Mamiani (8),
nel Dialogo intitolato "Pagano, ovvero dell'anima", ove uno dei compagni di carcere del condannato favella così : «Già la luce era scomparsa affatto dal nostro carcere, e i colloqui si rallentavano e il silenzio cresceva. Più funeste e più paurose scorrevano a noi, come sapete, le prim'ore della notte, perché in quelle soleva decidersi della vita e del supplizio di alcun nostro compagno. Ma perché qualche giorno era pur varcato senza che alcuna prigione ci fosse tolta, speravamo (tanto é facile nei mali estremi credere al desiderio) speravamo, dico, che quella notte sarebbe ancora trascorsa non macchiata del nostro sangue. Oltre a ciò, le forze della natura, sempre gagliarde, e l'abito fatto ad ogni miseria ricondussero dentro di noi altissima quiete e profondo sonno ; il che scorgendo Pagano, disse come tra sé : ringraziamo Dio, che lor concede sulla terra questo dolce ristoro. E tacque, e non l'udii muover l'afflitte e logore membra. Oimé, Pignatelli mio, ch'io mi sento ancora tremare il cuore, quand' io ricordo che l'uscio della prigione con strepito e tumulto s'aprì, e i manigoldi vennero dentro, e uno di essi con aspetto feroce gridò: "Francesco Mario Pagano, il
giudice ti domanda". Né già l'essere avvezzi a quel fatto atroce né l'alterezza e l'imperturbabilità cui l'anime nostre eran giunte, né infine la santità e l'elevazione dei pensieri in cui avevamo chiusa quella giornata potevano impedire che tutti noi, balzando in piedi e scuotendo le nostre catene, non alzassimo un lungo e dolorosissimo gemito e costernati non corressimo intorno a Pagano. Egli solo, quello spettabile vecchio, né si commosse né annebbiò minimamente la pace e mansuetudine del suo sembiante: "sono nelle vostre mani, rispose, e pronto e disposto da lungo tempo a quello a cui mi conducete; solo permettete che io abbracci e
saluti questi consorti carissimi di mia fortuna". E così cominciò ad abbracciar noi tutti l'un dopo l'altro. Fermatosi poi davanti alla soglia dell'uscio, da noi affettuosamente prese commiato, e queste furono le sue parole: "Amici e patrioti, addio. Di me non piangete, ch' io vo all' incontro della vita e della libertà, e il patibolo m' é più corta scala a salire tra gl' immortali. La morte, inevitabile a tutti, a noi é gloriosa, e mentr'ella separa gli altri amici per lunghi anni, separa noi per solamente pochi giorniì, e tutti ci vuol riunire
per sempre. Saluterò in nome vostro i molti magnanimi che ci hanno precorso, e gli abbracci che mi date renderò loro in quel divino congiungimento di cui l'anima sola é capace. Io non desidero vendicatori uscenti delle nostre ossa, perché non dubito in alcun modo del frutto copioso dei sangue che noi versiamo. Forse più generazioni ancora si succederanno di vittime e di carnefici; ma l'Italia é stata, e sarà eterna". Questo disse, e varcò la soglia fatale.

Chi gli fu familiare scrisse che dal suo sembiante soavissimo traspariva l'angelico candore dell'anima ; e ne ricordò l'austero costume vestito di dolci maniere ; l'amore per gli uomini diffuso largamente nei nobili scritti, e segretamente messo in opera col porgere soccorsi generosi e continui a ogni miseria ; tutta la vita piena di feconda virtù, e la fine ferma del giusto che, vissuto da Aristide, morì come Socrate".

 

(1) Antonio Genovesi nacque nel 1712 a Castiglione dei Genovesi (Salerno) ebbe gli ordini sacri. Studiò a Napoli e insegnò all'Università metafisica, poi etica ed economia politica. Ebbe grandissima fama e lasciò opere insigni. Morì a Napoli nel 1769.
(2) Grimaldi - Altro economista valente, nato a Seminara nel 1735 e morto a Reggio Calabria nel 1805.
(3) Cesare Beccaria. milanese, riformatore del diritto penale, autore della celebre opera Dei delitti e delle pene, nella quale perorò per l'abolizione della pena di morte.
(4) Francesco Conforti (1743-1799), sacerdote e giurista, difensore dei diritti di Napoli contro le pretese di Roma e autore dell'Anti Grozio. Dopo cinque anni di prigionia, fu liberato dal nuovo governo repubblicano e divenne ministro dell'interno della Partenopea. Caduta la Repubblica, fu arrestato e scomunicato.
(5) G. Logoteta, di Reggio C., dotto e virtuoso, era nato nel 1758 e morì impiccato nel 1799. L'abate G. Cistari, direttore dei Reali Archivi, perì combattendo il 13 giugno 1799 sul Sebeto, contro i Sanfedisti, accanto a Luigi Serio.
(7) Discepolo di Gaetano Filangieri, fu incarcerato nel 1792 per falsa denunzia di crimine contro lo Stato. Soffrì nuovamente prigionia dal 1794 al 1799 coll'abate Galiani, il Vitaliani e il De Deo. La Repubblica lo liberò ed egli ne cantò con spontanea vena l'avvento. La restaurazione lo condannò a morte.
(8) Terenzio Mamiani - Pesarese (1799-1885) professore di lettere nell'Accademia Militare di Torino fino al 1828, poi esule a Parigi (1831-46), nel 1848 ministro di Pio IX, nel 1860-61 ministro della istruzione pubblica a Torino.
Dal 1864 senatore del Regno. Fu scrittore e filosofo insigne.

 


DOMENICO CIRILLO

Fu uno dei più valenti uomini che nascessero sulla terra di Napoli, feconda sempre di ingegni eccellenti e singolarissimi. Fu grande uomo di scienza e gran cittadino ; il cuore suo era ardentissimo dell'amore degli uomini. E tanta sapienza e tanta virtù furono spente sulle forche del tiranno di Napoli.

Era un uomo degno dei tempi antichi di Roma. Il paese ed i tempi in cui nacque, dice Francesco Lomonaco, non eran per lui. Era un Catone in mezzo alla feccia di Romolo. Le qualità somme che lo adornavano erano molte, e ciascuna di esse sarebbe stata bastevole a formar un grand'uomo. Morale santissima, pietà ad ogni sventura, desiderio vivissimo di rendere gli uomini meno infelici, e fatti concordi ai desiderii e alle parole.
Nacque a Grumo, piccolo luogo della Terra di Lavoro, il 10 aprile dell'anno 1739, di famiglia che aveva dato più uomini reputati come medici, come naturalisti, come magistrati, come cultori di belle arti e di lettere. Lui fin dalla giovane età mostrò grande passione per lo studio dell'arte salutare, e voltosi ad essa con tutto l'animo, ne coltivò felicemente tutte le part, e fu il ventesimo medico della sua casata. Giovanissimo ancora concorse alla cattedra di botanica, e l'ottenne. Creó erbarii per i privati e per il pubblico, fece attentissime escursioni botaniche nella provincia di Napoli, in Sicilia, nelle Calabrie, nelle Puglie, negli Abruzzi, sul Matese (Montagna tra il Volturno e il Biserno) con naturalisti italiani e stranieri, raccogliendo nuove piante e nuovo fiori per usarne le virtù a salute degli uomini. Fu in corrispondenza con i primi dotto d'Europa, tra i quali basta ricordare Carlo Linneo (Olandese. Il più celebre fra i botanici (1707-78), fra gli stranieri, e Lazzaro Spallanzani fra i nostri: e presto ebbe riputazione così chiara che a più piante fu dato il suo nome. Offertaglisi una favorevole occasione, viaggiò l'Inghilterra e la Francia, ove attese a fare acquisto di nuove dottrine. A Londra fu iscritto fra i membri della Società reale. In Francia vide gli uomini famosi che con gli scritti facevano guerra mortale alla barbarie e preparavano all'umanità più felici destini. Amò sopratutto e stimò il Nollet, il Buffon, il D'Alembert, il Diderot, il Franklin (Nollet, fisico francese (1700-1770) ; Buffon, francese, principe dei naturalisti (1707-1788) ; D'Alembert, uno degli Enciclopedisti, matematico e filosofo, anch'egli francese (1717-1783) ; Franklin, inventore del parafulmine, fu ambasciatore americano a Parigi (1706-1790).), e fu amato e stimato da essi. Questo soggiorno e l'incontro con quegli uomini singolari piacevano enormemente al suo ingegno e al suo cuore. Era solito dire che avrebbe preso stanza a Parigi o a Londra, se l'amore per la madre non lo costringeva ad abitare una patria oppressa da feroci tiranni. Il rispetto, la tenerezza e la venerazione per essa lo ricondussero a Napoli.

Ritornato più ricco di scienza e col cuore più acceso del desiderio di giovare all' umanità sofferente, si dette con ogni cura ad esercitare la sua arte. Splendido com'era di bellissima fama, ebbe invito di recarsi professore a Pavia e rifiutò di accettare di essere medico a corte. Ebbe in patria la cattedra di fisiologia e poi quella di clinica, e fu restauratore della scienza. Parlava eloquente, rapiva i giovani, e mentre nutriva loro l'ingegno di scienza profonda, ne riscaldava i cuori cogli affetti del buon cittadino. Era come medico ricercato a gara in tutte le case dei grandi. Ma egli correva più rapido ai tuguri dei poveri che ai palazzi dei ricchi, reputando che l'arte salutare dovesse esercitarsi a sollievo della misera umanità, non come strumento per procacciarsi ricchezze. Il suo disinteresse era cosa più singolare che rara. Chiamato da un ricco e da un povero, andava prima dal povero, e oltre a soccorrerlo amorosamente dell'arte sua, lo aiutava con i propri denari a liberarsi dalla miseria .
(« Quanto era più ammirabile nell'esercizio della scienza della salute ! Le sue cure estendendosi ugualmente sul ricco che sul povero, egli versava sull'ultimo il balsamo della pietà, sovente a discapito della sua borsa. Per i suoi rari talenti venne eletto medico della corte : ma l'austera sublimità delle sue virtù non si volle abbassare alla viltà di un cortigiano. Egli trovava nell'oscurità della vita privata un incanto ed una gioia, che non si gusta a traverso il vano splendore della grandezza, e massime vicino al trono. Egli, non sapendo nè elevarsi, né abbassarsi dal suo livello, verificava la massima: che i grandi cessano di esserlo, quando non si sta ginocchione innanzi a loro». Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot, ediz. di Lugano, pagg. 162-163)

Tutto lasciava da parte quando si trattava di salvare un malato: vigilantissimo sempre a studiare i temperamenti, le malattie, e le loro fasi. Studiò con amore gli ospedali e le carceri nell' intento di migliorare le stanze dei malati di corpo e di spirito. Senza curare le molestie e la guerra degli ignoranti e degli invidiosi, sostenne tutti i nuovi ritrovati capaci a conservare e a restituire la salute. Introdusse a Napoli l'uso dell'olio di ricino e del tartaro emetico; promosse l' innesto del vaiuolo (L'Inglese Edward Jenner inoculò per la prima volta il vaccino a un suo figlio nel 1796), combattuto dalla Curia romana, e con essa salvò la vita al fanciullo Genzano (Filippo Marini, marchese di Genzano, spento sul patibolo nel 1799, che morì baciando il carnefice e fu ricordato da Luigi Settembrini nella Ricordanze della mia vita), che poi gli fu compagno al patibolo.
Compose nove opere di botanica, dieci di materia medica, e vari discorsi accademici : quindici libri scrisse in latino e otto in volgare.

La sua casa a Pontenuovo, dove lo visitarono tutti i dotti che capitavano a Napoli, « era, scrive Mariano l'Ayala, il convegno gentile delle scienze, delle muse e dell'amicizia, poiché il Cirillo non fu solamente medico e botanico, ma letterato ed amico de' letterati, massime del celebre Antonio Jerocades (Sacerdote e poeta calabrese. Patì lunga prigionia. La Repubblica lo liberò, ma la restaurazione lo fece nuovamente arrestare.) nato un anno prima di lui, di Luigi Serio, di Saverio Mattei (Letterato di buona fama a' suoi tempi. Morì a Napoli nel 1795), più giovane di appena tre anni della Fonseca, del Pagano, del Conforti, del Falconieri ( Professore di lettere greche, nato a Lecce nei 1755, soldato della Repubblica nel; 1799 e morto in quest'anno sul patibolo.) e di tanti altri ».
Dotto e amabile per suoi modi gentili, era carissimo a tutti i buoni e sapienti, e quando lo colse una grave malattia, la città ne fu addolorata, come un pubblico danno.
A malgrado delle sue virtù, anzi per queste stesse virtù, fu spiato e malvisto dalla corte e dal governo nel 1791, quando le paure delle cose di Francia eccitarono il re contro i dotti e i sapienti, e li involsero nelle trame sbirresche.

Venuta la rivoluzione del 1799, andarono da tutte le parti a ricercare Cirillo nella sua solitudine, e con voti unanimi lo chiamarono a governare i nuovi ordini repubblicani : sulle prime, e per modestia e per amore all'arte sua, ricusò ; ma chiamato una seconda volta dal voto pubblico, quando la patria era in pericolo, accettò l'onore di essere rappresentante del popolo, e fu presidente del corpo legislativo." È grande il pericolo, egli disse, e più grande l'onore; io dedico alla Repubblica i miei scarsi talenti, la mia scarsa fortuna, tutta la vita".

Come il suo cuore gli dettava, fece tutti gli sforzi per impedire le estreme sciagure, e per salvare la patria. Ogni sua parola, ogni sua opera fu generosa e grande.
La città era in miserissimi termini. Scarso il vivere, vuoto l'erario, cessati per la guerra i guadagni, e quindi cresciuto a dismisura nella immensa città il numero dei poveri. Primo pensiero dell'uomo virtuoso fu quello di soccorrere la pubblica miseria, contro la quale tutti i mezzi indicati dall' ingegno erano manchevoli. Cirillo, pubblicato il suo Progetto di carità cittadina, stabilì una cassa di soccorso, e cominciò col mettervi tutte le ricchezze che aveva guadagnate coll'esercizio della sua professione. L'atto generoso eccitò ad imitazione tutte le persone più virtuose, le quali, oltre a offrire quanto era, in loro facoltà, si recavano per le case a chiedere soccorsi. In ogni contrada furono eletti un cittadino ed una donna che godessero la pubblica stima: fu dato loro il nome onorevole di padri e madri dei poveri, coll' incarico di visitare ogni giorno le case dei più miserabili, e di portarvi il pane e i soccorsi che mandava la patria. Soccorrevano gli ammalati con medici e medicine ; procuravano anche lavoro a chi ne ra privo; e così restituivano alla vita una turba grande di sventurati morenti di fame. La cassa di soccorso, sostenuta dalla carità cittadina, fece tutto quello che era possibile in questi momenti difficilissimi. Domenico Cirillo fece anche di più propose che i legislatori e tutti gli impiegati rilasciassero una parte del loro stipendio a vantaggio degli infelici, e che si rinunziasse al lusso delle vesti insultante la miseria del popolo. Tutti risposero generosamente all'appello, e in tal modo fu posto riparo ai più urgenti bisogni.
E se questi atti non poterono salvare l' infelice Repubblica, mostrarono almeno che i reggitori di essa e gli amanti degli ordini nuovi erano uomini virtuosi e degnissimi di viver liberi.
Nei momenti estremi della patria, quando il cardinal Ruffo era entrato nella città e la riempiva di sangue, Domenico Cirillo, sebbene debole per gli anni, si mostrò arditissimo e preparato a incontrare tutti i pericoli, battendosi personalmente con il nemico.
Poi, arrestato in onta ai trattati, sopportò con eroico coraggio i tormenti del carcere e le villanie degli sgherri. La mattina dei 28 giugno era sul vascello inglese dove si leggevano le sentenze, e vi rimase col Presidente della Commissione esecutiva Ercole d'Agnese, con i generali Manthonè, Massa e Bassetti, e con i cittadini Borgia e Piatti. Di là fu portato al Castelnuovo, nella fossa del Cocodrillo, dove c'erano altri diciotto sventurati, fra cui Pagano, Albanese, Logoteta, Baffi e Rotondo (Giuseppe Albanese, fautore della Repubblica, fu giustiziato il 28 nov. 1799. - Pasquale Baffi, grecista, condannato a morte perché membro provvisorio della Partenopea (1749-1799). - Prosdocimo Rotondo, avvocato, morto sul patibolo perché ministro delle Finanze durante la Repubblica (1773- 1799).) : quindi passò al Castello Sant' Elmo, e il 3 agosto fu, con Mario Pagano, trascinato alla Vicaria, davanti ai carnefici che si chiamavano giudici. Ivi, domandato della sua professione, rispose : "A tempo del re io ero medico; nella Repubblica fui rappresentante del popolo". Allora il giudice Speciale, che usava spesso modi plebei e parole da trivio, con l'idea di avvilire i prigionieri, gli domandò : "E in faccia a me, chi sei tu?" E Cirillo: "E in faccia a te, codardo, sono un eroe". Interrogato sopra altri capi di accusa, rispose : « Ho capitolato colle prime potenze d' Europa: se il diritto delle genti é rispettato, nulla vi é da rispondere, e voi non dovete fare altro che eseguire il trattato; ma se si vuole violare i primi doveri della società, i miei carnefici possono condurmi al supplizio, che non ho nulla da rispondere ». E dopo queste parole si mantenne sempre in silenzio. Il tribunale scrisse anche per lui la sentenza di morte.
Tutti i cittadini che sapevano quanti beneficii avesse fatti alla patria questo raro uomo, erano dolentissimi di vederlo finire sulla forca. Ricordavano come tante volte avesse medicato il re e i reali, e speravano che per questo qualcuno avrebbe impedito l'esecuzione del fatale decreto. Ognuno si sforzava di implorare la grazia al re. Il ministro d' Inghilterra e lo stesso lord Nelson promisero che avrebbero ottenuto la grazia del re, purchè Cirillo la domandasse. Ma Cirillo, avuta notizia di queste pratiche, con aspetto sereno rispose:

"Invano si spera che io contamini la mia reputazione intatta con una viltà. Io ricuso i benefici di un tiranno. Aggiunse poi che, "dopo la rovina della patria, dopo aver perduto nello spoglio della casa tutti i lavori dell'ingegno, nessun bene lo invitava a sopravvivere ai suoi virtuosi colleghi, e che, aspettando quiete dopo la morte, nulla farebbe per fuggirla, e per restare in un mondo, che andava a seconda degli adulteri, dei fedifraghi e dei perversi."

Tutti rimasero ammirati di questa eroica fermezza. Egli domandò solamente la grazia di morire con i suoi amici piu cari, Mario Pagano e Ignazio Ciaia, e di esser condotto nella stessa cappella per ricevervi gli estremi conforti. La domanda gli fu concessa. I tre amici riuniti insieme passarono la notte che precedeva il giorno fatale in parole di affetto, in colloqui sulla felicità della vita futura ; e giunto il momento supremo (29 ottobre 5779), s'incamminarono al patibolo con in viso dipinta la fermezza e la serenità dell' innocenza. Il cronista dei condannati, citato dal diligentissimo biografo ricordato disopra, scrive che Domenico Cirillo «prima di andare al patibolo volle farsi la barba, e vestirsi pulitamente con scarpe nuove, calze di Francia, ed abito di color scuro ; ed in testa si pose un berrettino bianco con una gran fettuccia ».

Scrive Pietro Colletta esser corsa voce che il re, se non fosse stato sollecito il morir di Cirillo, gli avrebbe fatta grazia; ma quella voce menzognera e servile non ebbe durata né credito. Dissero anche che la plebe spettatrice fu muta, ma é concordemente attestato che essa devastò e rubò due volte la casa di questo benefattore dell'umanità, e ne portò via anche i ferri ; abbatté le preziose piante del giardino, fatte venire da paesi lontani e saccheggiò le carte e le suppellettili del condannato: e la madre e la sorella di lui dovettero ripararsi altrove, spogliate di tutto, e la casa che già fu stanza di generosi pensieri e di altissimi studi, fu data dal re a un Lamarra, castellano del Carmine, in premio dei suoi gran servigi e meriti.


VINCENZO RUSSO

Vincenzo Russo, dotto, eloquente, repubblicano ardentissimo, era uno di quegli uomini privilegiati che con le rare virtù dell' ingegno e del cuore onorano non una nazione, ma l'umanità tutta intera. Giovanissimo ancora, era ricco di singolare dottrina; e allo splendore della fantasia e al calore del sentimento univa la profonda ragione; lo uccisero a 29 anni, sul fiore delle speranze !
Nato ai 16 giugno 1770 da onesti parenti a Palma Nolana, piccolo luogo a dieci miglia da Napoli, dopo i primi rudimenti avuti dai genitori in famiglia andò nel seminario di Nola, ove, tra gli altri, gli fu maestro quell'Ignazio Falconieri di Lecce, che nel 31 ottobre del 1799 finì pure lui sul patibolo con tutti i cittadini più valenti e più generosi.
A Napoli corse con grande ardore i campi delle scienze naturali e morali, e attese all'avvocatura, per la quale ebbe aiuti e conforti da Domenico Cirillo, che rimase preso dalla sua naturale eloquenza e dal suo rapido ingegno. Il foro di Napoli, scrive Francesco Lomonaco, poteva con ragione andare orgoglioso di un simile uomo. Giudici, avvocati, uomini di lettere, tutti ammiratori della superiorità del suo genio ammiravano e veneravano il moderno Demostene. Una volta, mentre egli tuonava in tribunale a difesa di un infelice, un ministro disse al padre che gli stava vicino, "gloriati, gloriati, amico, di avere questo grand'uomo per figlio".
Un cotal uomo non poteva vivere ove la virtù era portata al patibolo. Fu tra i primi che cospirarono per la libertà promessa dai Repubblicani francesi: e la regina, che prima di uccidere gli uomini onesti metteva in campo ogni mala arte per avvilirli, fece prova di tirarlo nelle sue reti per mezzo di due zii di Nola, che lo indussero a chieder perdono. Ma poi, vedendosi nuovamente proscritto, e cercato dai soldati spediti a ghermirlo, cercò per vie segrete lo scampo, e con altri, fuggì quel suolo contaminato d'ingiustizia, dì prepotenza e di sangue, e cercò luogo più puro e più conveniente alla sua anima onesta. Non andò in Francia, perché stimava i Francesi infetti di mali costumi. Noleggiata una barca, andò a Genova, e di là, per la via di Milano, si riparò nelle montagne dell' Elvezia, ove era d'avviso che il vivere frugale e la lontananza dalle ambizioni e dalle libidini delle aule dei grandi mantenessero la onestà e le semplici e severe costumanze per cui vanno celebrati gli antichi. Lo Svizzero, egli diceva, lo Svizzero solamente é capace di libertà in Europa. Visse a Ginevra e a Berna più tempo - e nel 1798 di là venne a Roma, già sottratta al dominio dei preti e lieta dell'albero della libertà piantato sul Campidoglio. In quel suolo che copre le ceneri dei Bruti scrisse, e per i conforti di Pasquale Baffi e di Mario Pagano, suoi compagni di esilio, pubblicò i suoi Pensieri politici, libro originale e dei più liberi e forti di quella età, scritto con ingegno e cuore accesi dal più puro amore degli uomini, pieno di alte speculazioni, di grandi utopie e di nobilissimi affetti.

Appena la Repubblica, cacciando le tenebre del dispotismo, ebbe rallegrato la terra di Napoli, Vincenzo Russo corse a risalutare la patria rigenerata dalla libertà, e disponendosi a servirla in qualunque maniera, si offrì semplice soldato. Ma egli non era uomo da fare il soldato: non il braccio, ma il senno e il cuore di lui dovevano sovvenire alla patria. Cessato il Governo Provvisorio a 15 aprile, egli fu chiamato con altri 24 cittadini a comporre la Commissione (Assemblea) legislativa, e assiduamente lavorò ed eloquentemente parlò, e si mostrò legislatore severo e sapiente. Allorché la guerra civile, facendo cessare la prosperità dei commerci, ridusse lo Stato a grandi strettezze, e dai più virtuosi cittadini si proponeva che i rappresentanti del popolo fossero i primi a fare sacrifici alla patria, egli rinunziò a tutto il suo stipendio e condusse una poverissima vita. Andava vestito in abito di semplice soldato, e tutti i giorni dal suo paese nativo veniva a Napoli a piedi, portando con se un pezzo di pane, che era il solo suo nutrimento.
Nessuna cura aveva di sé ; solamente la patria gli stava in cima ai pensieri. In mezzo alla miseria e alle gravi cure di Stato si conservava gaio e sapeva spargere di amenità le più ardue questioni. Lo avresti detto un filosofo antico ai semplici modi, agli austeri costumi, alla benefica sapienza, alla maravigliosa forza dell'animo. Quelli che lo conobbero e che scrissero di lui, ne celebrano a gara l'austera virtù, e lo chiamano un nuovo Catone. A tutti i buoni era caro, e specialmente a Domenico Cirillo, che gli aveva aperto la via a giovare del suo senno la patria. E di forti e generosi consigli egli aiutò la Repubblica. Era d'avviso che il regno della libertà non poteva ergersi sul solo rovescio del trono. Diceva che c'era bisogno di fondare la morale, creare lo spirito nazionale, estirpare gli abusi e gli errori con una educazione sapiente, combattere il lusso e la corruzione, far cessare la sproporzione delle fortune, accendere l'ardore di guerra del popolo, custodire il Palladio dell' indipendenza sotto l'egida delle forze nazionali, senza addormentarsi in seno alla protezione dello straniero. Questo chiamava fare davvero una rivoluzione attiva. Queste cose diceva nell'assemblea dei legislatori, e nei circoli della città ove tuonava e fulminava, e trascinava tutti colla prepotente parola, colla impetuosa eloquenza.

Negli ultimi giorni della Repubblica, non potendo più combattere colla parola dalla tribuna, entrò nelle file della guardia nazionale, pronto a tutte le imprese, e fortemente combattè nell'ultimo combattimento del ponte della Maddalena; ferito e straziato cadde in mano ai nemici e fu condotto in prigione ai Granili, ove circa trecento persone ammassate in fetida stanza patirono la fame, la sete e ogni martirio. Sopportò con rara imperturbabilità tutti gli strazi; in mezzo ai tormenti non perdé mai il suo lieto umore, ed era la consolazione dei suoi compagni di sventura. Nelle dispute politiche che si agitavano nella prigione mostravasi il più eloquente di tutti, e coi suoi ardenti discorsi accendeva più che mai l'amore di patria nel cuore dei prigionieri. Quando gli annunziarono la sentenza di morte non mutò viso né animo, non perdé la sua naturale gaiezza. Chiesto da bere, bevve alla salute dei patrioti e disse ai compagni "domani avrete più posto": dormivamo troppo serrati poi tranquillamente si addormentò. Al comandante del Carmine, creatura del Ruffo, il quale nella cappella all'ultima ora si diceva suo amico, e gli parlava di religione, rispose, perduta la solita calma: "Tu, assassino, ti dici mio amico ? Tu, compagno di Ruffo, mi parli di religione ? Ah ! conducetemi al supplizio ; questo é il solo dei miei voti".
Andò al patibolo il 19 novembre con animo quieto e con volto sereno ; pareva che non andasse a morte, ma a festa. Egli fu, dice Vincenzo Cuoco, sempre un eroe. Dal patibolo parlò con un tono e con un calore di sentimento, che ben dimostrava la morte poterlo distruggere, non avvilire. Rivolto alle turbe feroci e codarde che lo insultavano, disse :
«Questo non é per me luogo di dolore, ma di gloria; qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell'uomo giusto e saggio. Pensa, o popolo, che la tirannide ti fa ora velo agli occhi e inganno al giudizio: ella ti fa gridar, viva il male, muoia il bene; ma tempo verrà in cui le disgrazie ti renderanno la mente sana; allora conoscerai quali siano i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi ancora che il sangue dei Repubblicani é seme di Repubblica, e che la Repubblica risorgerà quando che sia, e forse non é lontana l'ora, come dalle sue proprie ceneri la fenice, più possente e più bella di prima».
Mentre così parlava, fu messo a tacere e strangolato dal boia.

PASQUALE BAFFI - NICCOLO' FIORENTINO
E ALTRI UOMI DI LETTERE

Pasquale Baffi, uomo di natura dolcissima, era nato l' 11luglio 1749 a Santa Sofia, distretto di Rossano, nella Calabria Ulteriore, da famiglia di origine greca emigrata con gli Albanesi nel secolo XV. Studiò prima nel collegio italo-greco di S. Benedetto Ullano, nella provincia nativa ; e riuscì così valente negli studi classici, che presto meritò di essere professore di greco nelle pubbliche scuole a Salerno, donde nel 1773 fu chiamato alla Scuola della Nunziatella di Napoli.

Nel 1779 fu eletto socio della regia Accademia di scienze e belle lettere, allora fondata ; nel 1786 bibliotecario del Re, e membro dell'Accademia Ercolanese nell'anno dopo. In Italia e fuori ebbe fama di uno dei più valenti grecisti del suo tempo. Passava i suoi giorni a studiare i papiri disseppelliti fra le rovine di Ercolano, a interpretare vecchie pergamene e diplomi greci e latini, a lavorare intorno a Platone.
Ma gli studi antichi non gli impedirono di sentire la voce dei tempi nuovi, e si intese coi migliori ; e cospirò per la libertà della patria, e dapprima fuggì le persecuzioni esulando con Mario Pagano e con altri.
Nella repubblica Partenopea fu membro del Governo Provvisorio e poi sedé nell'assemblea dei legislatori ; e in ogni ufficio non fece cosa che nobile e generosa non fosse. Perciò fu anch'esso incarcerato e condannato a morire dopo l'empia violazione dei trattati. La moglie di lui fece per salvarlo con tutto quello che sa e può l' affetto di una donna amorosa. Ma le sue suppliche non le fruttarono che scherni e ingiurie dagli sgherri del re Ferdinando. Lo scellerato giudice Speciale la insultò fino all'ultimo. A ogni preghiera di lei rispondeva: "Vostro marito non morirà, state di buon animo ; egli non avrà che l'esilio, e al più presto sarà sbrigato l'affare". Passarono molti giorni e non si concludeva nulla. La infelice donna tornò piangendo a Speciale. Egli si scusava di non aver potuto, per molte sue occupazioni, ancora spedire quella causa, e la confortava con le stesse speranze. Allora uno che ascoltava le ingannatrici parole, preso da pietà per la misera donna, disse a Speciale: "Ma perché insultare a questa povera infelice". Il povero Baffi era stato già condannato alla morte. La miserissima donna dette in disperazioni e in grida forsennate, alle quali Speciale, con freddo sorriso, rispose: "Che affettuosa moglie! Ignora financo il destino di suo marito. Questo appunto io volevo vedere: ho capito: sei bella, sei giovine; vai cercando un altro marito. Addio".

Pasquale Baffi morì (11 novembre 1799) da uomo fortissimo. Quando gli fu comunicata la sentenza, una mano pietosa gli offrì dell'oppio, affinché con morte volontaria fuggisse i dolori della morte violenta. Egli rifiutò il dono; affermando che l'uomo é posto in questo mondo come un soldato in fazione, che l'abbandonare la vita é delitto, come sarebbe abbandonare il suo posto di guardia. Disse volere andare all'incontro del suo destino, comunque crudele fosse: non spaventarlo la morte, non disonorarlo il patibolo : Dio esservi rimuneratore delle buone opere nell'altra vita ; prima opera meritoria essere il conformarsi di buon grado alla volontà sua; appresso a lui non avere accesso gli odi, non le intemperanze dei tiranni; giusto essere Iddio e mansueto e pietoso, ed accoglie nel grembo suo volontieri gli uomini giusti, mansueti e pietosi; venisse pure il carnefice, lo troverebbe rassegnato e pronto. In tal modo filosofando e bene amando, dice Cailo Botta, Pasquale Baffi morì.

Colla stessa forza di animo perì sulle forche NICCOLO' FIORENTINO, di Pomarico, nella Basilicata, altro cittadino dottissimo. Gli ultimi casi di lui sono così narrati da Pietro Colletta. « Il giudice Guidobaldi, tenendo ad esame il suo amico Niccolò Fiorentino, uomo dotto in matematiche, in giurisprudenza e in altre scienze, caldo ma cauto seguace di libertà, schivo di uffici pubblici e solamente dedito a discorsi e virtuosi esempi per istruire il popolo. Guidobaldi gli disse : Breve discorso fra noi: di', che facesti nella Repubblica ? Nulla, rispose l'altro, mi governai colle leggi, e con la necessità, legge suprema. E poiché il primo replicava che i tribunali, non gli accusati, dovessero giudicare della colpa e della innocenza delle azioni e mescolava nel discorso delle sue mal concette teorie legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca ; il prigioniero, caldo di animo ed oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: Il re, non noi, mosse guerra ai Francesi; il re e il suo Mack furono cagioni alle disfatte ; il re fuggì, lasciando il Regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, e impose ai popoli vinti le sue volontà. Noi le obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alle volontà del Re Carlo Borbone; ché la obbedienza dei vinti é legittima, perché necessaria. Ed ora voi, ministro di quel re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede ? Quali leggi ? quelle emanate dopo le azioni ! Quale giustizia ? il processo segreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie ! E quale fede ? la mancata nella capitolazione dei Castelli ! Vergognate di profanare i nomi sacri della civiltà al servizio della più infame tirannide. Dite che i principi vogliono sangue, e che voi di sangue li saziate; non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma leggete sulle liste i nomi dei proscritti e li uccidete; vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. E infine, poiché amicizia mi protestate, in vi esorto ad abbandonare il presente ufficio di carnefice, non di giudice, ed a riflettere che se giustizia universale, che pure circola su la terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome aborrito, svergognerete i figli, e sarà per i secoli avvenire la memoria vostra maledetta"
L'impeto del discorso terminò; l'oratore fu dato agli sbirri, e questi stringendo spietatamente le funi e i ceppi, tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi ; ed egli, tornato in carcere, narrando quei fatti ai prigionieri, soggiunse (misero e veritiero indovino), che fra poco avrebbe ripetuto il racconto ai compagni morti » (
COLLETTA, Storia dei Reame di Napoli, libro V, cap. I.).

ritorno all'indice dei Martiri

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI