ANNI 1820 - 1821

LA RIVOLUZIONE PALERMITANA

I TUMULTI DI MESSINA - DIEGO NASELLI LUOGOTENENTE DELLA SICILIA - LA NOTIZIA DEL MOTO NAPOLETANO GIUNGE A PALERMO - PRIME AGITAZIONI - FUGA DEL GENERALE CHURCH - DISORDINI E VIOLENZE - LA GIUNTA PROVVISORIA - COMBATTIMENTI TRA GLI INSORTI E LE TRUPPE NAPOLETANE - FUGA DEL GENERALE NASELLI - NUOVA GIUNTA DI GOVERNO - IL PRINCIPE DI VILLAFRANCA - SPEDIZIONE PUNITIVA CONTRO LE CITTÀ DELL'ISOLA - IL SACCHEGGIO E LE STRAGI DI CALTANISSETTA - AMBASCERIA PALERMITANA A NAPOLI - RUGGERO SETTIMO RIFIUTA LA CARICA DI LUOGOTENENTE - RITORNO DELLA LEGAZIONE CON LE PROPOSTE DEL VICARIO - PETIZIONE DEI SICILIANI - SPEDIZIONE DI FLORESTANO PEPE IN SICILIA - LA COLONNA COSTA - TRATTATIVE TRA IL PEPE E IL PRINCIPE DI VILLAFRANCA - COMBATTIMENTI FRA LE TRUPPE NAPOLETANE E GL' INSORTI DI PALERMO - CONVENZIONE DEI 5 OTTOBRE 1820 - IL GOVERNO DI NAPOLI NON RICONOSCE LA CONVENZIONE - FLORESTANO PEPE SOSTITUITO DAL GENERALE COLLETTA

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Con la restaurazione, con l'unificazione al regno, con l'estensione anche sull'isola delle riforme del ministro Medici, la fine dell'autonomia della Sicilia aveva suscitato malcontento in molti ambienti; soprattutto a Palermo, che ancora una volta era stata privata delle sue funzioni di capitale.
Come avevamo visto nei precedenti riassunti (in particolare quello del 1806-1814) gli inglesi ad un certo ceto avevano fatto sperare all'indipendenza. In verità sull'isola si comportavano come i padroni; erano loro a governare con Lord BENTINCK. Basterebbe ricordare l'accorata lettera di Maria Carolina che nel gennaio del 1808, scriveva al conte di DAMAS: "…gli Inglesi sono dei padroni ben pesanti e incomodi, e noi siamo ridotti a dover cedere in tutto…". E questo era solo l'inizio. Dopo, pretesero perfino il suo esilio, dove poi Maria Carolina morì senza rivedere Napoli.

Causa di malcontento, non solo per i Siciliani, ma anche per la corte napoletana, era l'ingombrante presenza degli Inglesi, che oramai erano padroni sull'isola; militarmente ed economicamente. Del resto proprio alle autorità inglesi quel fasullo governo borbonico messo su (dagli inglesi) doveva render conto delle quattrocentomila sterline che ogni anno dall'Inghilterra arrivavano sull'isola, e che dovevano essere spese solo in armamenti; che servivano più che a proteggere i Borboni (di cui si fidavano poco) a proteggere un punto strategico del Mediterraneo e anche le miniere di zolfo (allora erano le uniche al mondo - e per le fonderie e la metallurgia inglese estremamente vitali).

Con i decreti di Vienna, la riunificazione non fu proprio gradita agli inglesi, che ufficialmente lasciarono l'Isola (vedremo poi in seguito come criminalizzeranno Ferdinando, scagliandogli contro una campagna stampa infamante, con slogan a effetto, come "la negazione di Dio", il "Re Bomba" ecc. ecc. Ferdinando non era un santo, ma a Londra si esagerava.
Purtroppo il re era un uomo debole, né sapeva - e con lui l'austriaca Maria Carolina (vedi il periodo napoleonico) ad un certo punto, esattamente con chi schierarsi. E dagli eventi che abbiamo visto, non era proprio facile fare una scelta di campo. Se si univa a Napoleone il Regno alla sua caduta era spacciato; se si univa all'Austria, l'Inghilterra non lo avrebbe permesso, e la Russia nemmeno.

Se sull'Isola, il sogno d'indipendenza dei costituzionalisti era ormai tramontato, non era però cessata una crescente ostilità contro il governo napoletano, che accomunava nobiltà (alcuni principi, baroni e preti, li vedremo più avanti guidare bande di ribelli), ceto civile, borghesia impiegatizia e le masse d'artigiani e operai organizzati in corporazioni (Nei nobili, ovviamente meno, quella fazione legata alla corte borbonica, che da questa aveva ricevuto benefici e intendeva conservarli - o alcune città rimaste fedeli a Napoli, come Caltanisetta).

Le prime notizie della rivoluzione napoletana (che abbiamo narrato nella precedente puntata) giunsero a Messina il 3 luglio del 1820. Le autorità furono informate per telegrafo che il re aveva concesso la costituzione spagnola: ma non vollero divulgar la notizia prima di riceverne l'ordine dal luogotenente generale NASELLI che risiedeva a Palermo. La divulgarono invece le truppe napoletane, le quali chiesero al principe della Scaletta, comandante della provincia, di pubblicare la costituzione e poiché si rifiutava, cominciarono ad aizzargli la plebe contro, accusandolo come reazionario.

La plebe messinese si levò a tumulto reclamando la costituzione, ma il principe della SCALETTA fu ostinato nel rifiuto, anzi per sedare il moto popolare mandò contro i tumultuanti un reparto di truppe con artiglierie, il quale (com'era accaduto a Napoli) però fece causa comune con i ribelli. A capo dei moti si mise il colonnello TESTA che circondò la casa del principe e minacciò di darla alle fiamme se non ordinava la pubblicazione della costituzione. Messo alle strette, il principe della Scaletta dovette cedere. Seguì qualche disordine, provocato dall'intemperanza della eccitata plebe, ma ben presto le truppe ebbero il sopravvento e riuscirono a rimetter l'ordine nella città.

A Palermo, invece, alla popolazione, la notizia della proclamazione della costituzione a Napoli, giunse la sera del 14 con il postale partenopeo. I marinai e i passeggeri erano tutti infiocchettati con la coccarda tricolore della Carboneria. La città era affollatissima perché quel giorno, ricorrendo la festa di Santa Rosalia, molta gente era convenuta a Palermo dalle vicine località. Ben presto si sparse la notizia e gli animi ne furono infiammati; Santa Rosalia aveva fatto allora il miracolo? Auasi tutti vollero ornarsi della coccarda, ma alcuni, e poi molti, ai tre colori ne vollero aggiungere un altro, il giallo, del proprio orgoglioso stemma siciliano.
La notte passò tranquilla; ma tutti si chiedevano cosa sarebbe accaduto il giorno dopo; quindi fu una relativa tranquillità, perchè qualcuno temeva la "tempesta". La cosa era avvenuta con troppa facilità, e qualche dubbio cominciò a insinuarsi. Inoltre c'era un altro problema da risolvere.

L'aggiunta del giallo ai tre colori carbonari era segno evidente che i Siciliani volevano distinguersi dai Napoletani; era quindi da temere un movimento favorevole all'autonomia dell'isola, la quale non celava il suo malcontento per i gravi balzelli, per la coscrizione, per le esagerate spese d'impiegati civili e militari, per gli abusi dell'amministrazione, per l'alterigia dei Napoletani, infine per la perduta indipendenza.

Per il NASELLI, luogotenente generale della Sicilia, la notizia degli avvenimenti di Napoli non era una novità. Già aveva saputo da Messina che a Napoli era stata proclamata la costituzione e dal re aveva ricevuto istruzioni circa l'opportunità o meno di concedere ai Siciliani la costituzione del 1812, anziché quella di Spagna. Ma il Naselli, non si sa ancora il perché, non aveva proclamato né l'una né l'altra delle due costituzioni.

La mattina del 15 luglio il luogotenente pubblicò solo il proclama del 6 luglio nel quale il re prometteva di dare entro otto giorni la costituzione. Credeva di guadagnare tempo e invece fece precipitare gli avvenimenti. Quelli che si erano rallegrati alle notizie del giorno prima, che parlavano di costituzione già promulgata, ora s'irritavano nel costatare che il proclama parlava di promesse (e alle promesse del Borbone i Siciliani non prestavano fede - l'annullamento di quella concessa nella prima restaurazione se la ricordavano tutti); d'altro canto il manifesto produsse una viva agitazione in seno ai numerosi partigiani della costituzione del 1812, i quali, nella supposizione che quella spagnola non fosse stata ancora concessa, si proposero di agire affinché il sovrano accordasse la costituzione da loro desiderata.
Quella mattina, mentre il generale Naselli entrava in Duomo per assistere ad una cerimonia religiosa, dal popolo raccolto sul sagrato si levò il grido di "Viva l'indipendenza !" Ma anche dalla truppa schierata si cominciò a gridare "Viva la Costituzione" e il luogotenente tirando diritto, rispondeva a tutti, gridando "Viva il re!".

Terminata la funzione, il NASELLI tornò a casa e qui molti cittadini vi si recarono per tentare d'indurlo a proclamare l'indipendenza dell'isola. Era, quella, una domanda di gente esaltata e il luogotenente rispose di non poter fare altro che trasmettere al governo di Napoli e alla Corte i voti dei Siciliani.
La sera di quello stesso giorno il generale Naselli e il generale CHURCH, che comandava le truppe del presidio, si trovavano in casa del pretore dove era in corso una sontuosa festa alla nobiltà palermitana, quando, una cinquantina di sottufficiali e soldati napoletani fregiati delle insegne carbonare, uscirono dalla loro caserma di San Giacomo e si diedero a percorrere il Cassaro gridando "Viva la costituzione !" incitati dal popolino ed applauditi dalle persone che gremivano le strade o affacciati ai balconi.
Non tollerando che dei soldati levassero grida sediziose alla corona, il Church, accompagnato da due aiutanti di campo e dal generale siciliano COGLITORE, scese nella via e non solo ammonì severamente i militari, ma osò strappare ad un cittadino l'emblema giallo dell'isola.

Non l'avesse mai fatto! La folla, che già l'odiava sapendo che in Puglia aveva perseguitato i liberali e che fra non molto lui avrebbe dovuto eseguire la coscrizione, gli si avventò contro; il borioso generale non sarebbe uscito vivo dalle mani della plebe, se non lo avesse difeso il generale COGLITORE che fu colpito da due colpi di stile vibrati e indirizzati contro l'irlandese.

Salvatosi a stento, il CHURCH terrorizzato, fuggì a Trapani, per fare ritorno a Napoli; la folla, inferocita, credendo che si fosse riparato nell'albergo di Tegoni in cui aveva l'alloggio, assalì la locanda, la saccheggiò e, portati fuori mobili e suppellettili, le incendiarono. Sparsasi le notizie di questi fatti, il giorno dopo si radunarono qua e là turbe di sediziosi, che al suono delle bande militari si abbandonarono a disordini e violenze, abbatterono gli stemmi borbonici, innalzando l'aquila siciliana, saccheggiarono gli uffici del Registro, della carta bollata e della segreteria del distretto e mozzarono la testa alla statua di Ferdinando I.

Il generale Naselli, se avesse usato un po' d'energia, avrebbe facilmente avuto ragione della plebaglia male armata e priva di capi; ma era un inetto: per fare allontanare la folla che sotto la sua casa reclamava l'indipendenza, promise che avrebbe mandato a Napoli una nave con i messi per il re; poi ritenne opportuno di comporre una Giunta provvisoria di governo, di cui fecero parte il Principe di VILLAFRANCA, allora assente, GAETANO BONANNO, RUGGERO SETTIMO, PADRE PALERMO dell'Ordine dei Teatini, il Colonnello REQUESÈNS, il marchese RADDUSA e GIUSEPPE TORTORICI.

La Giunta, adunatasi presso il Luogotenente gli propose di rivolgersi per la tutela dell'ordine ai settantadue consoli delle maestranze, di istituire la guardia civica, e, per esaudire un desiderio del popolo, di accordare che nuclei di cittadini armati presidiassero insieme ai soldati, il forte di Castellammare. Il Naselli aderì a quest'ultima proposta e dal generale O' FARIS, capo dello Stato Maggiore, fece ordinare al generale LA GRUA comandante del castello, che introducesse nella fortezza i nuclei borghesi destinati al presidio.
L'ordine però giunse troppo tardi: due numerose turbe di popolani, l'una comandata dal principe di ACI, partigiano della costituzione del 1812, l'altra guidata dal conte ACETO, sostenitore della costituzione spagnola, avevano di sorpresa già occupato il forte e si erano impadroniti di quattordicimila fucili.
Allora il Naselli cercò di fare quello che, se fatto un giorno prima, avrebbe forse salvato la situazione: chiamò i consoli e ordinò che ogni maestranza raccogliesse una squadra che, accompagnata da un cavaliere e da un prete, doveva percorrere la città per impedire i disordini. Contemporaneamente ordinò con un proclama la formazione di una guardia di sicurezza, di cui fu fatto ispettore il principe della CATTOLICA e diede disposizione affinché si trattenesse a freno la plebe.
Questa però oramai era quasi padrona della città; rumoreggiando, aveva ottenuto, mediatore il cardinale GRAVINA, che i due forti vicino il Palazzo Reale accogliessero quaranta artigiani armati; era stato dato il sacco alla casa di un certo BARBAGLIO, che aveva il monopolio dei giochi; erano stati devastati e saccheggiati l'ufficio del Demanio e il palazzo del marchese Ferrari, inoltre le ronde civiche, che erano uscite nelle vie, si erano ritirate.

Aggravandosi la situazione, il luogotenente Naselli si decise alla fine di mettere in azione le truppe regolari e nella notte dal 16 al 17 luglio le forze del presidio comandate dal generale O'FARIS occuparono i punti strategici della città. Nella mattina del 17 luglio un corpo di cavalleria e uno di fanteria percorsero il Cassaro fino a Porta Felice. Parve una provocazione; furono suonate a stormo le campane, si corse alle armi e cominciarono per le vie a crepitare le fucilate.
In breve nelle vie la mischia divenne furiosa; ottocento galeotti liberati dalle prigioni si unirono alla plebe e resero ancora più feroce la lotta; un frate francescano, padre GIOACCHINO VAGLICA, si mise alla testa dei cittadini insorti e non solo li esortò a combattere, ma egli stesso diresse le operazioni; le truppe, uscite dalle loro caserme, furono accolte a fucilate dalle finestre, assalite di fronte e dai fianchi dalla plebe inferocita e costrette a ritirarsi con numerose perdite; il Palazzo Reale e la caserma di San Giacomo caddero in mano degli insorti.

Allora, fatto eccezione per il reggimento degli Asturi che, si batté con tenacia e resistette più a lungo, le altre truppe si diedero alla fuga uscendo per le porte Nuova e di Castro e sparpagliandosi per le campagne, ma neppure fuori della città ebbero scampo; molti furono massacrati dai villani, molti altri presi e condotti prigionieri a Palermo. Fu tanto lo sbigottimento dei soldati regolari che un corpo di più di mille uomini si arrese a sessanta contadini nel villaggio di Belmonte e cinquanta soldati insieme al generale PASTORE furono disarmati e catturati da tre soli villani.

Quel giorno il popolo contò cinquantatre morti e sessantasei feriti; mentre le truppe parecchie centinaia di uomini fuori combattimento. Il generale Naselli riuscì a salire a bordo della nave Tartaro e a far vela per Napoli; non riuscì invece salvarsi il principe CATTOLICA che fu ucciso e lasciato per più giorni a terra in una via. Sorte peggiore toccò al principe d' ACI: la sua testa fu spiccata dal busto e portata in trionfo per la città; saccheggiata e distrutta la sua magnifica villa. Fra i morti vi furono anche i colonnelli CALDARERA e LANZA.
La sera del 17 luglio Palermo poteva considerarsi libera dal giogo napoletano, ma era in balia della plebaglia inferocita, che preoccupava non poco la parte sana della cittadinanza. Il 18 mattina i settantadue delle maestranze si riunirono in casa del pretore (sindaco), che era il principe di TORREBRUNA, e, deposta la Giunta costituita dal Naselli, ne nominarono un'altra che fu presieduta dal cardinale GRAVINA, composta di diciotto membri, dei quali i più autorevoli erano i principi di Paternò, di Fitalia, di Pantelleria, di Pandolfina, di Castelnuovo, il duca di Monteleone, il marchese di Raddusa, Ruggero Settimo, Gaetano Bonanno, che fu preposto alle Finanze, e il colonnello Resequens cui fu data la direzione della armi. Nulla però la Giunta poteva operare senza il consenso dei consoli.
Ma la Giunta mostrò ben presto di non avere l'energia sufficiente che in quella critica situazione occorreva. Due giorni dopo, mentre era riunita nel palazzo arcivescovile, questo fu circondato dai galeotti che minacciando chiedevano il condono delle loro pene. La Giunta non seppe far di meglio che indurre l'Arcivescovo ad affacciarsi al balcone per fare con la destra un gran segno di Croce; nel frattempo si concedeva l'amnistia con un decreto, vergato in termini equivoci, i quali chiaramente mostravano l'intenzione della Giunta di revocarlo.

Il 24 luglio giunse a Palermo il principe di VILLAFRANCA, molto popolare fra i cittadini per onesta, generosità, patriottismo ed amore all'indipendenza dell'isola; fu accolto con grandi manifestazioni di gioia da ogni ceto di persone e fu subito nominato presidente della Giunta di governo, in luogo del cardinale Gravina che, sospetto di borbonismo, era malvisto dal popolo e poco prima, anzi, era stato salvato dal VAGLICA dalla furia della plebaglia ammassata davanti la curia.
Una delle prime decisioni prese dalla Giunta dopo l'arrivo del principe di Villafranca fu di organizzare, un piccolo esercito per rimettere l'ordine nella capitale e difenderla da un più che probabile attacco dei Napoletani. L'incarico di organizzare le milizie, che dovevano consistere in tre reggimenti di fanteria, uno di cavalleria ed uno di artiglieria, fu affidato al colonnello REQUESENS, il quale si mise di buona voglia all'opera, ma conseguì scarsi risultati perché accolse uomini sbandati che sarebbero stati meglio nelle prigioni anziché nelle file d'un esercito e creò ufficiali persone del tutto ignoranti di cose militari. Meglio riuscì invece il Requesens nell'organizzare la guardia civica, la quale fu uno strumento prezioso nelle mani della Giunta per il ristabilimento dell'ordine.
Rimesso un po' d'ordine nella capitale, era necessario pensare di far trionfare anche nelle altre parti dell'isola il moto palermitano che agitava il programma dell'indipendenza della Sicilia da Napoli con la costituzione spagnola. Ma non era cosa facile, perché, se i comuni della provincia avevano ben presto aderito al movimento di Palermo cui erano legati da vitali interessi, alcune città, come Girgenti e Catania, erano dubbiose, altre, Messina, Trapani e Siracusa, antiche rivali di Palermo, pur di non far trionfare la tesi di questa città e di non rivederla capitale del regno, erano disposte a sacrificare l'idea dell'indipendenza isolana e a rimanere unite a Napoli.
Oltre che nelle fazioni al suo interno Palermo doveva lottare anche contro questi atavici rancori provinciali.

Il 26 luglio la Giunta mandò un appello vibrante alle province, invitandole a aderire al movimento e a provvedere alla formazione di una Camera Siciliana mandando nella capitale i loro rappresentanti; ma l'appello, se trovò eco nei comuni che avevano abbracciato la causa palermitana, trovò indifferenti alcuni distretti; in altri gli emissari addirittura furono arrestati e consegnati alle autorità napoletane.
Bisognava allora organizzare delle spedizioni con il doppio scopo di punire l'offesa recata a Palermo non rispettando i suoi ambasciatori e di costringere l'intera popolazione dell'isola a sposare la causa della capitale; e, siccome i reggimenti del REQUESENS non erano ancora pronti e la guardia civica non voleva muoversi, si pensò di costituire delle bande che furono dette guerriglie e risultarono composte di vagabondi, disoccupati, galeotti, malandrini, avventurieri e sgherri baronali.
Una banda si diresse verso Girgenti, ma lì non ci fu bisogno di combattere perché i sostenitori dell'indipendenza, vennero in superficie e guidati dal padre cappuccino ERRANTE, all'avvicinarsi della turba "guerrigliera" palermitana, imprigionarono le autorità borboniche e proclamarono la costituzione spagnola, l'abolizione della nobiltà e del feudalismo e l'indipendenza della Sicilia con un re della famiglia dei Borboni.
Contro Caltanissetta, che era invece rimasta fedele a Napoli perché da poco tempo innalzata a capoluogo di provincia, che aveva costituito qualche nucleo di guardia civica e intercettava i viveri diretti alla capitale, fu mandata una grossa banda capitanata dal principe di S. CATALDO, il quale, dopo aver devastato il territorio, ebbe ragione dell'accanita resistenza opposta dai difensori nisseni non senza aver prima subito gravi perdite, quindi, penetrato in città, permise ai suoi che saccheggiassero, incendiassero e sfogassero la loro ira contro gli abitanti di cui furono uccisi centosessanta.

Giunta a Palermo la notizia della presa di Caltanissetta, ma ignorandosene i cruenti particolari, la Giunta decretò che il principe di S. Cataldo e i membri della sua guerriglia dovevano essere dichiarati "benemeriti della patria"; si voleva anche festeggiare l'avvenimento con luminarie, ma il principe di Villafranca evitò una tale manifestazione persuadendo i cittadini che "una vittoria di Siciliani contro Siciliani doveva essere considerata come una sciagura e non come un trionfo".

Altre bande furono mandate in altri luoghi e varie furono le vicende dei combattimenti avvenuti a Licata, ad Alcamo, a Marsala, a Calatafimi, a Castrogiovanni, a Cesarò, a Cefalù. Quest'ultima città per liberarsi dal saccheggio dovette pagare ottomila once. Contro Trapani fu mandata una banda al comando del barone DE MARIA, ma gli assaliti si difesero valorosamente e ributtarono il nemico infliggendogli la perdita di trecento morti.
Al comando del siracusano GAETANO ABELA fu affidata la guerriglia che marciò contro Siracusa; gli abitanti di questa città però si difesero con valore pari a quello dimostrato dai Trapanesi e respinsero gli assalitori.
Lo sforzo maggiore fu tentato contro Messina. L'esecuzione dell'impresa fu affidata a RAFFAELLO PALMIERI, il quale, persuaso che la violenza avrebbe maggiormente inasprito gli animi delle popolazioni che si volevano sottomettere, allontanò dalle sue bande i più brutali e adoperando le buone maniere e mantenendo tra i suoi una rigida disciplina riuscì a guadagnare a Palermo l'adesione di molti comuni della provincia.
Si preparava per dare l'assalto a Milazzo quando fu costretto a tornare indietro da un esaltato padre ERRANTE, il quale, venuto in suo aiuto con alcune bande, si era poi dato ad esercitare ogni sorta di violenze contro popolazioni che il Palmieri aveva già guadagnato alla causa dell'indipendenza. Fra le guerriglie del Palmieri e quelle dell'Errante ci fu ad aspro combattimento: queste furono battute, l'Errante ucciso, molti suoi seguaci fatti prigionieri.
Mentre nell'isola ribolliva la guerra civile, che non era davvero il mezzo migliore per ottenere da Napoli l'indipendenza, il governo del re si preparava a domare con le armi la rivolta di Palermo e a sostenere le città fedeli.

SPEDIZIONE DEL GENERALE FLORESTANO PEPE
LA CONVENZIONE DEL 5 OTTOBRE 1820

Fin dal 26 luglio la Giunta a Palermo aveva nominata una legazione di otto membri, due nobili, due borghesi, due ecclesiastici e due consoli delle maestranze, e l'aveva mandata a Napoli per chiedere al re che stabilisse in Sicilia un governo indipendente e mandasse un principe della sua famiglia. Ma prima di questi delegati erano giunti a Napoli, fuggiaschi, i due generali: CHURCH e NASELLI, che avevano dipinto a fosche tinte la rivolta di Palermo, eccitando con le loro esagerazioni l'indignazione dei Napoletani.

Il Vicario Generale non volle ricevere la deputazione, la quale fu trattenuta in una villa di Posillipo. Qui si recò a visitarla il ministro ZURLO, che disse senz'altro agli inviati palermitani di non poterli riconoscere come legittimi rappresentanti di tutta l'isola, di non poter discutere con i delegati di una città in rivolta e che si potevano a prendere in considerazione le richieste di Palermo solo dopo che questa fosse tornata all'obbedienza, purché non si parlasse d'indipendenza sia perché l'unità del Regno delle Due Sicilie era stata stabilita dal Congresso di Vienna, sia perché essa era reclamata quasi solamente da Palermo e non dalla Sicilia.

A questo punto qualcuno che legge potrebbe chiedersi, ma a Napoli non avevano trionfato i rivoluzionari, i costituzionalisti, i Carbonari?
I rivoluzionari a Napoli ottennero sì dal re la Costituzione Spagnola ma dovettero ben presto cedere le redini del governo ad un gruppo molto più preparato nell'amministrazione dello Stato. Quando si consideri che nel parlamento regolarmente eletto su 72 deputati vi erano appena 17 Carbonari, diventa facile comprendere le ragioni della crisi tra l'Alta Vendita di Napoli ed il Governo. La prima controllava gli organizzati nella Carboneria e aveva diretto il moto rivoluzionario, ma il secondo controllava l'Amministrazione pubblica e poteva contare sull'appoggio della burocrazia e dell'alta ufficialità.
Alle incomprensioni interne vanno aggiunti due gravi ostacoli provenienti dall'esterno (L'Austria e ora la Sicilia il cui separatismo non era nei programmi carbonari)

In tali due frangenti si vide appieno l'incapacità di assumere un'iniziativa diplomatica da parte del governo rivoluzionario di Napoli, imperizia determinata dalle contraddizioni interne: i Carbonari avevano saputo dar vita ad un moto rivoluzionario ma non erano stati capaci di impossessarsi del governo anzi avevano preferito affidarlo agli ex-Murattiani (e fu un gravissimo errore).
L'abile politica di Luigi De Medici (che era l'anima del nuovo governo) mirò a ripristinare gli aspetti positivi del dispotismo illuminato e tendeva quindi a protrarre la politica del decennio francese; né perseguitò i Murattiani, anzi (ma non dimentichiamo che era un ex giacobino) se ne servì amalgamandoli con i migliori elementi della Corte Borbonica.

Inoltre i costituzionalisti discutevano ancora quale "carta" da adottare. La Carboneria appoggiava la già concessa Costituzione Spagnola dove c'era una rigida restrizione dei poteri regi ed era sancito il diritto elettorale a suffragio universale, mentre i moderati propendevano per la "charte" di Luigi XVIII, che imponeva l'esistenza di un sistema bicamerale: una camera di nomina regia ed a carattere ereditario, l'altra elettiva ma con rigoroso sistema censitario; e l'iniziativa legislativa affidata al Re.


I rivoluzionari disperdevano energie e forze, intanto il Vicario Generale indirizzava un bando ai cittadini di Palermo in cui rimproverava la loro condotta, li invitava a ritornare all'obbedienza seguendo l'esempio dei Napoletani, prometteva un generale perdono e minacciava castighi in caso d'ulteriore resistenza.
Questo bando invece di calmare eccitò gli animi ancora di più. I Palermitani risposero con una lettera nella quale, dopo avere respinta sdegnosamente l'accusa d' ingratitudine, dimostravano che i torti non erano loro ma del governo. Ricordavano che la famiglia reale aveva trovato per due volte asilo in Sicilia, i cui abitanti avevano sostenute le gravi spese del mantenimento della Corte e dei numerosi fuorusciti; ricordavano che i Siciliani avevano profuso le loro sostanze per l'esercito e per le imprese contro i briganti nel continente; si lagnavano della condotta del re, che non solo aveva abolita la costituzione del 1812, ma aveva perfino cancellato le tracce dell'antica per introdurre leggi e ordini che avevano immiserito materialmente e moralmente il popolo; rimproveravano il silenzio mantenuto sulla rivoluzione di Napoli e il contegno del luogotenente Naselli; e concludevano:

"Il voto di questa capitale e di tutta l'isola non è perciò meno forte né meno decisivo per la libertà e per l'indipendenza sotto il governo di un principe della reale famiglia. Tutti sono convinti che senza indipendenza non vi è libertà, e tutti sono intenzionati a difenderle entrambe sino all'ultima stilla di sangue. Esse periranno insieme, ma prima perirà con esse ogni buon Siciliano. Se in alcuni angoli della Sicilia gli intrighi dei faziosi, dei privati interessi, la forza degli impiegati del governo riescono ancora a comprimere questo voto, lo scoppio della rivolta sarà ancora più terribile e fatale a coloro che vogliono comprimerla.
Non si può deplorare abbastanza l'errore nel quale si è fatto traviare l'animo dell'A. V. nel farle confondere un voto unanime e deciso della nazione siciliana per la libertà ed indipendenza della sua patria ai movimenti sediziosi o misfatti momentanei di pochi individui, con il quali si vuole con obbrobriosi artifici macchiare il patriottismo di questa popolazione e la santa causa che essa ha impreso a difendere. Noi ardentemente scongiuriamo l'A. V. in nome della nazione siciliana, perché ingannata da consigli dettati da privati interessi o da malintesa vanità nazionale non si abbandoni ad imprudenti e disastrose misure, né macchiar voglia con queste, i primi passi che fa il popolo napolitano nella gloriosa carriera della libertà. Si rammenti l'A. V. che queste potrebbero essere ugualmente fatali agl'interessi di due popoli fratelli, nati per amarsi non per combattersi, né signoreggiarsi tra loro; si rammenti infine che esse potrebbero esserlo ancor più forse a quelli del trono medesimo e della regnante dinastia".

Mentre, tra Napoli e Palermo si polemizzava, il Vicario Generale, per consiglio dei ministri, nominava luogotenente in Sicilia il Retro-ammiraglio RUGGERO SETTIMO dei principi di Fitalia. Nato a Palermo nel 1778, si era dato fin da giovinetto alla carriera marinara, partecipando a tutte le guerre combattute dal 1798 al 1812, distinguendosi per coraggio, per ingegno e per abilità. Uomo colto, onesto, liberale, aveva con altri contribuito ad indurre Ferdinando a concedere la costituzione del 1812; aveva tenuto i portafogli della Guerra e della Marina e, dopo la seconda restaurazione, inutilmente aveva cercato di distogliere il sovrano dalla politica spogliatrice di tutti i privilegi e diritti siciliani. Ritiratosi a vita privata, ne era venuto fuori perché chiamato dal Naselli a far parte della Giunta; sciolta questa, era stato rieletto dai consoli delle maestranze, tanto era il favore che aveva saputo guadagnarsi presso il popolo; ora veniva nominato luogotenente generale.

Ma RUGGERO SETTIMO non volle accettare l'altissima carica, che fu offerta al principe della Scaletta, ed essendo messinese, non poteva che essere odiato dai Palermitani.
Intanto la deputazione palermitana rimaneva a Posillipo, da dove cercava di farsi ricevere dal Vicario, il quale, nell'agosto, mandò il generale PARISI, il colonnello RUSSO e DAVID WINSPEARE, membri della Giunta, con proposte di conciliazione: sarebbe stata concessa l'indipendenza dell'isola solo se chiesta dalla maggioranza dei comuni siciliani; e l'indipendenza consisteva nell'avere la Sicilia un parlamento proprio, ma avere in comune con Napoli il re, la flotta, l'esercito, il corpo diplomatico e la lista civile; separato il resto dell'amministrazione.

Conosciute queste proposte, parte della delegazione ritornò in Sicilia per riferirle alla Giunta e questa subito fece aprire nei vari comuni che per amore o per forza avevano sposata la causa palermitana, dei registri perché vi fossero raccolti i voti favorevoli all'indipendenza. I registri in brevissimo tempo si riempirono di firme e si calcolò che i due terzi della popolazione dell'isola aspiravano all'indipendenza. Allora fu scritta e indirizzata al re la seguente petizione:

"Sire, la Giunta provvisoria di Palermo ascrive a sua somma ventura il potere, dopo tante disgustate vicende, far giungere una volta alla M. V. i sensi suoi, ed essere l'organo della volontà della maggior parte dei vostri sudditi di questo regno di Sicilia. Sin dal momento che giunse in questa capitale la notizia avere la M. V. concessa a tutti i sudditi la costituzione spagnola, un sentimento universale di giubilo si palesò in questo popolo. Ma un tale sentimento non potè andar disgiunto dal desiderio di un governo indipendente. Noi non osiamo, Sire, di rammentare alla M. V. le funeste cagioni dei disordini alla M. V. purtroppo noti, che percossero i cuori di tutti i buoni Siciliani.
"Questa Giunta, chiamata a riparare i mali dell'anarchia, prodotta dalla mancanza di un governo, fra le gravi e penose cure di ristabilire la pubblica tranquillità, non trascurò da una parte di spedire alla M. V. una deputazione, per rappresentarle la verità dei fatti occorsi, e farle noti i desideri di questo popolo per l'indipendenza e dall'altra diede avviso di tutto ciò ai Comuni del regno. La maggior parte di questi si sono affrettati a profferire lo stesso voto della capitale, e molti di questi hanno anche spedito loro rappresentanti per sedere fra noi.
"Dopo un lungo ed affannoso aspettare è ritornata infine una porzione della deputazione spedita ai piedi della M. V., la quale ci reca la consolante notizia che la M. V. si sia compiaciuta di riconoscere la giustizia dei nostri voti, e si degnerebbe accordare alla Sicilia la sua indipendenza, sempre che questo le venisse richiesto dalla città di Palermo e da tanti altri Comuni quanti dimostrassero il voto della maggior parte dei Siciliani.
"Noi, Sire, con tanta maggior fiducia avanziamo ora alla M. V. le nostre suppliche per l'indipendenza, in quanto ciò è stato promesso in nome della M. V. ai nostri deputati da S. E. il signor tenente generale Giuseppe Parisi presidente di codesta Giunta di governo, e da due membri della stessa, signor barone Davide Winspeare e signor colonnello Russo.
"Il desiderio dell'indipendenza non è in noi figlio né di privato interesse, né d'irrequieta smania di novità; esso è il risultato dei nostri antichissimi diritti e delle leggi stesse costitutive della monarchia. Questa monarchia nacque in Sicilia. Il voto dei Siciliani diede la corona al primo re Ruggieri; l'imperatore Federico non solo rispettò il trono siciliano, ma per dare all'Europa una solenne testimonianza dell'indipendenza di questo regno, concesse alla Sicilia lo stemma che l'ha sempre distinta. Il voto dei Siciliani, il loro sangue, i sacrifici, richiamarono al trono la linea legittima dei nostri re che erano stati esclusi dall'invasione angioina; fissarono le leggi fondamentali della monarchia e stabilirono l'assoluta indipendenza di questo regno. E anche quando le vicissitudini politiche in seguito ridussero la Sicilia ad essere governata da principi residenti altrove, essa tuttavia conservò sempre un particolare governo; e i diritti suoi, lungi dall'essere stati cancellati, hanno ricevuto nuovo vigore dal giuramento di tutti i nostri re. E la stessa M. V. si degnò di giurarli nel salire al trono e poi di confermarli in modo più solenne nel 1812.

"Dal 1816 in poi la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Ma in un momento più favorevole si è indotta la M. V. ad assecondare il desiderio dei sudditi e concedere loro una libera costituzione.

".. Mentre, Sire, la gioia echeggia in tutti gli angoli dei vostri domini, può il cuore paterno della M. V. esser chiuso alle giuste domande dei vostri sudditi Siciliani? Noi, domandando l'indipendenza della Sicilia, vogliamo fruire di tutti i risultati che scaturiscono dalla costituzione spagnola, che la M. V. si è compiaciuta di accordarci; ma non chiediamo che si alterino le leggi della successione al trono, né che si rompano quei legami politici che dipendono dall'unicità del monarca.
"Sire, sono questi i voti non della sola Palermo, ma dell'intera Sicilia. Mentre l'opinione di molti Comuni è traviata dallo spirito di fazione e compressa dalla forza, essa non ha potuto conoscere il voto libero dell'intera nazione. Eppure dal quadro che ci facciamo e che vogliamo porre alla sua attenzione, potrà la M. V. scorgere che la maggior parte del popolo Siciliano ha pronunziato il suo voto per l'indipendenza".


La petizione era sottoscritta da tutti i membri della Giunta, dai rappresentanti dei Comuni dell'isola, dal senato di Palermo e dai consoli delle maestranze. Unito alla petizione vi era una mappa, dove si vedevano i comuni che avevano votato per l'indipendenza.
Mentre il Vicario Generale faceva dire alla delegazione palermitana di esser disposto ad accordare l'indipendenza all'isola nei limiti e alle condizioni che sopra abbiamo esposto, il governo di Napoli incaricava di pacificare la Sicilia il generale FLORESTANO PEPE, e gli si davano le seguenti istruzioni:

"Prima di tutto di aver cura di restituire la forza morale nei paesi separati dalla rivolta di Palermo; sostenere, al bisogno, con la forza la libertà e l'indipendenza dei comuni dell'isola nella manifestazione del loro voto, non consentendo il governo a nessuna supremazia che volesse arrogarsi la città di Palermo; usare in preferenza i modi della conciliazione; non bastando questi, adoperare con prudenza le armi per restituire l'impero della legge; sospendere momentaneamente, ove la necessità lo richieda, le costituzionali guarentigie con facoltà di stabilire giudizi straordinari e militari; sequestrare i beni di quei Palermitani che persistessero nella ribellione; appena la città di Palermo fosse ritornata alla obbedienza, raccogliere i voti del rimanente della popolazione siciliana nei modi che il luogotenente del re e il generale comandante credessero meglio opportuni; avvenuta la conciliazione, bandirsi un perdono generale; il comandante delle armi procedere d'accordo con il Commissario civile, e l'uno e l'altro giovarsi a vicenda per la buona riuscita dell'impresa".

FLORESTANO PEPE, fratello di Guglielmo, era nato a Squillace nel 1780. A diciotto anni era uscito sottotenente dal collegio militare della Nunziatella e, amante della patria e della libertà, aveva nel 1789 difeso valorosamente la Repubblica Partenopea, caduta la quale era andato in esilio per ritornare poi nel 1806. Ripreso servizio sotto il re Giuseppe, nel 1809 era andato con il grado di Capo di Stato Maggiore in Spagna, e per il valore e l'abilità che aveva dimostrato di possedere, nelle campagne del 1810 e del 1811 si era guadagnato la promozione a maresciallo di campo. Nella campagna di Russia si era distinto per avere protetta la ritirata francese con furiose cariche della cavalleria napoletana; assediato a Danzica, poiché il suo consiglio di aprirsi il passo con le armi non era prevalso, era stato, per capitolazione, fatto prigioniero dai russi; liberato, era ritornato in Italia e per aver combattuto con gran bravura nella battaglia di Macerata era stato promosso dal re Gioacchino tenente generale. Dopo il ritorno del Borbone era stato collocato in aspettativa; ora era richiamato in servizio attivo perché andasse a domare l'insurrezione palermitana.

FLORESTANO PEPE partì da Napoli il 31 agosto con settemila uomini circa; la flotta che lo appoggiava constava di un vascello, due fregate, due corvette, quattordici brigantini e dodici cannoniere ed era comandata dal valoroso capitano Bausan. Intanto, dietro ordine del Pepe, il colonnello COSTA, con alcune migliaia di uomini, era partito da Messina verso l'interno dell'isola con lo scopo di riprendere le terre sottomesse a Palermo e quindi di muovere verso la capitale e riunirsi al corpo di spedizione.
Il compito del Costa non sarebbe davvero stato facile se le bande comandate dal barone ALIOTTA di Terranova, dal barone JACONA di Mazzarino, dal principe di S. CATALDO, dal colonnello PALMIERI e dal cavaliere ABELA gli avessero sbarrato il passo sulla linea Mistretta-Terranova come la Giunta di Palermo aveva ordinato; ma queste, o per inettitudine di alcuni capi o costrette dalle circostanze, non ostacolarono l'avanzata dei Napoletani che senza colpo ferire s'impadronirono di Piazza Armerina e Castrogiovanni e solo davanti a Caltanissetta trovarono poche milizie palermitane comandate dal capitano ORLANDO.
La battaglia che ne seguì, sebbene all'inizio favorevole ai Siciliani, non poteva terminare che con la vittoria delle truppe regie, ordinate e più numerose. Essendosi l'Orlando ritirato verso Vallelunga, il colonnello Costa occupò Caltanissetta, quindi per Alimena e Polizzi si diresse verso Termini Imerese.

FLORESTANO PEPE sbarcò a Milazzo il 5 settembre e alcuni giorni dopo mosse verso Palermo lungo la costa. Il 17 si fermò a Cefalù e ricevette i deputati palermitani che recavano la petizione al re. Ricevette anche una lettera con la quale il principe di Villafranca lo pregava di sospendere le ostilità; sperando che il popolo palermitano avrebbe ricevuto amichevolmente i Napoletani. Rispose il Pepe, che non era necessaria questa sospensione ma che avrebbe volentieri parlato personalmente con lui, sicuro di venire ad un accordo.
Il principe di Villafranca accettò la proposta e, accompagnato da tre membri della Giunta e da tre Consoli delle maestranze con tre navigli, scortate da altri cinque armati, fece vela per Termini dove si era trasferito il generale Pepe; ma nelle acque di Solunto, o per malinteso o di proposito, la flotta napoletana cominciò a tirare a mitraglia sui navigli siciliani, che risposero al fuoco con estrema violenza, ferendo il capitano GIUSEPPE COSA, comandante della regia nave Sirena. L'impari mischia durò a lungo; alla fine, colate a picco cinque delle otto navi palermitane, le altre tre ritornarono in città e il racconto esagerato dell'avvenimento mosse a sdegno la plebe, che si sarebbe levata a tumulto se non fosse mossa prontamente la guardia civica.
Il piccolo combattimento navale non impedì al principe di Villafranca di incontrarsi con Florestano Pepe, il quale propose questo accordo: amnistia generale ai ribelli, ingresso per il 25 delle truppe napoletane a Palermo, immediata convocazione dei deputati siciliani per conoscere la volontà di tutta l'isola.
Il principe comunicò i patti alla Giunta, consigliandola ad accettarli, e la Giunta dopo lunga discussione con i Consoli delle maestranze, li accettò, pregando il Pepe di ritardare di qualche giorno l'ingresso in Palermo per dar tempo agli animi di calmarsi. Ma quando queste decisioni furono note alla cittadinanza, la plebe, sdegnata, corse alle armi, sostenne un'audace mischia con la guardia civica che finalmente fu sopraffatta e dispersa, assalì e saccheggiò il palazzo del principe di Villafranca, aprì le prigioni e liberò per la seconda volta i galeotti che la Giunta era riuscita a rimettere in carcere, disarmò i reggimenti costituiti dal Requesens e si abbandonò di nuovo alle più sfrenate violenze. Allora il generale Pepe stabilì di muovere su Palermo. Semplice era il suo piano ed egli sperava di non incontrar resistenza e di aver dalla sua parte gli elementi più moderati della città che tutto avevano da perdere dalla plebaglia furiosa; già un reggimento siciliano, guidato dal tenente colonnello GAROFALO si era unito ai Napoletani; la sinistra, sotto il comando del colonnello COSTA, doveva puntare verso Porta S. Antonino, la destra, comandata dal generale CAMPANA e appoggiata dalla flotta, doveva attaccare la città dalla parte della marina. La riserva era affidata al colonnello CELENTANO.

Il primo scontro si avvenne il giorno 25 sulla linea del fiume Oreto. Dopo un accanito combattimento, i Napoletani occuparono i sobborghi, esclusi alcuni edifici ben fortificati, e giunsero fin quasi sotto le porte S. Agata, S. Antonino, Reale e Termini. Il 26 la battaglia si riaccese con estrema violenza su tutti i punti. Dalle colline scesero drappelli di contadini armati, che tentarono di prendere alle spalle l'esercito regio, ma la cavalleria li ricacciò; dopo furioso combattimento i Napoletani riuscirono ad espugnare una casa fortificata fuori porta S. Antonino; però inutili furono i tentativi di impadronirsi della porta di Termini i cui difensori resistettero con ostinazione respingendo gli attacchi delle truppe napoletane, fra cui era lo "squadrone sacro" di Nola, comandato dai tenenti MORELLI e SILVATI.
Lo scontro più accanito, avvenne presso la Marina dove i Napoletani trovarono una resistenza davvero sorprendente; anzi spesso il popolo siciliano, appoggiato dalle sue barche cannoniere, uscì al contrattacco ributtando indietro gli assalitori. Verso sera i Napoletani non avevano fatto alcun progresso e il generale Pepe, forse temendo delle sorprese notturne, abbandonò i sobborghi e si ritirò con tutto l'esercito dietro il fiume Oreto.

Col proposito di riattaccare la città con maggiori forze, il Pepe mandò ad ordinare al colonnello FLURGÌ, che si trovava a Trapani con un migliaio di soldati regolari, di marciare su Palermo, quindi si preparò ad assalire la città da più parti, su vasto raggio; ma il 27 furono i Palermitani a prendere l'offensiva attaccando i Napoletani di fronte e inviando una colonna alle loro spalle. Però l'attacco frontale come quello da tergo non furono bene coordinati e i Napoletani, respinto il primo, riuscirono a fronteggiare il secondo.
Questo successo però non fu sfruttato dagli assedianti e quindi non fece perdere il coraggio agli assediati. Il Pepe, preoccupato dalla stanchezza dei suoi uomini e non sostenuto dal Flurgi che, giunto ad Alcamo, era ritornato a Trapani, fece proposte di pace tramite il colonnello CIANCIULLI, ma la plebe non voleva sentir parlare di resa; difendeva con valore le mura dal nemico e nello stesso tempo avendo sospetti di connivenza con i Napoletani, invadeva e saccheggiava le case dei ricchi e commetteva scempiaggini: un certo Michele Tortorici, caduto in sospetto d'intelligenza con il nemico, fu ucciso e la sua testa fu portata in trionfo per le vie della città.
Irritato per l'ostinata resistenza, il generale Pepe ritornò con l'esercito nei sobborghi e per due giorni e due notti fece bombardare le porte di S. Agata, di Sant'Antonino e di Termini, mentre la flotta concentrava il tiro delle sue artiglierie sui punti più importanti di Palermo.

Ma neppure questi sforzi riuscirono a piegare l'animo della plebe palermitana; chi invece riuscì a convincerla che era vana la resistenza fu un patrizio ottuagenario, il PRINCIPE DI PATERNÒ. Questi, nominato presidente di una nuova Giunta, con molta abilità, riuscì a persuadere il popolo che il partito migliore era quello di entrare in trattative con il nemico. Tuttavia, adunata la plebe, affermò che era necessario un supremo sforzo e invitò i cittadini a riunirsi la mattina del giorno seguente per costituire una temeraria colonna per eseguire una disperata sortita. Lui sarebbe stato, sebbene vecchio, alla testa degli ardimentosi. Ma, il giorno dopo, pochi si presentarono al luogo stabilito; era la prova evidente che la cittadinanza era stanca e non era più possibile continuare la lotta. Meglio scendere a patti che lasciare che i Napoletani espugnassero la città.

Ricevuta facoltà di trattare la resa, il principe di Paternò, in compagnia di cinque Consoli delle maestranze si recò presso il generale Pepe e, dopo alcuni giorni di faticosi negoziati, il 5 ottobre, a bordo della nave inglese "The Racer", comandata da SIR CARLO THURTEL (gli inglesi quindi c'erano!) firmò la seguente CONVENZIONE con la quale si stabiliva che:

"Le milizie regie avrebbero preso alloggio fuori della città, ma che i forti e le batterie sarebbero consegnati al generale Pepe; che la maggioranza dei voti dei Siciliani deciderebbe della unità o separazione della rappresentanza nazionale del Regno delle Due Sicilie; che la Costituzione di Spagna del 1812 sarebbe riconosciuta in Sicilia, salve le modificazioni che credesse introdurvi l'unico Parlamento o il Parlamento separato, per la pubblica felicità; che ad unico e per nessun altro oggetto quello di esternare il pubblico voto sulla riunione o separazione del Parlamento del Regno ogni comune avrebbe eletto un Deputato; che il Principe Vicario Generale avrebbe deciso dove dovevano riunirsi i suddetti deputati; che tutti i prigionieri esistenti dell'armata napoletana in Palermo sarebbero stati subito restituiti all'armata suddetta; che soltanto il Parlamento unico o separato avrebbe potuto fare o abrogare le leggi, ma fino a che non fosse convocato, dovevano essere osservate tanto nella capitale quanto nei mandamenti dell'isola le antiche leggi; che le armi del Re e la sua effigie sarebbero state rimesse; che un intero oblio ricoprirebbe il passato per tutti i comuni e le persone che avevano preso parte nelle vicende; che una Giunta, scelta fra i più onesti cittadini, avrebbe governato Palermo fino a che il Principe Vicario avrebbe fatto conoscere le sue sovrane risoluzioni; di tale Giunta presidente era nominato il Principe di Paternò; il comandante delle armi ne poteva far parte".

Della Giunta provvisoria, come la convenzione disponeva, fu presidente il principe di Paternò, e fu composta da RUGGERO SETTIMO, dai principi di TORREBRUNA e di PANDOLFINA, dal cavaliere EMANUELE REQUESENS, dal duca di CUMIA, dal presidente ALCUDI e dal console dei SELLARI.

Il 6 ottobre Florestano Pepe alla testa delle truppe napoletane entrò a Palermo, ricevette in consegna i forti e le armi e ottenne la liberazione dei prigionieri. La convenzione, conosciuta a Napoli, fu aspramente criticata. In parlamento, che nel frattempo si era - come diremo più avanti - radunato, il colonnello GABRIELE PEPE (che non era parente dei due fratelli generali) il 14 ottobre si scagliò con veemenza contro quella convenzione che egli non esitò a chiamare "vituperevole", volendo dimostrare che "i patti in essa contenuti avevano infranto la costituzione in uno dei suoi principali articoli; avrebbero disonorato il Governo napoletano innanzi a tutta l'Europa se il Parlamento li avesse sanzionati; che costituivano un colpo mortale al sentimento della nazione rispetto al nuovo ordine di cose e un gravissimo pericolo interno; che inoltre quei patti non erano validi perché concordati soltanto con Palermo e non con gli altri comuni dell'isola ed erano per giunta disonorevoli al paese e all'esercito".
GABRIELE PEPE proponeva che si richiamasse dalla Sicilia, il generale Florestano Pepe per dar conto all'assemblea nazionale del suo operato; che in sua vece si mandasse un generale energico; che si considerasse nulla la convenzione; che s'inviasse all'esercito in Sicilia un rinforzo di seimila uomini; e infine che tutti questi provvedimenti fossero presi con gran sollecitudine per prevenire nuovi sconvolgimenti nell'isola.

Dopo GABRIELE PEPE parlarono i deputati IMBRIANI, MACHIAROLI, PICCOLELLIS, DRAGONETTI, a sostegno del collega, quindi il Parlamento, ritiratosi in comitato segreto, prese quelle decisioni che il giorno dopo formarono oggetto di un decreto del Vicario Generale, che noi riferiamo:

"…Avendo noi, nel rimettere la convenzione, proposte tutte le difficoltà sulla medesima incontrate, il parlamento ha con deliberazione in data di ieri (14 ottobre 1820) dichiarato quanto segue: il parlamento nazionale, avendo visto i rapporti, le mozioni e i documenti comunicatigli dal ministro degli affari interni sulla convenzione militare conclusa fra il tenente generale FLORESTANO PEPE e il principe di PATERNÒ, ha considerato che quest'atto è contrario ai principi stabiliti nella costituzione sotto l'art. 172, num. 3, 4 e 5, poiché tende ad indurre la divisione del Regno delle Due Sicilie; che è altresì contrario ai trattati politici, ai quali una siffatta unità è appoggiata; che è contrario ugualmente al voto manifestato da una grandissima parte della Sicilia oltre il Faro, con la spedizione dei suoi deputati all'unico parlamento nazionale; che infine è contrario alla gloria del regno unito, alle sue convenzioni politiche ed all'onore della armi nazionali; quindi il parlamento del regno unito delle Due Sicilie, ha dichiarato essenzialmente nulla e come non avvenuta la convenzione militare conclusa fra il tenente generale Pepe e il principe di Paternò il 5 ottobre 1820".

L'art. 172, della costituzione spagnola, che il decreto invocava, diceva: "Non può il Re né alienare, né cedere, né rinunciare, né trasferire per nessun motivo ad altra persona la sua autorità reale, né alcuna delle sue prerogative. Non può il Re né alienare, né cedere, né permutare nessuna provincia, né città, né terra, né villaggio, né alcuna altra parte, per quanto sia piccolissima, del territorio (spagnolo). Non può il Re fare alleanza difensiva, né speciale trattato di commercio con nessuna potenza straniera, senza il consenso delle Cortes".

Chiunque legga i patti della convenzione e questo articolo potrà convincersi come quella non fosse in nessun modo contraria a questo. In quanto ai trattati politici invocati dall'assemblea a sostegno dell'unione dei due regni, la miglior confutazione si trova in ciò che la Giunta di Palermo scriveva ai delegati mandati a Napoli: "ll Congresso di Vienna non aveva stabilito che la restituzione del regno di Napoli. La riunione della Sicilia non partì da principi politici che oggi così enfaticamente si proclamano dai ministri napoletani, ma fu l'opera di un maneggio posteriore fatto eseguire da S. M. Ferdinando, il quale ebbe di mira di distruggere la costituzione del regno di Sicilia".
Quanto poi era arbitraria l'asserzione del decreto riguardo al voto dei Siciliani è dimostrato dai suffragi favorevoli a Palermo, raccolti nell'isola, e dal numero dei deputati siciliani (11 su 27) mandati a Napoli.

"Così - giustamente osserva il LEMMI - non restavano effettivamente che la gloria del Risorgimento e l'onore delle armi nazionali, due cose assai vaghe che tradivano l'orgoglio regionale napoletano e spiegano e giustificano abbastanza anche i sentimenti della nazione siciliana. In realtà Napoli aveva fatto una rivoluzione, ma per sé, non per l'Italia e tanto meno per la Sicilia, alla quale, in un tempo in cui .... mancava una coscienza politica italiana, il parlamento negò quel medesimo diritto cui esso doveva la propria esistenza. Anzi si andò oltre, e, com'era avvenuto nel 1799 a proposito della capitolazione concessa dal Ruffo ai castelli Nuovo e dell'Uovo, si disse che era vergognoso venire a patti con i ribelli e non si ammise per loro la santità di un trattato concluso da chi ne aveva il potere e oramai in via d'esecuzione. Per non parlare poi del Vicario, e che dire del conte Zurlo il quale si credeva così ben difeso dai suoi cavilli forensi da non sentire la convenienza di dimettersi almeno pro forma? Senza dubbio le rivoluzioni non si giudicano con i criteri giuridici dei tempi normali, ma è certo che governo e parlamento, a Napoli, dimostrarono allora quella medesima disinvoltura morale di cui più tardi diede poi prova Ferdinando I quando, invece di deporre la corona, si piegò ai voleri della Santa Alleanza per combattere la costituzione da lui ripetutamente giurata".

Appena seppe che la convenzione era stata annullata, il generale Florestano Pepe protestò presso il ministro Zurlo, le cui istruzioni, patteggiando col principe di Paternò, aveva scrupolosamente eseguite. "Io amo più l'onore che la vita - gli scrisse- e cedo il comando al principe di Campana".
Un secondo affronto al valoroso generale lo fece il governo napoletano, richiamandolo da quell'isola dove aveva rimesso l'ordine e la pace. Il re credeva di mitigare l'amarezza che tale provvedimento doveva produrre nell'animo del valoroso soldato conferendogli la gran croce dell'ordine di San Ferdinando, cui era unita una ricca pensione, ma il Pepe la ricusò dicendo di "non poter accettare una ricompensa per un "atto" che era stato poi biasimato ed annullato". (il suo omonimo l'aveva chiamato "vituperevole atto").

Il 10 novembre del 1820 il Pepe partì da Palermo, dove due giorni prima era sbarcato con nuove truppe il generale PIETRO COLLETTA, il quale - come lui stesso poi scrisse nella sua "Storia" (che in queste pagine citiamo spesso) appena giunse "levò il campo, sciolse la Giunta di governo, fece sparire tutti i nastri gialli, cancellò tutti i segni del passato sconvolgimento. Indi a poco nei paesi già ribellati fece dare giuramento alla costituzione di Napoli ed eleggere i deputati al parlamento comune. Il Colletta, preceduto da meritata fama di severità, l'accrebbe in Sicilia; placò l'esercito e la plebe .... Fu amato da pochi Siciliani, obbedito da tutti, quanto bastava per la condizione dei tempi e per l'interesse dei due regni".

Il COLLETTA non rimase in Sicilia che un paio di mesi: l'8 gennaio cedette il posto al generale NUNZIANTE. Questi, da buon borbonico, volle che il numero delle truppe napoletane nell'isola fosse aumentato credendo e volendo far credere che la Sicilia si trovava in "uno stato d'anarchia".
Certo pacificata non era, ma non soldati occorrevano per portarvi la pace. Bisognava sanare le sue piaghe, sgravarla un po' del peso dei tributi, farla risorgere economicamente, governarla con mitezza e con giustizia, placare gli spiriti, deporre la presunzione partenopea. E forse tutto ciò non sarebbe ancora bastato, perché difficilmente gl'isolani avrebbero dimenticato il "brutto colpo" inferto alla loro indipendenza e mai si sarebbero rassegnati ad esser chiamati "Napoletani".
L'abisso tra i due popoli fratelli, era scavato più che per colpa della Corte borbonica, per colpa dei costituzionalisti di Napoli, dominati purtroppo da sentimenti egoistici. Il principe di Villafranca scriveva a Florestano Pepe: "La forza non costituisce il diritto; se essa giunge per alcuni istanti a reprimere il giusto risentimento dei Siciliani, questo potrà un giorno scoppiare in una maniera terribile".

Mentre in una sua memoria (ma anonima) indirizzata al Re, si legge: "Qualora le nostre brame non fossero per avventura udite, converrebbe ben dire essere noi i più infelici popoli della terra, negandosi alle nostre suppliche quello che gli altri hanno ottenuto con le armi, il che potrà condurci alla disperazione, ma mai farci chiamare Napoletani"

L'abisso tra i due popoli non si colmerà che più tardi, quando l'idea dell'unità nazionale avrà la grandissima forza di fare scomparire i due funesti regionalismi e di indirizzare i sentimenti e l'azione dei due popoli ad un'unica meta.
Ma anche questa ha le sue luci e le sue ombre storiche; pagine spesso scritte dai vincitori e non dai siciliani. Salve qualche sprazzo di luce che solo negli ultimi tempi, hanno illuminato alcuni fatti per oltre un secolo, unilateralmente descritti "foschi".

Per il momento soffermiamoci con la prossima puntata,
a questo regime Costituzionale nelle Due Sicilie,
e potremo meglio analizzare e capire i fatti drammatici che seguirono
e questa volta non solo in Sicilia ma nello stesso Napoletano (vedi in fondo)

Regime Costituzionale nelle Due Sicilie
andiamo dunque al periodo che...

va dall'anno 1820 al 1821 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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