ANNO 1821

LA RIVOLUZIONE PIEMONTESE

IL GOVERNO REAZIONARIO DI VITTORIO EMANUELE I - MALCONTENTO IN PIEMONTE - LE SETTE PIEMONTESI - CARLO ALBERTO PRINCIPE DI CARIGNANO - SUA EDUCAZIONE - I LIBERALI PIEMONTESI E CARLO ALBERTO - UNA NOTA DEL CONTE COTTI DI BRUSASCO - TUMULTI STUDENTESCHI A TORINO - ARRESTO DEI PRINCIPI DELLA CISTERNA, DEL CONTE DI S. MARTINO E DEL MARCHESE DI PRIÈ - CARLO ALBERTO RICEVE UNA DEPUTAZIONE DI CARBONARI - SANTORRE DI SANTAROSA - L'INSURREZIONE DI ALESSANDRIA - LA GIUNTA PROVVISORIA - IL MANIFESTO DI CARMAGNOLA - IL CAPITANO FERRERO A TORINO - CONDOTTA DEL RE
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IL GOVERNO REAZIONARIO DI VITTORIO EMANUELE
LE SETTE PIEMONTESI IL PRINCIPE DI CARIGNANO
CARLO ALBERTO E I LIBERALI PIEMONTESI


Mentre a Napoli - come abbiamo visto nella precedente puntata - con il rientro di Ferdinando, iniziavano le repressioni, s'istituiva la corte marziale, si comminavano le prime condanne a morte, si destituivano i deputati e gli impiegati del precedente governo, si bruciavano -in nome della libertà- i libri e le pubblicazioni che parlavano di libertà, la maggior parte dei costituzionalisti riuscivano a mettersi in salvo oltre confine, la rivoluzione si diffondeva in tutti gli stati della penisola e prima d'ogni altro, in Piemonte.
Già il 6 marzo - proprio mentre Ferdinando ripartiva da Lubiana con le arroganti "volontà" austriache - alcuni nobili torinesi chiedevano ai Sabaudi la costituzione; e anche loro -come tenteranno di fare i napoletani- di muovere guerra all'Austria.
Ma dobbiamo tornare indietro di qualche anno, per capire le condizioni storiche che erano presenti in Piemonte, prima di questi turbolenti avvenimenti di quest'anno 1821, e che andiamo qui a narrare.
Tornato, nella primavera del 1814, in Piemonte, Vittorio Emanuele I, facendo conto, come affermava, di aver dormito per quindici anni, aveva cancellato con un solo editto tutta la legislazione francese e richiamate in vigore le vecchie istituzioni, risuscitando le primogeniture, i fidecommissi, i privilegi, i tribunali eccezionali, le inquisizioni segrete, le pene barbare - esclusa per fortuna quella capitale - il foro demaniale, militare ed ecclesiastico, le immunità religiose, l'intolleranza di qualsiasi culto che non fosse il cattolico, affidando nuovamente al clero la censura sulla stampa e la sorveglianza della pubblica istruzione e richiamando, come suo consigliere il CONTE CARLO GIUSEPPE CERRUTI di Castiglione Falletto, e il rientro in servizio di quei funzionari il cui nome figurava nell'almanacco del 1798, il Palmaverde.

A sollecitare tutto questo il sovrano sabaudo era spinto non tanto da un giustificato spirito di rivalsa e dalle istigazioni dei cortigiani reazionari, che pure influirono e non poco nel suo animo, quanto dalla convinzione che aveva che per sanare il Piemonte dai mali che lo affliggevano occorreva cancellare ogni traccia dell'opera francese e far tornare in vita i tempi in cui i sovrani regnavano assoluti, con l'appoggio della nobiltà, e il popolo plebeo ubbidiva (altri ceti non esistevano, in un ambiente economico come quello piemontese, che era uno dei più arretrati d'Europa, la borghesia non si era né creata, e tanto meno si era sviluppata nel piccolo artigianato. La vocazione del Piemonte era quella rurale, e questo comparto era nelle saldi mani della nobiltà o del clero. Il popolo contadino sempre mantenuto ignorante, anche se poteva avere delle potenzialità di ribellione, non aveva altre alternative, solo la subordinazione, anche alla più retriva amministrazione regia e agli imposti rigori dei nobili latifondisti. Era dunque una condizione accettata da un popolo che era sempre vissuto in quel modo, il suo mondo era quello e non ne conosceva altri. Lo sconvolgimento era avvenuto con Napoleone, ma non è che si erano diffuse nell'ambiente contadino le aspirazioni di libertà.
E se queste potevano essere penetrate, con la disfatta napoleonica, e con la restaurazione, neppure quelli che questa libertà l'avevano irrazionalmente provata, avevano le idee chiare. Come in tutti gli altri stati della penisola, la coscienza nazionale non esisteva, l'immaturità politica era presente in ogni ambiente, e il "tornado" napoleonico aveva spesso ubriacato non solo le folle, ma anche certi ambienti intellettuali, la piccola e media borghesia, e alcuni nobili decaduti. Molte contraddizioni le abbiamo viste in Lombardia, in Veneto, in Liguria, e recentemente in quelle Napoletane.

"Il BROFFERIO e il D'AZEGLIO, - scrive il Lemmi - nelle loro descrizioni del Governo e della società piemontese dopo la restaurazione, si lasciarono un po' trascinare dal loro genio artistico; ma è certo che troppi furono allora innalzati ai gradi più alti civili e militari soltanto per il loro zelo antifrancese, mentre parecchi furono dimenticati o banditi unicamente perché avevano servito con fedeltà il caduto governo napoleonico. Così un tale BELLOSIO impiegato della gabella, il quale aveva proposto l'abbattimento del ponte sul Po a Torino e negato le bollette di transito per la strada del Moncenisio perché erano costruzioni francesi fu promosso intendente generale. FERDINANDO DAL POZZO, presidente della Corte di Genova, il fisico VASSALLI, il botanico BALBIS, il criminalista AVOGADRO, il medico BUNIVA ed altri professori dell'Università perdettero i loro posti perché giacobini. La medesima cosa avvenne nell'esercito. I valorosi veterani delle guerre napoleoniche in Austria, in Germania, in Spagna e in Russia furono retrocessi di due, tre e persino quattro gradi, salvo qualche rara eccezione, come fu quella del generale GIFFLENGA, mentre si collocarono nei più alti uffici coloro che avevano seguito la Corte in Sardegna o avevano combattuto contro la Francia al servizio dell'Austria, dell'Inghilterra e della Russia. Tutto questo fu più ridicolo che dannoso, nonostante un certo senso di giustizia, tradizionale nell'amministrazione piemontese, correggesse in pratica i difetti delle leggi; e d'altra parte, sbollito il furore reazionario, alcuni studi iniziarono per riformare gli antichi ordinamenti con uno spirito più consono ai progressi del secolo, e, messo in disparte l'almanacco del 1798, furono accolti nell'esercito e nei ministeri anche uomini che avevano servito l'"usurpatore". Così ottennero alti uffici il marchese di S. MARZANO, già ambasciatore dell'Impero in Russia, e PROSPERO BALBO, rettore dell'Università di Torino, i quali, insieme col cav. ALESSANDRO di Saluzzo e con i conti di VALLESA e DE MAISTRE, furono i più illuminati consiglieri di Vittorio Emanuele in questo periodo. Il Vallesa, che, senza essere un liberale si opponeva alla violazione dei diritti acquisiti sotto il governo francese, si ritirò dal ministero in seguito ad un diverbio con la regina Maria Teresa cui osò ricordare "la responsabilità che, anche in un regime assoluto, i ministri hanno verso la propria coscienza e verso la nazione".

Reazionario, sia pure in buona fede, in politica interna, VITTORIO EMANUELE I, che era stato accolto con entusiasmo dai suoi sudditi per il vivo attaccamento nutrito verso la dinastia sabauda, ben presto anche lui si alienò le simpatie di molti, di tutti coloro che la reazione oltraggiava e danneggiava, di tutti coloro che, pur essendo lieti di ritornar sotto i Savoia, non sapevano rinunciare ai grandi progressi prodotti dalle vicende di quindici anni, di tutti coloro che professavano idee liberali pur non essendo mai stati fautori dell'unione alla Francia. Tutti questi malcontenti per interessi personali o per ragioni ideali, si raccoglievano nelle società segrete, che già esistevano nel Piemonte ed ora vedevano ingrossare le file dei loro iscritti.

Come nelle altre parti d'Italia così nel Piemonte queste società segrete - logge massoniche e vendite carbonare - erano animate da sentimenti liberali. Non osteggiavano la monarchia, ma desideravano che cessasse l'assolutismo non più adatto alle mutate condizioni del popolo, e s'inaugurasse un regime costituzionale, che consentisse alle varie classi sociali di collaborare con il monarca nel governo della nazione.
Altro sentimento che accomunava i liberali piemontesi a quelli delle altre regioni della penisola era l'odio verso l'Austria.
Questo sentimento non era nuovo al popolo del Piemonte, ma ora si era fatto più intenso perché l'Austria, tornando in Italia, rappresentava un ostacolo grandissimo al desiderio dei Subalpini di espandersi nella valle del Po; perché diventava l'arbitra di tutta la penisola, e per di più minacciava l'integrità territoriale del regno sardo. I liberali poi avevano un altro motivo di odiare l'Austria: essi erano convinti che proprio l'Austria fosse l'ispiratrice della politica reazionaria del governo di Vittorio Emanuele I.

Forse in questo i liberali s'ingannavano, perché tutta la politica estera del re di Sardegna, dopo la restaurazione era stata rivolta a frustrare le mire dell'Austria di portare i confini ad Alessandria e al Sempione e di fare del regno sardo uno stato vassallo. I rancori anche se passati sotto silenzio non mancavano. Tuttavia di questa politica Vittorio Emanuele aveva fornito prove evidenti quando, alla fine del 1815, si era rifiutato di recarsi a Milano per rendere omaggio all'imperatore e nel 1816 si era opposto risolutamente ad una confederazione degli stati italiani sotto il controllo dell'Austria.
Senza saperlo, liberali e re erano animati dal medesimo sentimento d'avversione all'Austria, ma erano in contrasto in fatto di politica interna. Non un profondo e radicale rivolgimento, a dire il vero, avrebbero voluto i liberali, ma una monarchia costituzionale, e la costituzione l'avrebbero accettata volentieri anche da Vittorio Emanuele, che in fondo non odiavano perché lo credevano vittima della pretesa influenza della moglie (Austriaca) MARIA TERESA D'AUSTRIA-ESTE. (le stesse cose si dissero nei confronti di Ferdinando a Napoli, con l'austriaca Maria Carolina, e anche se era morta prima di tornare a vedere Napoli, prima, aveva condizionato pesantemente il marito).

Ma sperare la costituzione da Vittorio Emanuele, sarebbe stato un'ingenuità; follia sarebbe stato sperarla dal fratello CARLO FELICE, duca del Genovese, dotato di sentimenti ancora più reazionari di quelli attribuiti al re. D'altro canto i liberali piemontesi rifuggivano dalle idee repubblicane ed erano troppo legati alla Casa Sabauda per pensare di sostituirla. Non deve quindi far meraviglia se tutte le loro speranze e i loro sguardi si posavano sul principe CARLO ALBERTO di Carignano (ex cadetto Napoleonico a Parigi) erede presuntivo della Corona e notoriamente favorevole alle nuove idee.

Discendeva Carlo Alberto da TOMMASO di Savoia, secondogenito di Carlo Emanuele I, ed era nato a Torino il 2 ottobre 1798 da CARLO EMANUELE di CARIGNANO, il quale aveva combattuto valorosamente contro i Francesi dal 1792 al 1796, ma, dopo il trattato di Cherasco, aveva cominciato anche lui a giacobineggiare e, dopo l'abdicazione del re, aveva firmato con lo JOUBERT una convenzione in cui rinunciava agli eventuali diritti al trono ed era lasciato nel libero possesso dei suoi beni e nel godimento del suo appannaggio. Venuto però non molto dopo in sospetto, Carlo Emanuele era stato, con la moglie Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia, incinta di Maria Elisabetta e con il figlioletto (Carlo Alberto) mandato in Francia, e a Parigi, ridotto alla miseria poiché gli erano stati confiscati i beni, umiliato ed oppresso dal dolore, era poi morto il 24 luglio del 1800.

Rimasto orfano, CARLO ALBERTO visse di stenti fino a quando la madre, nel 1807, passò in seconde nozze con il conte di MONLÉART; fu quindi messo nel collegio diretto dal Padre LIAUTARD e si trovava qui quando, nel 1810, Napoleone lo nominò conte dell'Impero e gli assegnò una rendita annua di centomila lire. Due anni dopo, l'Imperatore volle che i coniugi Monléart si allontanassero da Parigi, e il giovinetto fu mandato a Ginevra in un collegio diretto dal professor VAUCHER, protestante e seguace delle dottrine del Rousseau.

Nel 1814 CARLO ALBERTO, sedicenne, fu nominato luogotenente nell'8° reggimento dragoni e si trasferì a Bourges. Purtroppo quell'anno stesso Napoleone decadeva, e il giovane vide ad un tratto cambiata la sua fortuna. Divenuto erede presuntivo al trono, poiché Vittorio Emanuele e Carlo Felice non avevano figli maschi, ritornò in Piemonte e nel giugno fu insediato nel castello di Racconigi con il grado di colonnello di cavalleria. Nel novembre del 1814 il congresso di Vienna, mandando a vuoto i disegni del Metternich, il quale avrebbe voluto che la primogenita di Vittorio Emanuele, sposa al duca di Modena, succedesse al padre sul trono sardo, confermava il giovine principe futuro erede della corona sabauda.

Fino allora Carlo Alberto non era stato un giovane felice: non aveva conosciuto l'amore del padre né era stato riscaldato da quello materno; aveva conosciuto invece i maltrattamenti del patrigno e la vita monotona dei due collegi, quello cattolico di Parigi e quello protestante di Ginevra; era cresciuto con un cruccio forte per la sua sorte, con l'anima dubbiosa per l'educazione ricevuta dal Padre LIAUTARD con quella impartitagli dal VAUCHER. Due mondi in contrasto che il giovane, poi anche da adulto, non riuscì mai a capire a quale apparteneva.

Era cresciuto tutto chiuso in se stesso, vedendo della vita il lato brutto, e in quella sua giovinezza senza gioia, senza affetti, senza guida, non aveva saputo e potuto disciplinare l'ingegno. Il suo spirito anziché temprarsi si era fatto incerto, insicuro, con un'anima scettica.
Nella nuova condizione di erede presuntivo la sua vita non fu più felice di quella che aveva già trascorsa. Non abituato alla corte, si credeva sorvegliato, guardato con diffidenza dalla regina e dal re, quasi un intruso, un erede imposto dalla necessità e per questo forse poco gradito; i sentimenti reazionari dei cortigiani e degli uomini di governo riuscirono odiosi a lui che era vissuto in un ambiente sociale così diverso com'era quella della Parigi bonapartista. Ripugnarono al suo temperamento generoso e cavalleresco le spesso arbitrarie persecuzioni politiche provocate solo da interessi personali, spesso da grettezza di vedute; fu così che il giovane principe chiuse l'animo a coloro che, nella sua qualità di erede, dovevano invece circondarlo, consigliarlo e riceverne le confidenze e cercò invece, e facilmente trovò, la compagnia di quanti, come lui, disapprovavano la reazione, avevano nel cuore sensi liberali e sognavano insieme con l'avvento d'un regime costituzionale la liberazione della penisola dal dominio austriaco. Il bonapartismo insomma aveva lasciato il suo segno.

Fra coloro che godettero l'amicizia del principe è bene ricordare il commediografo ALBERTO NOTA, che fu anche suo segretario; il generale GHENGA; il marchese CARLO di SAN MARZANO, figlio del ministro degli esteri, colonnello di cavalleria ed aiutante di campo del re; il conte GUGLIELMO MOFFA di Lisio capitano di cavalleria; il conte GIACINTO PROVANA di Collegno, maggiore di artiglieria; il conte ETTORE PERRONE di San Martino; il conte SANTORRE di SANTAROSA, maggiore di fanteria e viceprefetto sotto Napoleone; il conte LUIGI BARONIS, capitano dei Dragoni del Re; il tenente colonnello GUGLIELMO ANSALDO; il cavaliere MICHELE REGIS, comandante della brigata Savoia; il maggiore marchese ANTONIO di GATTINARA e il capitano VITTORIO FERRERO. Di questi, alcuni erano affiliati alle logge massoniche, altri appartenevano alla Carboneria, che aveva vendite a Genova, ad Alessandria, a Casale, a Biella, a Ivrea, a Vercelli, ad Asti, a Novara e un'Alta Vendita a Torino, capeggiata dai medici GASTONE e RATTAZZI, dagli avvocati GRANDI e MOROCHETTI, dall'ingegnere APPIANI, dal dottor FOSSATI, dall'abate BONARDI, dal conte PALMA, dal capitano PRINA e dai tenenti Avezzana e BIANCO; altri infine erano membri di altre sette come quelle degli "Adelfi" e dei "Sublimi Maestri Perfetti".

CARLO ALBERTO, tuttavia, non era iscritto, pare, a nessuna società, "ma coloro che, appartenendovi, godevano la sua confidenza, lo ritenevano uno dei loro, poiché egli aveva comune con il desiderio, naturale del resto in un giovane soldato, di accrescere la gloria del regno estendendone i confini e liberandolo da qualsiasi influsso straniero, vale a dire austriaco".
Gli ambasciatori di Francia e di Russia favorivano queste tendenze antiaustriache, ma i patrioti piemontesi s'illudevano sperando che nel giorno dell'azione quelle due potenze avrebbero dato il loro un aiuto sia pure indiretto. In realtà la Francia stessa, nonostante fosse fatalmente obbligata a favorire all'estero tutte le correnti liberaleggianti scaturite dalla rivoluzione, non poteva ancora permettersi una politica di aperta ostilità alla casa d'Austria, legittima rappresentante nella penisola di quei principi d'ordine ai quali Luigi XVIII doveva la corona.
L'assassinio del Duca di Berry, avvenuto a Parigi il 13 febbraio del 1820, mentre si diffondeva la notizia della rivoluzione spagnola, parve un segno eloquente dei pericoli che potevano nascere da una politica d'incoraggiamento dei partiti antiaustriaci, cioè rivoluzionari. Tuttavia questi incoraggiamenti erano stati dati e, quando cessarono, furono sostituiti con quelli delle società segrete della Francia.
Poi nella seconda metà del 1820, dopo i fatti di Napoli, il momento di agire parve arrivato. Bisognava trascinare il Re alla guerra contro l'Austria; e le speranze di tutti si volgevano a CARLO ALBERTO. Questi, nel 1817, aveva sposato MARIA TERESA, figlia del Granduca di Toscana, e, il 14 marzo del 1820, era divenuto padre d'un figlio maschio, Vittorio Emanuele (II), nel quale sembravano ormai assicurati i destini della Casa Savoia.

Nel corso di quell'anno, dal momento che anche l'ambasciatore spagnolo prima di lasciare Torino aveva apertamente incitato ad approfittare delle circostanze, tutti i liberali, ascritti o no a società segrete, si misero d'accordo per l'azione, alla quale dovevano concorrere i patrioti lombardi che riconoscevano come loro capo FEDERICO CONFALONIERI. Sorse così la cosiddetta setta dei "Federati", la quale non ebbe mai una vera e propria organizzazione, tranne forse sulla carta. "Federati" furono nel Piemonte e nella Lombardia non soltanto i "Liberi Muratori", i "Carbonari", gli "Adelfi", ecc., simpatizzanti alcuni per la costituzione spagnola, altri per quella francese, bensì anche tutti coloro che, senza aver rilasciato giuramenti o ricevuto iniziazioni, erano disposti a combattere l'Austria per formare un regno italico costituzionale (solo così si potevano vincere le gelosie regionali) sotto lo scettro della Casa di Savoia; e perciò in questo senso si può dire che sia stato un federato anche Carlo Alberto. Infatti, egli sembrava risoluto a mettersi alla testa del moto, cui il Re avrebbe finito con il consentire e il generale FLENGA avrebbe portato il soccorso della sua esperienza militare; e intanto, perché non mancasse la collaborazione dei fratelli lombardi, prendeva accordi con il CONFALONIERI tramite persone fidate, fra le quali il conte ETTORE PERRONE (settembre-novembre 1820) e, più tardi, il capitano RADICE (febbraio 1821), mentre altri, abusando in buona o in mala fede del suo nome, facevano la propaganda per proprio conto di qua e di là del Ticino" (Lemmi)

TUMULTI STUDENTESCHI A TORINO - SANTORRE DI SANTAROSA
L' INSURREZIONE DI ALESSANDRIA
CONDOTTA DI VITTORIO EMANUELE I

Nel gennaio del 1821, il conte COTTI di BRUSASCO, ambasciatore sardo a Pietroburgo, inviava una nota a Vittorio Emanuele I, nella quale discorreva dei vari governi italiani, esponendo quello che lui riteneva opportuno dovessero fare. Del Piemonte scriveva:


"Il Piemonte, che per la sua posizione geografica, è destinato ad essere il primo degli stati italiani, dovrebbe avere buoni e forti ordini militari; i quali gli sono necessari non solamente per difendere il suo territorio, ma per rendere la sua alleanza così importante per la Francia e per l'Austria, in modo che queste due potenze debbano cercarla per quelle guerre che potrebbero avere la loro sede in Italia.
La situazione politica del Piemonte ora non è più quella che era nel 1792, quando l'Austria aveva in Italia solamente i ducati di Milano e di Mantova, che fra l'altro erano possessi del tutto staccati e separati dalla monarchia austriaca. Per l'acquisto fatto da questa potenza su tutto il territorio situato fra il Ticino, il Po e l'Adriatico congiunto agli stati ereditari di Germania, l'Austria ha ristretto la forza relativa del Piemonte, né l'aumento di quella forza reale derivata dalla riunione del Genovesato può essere ritenuta compensativa.
Le forze militari che può mantenere il Piemonte, qualunque sforzo faccia, saranno sempre notevolmente inferiori a quelle che l'Austria può in brevissimo tempo mettere insieme, quindi il Piemonte è incapace di salvaguardarsi da una invasione da parte di questa potenza che può percorrere tutto il territorio prima che un'armata francese abbia il tempo di andare a soccorso. In tale situazione di cose, la forza morale della nazione, la quale in sostanza è la vera forza reale degli stati di secondo ordine, il Piemonte la può dare solo con questa forza per difendersi, come ha bisogno, e per tornare ad essere indipendente com'era nel 1792.
Ora le istituzioni del Piemonte dovrebbero essere capaci a conferire alla nazione questa forza morale e ad esercitarla nello stesso tempo questa forza influenzando le province lombardo-venete, per indebolire l'Austria e procurare al re il massimo vantaggio in tutte le guerre contro questa potenza.
Per ottenere questo scopo queste istituzioni dovrebbero conservare nella nazione lo spirito militare, accendere l'amore dell'indipendenza nazionale, proteggere le scienze e le arti, incoraggiare lo sviluppo del commercio e di tutte le industrie e avere un carattere tutto italiano.
La vigoria e la prosperità del Piemonte creerebbero in questo caso un grande contrasto con il languore mortale delle province soggette all'Austria, che potrebbe fare affezionare al re tutti i Lombardi. E se la Provvidenza un giorno maturasse avvenimenti impossibili a prevedersi, ma facili ad avverarsi, e cioè che l'Austria fosse costretta a lasciar la Lombardia, e la corona di ferro che per tante ragioni pare destinata alla casa di Savoia, e venisse a porsi, con il consenso dell'Europa, sulla testa dei nostri re, Sua Maestà avrebbe con tali istituzioni agevolato il fatto e gettato con modi legittimi le fondamenta della futura grandezza della sua famiglia: avrebbe proseguito l'esempio dei suoi predecessori, la cui prudenza e sagacia non sono mai state abbastanza lodevoli, perché hanno sempre accresciuto la loro potenza, non operando mai secondo un sistema esclusivo, e traendo sempre dalle circostanze un ammirabile profitto.
L'Austria considererebbe senza dubbio tutti questi "miglioramenti" introdotti dal re di Sardegna nei suoi stati come atti a lei ostili; ma i suoi lamenti sarebbero privi di ragione e non oserebbe manifestarli, mentre la condotta del re guadagnerebbe l'approvazione di tutta l'Europa, perché legittima".


Il conte COTTI di Brusasco in questa sua nota, per quel che riguardava il Piemonte, non parlava di costituzione, ma i "miglioramenti" che accennava andavano indubbiamente interpretati come mutamento di natura costituzionale nel governo, resi necessari dal bisogno di prevenire altri sconvolgimenti politici in Italia e giustificati dal desiderio di rafforzare il trono ma anche togliere forza alle sette.
Il re e i suoi ministri naturalmente non volevano sentir parlare di riforme, neppure quando queste erano suggerite con lo scopo di assicurare l'integrità e l'indipendenza del Piemonte, esposto alle brame dell'Austria; pensando forse agli anni non lontani in cui le trame rivoluzionarie avevano danneggiato la monarchia; temevano di indebolire il trono con una riforma anche se blanda, di minare gli ordini di governo e rimanevano fermi nelle loro posizioni, pur guardando con preoccupazione quanto accadeva nell'Italia meridionale e vivendo in continua inquietudine e sospetto.

Effetto di questi sospetti continui ed esagerati furono le agitazioni studentesche di Torino e il rigore veramente feroce di come furono represse. La sera dell'11 gennaio del 1821 quattro studenti universitari si presentarono al teatro d'Augermes con berretti rossi adorni di un fiocchetto nero, secondo l'uso di parecchie università italiane. La polizia, sospettando chi sa che cosa, alla fine dello spettacolo arrestò uno degli studenti, dopo una colluttazione con altri universitari; gli altri tre riuscirono a fuggire approfittando del parapiglia, ma durante la notte furono tratti pure loro in arresto.
Il giorno dopo, il 12 gennaio, il Ministro di polizia, violando la legislazione scolastica, la quale prescriveva che, salvo casi gravissimi, gli studenti dovevano essere sottoposti al giudizio del magistrato degli studi, mandò invece gli arrestati nella fortezza per sottoporli al Magistrato ordinario. Questo fatto riempì di sdegno gli studenti, i quali, riunitisi in parecchie centinaia nel palazzo dell'Università, si diedero a tumultuare protestando contro la violazione degli antichi privilegi.
Dai comizianti fu proposto di mandare una commissione al governo per chiedere la liberazione dei compagni, ma proprio allora giunse il conte PROSPERO BALBO, ministro dell'interno ma anche rettore dell'Università, che intimò agli studenti di sgombrare il palazzo. Gli studenti si rifiutarono e il disordine aumentò; un drappello di carabinieri a cavallo, che si trovava a passare molto vicino, fu fatto segno a grida e a sassi. Allora le autorità ricorsero alla forza e, verso il tramonto, sopraggiunse sul posto il governatore di Torino, conte THAON DI REVEL, alla testa di quattro compagnie di granatieri con i fucili e le baionette innestate.

Accadde quello che si poteva e si doveva evitare: essendosi gli studenti rifiutati di sciogliersi, il portone fu forzato, i granatieri e la polizia irruppero dentro l'Università con le armi in pugno e caricarono i tumultuanti, che si difesero a sassate, quindi si diedero a fuggire per le aule incalzati dalla truppa e sciabolati da alcuni ufficiali.
Il bilancio di quella repressione fu doloroso: non vi furono per fortuna morti, come poi si disse per accrescere la pubblica indignazione aggiungendo che i corpi degli uccisi erano stati trafugati; ma i feriti più o meno gravi non furono pochi: cinque o sei soldati e più di una trentina di studenti.
L'impulsività e l'eccesso con cui le autorità avevano agito non sembrò alla pubblica opinione, né giusto né opportuno e con ragione fu commentato malignamente l'elogio mandato dal re ai soldati. Viceversa i reazionari si lamentarono che si era lasciato per alcune ore sul portone dell'Università un cartello con la scritta "Macello Reale", e che non erano stati arrestati coloro che, dopo i fatti, sparsero per le vie foglietti con i nomi di quelli che più degli altri si erano distinti nella feroce repressione.
Apprezzato invece fu il contegno del principe Carlo Alberto, il quale sospese un ufficiale perché senza permesso si era unito ai granatieri e fornì inoltre prova della sua simpatia verso gli studenti andando a visitare i feriti.

La repressione dei tumulti studenteschi fu naturalmente sfruttata dai liberali piemontesi, che intensificarono la campagna costituzionale. Furono diffusi clandestinamente manifesti stampati in Francia e in Svizzera; in questi si rendevano note le mire austriache; le pretese trame della austriaca regina; si mostravano i danni della cattiva amministrazione finanziaria; circolarono altri manifestini indirizzati al re in cui si chiedeva la costituzione spagnola; si sparsero proclami con i quali s'incitavano i Piemontesi a prender le armi promettendo loro l'aiuto della popolazione di Lombardia.

Questi fermenti cominciavano a preoccupare; ad accrescerli contribuivano certe voci, secondo le quali il Metternich (dopo il congresso di Lubiana) avrebbe chiesto (il 4 febbraio) al governo sardo di fare occupare dai soldati austriaci Alessandria per stabilirvi una base di un eventuale pronto intervento militare in soccorso al Piemonte, come era stato deciso per il Regno delle Due Sicilie "per l'interesse del regno borbonico". Infatti il 4 febbraio, l'armata imperiali si era mossa, e passava il Po per marciare verso (in quel momento per nulla ribelle) Napoli (13 febbraio).

I liberali costituzionalisti, i capi carbonari, e frange all'interno dello stesso stato sabaudo, con lo scopo di affrettare l'insurrezione che doveva accompagnar la guerra austro-napoletana e provocar quella del Piemonte contro l'Austria, divennero più frequenti i messaggi liberali fra Torino e Milano e Torino, Ginevra e Parigi.
A ingrossare le file c'erano tutti gli esuli del Regno delle Due Sicilie che in luglio avevano fatto la rivoluzione; ma non contro i Borboni, ma -e questo accadeva per la prima volta in Italia- contro quelle potenze straniere che condizionavano o meglio dominavano la politica di Ferdinando. Prova ne sia -e lo abbiamo visto nella puntata dedicata- che nei sei mesi di governo costituzionale (a parte il movimento indipendentista siciliano) non si erano verificati a Napoli, né fatti di sangue, né incidenti. Re Ferdinando era stato accolto con simpatia, e così il principe suo figlio Francesco; e si erano pure varate nuove leggi rispondenti ai tempi. E' che queste leggi, dalla potenza assolutista austriaca, erano considerate giacobine, sovvertitrici di quell'"ordine voluto da Dio" e che i sovrani si adoperavano solo a mantenerlo "per la felicità dei loro sudditi".

La rivoluzione in Piemonte ormai stava maturando, era già nell'aria. Eppure EMANUELE DAL POZZO, principe della CISTERNA, che allora si trovava in Francia, da dove dirigeva il movimento costituzionale del Piemonte, era dell'avviso che non fosse ancora giunta l'ora di agire. "Io non ritengo -scriveva il 14 febbraio - che il momento sia venuto di mostrarsi. Bisogna vedere cosa faranno i Napoletani (non avevano ancora capitolato, lo faranno il 24 marzo - Ndr.) e non mettersi al rischio di esser schiacciati in pochi giorni dalle forze riunite nell'Italia superiore. Credo che i giorni, i mesi e gli anni vanno calcolati in una faccenda così importante. Quando la cosa sarà matura, essa si manifesterà; se non lo è ancora, non si matura con parole, e meno ancora con azioni mal combinate".

Le cose erano a questo punto quando a Susa fu arrestato un messo che faceva la spola tra Parigi, Ginevra e Torino per conto dei liberali e furono sequestrate lettere compromettenti del principe della Cisterna. Ne seguì che la notte dal 3 al 4 marzo furono tratti in arresto il conte ETTORE PERRONE di San Martino e il marchese DEMETRIO TURINETTI di Priè; due giorni dopo, presso il confine, mentre tornava da Parigi, era arrestato anche il principe della Cisterna.

Questi fatti decisero i cospiratori ad agire risolutamente. Nel pomeriggio del 6 marzo, quattro capi liberali, il conte SANTORRE DEROSSI di SANTAROSA di Savigliano, il conte GIACINTO PROVANA di Collegno, il conte GUGLIELMO MAFFA di Lisio e CARLO EMANUELE CARAGLIO, figlio del marchese ASINARI di San Marzano, tutti ufficiali superiori dell'esercito piemontese, si recarono segretamente dal principe CARLO ALBERTO. Furono ricevuti nella biblioteca alla presenza del marchese ROBERTO D'AZEGLIO. Il marchese di Caraglio - secondo il racconto che di quel colloquio fece il Santarosa nel suo libro su "La rivoluzione piemontese del 1821" - espose al principe i disegni dei cospiratori, parlò, ripetendo le difficoltà dell'impresa che doveva dare l'indipendenza alla patria e riaffermò i sentimenti monarchici dei congiurati e la loro devozione al re.

Dopo il Caraglio, il Santarosa "spiegò, ad uno ad uno, al Principe, i modi di comportarsi, appena iniziata la rivoluzione, al fine di assicurare il risultato per la libertà interna e per l'indipendenza della patria. Nulla gli fu nascosto e gli furono rivolte queste memorande parole: - Principe, tutto è preparato; manca solo il vostro consenso; i nostri amici radunati attendono: o il segnale di salvare il paese o il funesto annuncio che sono vane le loro speranze. - Il consenso fu da Carlo Alberto accordato e allora il conte Santarosa gli strinse la mano con la franchezza di un libero cittadino".

Discordi sono gli storici sul modo come si svolse il dialogo. CARLO ALBERTO negò in una sua "Memoria" di aver dato il consenso, i testimoni tacquero e quel loro silenzio parve una conferma delle asserzioni del conte SANTAROSA. Se dobbiamo credere al principe di Carignano, è da pensare che il Conte, incapace di mentire, abbia creduto a una adesione completa alla cospirazione quella che invece era soltanto una promessa di intercedere presso il re affinché concedesse la costituzione oppure la dichiarazione del principe di esser pronto a combattere contro l'Austria; se dobbiamo credere al Santarosa, allora dobbiamo ammettere che Carlo Alberto sia stato costretto a mentire per non pregiudicare una sua futura successione al trono sabaudo.

Intanto è bene tenere presente che il giorno prima, il 5 marzo, VITTORIO EMANUELE I aveva fatto conoscere a CARLO ALBERTO parte del carteggio sequestrato al messo del principe della Cisterna, dal quale risultava che i cospiratori avevano poca fiducia in lui, e il principe della Cisterna lo sconsigliava al movimento. Ammettiamo questo, ma non sapremmo allora spiegarci perché mai il giorno dopo Carlo Alberto avrebbe dovuto aderire ad una congiura promossa da chi non riponeva molta fiducia in lui ed era stata sconsigliata da un capo autorevolissimo come il Costerna.

Secondo il piano dei cospiratori, la mattina dell'8 marzo dovevano essere occupate le cittadelle di Alessandria e di Torino; contemporaneamente, si doveva inscenare una grande dimostrazione popolare a Moncalieri per indurre il sovrano a concedere la costituzione; ma il giorno 7, dopo una notte di riflessione, consigliato dal marchese D'AZEGLIO, dal conte CESARE BALBO e dal generale GIFFLENGA, Carlo Alberto fece conoscere il suo "pensiero" ai cospiratori: che era quello di sospendere il moto; ma nello stesso tempo il principe, senza far nomi, avvisò della congiura e del piano il conte di SALUZZO, ministro della guerra.
I congiurati -ricevuto il "pensiero"- decisero di soprassedere per due giorni e informarono il principe di avere rimandato il moto, tacendogli però il giorno in cui avrebbe avuto luogo; ma la mattina dell'8, essendosi sparsa la voce che il principe era favorevole al movimento rivoluzionario, incaricarono il SANTAROSA di conferire con CARLO ALBERTO. II colloquio avvenne la sera di quello stesso giorno e pare che il principe promettesse di non creare ostacoli, nella sua qualità di comandante dell'artiglieria, ai rivoluzionari; ma alcune ore dopo, pentitosi, fece sapere ai cospiratori che si sarebbe opposto.

La mattina del 9 il conte SANTORRE di SANTAROSA si recò una terza volta dal principe per indurlo a non ostacolare il moto. Carlo Alberto, vinto dalle sollecitazioni, promise, ma così debolmente che il Santarosa si persuase esser meglio sospendere l'azione.
Parecchi furono gli ordini e i contrordini mandati alle province e forse gli ultimi non giunsero a tempo dappertutto, forse in qualche posto, dove gli elementi più accesi prevalevano, non si volle tener conto dell'ordine di sospendere il moto e si volle anzi trascinare gli altri iniziandolo.
Questo fu il caso di Alessandria. La sera del 9, i congiurati riunirono gli ufficiali e i sottufficiali della brigata Genova e comunicarono loro un manifesto, che li invitava a porsi attorno al principe di Carignano. Per riuscire meglio nell'intento, il colonnello GUGLIELMO ANSALDI e il capitano ISIDORO PALMA affermarono che il manifesto era stato scritto dall'OMODEI, aiutante di campo del principe, il quale aveva fatto sottoscrivere al re la costituzione e che fra poche ore sarebbe giunto lui stesso ad Alessandria con una numerosa artiglieria.

Durante la notte la brigata Genova, i dragoni del Re e un battaglione di federati armati occuparono la cittadella; fu issato sul pennone il tricolore italico, bianco, rosso e verde; fu proclamata la costituzione spagnola e si costituì una Giunta provvisoria di governo, di cui fecero parte il conte LUIGI BARONIS, il conte CARLO BIANCO di Saint-Jorioz, i dottori GIOVANNI APPIANI, URBANO RATTIZZI, GIOVANNI DOSSENA, l'avv. FORTUNATO LUZZI segretario e il colonnello ANSALDI, che assunse la presidenza e lanciò subito un proclama alla cittadinanza:

"Cittadini ! Lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra. La patria che ha gemito finora sotto il peso di obbrobriose catene, respira finalmente le auree soavi di fraternità e di pace. Cittadini ! L'ora dell'indipendenza italiana è suonata. La Costituzione di Spagna che nella notte del 9 di questo mese fu proclamata e giurata dal reggimento dei dragoni del Re, dalla brigata di Genova e dai Federati italiani, sarà l'unico Stato d'Italia grazie al Re e al popolo uniti con i più santi legami confluirà in una sola famiglia. Cittadini ! Non più ereditarie o figlie dell'arbitrio, ma elettive saranno le dignità; non avrà in questa prevalenza che il merito solo e solo nelle leggi risiederà tutta la potenza dello Stato. Questo nuovo codice di patti sociali basato sulla religione dei padri nostri, sarà nella sua sicurezza interna garante alla patria e servirà di barriera incrollabile e stabile contro qualunque temerario tentativo di falangi straniere.
Cittadini! Non lasciatevi traviare dai pochi sediziosi nemici della pubblica felicità; allontanate dal vostro cuore ogni sentimento di vendetta e gridate: Viva il Re! Viva la Costituzione di Spagna ! Viva l'Italia !".

Mentre l'Ansaldi riusciva a far trionfare la congiura ad Alessandria, inutilmente la tentava a Fossano il tenente colonnello conte MOROZZO di S. Michele di ripetere i fatti di Nola e dello "squadrone sacro"; era stato a Torino, dove aveva preso accordi con gli altri cospiratori. Tornato a Fossano riferì al suo colonnello che il re era minacciato da una sollevazione e gli chiese di affidargli uno squadrone per condurlo a Torino in difesa del sovrano. Egli invece pensava che una volta uscito da Fossano, di condurre i soldati ad Alessandria e unirli agli insorti. Il colonnello avvertì il ministro della guerra di esser pronto ad inviar truppe, ma gli fu risposto che non occorrevano altri soldati e così il disegno del Morozzo fallì.
Invece ad Asti giunse notizia che il Morozzo alla testa dei cavalleggeri di Piemonte, che avevano innalzato la bandiera carbonara, marciava alla volta di Alessandria e la medesima notizia arrivò a Torino. Poiché il moto era ormai iniziato, il SANTAROSA, il COLLEGNO, il SAN MARZANO e il LISIO stabilirono di non rimanere inoperosi, ma di assecondarlo, propagarlo e dirigerlo.
Il SAN MARZANO si recò a Vercelli, ma non gli riuscì a sollevare i dragoni della Regina, che furono trattenuti dal colonnello SAMBUY; il SANTAROSA e il Lisio si recarono a Pinerolo, convinsero ad unirsi trecento cavalleggeri, per marciare alla volta di Alessandria, raggiunti poi lunga la via dal San Marzano. Passando da Carmagnola (10 marzo), il Santarosa e il Lisio pubblicarono il seguente manifesto (che riportiamo integralmente e letteralmente):

"L'armata piemontese, nella gravità delle attuali condizioni d'Italia e del Piemonte, non può abbandonare il re all'influenza dell'Austria. Questa influenza impedisce al migliore dei principi di appagare i voti del suo popolo, che brama vivere sotto il regno delle leggi, e di vedere i propri diritti ed i propri interessi garantiti da una costituzione liberale: questa influenza funesta fa sì che Vittorio Emanuele se ne stia spettatore, ed approvi in certo modo la guerra mossa ai Napoletani dall'Austria, contro il sacro diritto delle genti, alfine di poter dominare con le sua brame tutta la Penisola, avvilire e spogliare il Piemonte, segno all'odio suo, perché non ancora all'Austria assoggettato. Due sono i nostri fini: mettere il re in grado di poter, seguire gli impulsi del suo cuore schiettamente italiano, e rivendicare al popolo la giusta e decorosa libertà di rivelare i suoi desideri al re, come figli ad un padre.
Se noi ci allontaniamo dalle leggi di militare disciplina, vi siamo costretti dal supremo bisogno della patria, e ne è guida l'esempio dell'armata prussiana che fece salva nel 1813 l'Allemagna con la spontanea guerra intrapresa contro l'oppressore. Ma noi giuriamo ad un tempo di difendere la persona del re e l'onore della sua corona contro qualsiasi nemico, seppure Vittorio Emanuele può avere altri nemici che quelli d'Italia".

Da Carmagnola, seguiti dalle milizie unitisi, il Santarosa e il Lisio si recarono ad Alessandria, dove entrarono il giorno 11; poco prima ne era uscito il governatore con le poche truppe rimastegli fedeli. Allora l'Ansaldi assunse il comando della divisione di Alessandria, il Collegno quello della fortezza e il Santarosa quello della guardia Nazionale.
A Torino la notizia che uno squadrone di cavalleria era partito da Fossano aveva messo in orgasmo il governo. Le truppe del presidio erano state predisposte alla difesa, quando si seppe che i fatti di Fossano non erano veri; giunse però poco dopo notizia dei fatti di Alessandria e di Pinerolo, a quel punto il re da Moncalieri fece subito ritorno alla capitale.

"La sera del 10 marzo, alla reggia fu riunito il consiglio della Corona; tutti - SCRIVE IL FARINI - erano indecisi, e non si prendeva nessuna delibera; avendo il conte BALBO invitato il principe di Carignano a manifestare il proprio parere, Carlo Alberto disse al Re che si erano lasciate andar le cose fino a un punto che gli pareva necessario ora fare la promessa di qualche concessione per calmar gli animi. Il conte Balbo ed il conte Valesa sostennero questa proposta. Il Conte SALUZZO e il marchese BRIGNOLE tacquero, tutti gli altri del consiglio, che erano il conte di ROBURENTE, il conte LODI ministro di polizia, il conte di REVEL governatore della città, ed il conte della VALLE, che, assente il San Marzano, reggeva il ministero delle relazioni esterne, espressero il loro parere in senso contrario. Il re dichiarò che non avrebbe fatto nessuna concessione; ed il consiglio terminò senza aver preso alcuna decisione o firmata una delibera".

Ma Vittorio Emanuele non poteva rimanere spettatore passivo di un movimento rivoluzionario, e quindi fece preparare il seguente proclama in cui tre cose voleva mettere in evidenza: l'accordo tra il sovrano e Carlo Alberto; l'integrità territoriale dello stato assicurata dalle potenze europee; il pericolo dell'intervento austriaco se l'ordine non veniva subito ristabilito.
"Le inquietudini che si sono sparse hanno fatto prendere le armi ad alcuni corpi delle nostre milizie. Noi crediamo che basti far conoscere il vero affinché le cose ritornino nella quiete. La tranquillità non è turbata nella capitale, dove noi siamo con la nostra famiglia e con il nostro dilettissimo cugino, il principe di Savoia Carlo Alberto Carignano, che ci ha dato non dubbie prove del costante suo zelo. Falso è (ma era vero! Ndr.) che l'Austria ci abbia chiesto alcuna fortezza ed il licenziamento d'una parte delle nostre milizie. Noi siamo anzi rassicurati da tutte le principali potenze della nostra indipendenza e della integrità del nostro territorio. Ogni movimento non ordinato da noi sarebbe l'unica ragione che, nonostante il nostro immutabile dovere, potrebbe condurre le forze straniere dentro i nostri stati e produrvi infiniti mali. Assicuriamo tutti coloro i quali hanno preso parte nei movimenti finora seguiti, e torneranno presto alle loro stazioni sotto la nostra obbedienza, che conserveranno i loro impieghi ed onori e la loro grazia reale".

La mattina del giorno 11 marzo, il capitano VITTORIO FERRERO, alla testa di un centinaio di soldati, proveniente da Carignano, si presentò davanti l'ospizio di San Salviano, fuori la Porta Nuova di Torino, spiegando la bandiera tricolore della Carboneria e chiedendo ad alta voce la costituzione di Spagna e la guerra all'Austria. Un centinaio di studenti con armi varie si unì al Ferrero e una gran folla si raccolse curiosa a guardare lo spettacolo, mentre allo stesso tempo i reggimenti Guardie e Piemonte Reale si schieravano presso i ribelli e le altre truppe del presidio prendevano posizione nei punti strategici della città. Un solo incidente si verificò, per fortuna non grave: il colonnello RAIMONDI, presentatosi ai soldati ribelli per arringarli e ricondurli all'obbedienza, fu ferito lievemente alla faccia da una pistolettata tiratagli dallo studente NICCOLINI; tranne quest'episodio, la calma più grande regnò nella capitale né le truppe fedeli al re, che contavano cinquemila uomini, tentarono di cacciare o arrestare - e lo avrebbero potuto facilmente fare - i ribelli.
Questi evidentemente speravano con la loro presenza di trascinare con sé il presidio della città e di provocare un movimento nei Torinesi. Visto inutile il tentativo, i soldati del Ferrero e gli studenti, verso sera, attraversarono il Po e marciarono su Chieri e quindi su Asti, accolti con entusiasmo dalla popolazione in entrambe le due città.
La notte dell'11 marzo, passò tranquilla e Vittorio Emanuele, che per ben due volte aveva avuto l'idea di mettersi alla testa dell'esercito fedele e marciare su Alessandria, ritenne che il pericolo era ormai passato. Con la corte, il Re riprese animo, poi si aggiunse la bella notizia che portava con il suo ritorno da Lubiana, il marchese di San Marzano, ministro degli Esteri, che comunicava essere fermo proposito della Santa Alleanza di opporsi con la forza al tentativo delle popolazioni d'Italia di ottenere la costituzione spagnola.
(Pochi giorni prima (il 23 febbraio) da Lubiana, mentre l'esercito austriaco marciava su Napoli, ed era già a Rieti, Ferdinando, aveva letto il suo proclama ai suoi sudditi di accogliere l'armata austriaca nel suo regno come una "forza che agisce soltanto per il vero interesse del Regno").

A quella notizia (il proclama, e i 100.000 austriaci in marcia) il Re preparò e fece divulgare il suo proclama (che riportiamo integralmente e letteralmente):

" Dal giorno che è piaciuto a Dio di richiamarci al governo di questi stati di Terraferma, noi abbiamo in tutte le cose cercato di mostrare ai nostri sudditi gli affetti del nostro cuore paterno. E singolarmente noi ci siamo adoperati a mantenere fra i sudditi l'amore della unione e della concordia e di rimuovere ogni occasione di odi, di rancori o di parti. A questi sensi hanno corrisposto i nostri sudditi; ed è stato loro vanto e di noi, e l'ammirazione dell'Europa, che in mezzo a tante turbolenze straniere, mai è stata fin qui turbata la tranquillità di queste felici province. E fin da principio noi ci siamo compiaciuti nel distinguere con singolari dimostrazioni di affetto verso i nostri sudditi militari. Da parte dei nostri sudditi avemmo e tutt'oggi abbiamo non dubbie prove di valore e di fedeltà. Ma oggi, mentre è ferma la devozione delle nostre province e del nostro esercito, persiste il alcuni drappelli di militari l'atteggiamento di un'aperta disubbidienza, hanno abbandonato i loro capi e si sono rinchiusi nella cittadella di Alessandria, con un colpevole disegno, cui non hanno valuto rinunciare anche con il nostro primo amorevole invito. " Noi vediamo con indicibile dolore il pericolo che la colpevole ostinazione di pochi, sottrae non solo la nostra tranquillità ma la sorte stessa e l'indipendenza della patria. Nell'atto che rimettiamo, noi e la causa nostra al sostegno della Providenza Divina, noi raccomandiamo la fermezza dei nostri fedeli sudditi, e a tutti, noi mossi da coscienza e da affetto paterno, qui dichiariamo: " Che una recentissima, una schietta ed unanime deliberazione delle grandi potenze nostre alleate, ha deciso che mai, in nessun caso, verrà da nessuna di loro approvato e tanto meno appoggiato, un atto che tende a sovvertire i legittimi ordini politici esistenti in Europa.
" Che anzi a mano armata le tre potenze austriaca, russa e prussiana si faranno vindici (vendicatori) di ogni attentato contrario alla conservazione degli ordini medesimi.
" In questa condizione di cose da loro deliberate, da parte nostra siamo fermamente risoluti a non promettere, a riconoscere e tanto meno a operar cosa da cui possa nascere occasione di invasione straniera; costanti nel proposito di usare ogni mezzo che non si sparga sangue dei nostri amati sudditi, noi qui diamo questo sfogo al nostro oppresso paterno animo, rendendo noto a tutta l'Europa, che sarebbe colpa dei sovvertitori degli ordini legittimi, se un armata non nostra venisse a mostrarsi dentro i confini del nostro stato; oppure se -e inorridiamo a pensarlo- la discordia civile venisse a flagellare il nostro popolo, che abbiamo tenuto sempre e che non cesseremo mai di tenere come una parte amatissima della nostra famiglia".

Questo proclama, che la mattina del 12 marzo era già stampato, non fu poi nemmeno fatto circolare, perché anche nella capitale, che fino allora era rimasta tranquilla, ci fu una ribellione militare, seguita dal pronunciamento della costituzione, che aggravò improvvisamente la situazione. A quel punto non occorreva più un semplice manifesto ma bisognava correre ai ripari, gli eventi a giudizio della corte richiedevano azioni pronte ed energiche.

Nel pomeriggio del 12 marzo, tre colpi di cannone sparati dalla Cittadella annunciavano alla città che la rivoluzione era giunta anche a Torino, mentre Ivrea, Vercelli, Casale, Asti, insorgevano, e numerosi carbonari invadevano le vie sventolando il tricolore, davanti ad una popolazione che guardava, o si univa negli schiamazzi, senza nemmeno capire cos'era, il costituzionalismo, cos'era la libertà che si gridava a destra e a manca.
A Torino si distribuivano ai cittadini 20.000 copie della Costituzione di Spagna, affermando che era stata accettata da Carlo Alberto. Ma non c'erano ventimila cittadini che sapevano leggere. Né sapevano chi era in grado di farlo, cosa serbava il futuro.


A Milano gli austriaci, lo sapevano già cosa c'era nel futuro. Le truppe della guarnigione, all'alba del 13 marzo, già marciavano verso la sponda lombarda del Ticino, al confine del Piemonte.
La "Rivoluzione" questa volta "Piemontese"
voleva il suo bagno di sangue; e il Piemonte la ebbe!

continuiamo con il fatidico anno 1821
con Carlo Alberto che giura e spergiura > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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