ANNI 1821 - 1822

AUSTRIACI IN ITALIA - LA REAZIONE - LE CONDANNE -
TEMPI DIFFICILI PER GLI INTELLETTUALI

IL LOMBARDO VENETO - LA "BIBLIOTECA ITALIANA", IL "CONCILIATORE" E "L'ATTACCABRIGHE" - I CARBONARI DI FRATTA - IL PROCENSSO MARONCELLI-PELLICO - LA DELAZIONE DI CARLO CASTILLIA - IL PROCESSO CONFALONIERI-PALLAVICINO - LA CONGIURA BRESCIANA - IL GENERALE ZUCCHI - IL PROCESSO MANFREDINI-ALBERTINI - GLI STUDENTI DI PAVIA - TERESA CONFALONIERI-CASATI - LO SPIELBERG

 

Gli austriaci scesi in Italia, dopo aver marciato sul Piemonte e schiacciate a Novara le forze costituzionaliste (7-8 aprile); dopo aver marciato e occupata Napoli pochi giorni prima (24 marzo); si scatenano - loro e i loro alleati, con il Sabaudo fra i più zelanti - nella repressione, con gli arresti, le condanne capitali e la persecuzione delle società segrete, patriottiche, liberiste; soprattutto a Milano in quell'ambiente intellettuale che oltre occuparsi di teorie letterarie e diffondere i lumi del nuovo secolo, in varie pubblicazioni con alcuni articoli propagandavano il liberalismo; e proprio per questo motivo i periodici e i vari collaboratori, caddero nel mirino della censura politica, ecclesiastica e nelle più feroci azioni repressive della polizia austriaca.
Furono tempi difficili per i patrioti e per ogni letterato ("romantico" fu riconosciuto sinonimo di "liberale") che con i suoi scritti, a parte le manifestazioni artistiche, propagandava nelle correnti sotterranee, le grandi ideologie, le virtù sociali, la libertà, e cercava di creare una coscienza nazionale con una nazione unita, capace di contrapporsi a quelle potenze assolutiste che prima pretendevano di liberare le popolazioni e poi opprimere.
Repressioni vane e persecuzioni inutili, perché il movimento d'idee e della sensibilità era ormai ampio e profondo; idee nelle quali individui, gruppi, classi, club, "partiti" clandestini, proiettavano le proprie aspirazioni, e prendeva corpo il sentimento dell'appartenenza nazionale. Idee non ancora concretizzate, ma che si appellavano ai sentimenti personali più profondi dei singoli individui o dei gruppi, e che inconsciamente davano il diritto -a tutti- di sognare.
Al consolidamento dell'aspirazione alla democrazia, non erano estranei appunto i gruppi, le sette, le società segrete, i club (detti rivoluzionari al nord, briganti al sud)- che abbiamo già menzionati nelle precedenti puntate, dai nomi epici, mistici, retorici o pittoreschi- ma che furono tuttavia protagonisti dei prossimi accadimenti, molto spesso pagando alti tributi di sangue. E sono anche il primo abbozzo di un nuovo concetto moderno dei partiti politici che stanno per nascere, che prenderanno coscienza anche delle distinzioni interne, ma sempre - e per la prima volta- con i sentimenti dell'appartenenza nazionale.
Certo, c'erano deviazioni, improvvisi trasformismi, tradimenti, e ci sono ancora oggi alcuni, che legati ad altre ideologie, ci diranno, e imporranno in certi casi una "certa storia", raccontandoci che erano scellerati rivoluzionari, nefandi giacobini, delinquenti sovversivi, poi li chiamarono briganti, poi banditi, e nei tempi moderni , estremisti, dinamitardi, terroristi.
Tuttavia le prime battaglie nascono in questi anni, su campi di guerra (che poi era la propria piazza della città o del proprio villaggio) pieni di caduti, impiccati, fucilati, torturati, perseguitati. Non possiamo nominarli tutti, perché erano schiere, ma molti di loro (qualche centinaio) qui, in queste pagine e nelle prossime, li citeremo.
Se erano delinquenti, per alcuni (per i Savoia erano tali - vedi i suoi proclami) per altri erano invece patrioti.
Il lettore può giudicare; certo che se è fra quelli che dai reazionari ha ricevuto benefici, e li gode ancora oggi, il giudizio sarà ben diverso dagli altri che i benefici li ambivano solo per i loro meriti e non con il servilismo di stampo feudale.

(Ma in questo e nel successivo "riassunto", oltre i nomi soffermatevi (perchè anche questo è molto importante per giudicare) sulle loro professioni: c'erano conti, marchesi, baroni, preti, ufficiali dell'esercito, commercianti, industriali, letterati, grandi scrittori e scienziati, ma anche formai, sarti, avvocati, notai, professori universitari, sartine, macellai, calzolai, e studenti. Insomma non era quella "accozzaglia di rivoluzionari felloni" come li chiamava Sua Maestà Carlo Felice.

IL LOMBARDO VENETO - LA "BIBLIOTECA ITALIANA",
IL "CONCILIATORE" E "L'ATTACCABRIGHE"

L'Austria chiamava col nome di Regno Lombardo-Veneto tutta quella parte d'Italia settentrionale che era sotto il suo dominio, e cioè il Veneto, la Valtellina e i ducati di Milano e di Mantova. Il Regno, apparentemente, era autonomo; lo reggeva un viceré, che dal 1816 al 1818 fu l'arciduca ANTONIO e poi l'arciduca RANIERI, fratelli entrambi dell'imperatore FRANCESCO; e aveva due "congregazioni centrali", una a Milano e l'altra a Venezia, e diciassette "congregazioni provinciali" con poteri consultivi in materia d'amministrazione; ma in realtà non era che una parte dell'impero dipendente da Vienna. II governo del Lombardo Veneto era naturalmente, assoluto. Esso non concedeva nessuna libertà politica, esercitava un'oculata sorveglianza sulla stampa, cercava di cancellare tutto quello che poteva ricordare la rivoluzione, ma si può anche affermare che era mite, amministrativamente onesto e non ancora crudele e poliziesco come, per reagire ai moti liberali, sarà più tardi.
L'Austria cercava con un paterno governo e con il procurare il benessere materiale, di accattivarsi la benevolenza dei sudditi, e, poiché i più pericolosi erano gl'intellettuali, tentava di avere in suo favore gli ingegni migliori, sia perché non osteggiassero la sua politica sia perché sostenessero con la loro opera quella del regime.

Una bandiera intorno alla quale sperava di raccogliere i letterati doveva essere una rivista: la "Biblioteca italiana". Di questa rassegna che doveva "rettificare le opinioni erronee sparse in tutte le forme del cessato regime", divulgare in Italia la conoscenza della letteratura tedesca, allontanare le nuove generazioni dal culto della romanità e i letterati dalla politica, fu offerta la direzione, con un lauto stipendio, al FOSCOLO; ma il grande poeta e patriota non volle vendere la sua penna al nemico d'Italia e -pur senza mezzi. prese la via dell'esilio (l'abbiamo già narrato in una precedente riassunto - e vedi anche Letteratura Napoleonica).
Prese allora la direzione il mantovano GIUSEPPE ACERBI e la "Biblioteca italiana" apparve nel 1816, strumento della tirannide, tra i cui collaboratori furono scrittori valentissimi quali il MONTI (che aveva già cambiato bandiera tre volte), il GIORDANI, il BOTTA, il CESARI, il PERTICARI, il GHERARDINI, il LANCETTI, l'AMBROSOLI, il ROMAGNOSI, il GIOIA, il PELLICO, il BARZONI e lo ZAJOTTI.

Alcuni di questi, quando violentissima scoppiò la lotta (piuttosto pretestuosa) tra classici e romantici, si ritirarono. Il PELLICO, nel settembre del 1818, fondò, insieme con PIETRO BORSIERI e LODOVICO DI BREME e con il concorso pecuniario dei conti LUIGI PORRO LAMBERTENGHI e FEDERICO CONFALONIERI, "il Conciliatore", che in apparenza aveva l'intenzione di conciliare le due opposte scuole, ma in sostanza il suo scopo - come il Pellico stesso confessa - era "la diffusione dei lumi, almeno in teorie letterarie che pur tanto sono legate con la filosofia e con il propagamento delle virtù sociali".

Il giornale si chiamava anche "Foglio azzurro" dal colore della carta, si stampava nella tipografia di Vincenzo Ferrario ed usciva due volte la settimana, trattando economia politica, statistica, agricoltura, scienza, commercio, critica letteraria ed arte. I suoi collaboratori, oltre i citati fondatori, erano SISMONDO DE' SISMONDI, il conte LUIGI SERRISTORI, il marchese RIDOLFI, OTTAVIANO MOSSOTTI, GIAN DOMENICO ROMAGNOSI, MELCHIORRE GIOIA, GIOVANNI RASORI, PELLEGRINO ROSSI, ADEODATO RESSI, GIOVANNI BERCHET, GIUSEPPE LUIGI PECCHIO, GIOVITA SCALVINI, GIOVANNI ARRIVABENE, ERMES VISCONTI, GIAMBATTISTA DE CRISTOFORIS, GEROLAMO PRIMO, GIUSEPPE NICCOLINI, CAMILLO UGONI, GIUSEPPE MONTANI, FRANCESCO CARLINI, RODOLFO VANTINI e GIOVANNI TORTI.
La censura politica ed ecclesiastica rese quanto più possibile, difficile la vita al periodico e il governo, per combatterlo meglio, gli oppose un giornaletto poliziesco, l' "Accattabrighe", di cui uscirono soltanto tredici numeri. "La polizia, - scrisse il Pellico - irritata dalla nullità dell'"Accattabrighe", negò i fondi e quella sudiceria cessò di esistere. Lo sdegno del pubblico contro quel foglio era all'estremo. Le provocazioni da noi sofferte, i ritardi posti all'uscita del "Conciliatore" dalla doppia Censura, la voce continua che stavamo per essere soppressi apersero gli occhi anche ai più ciechi, e romantico fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classici che gli ultra e le spie".

Naturalmente, il "Conciliatore", sospettato di liberalismo, non poteva aver vita lunga, e nell'ottobre del 1819, dopo 118 numeri, fu soppresso. Allora i liberali cercarono uno sfogo alle loro attività nelle scuole lancasteriane, allo scopo di propagare la cultura in mezzo al popolo, e si occuparono di navigazione a vapore, di telegrafi, d'illuminazione a gas e di problemi economici, però sempre tenuti d'occhio dalla polizia.
Già quando il"Conciliatore" aveva appena visto la luce da appena due mesi, la polizia austriaca scoprì una vendita carbonara a Fratta Polesine. Chi aveva diffuso la Carboneria nel Polesine era stato il dottor FELICE FORESTI di Conselice, giudice di pace a Crespino, il quale, mandato proprio dal governo in Romagna per indagare sui Concistoriali, era diventato carbonaro. Chi la fece involontariamente scoprire fu l'affiliato ANTONIO VILLA, benestante di Fratta, che fra le libagioni di una cena inneggiò imprudentemente a "Napoleone, all'Italia, e alla libertà". (una bestemmia insomma).
Arrestato, il Villa fece dei nomi, causando l'arresto del dottor Foresti, che, persosi d'animo, rivelò anche lui nomi e fatti, si offrì come spia e con il Villa invocò l'applicazione dell'articolo sulla impunità dei pentiti, che però non fu concessa.

Dietro le rivelazioni del Villa e del Foresti, la polizia trasse in arresto ANTONIO SOLERA milanese, pretore di Lovera, il conte FORTUNATO OROBONI, il prete MARCO FORTINI e GIOVANNI MONTI di Fratta, GIOVANNI BACCHIEGA e il dottor VINCENZO CARAVIERI di Crespino, il marchese GIAMBATTISTA CANONICI e GIUSEPPE DELFINI di Ferrara, COSTANTINO MUNARI di Cento, PIETRO RINALDI di Casalnuovo e FRANCESCO CECCHETTI di Rovigo.

Ma non furono soltanto questi tredici gli arrestati. Su altri ventuno, mise addosso le mani la polizia, e nel novembre fu incaricata del processo una Commissione speciale di cui era membro ed inquisitore il trentino ANTONIO SALVOTTI, intelligente e fedele magistrato imperiale.
La sentenza fu emessa nel settembre del 1820, e condannava a morte il Villa, il Foresti, l'Oroboni ed altri cinque imputati, ma il Senato Supremo di Verona estendeva la pena capitale ad altri cinque cospiratori. Due furono assolti - diciannove condannati a pochi mesi di carcere. Le pene capitali però furono commutate dall'imperatore nel carcere duro, da venti a sei anni, in conformità a quanto aveva scritto il SALVOTTI, che cioè "il solo primo atto preparatorio, che esisteva un remotissimo tentativo d'alto tradimento; i soci non avevano impressa che la prima orma sul sentiero delittuoso della rivoluzione, per la quale non avevano né un piano predisposto, né armi disponibili, né fondi di cassa raccolti, né intelligenze stabilite con esteri governi; tutto si riduceva a vaghe opinioni, a chimerici sogni, e perciò lo stesso delitto in genere poteva meritare i riguardi della sovrana clemenza"

Il Foresti e il Villa furono tra i condannati alla pena maggiore. Il primo languì quattordici anni nelle segrete dello Spielberg e, uscitone, scrisse i suoi "Ricordi"; il secondo morì dopo cinque anni di carcere duro. Giovanni Bacchiega, nobile figura di patriota, scontò dodici anni di prigionia e ripetutamente si rifiutò di supplicare il sovrano per ottenere il condono degli ultimi due anni di pena, esclamando una volta che era stato consigliato a fare istanza: "Io non voglio favori dall'Imperatore, li ricuso".


IL PROCESSO MARONCELLI-PELLICO

Il 20 agosto del 1820, il governo austriaco pubblicava una notificazione con la quale minacciava la pena di morte a coloro che appartenessero a società segrete e in particolare alla Carboneria, e l'ergastolo a chi non aveva denunciato i settari.
Mentre queste minacce erano pubblicate, a Milano si lavorava per costituire una vendita carbonara. L'uomo che se ne occupava era il ventiquattrenne PIETRO MARONCELLI di Forlì, maestro di musica e letterato, spirito irrequieto ed avventato, che da parecchi anni era affiliato alla Carboneria ed anzi, arrestato in Romagna e condotto in carcere a Roma, aveva già subito un processo politico ed era stato assolto.
Giunto a Milano nell'agosto del 1819, aveva stretto amicizia con il saluzzese SILVIO PELLICO, allora precettore in casa del conte PORRO e noto come autore dell'applaudita "Francesca da Rimini" e redattore del già soppresso "Conciliatore". Si erano conosciuti in casa delle due celebri attrici CARLOTTA e TERESA MARCHIONNI, di cui entrambi erano innamorati, e il Maroncelli aveva iniziato alla Carboneria il Pellico alla presenza del romagnolo conte CAMILLO LADERCHI, studente all'Università di Pavia.
Mancando a Milano una vendita, i tre si diedero attorno per costituirne una, iniziando il conte Porro e il comico torinese ANGELO CANOVA. Il 30 settembre Pietro Maroncelli scrisse al fratello Francesco, medico a Bologna, pregandolo di mandargli l'occorrente per la fondazione di una vendita. La lettera era scritta in un linguaggio convenzionale, purtroppo però di non difficile interpretazione. In questa il giovane maestro di musica, dopo aver detto al fratello di aver bisogno del necessario per l'impianto di un'industria, parlava di speculazioni commerciali e di "una regolare stanza di consiglio scientifico che si voleva fondare con uomini prudenti e sapienti…" e faceva i nomi del Romagnosi, del Gioia, del Ressi, del Porro, del Gonfalonieri, del Visconti-D'Aragona, del Pellico, dei Generali Lecchi e Galimberti, del colonnello Omodei e del medico Rasori. Diceva inoltre che Angelo Canova aveva ricevuto dai cugini Pellico, Confalonieri e Porro l'incarico di procurarsi alcuni libri e Francesco Maroncelli era pregato di ordinarli al libraio bolognese Penna.
La lettera fu affidata al sarto siciliano GIOVANNI PIROTTI, ma cadde nelle mani della polizia e il 6 ottobre furono arrestati il Maroncelli e il Laderchi. Quest'ultimo, riuscendo a bruciare le carte compromettenti, fu rimesso in libertà e, poiché era suddito del Pontefice, fu espulso dal Regno Lombardo-Veneto.
Il MARONCELLI, interrogato, si difese in un modo veramente strano. Non potendo negare, poiché i documenti sequestratigli parlavano chiaramente, dichiarò che agiva a vantaggio dell'Austria alla quale la Carboneria voleva unire il Piemonte e le Romagne; e con molta ingenuità per comprovare le sue asserzioni facendo i nomi del Pellico, del Canova e di altri.
Il Salotti (il magistrato inquisitore austriaco) non era uomo da lasciarsi infinocchiare dalle panzane del Maroncelli. Il 13 ottobre 1820 fu arrestato il Pellico; molto più tardi, dietro richiesta del governo austriaco, fu dalle autorità pontificie consegnato il Laderchi alla polizia imperiale; nella primavera del 1821 furono tratti in arresto il Romagnosi, il Ressi, il Rezia, l'Arrivabene e il Canova. Mentre il conte Porro e altri riuscirono a fuggire in tempo.
Il processo, cominciato a Milano, ebbe termine a Venezia. Il Maroncelli, abbandonato il suo sistema difensivo che non poteva assolutamente reggersi, confessò ogni cosa, esponendo fatti e rivelando nomi, inconsapevole del male che faceva agli altri, e non per ottenere l'impunità, né mosso da paura, il che è escluso dallo stesso SALVOTTI, il quale scrisse: "È a lui che dobbiamo quelle ampie rivelazioni che tutte o almeno nella massima parte ci hanno permesso di scoprire la propagazione della sètta negli Stati pontifici e i suoi membri, i suoi capi, i suoi piani. È a lui che dobbiamo la scoperta di tutti i suoi complici in questo regno, ed è a lui che dobbiamo l'intero sviluppo cui fu condotta l'inquisizione ricevere".

Il Maroncelli sperò che il governo austriaco non avrebbe infierito contro di lui e tenuto conto delle rivelazioni; e fa davvero pena leggere queste parole da lui scritte in un momento di spiegabile ma inscusabile debolezza, il cui ricordo per fortuna sarà cancellato dal contegno nobile e fermo tenuto nella fortezza dello Spielberg:
"Io dunque sono disposto a dichiarare come veramente stanno le cose, sperando che ciò che dirò,il clementissimo Governo si degnerà di considerare la mia situazione e quella particolarmente del mio sangue, e di concedere a me ed al mio fratello quei riguardi di cui l'uomo pentito del suo traviamento può lusingarsi e dei quali mi renderanno meritevole le rivelazioni che starò per fare".

Meglio assai si comportò Silvio Pellico che continuò a negare anche quando il Maroncelli aveva confessato tutto. La situazione del Pellico peggiorò improvvisamente quando, nel marzo del 1821, fu arrestato il Canova, il quale ammise che il Maroncelli lo aveva iniziato alla Carboneria, dichiarò candidamente che "avrebbe visto con piacere tutta unita l'Italia, persuaso che ciò sarebbe stato più utile a tutti" e affermò che anche il futuro autore delle "Mie prigioni" era carbonaro.

Dopo le deposizioni a suo carico del Maroncelli e del Canova, la prova legale contro di lui era raggiunta secondo le prescrizioni del codice austriaco che richiedeva l'accusa di due persone. Il Pellico avrebbe potuto continuare a mantenersi sulla negativa per tentare di essere assolto o almeno per sfuggire alla pena capitale che soltanto ai rei confessi poteva essere inflitta; invece, dopo sei mesi di lotte sostenute con i suoi inquisitori, cedette al prepotente bisogno di confessare e il 17 aprile del 1921 scrisse al Salvotti la famosa e fatale lettera che riportiamo:

" La mia fermezza sarebbe forse stata invincibile, se la voce dell'amicizia e dell'amore non si sollevasse potentemente nel mio cuore contro il sistema che io avevo preso di negar tutto. Accusare due uomini onesti di aver detto il falso sarebbe un vero delitto, che la mia coscienza non mi perdonerebbe mai, quand'anche con la mia ostinazione io avessi trionfato. V' è qualche piccola inesattezza nella deposizione di Maroncelli, né vi sarà su ciò contestazione perché egli ne converrà. Sono sette mesi che gemo dolorosamente sul mio fallo, ma nessun giorno è mai stato così orribile per me come quello di ieri. Resistere insieme alla ragione e alla coscienza e alle generose esortazioni che, con tanta pazienza, si aveva la bontà di farmi; compiere il terribile sforzo di mostrarmi imperterrito negando così a lungo il vero, fu un tal travaglio di mente e di fibre, che ho creduto di restarne convulso per tutta la mia vita. Mi abbandono ai miei Giudici. Ho sentito che nessun castigo può agguagliarsi a ciò che soffre l'uomo d'onore che si avvilisce mentendo".

Con le sue confessioni il Pellico chiamò in causa il conte PORRO e il conte ARRIVABENE. Quest'ultimo ammise che il Pellico, durante una festa nella sua villa della Zaita, gli aveva detto di essere carbonaro, ma egli aveva creduto che si trattasse di uno scherzo e perché tale non ne aveva fatto denuncia come voleva l'editto del 20 agosto.
Del ROMAGNOSI il Pellico disse fra l'altro di essersi presentato a lui per attirarlo nella setta, ma di averne ricevuto un rifiuto. Il Romagnosi, smentì vivacemente il Pellico, dichiarando di non averlo mai conosciuto e sfidandolo a venirgli di fronte; ma l'altro, pur confermando le sue asserzioni, rifiutò il confronto, e l'accusa rimase priva di fondamento giuridico.
Chi accusò il prof. RESSI fu il LADERCHI, suo discepolo, il quale spontaneamente narrò di aver più volte parlato con lui di Carboneria e di averlo invitato a nome del Porro e del Pellico, ad entrar nella setta.
"Il Professore mi rispose che aveva ben piacere che noi ci occupassimo di quella cosa, ma che in quanto a sé non voleva prender parte, poiché aveva già troppo sofferto ed era troppo osservato dal governo: che tuttavia gliene avremmo potuto parlare con sicurezza e senza riguardi. Allorché poi fui scarcerato, rimasi un giorno e mezzo a Milano: andai a visitare il prof. Ressi e gli raccontai sinceramente quanto era successo e come aveva potuto schermirmi nell'inquisizione".

Il RESSI ammise i discorsi che gli aveva fatti il Laderchi: "Mi svelò che lui e Maroncelli appartenevano appunto alla Carboneria. Mi fece anche intravedere come pensavano di diffonderla a Milano e come forse contassero anche sulla mia adesione. Cosa dovevo io fare in quel momento? Operai nel modo che mi era suggerito dalla ragione, disapprovai quell'imprudente trasporto di Laderchi. Pensando al dolore che avrebbe cagionato ai suoi genitori, io lo consigliai a non impicciarsi di cose così pericolose in uno Stato estero e gli feci in questo modo comprendere come io, ben lontano dall'approvare le sue idee, non le avrei sicuramente favorito".

Il LADERCHI, messo a confronto con il Ressi, confermò risolutamente la propria deposizione. Il Ressi ammise di esser colpevole per non aver denunciato il Laderchi come carbonaro, ma si scusò affermando che i suoi principi di onore gli vietavano di denunciare un suo discepolo.
Anche ALFREDO REZIA era accusato di omessa denuncia; ma dichiarò che, in qualità di ex-militare, non avrebbe mai denunciato nessuno; poi confessò che era venuto un certo Bonelli a parlargli per incarico del Pellico, ma sostenne che quello non gli aveva detto di essere carbonaro. Richiesto intorno ai suoi sentimenti politici, il Rezia rispose: "Non dissimulo che avrei visto con piacere l'Italia soggetta ad un solo Re".
Nella sua requisitoria il Salvotti chiese la pena di morte per il Pellico, il Maroncelli e il Canova, quella del carcere perpetuo per il Ressi e l'assoluzione, per insufficienza di prove per il Romagnosi, l'Arrivabene e il Rezia. La Commissione speciale di prima istanza, il 10 agosto 1921, accettò le proposte riguardanti il Pellico, il Maroncelli e il Ressi e prosciolse il Canova, il Romagnosi, il Rezia e l'Arrivabene. Il 9 settembre, la Commissione di seconda istanza prosciolse anche il Ressi; ma il 6 dicembre, il Cesareo Regio Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia, residente a Verona, dichiarò il Pellico, il Maroncelli e il Canova rei d'alto tradimento condannandoli a morte, dichiarò il Ressi, di Cervia, e il Rezia, di Bellaggio, correi del delitto d'alto tradimento e li condannò al carcere duro a vita; assolse il Romagnosi e l'Arrivabene. Quest'ultimo se ne tornò a Mantova, ma, non sentendosi sicuro, nell'aprile del 1822 prese la via dell'esilio.

Il 21 febbraio fu pubblicata la sentenza, che diceva fra l'altro:
"Subordinati gli atti con le relative sentenze a Sua Sacra Cesarea Regia Maestà Apostolica, la Maestà Sua con veneratissima Sovrana Risoluzione del 6 febbraio 1822, si è clementissimamente degnato dì condonare in via di grazia al Maroncelli, al Pellico, al Canova la meritata pene, di morte, ed al Ressi ed a Giacomo Alfredo Rezia quella del carcere duro a vita, ed ha invece ordinato che debbono subire la pena del duro carcere il Maroncelli per 20 anni, il Pellico per quindici, il Canova e Ressi per cinque, il Rezia per tre, tutti in una fortezza; quelli condannati ad un carcere più lungo, cioè Maroncelli e Pellico sullo Spielberg, e quelli condannati per un tempo minore e cioè Canova, Ressi e Rezia nel castello di Lubiana; in quanto a Adeodato Ressi la disposizione non è attesa per la di lui morte naturale dopo l'ultima sentenza avvenuta. Scontata la pena, i delinquenti che sono sudditi esteri, saranno banditi".

IL PROCESSO CONFALONIERI - PALLAYICINO
LA CONGIURA BRESCIANA - IL GENERALE ZUCCHI
IL PROCESSO MANFREDINI - ALBERTINI - GLI STUDENTI DI PAVIA
TERESA CASATI GONFALONIERI - LO SPIELBERG

Dopo quello di Pellico-Maroncelli un altro famoso processo si tenne subito dopo: quello GONFALONIERI-PALLAVICINO. Federico Confalonieri, di cui ci siamo occupati parlando della fine del Regno Italico e dei tumulti milanesi del 1814, "era di quelli - scrive il D'ANCONA - che per natura e per proposito di vita agli altri sovrastano; sicché le moltitudini, secondo le capricciose loro voglie, miravano a loro come a vessilli da seguire o a bersagli da colpire"

Avverso agli stranieri, fossero essi Francesi o Austriaci, e bramoso dell'indipendenza della patria, nei suoi viaggi in Francia, in Inghilterra e in Italia prese contatto con i più ardenti liberali stranieri e nostrani; nel 1818 a Londra entrò nelle file della Massoneria, tornato a Milano cooperò alla pubblicazione del "Conciliatore", alla fondazione di scuole popolari, alla navigazione a vapore del Po e, come era stato il capo degli Italici puri, cosi fu il capo autorevole dei Federati lombardi. Grandissima fu l'attività del Confalonieri nel 1820 e nel 1821 e noti sono i rapporti da lui avuti con i liberali piemontesi e con il principe di Carignano Carlo Alberto, dal quale ricevette messaggi nel dicembre del 1820 e nel febbraio dell'anno dopo; sperando l'arrivo in lombardia dell'esercito piemontese, raccolse denari, organizzò i quadri di una Guardia nazionale e predispose una Reggenza e un Ministero che dovevano assumere il governo del Lombardo-Veneto appena Carlo Alberto fosse giunto a Milano.

Sebbene il Confalonieri fosse tenuto d'occhio dalla polizia, che, dopo l'arresto del Maroncelli e del Pellico, guardava attentamente tutti i sospetti di liberalismo, tuttavia i suoi maneggi non sarebbero stati scoperti senza il tradimento di un federato milanese.

Si chiamava questi CARLO CASTILLIA. Sollecitato da GIULIO PAGANI, agente politico del Governo austriaco, nell'aprile del 1821 il Castillia indirizzò alla polizia una lettera anonima, con la quale denunciava un convegno avvenuto negli ultimi giorni di febbraio in una casa di S. Siro, presso Milano, dove - secondo il delatore - avevano partecipato alcuni giovani della nobiltà e della borghesia capitanati dal conte GIUSEPPE PECCHIO, che si era già messo in salvo.

Non sappiamo se, oltre quello del Pecchio, il Castillia abbia fatto i nomi degli altri convenuti, che erano il marchese BENIGNO BOSSI, il conte GIOVANNI ARRIVABENE, PIETRO BORSIERI di Koenilfeld e il denunciatore medesimo; si sa però che nella lettera erano rivelati i motivi del convegno, durante il quale si erano presi gli opportuni accordi per la prossima invasione dei Piemontesi. La polizia non tenne gran conto di quella denuncia sia perché era anonima, sia perché il Pecchio non era più a Milano, ma, cercando un sigillo con il motto "Leggi e non Re-l'Italia c'è" in una perquisizione in casa di Gaetano Castillia, fratello di Carlo, trovò alcune carte sospette e il 3 dicembre del 1821 trasse in arresto il Castillia.
Questi, come sopra già detto, nella metà di marzo, insieme con il marchese Giorgio Pallavicino era andato prima a Novara e poi a Torino per incontrarsi con il principe di Carignano. Si pensava che l'arresto del Castillia fosse una conseguenza di quel viaggio in Piemonte, che il governo austriaco ignorava, e si sospettava come delatore il Pallavicino, questi, sdegnato, si presentò alla polizia e dichiarò che era stato lui ad indurre Gaetano Castillia ad accompagnarlo in Piemonte e che perciò soltanto a lui, se quel viaggio si riteneva un delitto, doveva essere inflitta la pena. Il direttore della polizia lo rimandò, forse per dargli tempo di scappare, ma il giovane marchese rimase a Milano e la sera dopo fu arrestato in teatro.

Quasi nello stesso tempo furono tratte in arresto BIANCA MILESI e CAMILLA FÈ, di cui si accennava nelle carte sequestrate al Castillia, ma non trovando materia sufficiente per processarle, furono liberate. Il Pallavicino fu trattenuto e lasciatosi raggirare dagli inquisitori, parlò, causando con le sue rivelazioni l'arresto dei conte CONFALONIERI.
Questi, in verità, aveva già ricevuto avvisi segreti affinché si mettesse in salvo; lo stesso generale austriaco BUBNA, amico di famiglia, l'aveva consigliato di lasciare Milano, ma Federico Confalonieri era tuttavia rimasto. Il 13 dicembre del 1821 la sua casa fu circondata dai birri. Cercando di sfuggire alle grinfie della polizia fuggì su una scaletta che portava ad un abbaino, ma questo per disgrazia era chiuso e il conte dovette arrendersi nelle mani del commissario di polizia BOLZA, un italiano.

Di questo vero segugio del Governo austriaco, nemico dei suoi stessi connazionali, riferiamo - a sua perpetua vergogna - le informazioni che l'ufficio di polizia era solito dare al direttore generale. "Commissario Bolza. Abilissimo elemento, attivissimo e destrissimo esecutore; ma di carattere non sincero e precipitoso, di modi durissimi; di condotta niente onorata; e dicesi anche venale in oggetti d'ufficio: pieno di debiti vecchi e recenti; si è reso odioso lui e la stessa Polizia: ciò che pensa di lui l'opinione pubblica non potrebbe esser peggiore .... Suo primo idolo è il danaro, da qualunque parte venga poco importa. Napoleonista fanatico fino al 1815, e il distretto di Varese lo sa, dopo, Austriaco in ugual grado, e domani Turco se entrasse Solimano in questi stati: capace di ogni azione, tanto contro il nemico quanto contro l'amico, purché possa ricavarne denaro. Sa il suo mestiere e sa farlo bene; non si conosce né la sua morale né la sua religione".

Quanto in quei tempi fosse odiato il mestiere del birro lo dice il Bolza medesimo che nel suo testamento scrive queste eloquenti parole: "Proibisco assolutamente ai miei eredi che al luogo dove sarò sepolto sia apposto un segnale qualunque; meno ancora poi un'iscrizione o leggenda. Raccomando all'amatissima mia moglie di inculcare ai miei figli questa massima: quando saranno nell'età d'invocare al governo un impiego, di stare fuori del ramo della Polizia esecutiva; né dare l'assenso alle mie figlie al matrimonio con un impiegato di questa classe".

Con l'arresto del Castillia, del Pallavicino e del Confalonieri, cui seguì quello di parecchi altri, ebbe inizio il famoso processo che s'intrecciò con quello contro i federati di Brescia, il colonnello SILVIO MORETTI, il francese ALESSANDRO ANDRYANE, contro gli studenti universitari pavesi andati ad arruolarsi sotto le insegne dei costituzionalisti piemontesi e i liberali di Modena, di Parma e dello Stato pontificio. In contumacia furono processati, perché riusciti a mettersi in salvo, il conte Arrivabene, i marchesi Benigno Bossi e Giuseppe Arconati-Visconti, Giuseppe Pecchio, Giuseppe Vismara, Giacomo De Meester, Costantino Mantovani, Filippo Ugoni, Giovita Scalvini, Carlo Pisani-Dossi, Gio Vanni Berellet; le sorelle Cobianchi, Matilde, Demawsky e alcuni altri.

Il conte CONFALONIERI dapprima si mantenne completamente negativo, poi, dopo le rivelazioni del conte DUCCO, ammise di aver conosciuto e mostrato ad altri gli statuti dei Federati e di aver caldeggiato la diffusione della società nel territorio bresciano, ma sostenne di essere stato mosso dal desiderio di prescrivere il paese dall'anarchia in cui esso sarebbe certamente caduto. Disse inoltre che quand'era scoppiata la rivoluzione piemontese egli si trovava gravemente ammalato.
II marchese PALLAVICINO il 13 dicembre del 1821 fece la seguente deposizione:
"Giacché si vuol sapere la verità, io la dirò, ma col patto che non abbia a sostenerla in confronto di chi che sia, e che non si consideri la mia divulgazione come dettata dal desiderio di rendermi con questo meritevole della grazia sovrana. Ritengo inoltre che la Commissione farà il possibile per risparmiarmi il dispiacere di averla manifestata. Sappiano dunque che a Milano esisteva una società sotto il nome di "Società dei federati italiani" e che il conte Confalonieri di Milano mi ha associato alla medesima. Subito dopo lo scoppio della rivoluzione nel Piemonte, lo stesso Confalonieri mi annunciò che era necessario mandare qualche persona a chiamare il generale S. Marzano, che era a Novara, affinché con il suo corpo occupasse Milano. Io fui determinato ad andarci io stesso, ed avendo trovato al teatro il signor Gaetano de Castillia, il quale era stato da me aggregato alla suddetta società dei Federati italiani, lo convinsi quasi con la forza a venire con me per il viaggio a Novara".

Quattro giorni dopo, forse pentito, il Pallavicino cominciò a ritrattare, non volle fare i nomi di coloro che frequentavano la casa Confalonieri, scongiurò il sovrano ad usare clemenza verso il Castillia e infine ritirò tutte le precedenti rivelazioni, fingendosi colto da un accesso di pazzia e confermando soltanto il suo viaggio in Piemonte. Né ci fu verso di farlo recedere dal suo atteggiamento. Nella sua difesa egli scrisse: "Il timore di avere mio malgrado tradito la verità, timore non irragionevole in chi, straniero al linguaggio dei tribunali, che facilmente turba e confonde, mi stringe il cuore a dichiarare quanto segue: Io mai ebbi rapporti politici con il signor Carlo de Castillia. Io non so di essere federato. Mi recai in Piemonte, né mandato né consigliato da chicchessia, e temo fortemente di aver calunniato il conte Federico Confalonieri. Delinquente e confesso, non ignoro che merito il rigore della legge; ma nessuno potrà mai persuadermi che la mia parziale ritrattazione possa risvegliare contro di me lo sdegno di S. M. Il ricredersi quando il grido della coscienza lo esige, non è delitto, è dovere. Il perché io oso lusingarmi che il giusto e clemente Monarca, il quale regge i nostri destini, volgerà uno sguardo di compassione a colui che, nonostante il sofferto rigoroso trattamento, ha durato e dura nel fare omaggio alla verità"

Durante l'istruttoria furono arrestati il delatore Carlo Castillia, Pietro Borsieri, Andrea Tonelli, Alberico de Felber, Giuseppe Rizzardi, Giuseppe Biartinelli, Giambattista Comolli, Paolo Masotti, Luigi Moretti, il marchese Alessandro Visconti-D'Aragona, il barone Francesco Arese e il barone Sigismondo Trecchi.
CARLO CASTILLIA invocò l'impunità per avere informato la polizia; il Tonelli, il Borsieri e l'Arese confessarono ogni cosa, ma negarono di appartenere alla società dei Federati; il Felber, il Rizzardi, il Camolli, il Martinelli, il Masetti, il Visconti e il Trecchi si mantennero negativi; negativo fu il Moretti che ammise soltanto di essere iscritto alla Massoneria, sostenendo che questa non aveva scopi rivoluzionari.
Chi confessò tutto e diede la chiave per decifrare le carte sequestrate fu il giovane letterato francese ALESSANDRO FILIPPO ANDRYANE, mandato da Ginevra in Italia per diffondervi la setta dei "Sublimi Maestri Perfetti" poi caduto nelle mani della polizia il 18 gennaio del 1823. Egli però si dichiarò innocente sostenendo che non poteva essere incolpato di appartenere in Svizzera ad una società che il governo elvetico permetteva.
Il 23 febbraio del 1823 il SALVOTTI presentava la sua requisitoria, dimostrando che era il CONFALONIERI il capo dei cospiratori lombardi. Il giovane conte, "già indicato dai settari parmigiani nel gennaio del 1821 quale capo della Chiesa di Milano, era colui cui il Principe di Carignano, nel novembre del 1820 dirigeva il PERRONE di San Martino, quindi il MARENCO e, nel febbraio del 1821, il capitano RADICE. Al Confalonieri, da Parma, si rivolgeva, sulla metà del febbraio dei 1821, il settario conte GIACOMO SANVITALE, diretto a Torino, e, più tardi, sul finire di quel mese, uno sconosciuto che veniva a chiedergli notizie sulla macchinazione.
Con lui il Pecchio e il Bossi nutrivano una continua corrispondenza dal Piemonte, dopo che vi era scoppiata la rivoluzione; e, appena decisa l'invasione della Lombardia, subito lo informano. È il Confalonieri che scrive al colonnello Castillia; è lui che consiglia il De-Meester e il Porro alla fuga. E' il Confalonieri che l'Arrivabene, lo Scalvini, gli Ugoni encomiano al Manfredini come il principale sostegno della cospirazione e del quale deplorano, come pubblica calamità la malattia.
E' al Confalonieri che Filippo Ugoni conduce il Duno e il Tonelli; è da lui che viene quel danaro che doveva essere dato al colonnello Ollini, e al Rampini, per raccogliere sotto le armi i soldati congedati del cessato Regno Italico. È al Confalonieri che Filippo Ugoni si rivolge il 18 marzo, allorché invoca chiarimenti su una lettera "incendiaria", che il dì prima aveva ricevuta a Brescia. È dal Confalonieri, finalmente, che i progetti per l'istituzione di una Guardia Nazionale e di una Giunta provvisoria di Governo, non appena i Piemontesi avessero varcato il Ticino; ed è a lui che si destina, nella detta Giunta, la carica di Presidente".


La sentenza sul processo Confalonieri-Pallavicino fu emessa a Milano il 21 gennaio del 1824. Vi si afferma:
"Sugli atti dell'inquisizione criminale costruiti dalla Commissione speciale in Milano per il delitto d'alto tradimento contro i detenuti Federico conte Confalonieri di Milano, Alessandro Filippo Andryane di Parigi, contro i contumaci Giuseppe Pecchio di Milano, Giuseppe Vismara di Novara, domiciliato in Milano, Giacomo Filippo De Meester Huydel di Milano, Costantino Mantovani di Pavia, Benigno marchese Bossi di Milano, Giuseppe marchese Arconati-Visconti di Milano, Carlo cavaliere Pisani-Dossi di Pavia, Filippo nobile Ugoni di Brescia, Giovanni conte Arrivabene di Mantova, e contro i detenuti Pietro Borsieri di Kanilfed di Milano, Giorgio marchese Pallavicini di Milano, Gaetano Castillia di Milano, Andrea Tonelli di Coccoglio, Francesco barone Arese di Milano, Carlo Castillia di Milano, Sigismondo barone Trecchi di Milano, Alberico de Felber di Milano, Alessandro marchese Visconti-D'Aragona di Milano, Giuseppe Rizzardi di Milano, Gio. Battista Comolli, domiciliato in Milano, Giuseppe Martinelli di Cologna, provincia bresciana, Paolo Mazzotti di Coccaglio, Luigi Moretti di Mantova…
tutti imputati del delitto di alto tradimento....
...vista la consultiva sentenza della detta Commissione Speciale di Prima Istanza del 30 maggio 1823 quanto all'Andryane, e del 28 febbraio 1823 quanto agli altri; vista la consultiva Sentenza della Commissione Speciale di Seconda Istanza in Milano portante la data per l'Andryane del 15 luglio 1823, e per gli altri dell'11 luglio predetto; il Cesareo Regio Senato Lombardo-Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia residente a Verona con le sue decisioni del 27 agosto quanto all'Audizione e 9 ottobre 1923 quanto agli altri ha dichiarato:
1° Essere i detenuti Federico conte Confalonieri ed Alessandro Filippo Andryane, non che i contumaci Giuseppe Pecchio, Giuseppe Vismara, Giacomo Filippo De Meester Kuydel, Costantino Mantovani, Benigno marchese Bossi, Giuseppe marchese Arconati Visconti, Carlo cavalier Pisani Dossi, Filippo Nobile Ugoni, Giovanni conte Arrivabene, e gli altri detenuti Pietro Borsieri di Koenilfeld, Giorgio marchese Pallavicini, Gaetano Castillia, Andrea Tonelli e Francesco barone Arese rei del delitto di alto tradimento e gli ha condannati alla pena di morte, da eseguirsi colla forca, osservato in quanto ai contumaci il § 498 del Codice Penale.
2° Ha pure dichiarato doversi per l'accusa d'alto tradimento sospendere il processo per difetto di prove legali a carico di Carlo Castillia, Sigismondo barone Trecchi, Alberico de Felber, Alessandro marchese Visconti-D'Aragona, Giuseppe Rizzardi, Giambattista Comolli, Giuseppe Martinelli e Paolo Mazzottí, condannati però al pagamento delle spese processuali insolidum, e delle alimentarie in loro specialità, giusto il § 357 del Cod. Pen.; e tutti i nobili, dichiarati rei d'alto tradimento, alla perdita, quanto alla loro persona, dei diritti alla nobiltà austriaca.
3° Ha dichiarato inoltre doversi assolvere Luigi Moretti dall'imputazione del delitto d'alto tradimento, essendosi riconosciuta la di lui innocenza.
Sua Sacra Regia Apostolica Maestà, cui furono subordinati gli atti e le sentenze relative, con le veneratissime sovrane risoluzioni 19 dicembre 1923 e 8 gennaio 1924, lasciò che la giustizia avesse il suo corso riguardo ai contumaci Pecchio, Vismara, De Meester, Mantovani, Bossi, Arconati-Visconti, Pisani-Dossi, Filippo Ugoni ed Arrivabene; e all'incontro, in via di grazia si degnò clementissimamente di rimettere ai condannati Confalonieri, Andryane, Borsieri, Pallavicino, Gaetano Castillia, Tonelli ed Arese la pena di morte, e di commutarla nella pena del carcere duro, da espiarsi da tutti nella fortezza di Spielberg; in quanto a Confalonieri ed Andryane, per tutta la vita; in quanto a Borsieri, Pallavicino, Gaetano Castillia, per venti anni; in quanto a Tonelli per dieci anni, ed in quanto ad Arese per anni tre, oltre le conseguenze legali della condanna al carcere duro.
"Tali supreme decisioni e tali veneratissime sovrane risoluzioni sono portate a pubblica notizia in esecuzione dei venerati aulici decreti 27 dicembre 1823 e 12 gennaio 1824 dell'Eccelso Senato Lombardo Veneto del Supremo Tribunale di Giustizia, partecipati dall'I. R. Commissione Speciale di Seconda Istanza con i rispettati dispacci 29 dicembre 1823 n. 290 e 291, e 13 gennaio 1824 n. 8".


Quasi contemporaneamente si chiudeva il processo contro i cospiratori di Brescia nel quale furono implicate trentatre persone, numero davvero notevole, che ci spiega come i liberali facessero grande assegnamento sui bresciani, cui sul principio del 1821 i costituzionali piemontesi avevano indirizzato un proclama particolare (lo riportiamo integrale e letterale):

"Bresciani, voi che sempre quando si trattò di sciogliere dai ceppi dell'interno dispotismo la patria, foste fra i primi ad innalzare il sacro stendardo della libertà: voi che sempre, quando per liberarla dal giogo dello straniero fu duopo di fermi brandi e di feroci petti, correste a formare le falangi de'più arditi, de' più valorosi; voi che sotto le insegne italiane combattendo, avete dato luminosi esempi di virtù, di coraggio, non più ci chiediamo che andiate a portar guerra contro una nazione che impugnava le armi per respingere la francese dominazione; non più chiamati ad essere strumento di tirannia, capitanati da un uomo che se abbagliò l'Europa con i portenti del suo ingegno militare, ne fu l'esecrazione appena se ne fece il più ambizioso despota: Bresciani, siete chiamati dai destini d'Italia a concorrere allo stabilimento sempre più fermo della sua indipendenza. La costituzione di Spagna, questa santa legge che il Dio stesso della giustizia volle che fosse adottata in quelle generose contrade, perché fosse di scampo a tutti i popoli d'Europa, per sottrarsi dagli artigli del dispotismo, è la legge che dovete sostenere, è la legge il cui nome dovete portare sugli stendardi delle legioni bresciane, e che sventolando sull'esercito italiano, deve essere lo spavento dello straniero. Essa è la legge e per questa sola dovete combattere. L'esercito piemontese ve la presenta, perché formiate con lui e col resto dell'Italia una sola famiglia. Afferratela con una mano, e impugnando le armi con l'altra, correte ad abbracciare i vostri fratelli, ad incalzare il vile Austriaco, che trepidante già fugge al solo sentire consacrata con essa l'italica unione. Procedete uniti nella carriera della libertà e dell'indipendenza della patria, e siate quali sempre furono i bravi Bresciani. Viva l'Italia ! O indipendenza o morte !".

Uno fra gli arrestati fu il conte LODOVICO DUCCO, il quale, chiedendo che gli fosse diminuita la pena, fece ampie rivelazioni che danneggiarono moltissimo altri cospiratori, specie il Confalonieri e l'ex-colonnello napoleonico SILVIO MORETTI. Quest'ultimo, nel 1815, era stato processato come complice di una congiura militare: arrestato a Gratz, era stato giudicato a Mantova e condannato a morte, pena commutata in quella d'otto anni di carcere duro, ridotti poi a quattro, scontati i quali si era ritirato a Brescia.
Il 16 dicembre del 1823, il Cesareo Regio Senato condannava alla pena di morte tredici cospiratori bresciani: il conte Lodovico Ducco, Antonio Dossi, il conte Vincenzo Martinengo, Pietro Pavia, Angelo Rinaldini, il conte Alessandro Cigola, il cavalier Francesco Peroni, Paolo Bigoni, il cavalier Pietro Richiedei, il nobile Gerolamo Rossa, Giovanni Maffoni, Antonio Magotti e Giovanni Bastasini. A tutti costoro però la pena fu commutata in quella di quattro, tre, e due anni di carcere duro da scontarsi a Lubiana. Il sacerdote Domenico Zamboni fu condannato al carcere duro perpetuo, ma la pena gli fu ridotta a quella di un solo anno di carcere nella prigione del Tribunale di Trento. Quattro imputati furono dimessi per mancanza di prove legali.
Il 14 luglio del 1824 si pubblicava la sentenza contro SILVIO MORETTI. Questi, mentre era condotto a Milano in arresto, aveva tentato di tagliarsi la gola; durante il processo si era mantenuto costantemente negativo. Questo atteggiamento lo salvò dalla condanna capitale, ma non da quella di quindici anni di carcere duro da scontarsi allo Spielberg.

Un altro processo fu quello svoltosi a carico del direttore delle poste di Mantova LUIGI MANFREDINI e il farmacista Cesare Albertini, arrestati nell'aprile del 1822 in seguito alle denunce dei detenuti di Parma e di Modena. Il Manfredini, sulla fine del 1822, fece delle gravi rivelazioni coinvolgendo il generale napoleonico CARLO ZUCCHI di Reggio e il 23 gennaio del 1823 dichiarò di essere andato dietro incarico del Pecchio, dallo Zucchi ad offrirgli il comando di un corpo di truppe piemontesi: "Gli dissi senza preamboli che ero andato da lui solo per eseguire una commissione datami dal Pecchio, confidente del Principe di Carignano, annunciandogli che lo si invitava di andare in Piemonte per assumere un comando. Il Zucchi mi rispose che egli era un buon italiano, disposto a versare tutto il suo sangue per la patria, ma che con i Principi conveniva andare cauti, perché a loro riesce agevole ritrarre il piede anche dalle più difficili imprese intraprese, lasciando poi imbarazzati gli altri, ed io che non voglio essere trattato da brigante non parto per il Piemonte; ma se nel piano delle operazioni del Principe di Carignano rientra lo spedire della truppa da queste parti per fare una solo diversione all'armata austriaca diretta contro Napoli, io sono disposto ad accettare il comando purché mi si spediscano quattromila uomini che occorrono e si consegni all'ufficiale destinato a guidare questa truppa il mio brevetto di comando ....".

Dietro questa deposizione, nel febbraio del 1823 fu tratto in arresto il generale ZUCCHI, ed essendo questi tenente maresciallo pensionato dal governo austriaco che l'aveva anche creato barone, fu sottoposto ad una inchiesta. Per fortuna che il generale Manfredini ritrattò le accuse e così lo Zucchi fu rimesso in libertà. Il Manfredini e l'Albertini ebbero la condanna a morte che fu poi commutata in venti anni di carcere duro per il primo, quindici anni per il secondo.

Gli studenti di Pavia furono tutti condannati a pochi mesi di carcere. Riguardo a loro, il 17 settembre del 1823, l'imperatore scriveva che lasciava al Senato indicare il luogo di pena. "Voglio - aggiungeva - che a questi individui gli sia fatta energicamente presente la gravità del loro delitto e presente la generosità della sovrana mia grazia per destare a loro l'inclinazione alla virtù, come pure che sia data l'occorrente disposizione onde la pena, che devono subire, serva al loro miglioramento e non alla loro depravazione. Per grazia speciale voglio anche approvare la proposizione del Senato che le sentenze emanate non siano pubblicate sulla stampa".
Il luogo di pena proposto dal Senato fu la casa di correzione di Milano.

Il 21 gennaio del 1824 fu letta pubblicamente la sentenza del processo Gonfalonieri-Pallavicino: "…allorché i condannati comparirono sul palco, la folla - scriveva il Torresani, direttore dì polizia - restò ammirata dell'aspetto fiorente del Confalonieri, che si credeva gravemente malato e furono pure notati gli sguardi liberi e fieri di lui. Non furono notate manifestazioni di rincrescimento per la condanna degli imputati, meno che meno per quella del Gonfalonieri".

A sua volta il consigliere Rosmini scriveva: "La sentenza fece grande impressione, ma sia dai buoni sia dai cattivi fu censurata la clemenza di S. M. usata a Confalonieri; la nobiltà però quasi tutta approvò, com'è ben naturale. Non però così la classe dei cittadini e del basso popolo, che avendo saputo che S. M. aveva già firmata la sentenza di morte, accettò mal volentieri la grazia dell'imperatore attribuendola ai maneggi della famiglia del condannato".

I "maneggi" infatti, non erano mancati; era stata pregata perché intercedesse presso l'imperatore la figlia Maria Luigia di Parma; preghiere perché usasse clemenza erano state rivolte a Francesco I dal viceré e dall'arcivescovo di Milano; in suo favore si erano mossi i nobili milanesi; ma tutto era riuscito vano. Allora si erano recati a Vienna il vecchio padre del condannato conte VITALIANO, il fratello CARLO, la moglie TERESA CASATI e il giovane cognato GABRIO CASATI; ma avevano dovuto aspettare alcune settimane prima di essere ricevuti dal sovrano, e quando tutti, ad eccezione della moglie, il 24 dicembre del 1823, erano stati ammessi alla presenza dell'imperatore, questi non si era commosso alle lacrime e alle preghiere dei supplicanti e aveva risposto al povero genitore:
"dispiacergli dover dichiarare come non era possibile esercitare clemenza a pro di Federico Confalonieri: la necessità dell'esempio, i richiami d'altri principi d'Italia lo costringevano a dare libero corso alla giustizia: quindi di aver già firmata la sentenza di morte ed averla spedita a Milano". Aveva però l'imperatrice ricevuta la bella e virtuosa Teresa Casati e, commossa dalle sue lacrime, era riuscita ad insinuar nell'animo del consorte alcuni dubbi sulla formalità della procedura e ad ottenere (8 gennaio 1824) la grazia.

Prima che i condannati partirono per il luogo dove dovevano scontare la loro pena, il direttore della polizia milanese ebbe un colloquio con il Confalonieri, sperando forse di cavargli qualche rivelazione; ma riuscì ad ottenere ben poco; "mi confessò sinceramente che apparteneva all'unione dei Federati e che vi aggregò il conte Ducco, quantunque egli abbia negato tutto ciò durante il processo inquisitorio perché credeva in questo modo di potersi salvare" e dichiarare infine che "la Federazione in Lombardia aveva una limitata diffusione e che a Milano, oltre le persone già note alla Commissione, forse vi erano non più d'altre cinque sei persone"

I condannati partirono da Milano il 5 febbraio. Il 2 marzo, a Vienna, il Confalonieri fu visitato dal METTERNICH, che, con la promessa di miglior trattamento e forse della libertà, sperò di carpirgli qualche rivelazione che comprometteva il principe di Carignano Carlo Alberto, che la corte imperiale desiderava fare escludere dalla successione sabauda in favore di Francesco IV di Modena. Ma il Confalonieri non cedette alle lusinghe e proseguì il suo triste viaggio verso lo Spielberg, "il più severo ergastolo - scrive il Pellico - della monarchia austriaca. Era una cittadella molto forte, ma i Francesi la bombardarono la presero ai tempi della famosa battaglia d'Austerlitz (il villaggio d'Austerlitz è a poca distanza). Poi non fu più restaurata da poter servire come fortezza, ma fu rifatta una parte della cinta, che era diroccata. Circa trecento condannati, per lo più ladri ed assassini vi sono custoditi, con il carcere duro, e il durissimo".
" Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno ai fianchi, e la catena infitta nel muro, in modo che a mala pena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua".

" Piccole celle, illuminate dalla scarsa luce proveniente da un pertugio, con una panca e una brocca: ecco le prigioni che attendevano il Confalonieri e i suoi compagni e che ospitavano già il Maroncelli e il Pellico. I prigionieri indossavano "un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, a sinistra color cappuccino, un giustacuore di due colori ugualmente collocati e un giubbetto con gli stessi due colori, ma collocati all'opposto Le calze erano di grossa lana, le camicie di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, un vero cilicio, al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia: gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati, il cappello bianco. Completavano questa divisa da galeotti i ferri ai piedi, cioè una catena da una gamba all'altra, i ceppi della quale erano fermati con chiodi ribattuti sopra l'incudine".

Quel carcere era una vera tomba di uomini vivi; i più deboli di corpo e di spirito non riuscirono a resistere alla dura vita che vi conduceva. Il conte ANTONIO FORTUNATE OROBONI morì nel 1823; ANTONIO VILLA nel dicembre del 1827, il colonnello SILVIO MORETTI nel 1832, CESARE ALBERTINI nel 1833. A PIETRO MARONCELLI, nel 1828, fu amputata una gamba. Nel 1823 fu graziato il REZIA, nel 1827 il SOLERA, nel 1828 don FORTINI, nel 1830 il MARONCELLI e il PELLICO, nel 1832 l' ANDRYANE, nel 1833 furono liberati ed esiliati in America il MANFREDINI e il CONFALONIERI. Tutti dovettero andare in America, eccetto il PALLAVICINO cui fu permesso di vivere a Praga. Il CONFALONIERI partì da Trieste nel novembre del 1836: sei anni prima nella vana attesa di riabbracciare il marito, si era spenta la nobilissima Teresa Casati, e al conte un rozzo secondino n'aveva dato l'annunzio così "Numero 14 l'Imperatore vi fa sapere che vostra moglie è morta".

Se tutto questo accadeva in Lombardia la cooperazione straniera alla restaurazione dell'assolutismo in Piemonte fu ancora peggiore. La "liberazione" richiesta da Carlo Felice (aveva chiesto 12.000 austriaci per spazzare via i costituzionalisti) diventò una "occupazione" che durò fino al 30 settembre 1823 gravando enormemente sul paese: due milioni per la spedizione, dieci milioni l'anno per il mantenimento e otto milioni li dovette sborsare per avere ottenuta "la sua vittoria".
Oltre il resto, furono forse questi debiti a farlo diventare uno spietato vendicatore.

La repressione fu durissima, non si salvò quasi nessuno.

La vita in Piemonte e nel Regno delle Due Sicilie
L'Occupazione austriaca - i Processi le Condanne - Gli Esuli > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI