ANNI 1821-1830

GLI ALTRI STATI ITALIANI DOPO LA RESTAURAZIONE

TERZA PARTE

MORTE DI FERDINANDO I - FRANCESCO I DI NAPOLI - PARTENZA DELLE TRUPPE AUSTRIACHE - IL MOTO INSURREZIONALE DEL CILENTO - FEROCE REPRESSIONE DEL DEL CARRETTO - ANTONIO GALLOTTI E I FRATELLI CAPOZZOLI -
LEOPOLDO II E LA TOSCANA
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MORTE DI FERDINANDO I DI NAPOLI
FRANCESCO I RE DELLE DUE SICILIE


Ferdinando I, re delle Due Sicilie, morì nella notte dal 3 al 4 gennaio del 1825. Era nato a Napoli nel 1751, figlio di Carlo VII e di Maria Adelaide di Sassonia. Succedette al padre quand'era ancora bambino, a 8 anni, nel 1759.
Sposò MARIA CAROLINA d'Asburgo che condizionò fortemente la politica del marito verso l'Austria, fino al punto che quando gli inglesi iniziarono a fare i padroni in quella Sicilia dove si erano rifugiati i sovrani cacciati da Napoli nel 1806, imposero al marito l'allontanamento della moglie, che poi peregrinando qui e là, non rivide più Napoli.

Nel 1793 Ferdinando aderì alla prima coalizione contro la Francia rivoluzionaria, ma fu sconfitto dai Francesi a Roma, abbandonò Napoli proclamatasi repubblica e fu costretto a rifugiarsi in Sicilia.
Tornato a Napoli nel 1799 con l'aiuto dei Sanfedisti, contro i rivoluzionari attuò una feroce rappresaglia. Ma nel 1806, i francesi, o meglio i bonapartisti, tornarono a Napoli, e Ferdinando per la seconda volta tornò a rifugiarsi in Sicilia, governando un territorio solo formalmente, perché gli inglesi dando il loro aiuto e ingenti mezzi economici alla corte borbonica, erano loro guidare di fatto tutte le attività, facendo balenare a una buona parte dei siciliani una costituzione di tipo inglese che li avrebbe resi indipendenti.
Un sogno indipendentista dell'isola già ultrasecolare, dai tempi bizantini.

Ma purtroppo per i siciliani (ma anche per gli inglesi che avevano altre mire su quest'importante base strategica del Mediterraneo) quando l'impero napoleonico crollò, dopo il congresso di Vienna, Ferdinando riprese possesso del trono a Napoli, restaurò il potere regio, e anche se serbò alcune riforme promosse dai francesi durante la dominazione del Murat, i repubblicani non soddisfatti dal suo assolutismo, allo scoppio dei primi moti rivoluzionari del 1820 non lo cacciarono, ma lo costrinsero a concedere una costituzione simile a quella di Cadice del 1812.

Impegnatosi a difendere la costituzione davanti alla santa Alleanza (in allarme per queste ribellioni che volevano scardinare non le monarchie ma le istituzioni monarchiche assolutiste, Ferdinando appena fuori del paese a Lubiana concordò sotto le pressioni austriache imposte dal principe Metternich che guidava l'intera politica imperiale, un intervento dell'esercito austriaco per combattere severamente i rivoluzionari, stracciare la costituzione concessa, tornare a fare il sovrano assoluto, in linea con tutte le monarchia europee fondate sul "volere divino" per elargire pace, prosperità e libertà ai propri sudditi.. Ferdinando per la seconda volta tornò a reprimere duramente ogni ambizione costituzionalista dei settari, reazionari, e dei "militari felloni".

Quello di Ferdinando I, anche per il lungo periodo che lo vide legittimo erede del regno, con tutte le fasi più drammatiche che si trovò a vivere, fu forse il trono più scomodo d'Europa, con tre potenze a volerlo condizionare, ognuno per il proprio fine e non certo mirando alla liberta dei popoli.
Né Ferdinando I poi lasciò al figlio Francesco e al nipote Ferdinando II, un trono più comodo e con meno mire imperialistiche, quando a queste si aggiunsero anche quelle "colonialistiche" sabaude senza neppure dichiararle una guerra, come minimo formale, visto che il Regno delle Due Sicilie, era uno Stato sovrano già secolare, con una superficie di centomila chilometri quadrati, con otto milioni d'abitanti, e con un sovrano, buono o cattivo, secondo le fazioni, ma tuttavia sempre un Re sovrano, capo di uno Stato riconosciuto in tutta Europa; non era un capo tribù di una savana africana o sudamericana da conquistare e occupare con un migliaio d'avventurieri (ma con le spalle ben coperte dalle cannoniere straniere - una farsa insomma, all'insegna dell'indipendenza e delle "libertà dei liberi stati").

"Ferdinando nella sera del tre gennaio, dopo il gioco e le preghiere andò a dormire. Lui era solito intorno alle otto della mattina chiamare un servo, ma il giorno 4, l'ora arrivò ma nessuno chiamava. Aspettarono. Chi vegliava alla sua custodia nelle stanze vicine affermava di avere inteso, alle sei del mattino, tossire il re due volte. Scorreva il tempo; dall'orecchio accostato all'uscio della camera nulla si udiva; si fece consiglio dei famigliari e dei medici (presenti normalmente nella corte al risveglio del re) e fu deciso (erano ormai le dieci) che anche non chiamati, di ugualmente entrare. Ad ogni passo crescevano i sospetti e furono viste le coltri e le lenzuola in disordine, che avvolgevano il corpo del re in modo strano, pareva di aver lottato per lungo tempo: un lembo di lenzuolo gli avvolgeva il capo e nascosto il quel viluppo era sotto il guanciale; le braccia e le gambe contorte; la bocca aperta come a chiamare aiuto od a raccogliere le aure della vita; livido e nero il viso, gli occhi aperti in modo terribili. La notizia si sparse nella reggia; corse la famiglia, altri medici, ma non rimase né dubbi né speranze; era morto d'apoplessia, come più chiaramente fu visto all'aprire del cadavere".

Così ci riferisce il COLLETTA nelle sue pagine e aggiungeva:
"Ferdinando moriva nel giorno stesso in cui, quattro anni prima, a Lubiana, si era reso spergiuro. Era in età di settantasei anni, aveva regnato tredici lustri, era stato due volte in esilio; volgare, incolto, nemico del progresso, pauroso, bacchettone negli ultimi anni, feroce reazionario, moriva maledetto dal suo popolo".

Gli successe il figlio FRANCESCO I (aveva 48 anni) che per ben due volte, a Palermo e a Napoli, aveva retto il regno come Vicario, che aveva fatto "anche lui" il carbonaro nel 1820-21 e aveva aiutato perfino i liberali quando il governo costituzionale stava crollando con l'arrivo del padre seguito dall'esercito austriaco.
Molto speravano da lui i sudditi e le speranze furono ben riposte, avendo concesso subito un'amnistia dalla quale trassero beneficio molti condannati politici cui furono commutate o diminuite le pene; ma ben presto il sovrano, non crudele e ignorante, tutt'altro, ma bigotto e lascivo, non pieno di nobili ambizioni, ma desideroso di vivere tra feste e cacce, in mezzo ai favoriti, doveva togliere molte (per molti, esclusi i beneficiati) illusioni.

Però una delle prime cure del nuovo re fu quella di liberarsi dalle truppe austriache, che dal 1821 presidiavano il regno, e di assoldare un corpo di seimila Svizzeri. Cercò di dissuaderlo il gabinetto di Vienna, ma Francesco I si ostinò e nella primavera del 1827 le soldatesche austriache abbandonarono il regno.
Nel ritirare le sue truppe, l'imperatore d'Austria, come ci informa il FARINI, ammonì il nuovo re della "sua intenzione ferma ed immutabile di esigere la stretta osservanza e nella sua interezza l'articolo segreto del trattato di Vienna del 1815 confermato con le ripetute promesse dal Re; quelle di offrire l'appoggio delle forze dell'impero austriaco sempre pronte a portarsi dappertutto, dove si manifestasse il primo sintomo di disordine e di rivoluzione".
Rispose Francesco I che le sue truppe erano più che sufficienti a ristabilir l'ordine se questo era turbato e aggiunse: "Per quel che riguarda l'immutabilità del sistema di governo, Vostra Maestà imperiale mi permetterà di appellarmene alla stessa sua testimonianza. Ella ha ben potuto conoscere, dopo che sono salito al trono, i principi costanti che mi sono serviti come guida e che si accordano pienamente con quelli del fu mio padre".

L'occupazione militare austriaca costò caro al Regno delle Due Sicilie ottantacinque milioni di ducati. Dal 1801 al 1827 (nei vari periodi) le province delle Due Sicilie dovettero sostenere l'ingente spesa di centocinquantasette milioni di ducati per mantenere le milizie straniere. Né la spesa era solo quella, dovendosi ora curare il mantenimento degli Svizzeri che costavano cinquecentosessantamila ducati annui, non contando il milione e settecentonovantaduemila ducati sborsati per il primo ordinamento.
Avendo tutte queste spese, unite alla dissipazione del re e dei governanti, dissestato le finanze, fu necessario ricorrere a nuovi aggravi fiscali: fu trattenuta la decima parte dello stipendio degli impiegati e delle pensioni, furono imposti dazi sui generi coloniali, sui pesci salati e sulla macinazione dei grani e diverse tasse sull'esercizio di alcune professioni, arti e mestieri, portando alle entrate dello stato un aumento di due milioni e ottocentosettantamila ducati.
Ma l'imposizione dei nuovi balzelli, da cui tuttavia non si ricavava il necessario per coprire il disavanzo, se accresceva gli introiti faceva anche aumentare il malcontento nella popolazione, e un nuovo vivo desiderio di ribellione nelle sette ancora vegete ed operanti, alle quali si deve il moto scoppiato nel 1828 nel Cilento, e che andiamo a narrare.

LA SOMMOSSA DEL CILENTO

Fu capo di questo movimento rivoluzionario il canonico ANTONIO DE LUCA, che era già stato deputato al Parlamento costituzionale nel 1820-21; suoi collaboratori erano il sacerdote FRANCESCO ANTONIO DIOTAIUTI, il padre CARLO da CELLE, guardiano dei Cappuccini di Cammarota, il negoziante ANTONIO MIGLIORATI, gli avvocati TEODOSIO DE DOMINICIS e VINCENZO RIOLA di Montefusco, l'ex-tenente dell'esercito costituzionale ANTONIO GALLOTTI, fervente carbonaro, che viveva nei boschi del Cilento, e i tre fratelli DONATO, PATRIZIO, DOMENICO CAPOZZOLI, ricchi possidenti di Monteforte, i quali, sfuggiti alla polizia borbonica dopo il rientro di Ferdinando, vivevano anche loro alla macchia sui monti con altri disperati compagni. Era dunque gente che pur avendo una vita prosperosa, avevano messo a rischio, i propri beni e le proprie sostanze, credendo a una "legittima" idea liberale, senza tante utopie, ma in concreto quello che nel 1820-1821 avevano poi ottenuto, senza nessun spargimento di sangue, e perfino -come detto sopra e accennato in altre pagine- con l'appoggio del Vicario Francesco I, e che per difenderla lui stesso si era messo a capo ed aveva organizzato la resistenza all'invasione austriaca del proprio "sovrano regno".

Il 28 giugno del 1828 il segnale della rivolta partì dal villaggio di Bosco, nella cui chiesa il canonico DE LUCA pronunziò una predica incitando il popolo alla libertà; quindi fu proclamata e giurata la costituzione francese. Quasi nello stesso tempo il GALLONI, alla testa di una schiera di insorti, assaltava il forte di Palinuro, se ne impadroniva, lanciava un proclama redatto da ARCANGELO DAGNINO, con il quale annunciava che il prezzo del sale era diminuito, che era sospesa la tassa fondiaria, abolite tutte le altre gabelle, poi invadeva il villaggio di Cammarota e vi proclamava la costituzione di Francia.

Il moto si propagò rapidamente anche per opera dei fratelli CAPOZZOLI; alcune territori come S. Giovanni, restii a ribellarsi, furono orribilmente puniti; parecchi altri, come a Celle, Massicella, Montano, Vallo Ricusati, Acquarena, Laurito e Ornignano, accolsero invece con feste i rivoltosi e inalberarono gli alberi della libertà con il tricolore italiano; ma all'infuori del Cilento la rivoluzione non ebbe né eco né un seguito.

Appena avuta la notizia del moto, FRANCESCO I decise di agire con la massima energia e prontezza e conferì l'incarico di reprimerlo ad ogni costo al colonnello siciliano FRANCESCO SAVERIO del CARRETTO, comandante supremo della gendarmeria. Questi, munito di pieni poteri, piombò con un buon nucleo di soldati nella provincia insorta e prima che i sollevati potessero organizzarsi a difesa o ricevere aiuti, li disperse uccidendone parecchi; poi spietatamente mise a -sacco i villaggi che avevano innalzato il vessillo della rivolta e infine per punirli distruggendoli.
Il villaggio di Bosco, che poteva considerarsi la capitale della zona ribellata, fu preso, saccheggiato, dato alle fiamme e completamente distrutto, raso al suolo ogni casa. Pochi giorni dopo fu pubblicato un regio decreto che stabiliva la

"soppressione del comune di Bosco nel circondario di Cammarota. Il suo nome - diceva il decreto - sarà cancellato dall'albo dei Comuni del Regno. Gli abitanti potranno fissare il loro domicilio o in San Giovanni in Piro o dovunque a loro piaccia; ma né loro né altri non potranno mai ricostruire più le abitazioni che formavano l'aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in nessun altro luogo anche se antico".

LA LUNGA LISTA

Poi ci furono i processi contro oltre 200 imputati, i quali furono giudicati parte dalla Commissione speciale militare istituita in Vallo, parte dalla Commissione superiore di Napoli. 34 furono condannati a morte: MICHELE BORTONE di Celle, possidente, GIUSEPPE BUFANO di Polla, domiciliato a Torre Orsaia, NICOLA CARIELLO di Bosco, contadino, CESARE CAROLA di Napoli, impiegato alla cancelleria dell'Università, GIUSEPPE CATERINO di Ornignano, pizzicagnolo, CARMINE CIRILLO di Perito, contadino, NICOLA COBUCCI di Bosco, possidente, il sacerdote DON GHERARDO CRISTAINO di Sicignano, padre CARLO DA CELLE, guardiano dei Cappuccini di Maratea: ARCANGELO DOGNINO di Palermo, impiegato al Bollo e Registro, l'avvocato TEODOSIO DE DOMINICIS, il canonico ANTONIO DE LUCA di Celle, DOMENICO ANTONIO DE LUCA di Luccosati, negoziante, il sacerdote DON GIOVANNI DE LUCA di Montano, LEONARDO DE LUCA di Celle, contadino, FELICE DE MARTINO di Cammarota possidente, DIEGO DE MATTIA di Vallo, pittore, EMILIO DE MATTIA di Vallo, possidente, FILIPPO DE RUOCCO di Nasicella, contadino, il sacerdote DON FRANCESCO ANTONIO DIOTAIUTI di Cammarota, il dottor DOMENICO DE SIERVO di Acquarena, GAMMARANO ALESSANDRO di Montano, possidente, NICOLA GAMMARANO di Montano, possidente, TOMMASO GRAUSANTE di Rionero, possidente, GENNARO GRECO di Cammarota, possidente, GIUSEPPE ANTONIO GRIDA di Celle, contadino, ANTONIO MIGLIORATI di Napoli, negoziante, LA GATTA ANTONIO di Massa, falegname, ANGELO LENO di Ornignano, possidente, GIAMBATTISTA MAZZARA di Licusati, contadino, ANGELO RAFFAELLO PANDOLFI di Ornignano, possidente, DAVID RICCIO di Cardile, possidente, BIAGIO SATURNO di Licusati, contadino e VITO GIUSEPPE TAMBASCO di Montano, possidente. Otto di questi, e cioè i canonici Cristaino e Diotaiuti, Alessandro e Nicola Gammarano, il Caterino, il Saturno, Leonardo De Luca e Diego De Mattia ebbero commutata la pena capitale in quella della galera a vita, gli altri furono decapitati e le loro teste, per ammonire ed atterrire, furono esposte entro gabbie di ferro in vari luoghi.
Il canonico De Luca, che spontaneamente si era consegnato nelle mani della polizia, per salvare dalla distruzione la sua terra natia, Celle, e che durante il processo aveva fornito prova di gran fermezza d'animo, affrontò impavido, sebbene contasse sessantaquattro anni, la morte, assieme a padre Carlo da Celle e nel punto di essere giustiziato pronunziò il verso virgiliano "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor".

Altri 92 imputati furono condannati a pene varie: 18 all'ergastolo a vita, 8 a trent'anni di ferri, 2 a vent'otto anni, 5 a ventisei, 15 a venticinque, 2 a ventiquattro, 1 a ventidue, 13 a dieci anni di reclusione, 6 a sei anni. Fra questi c'erano un barone, 4 preti, 7 medici, 5 avvocati, 4 ufficiali, 29 possidenti, 14 contadini, alcuni impiegati ed operai e 3 donne: SERAFINA APICELLA GALLOTTI di Cetara, ALESSANDRINA TAMBASCO di Montano e BENTIVEGNA ROSA di Castelsaraceno. La prima fu orribilmente torturata a Salerno. Due altre donne NICCOLINA e MICHELINA TAMBASCO, furono liberate dopo alcuni mesi di carcere.
Il dottor ALESSANDRO RICCIO, ANTONIO GALLOTTI e i fratelli CAPOZZOLI, fuggiti sulle montagne, dove sostennero più di un combattimento con le milizie borboniche, riuscirono a scampare; ma più tardi il Riccio, sulla cui testa era stata messa una taglia fu ucciso da due contadini per intascarla. Il Gallotti e i tre Capozzoli, il 29 agosto riuscirono a fuggire via mare e dopo venti giorni di navigazione toccarono la costa livornese.

In Toscana i profughi trovarono tranquillo rifugio. Il governo granducale, invitato dalla polizia borbonica di consegnare i quattro ribelli, rispose che non gli risultava che i ricercati si trovavano nel suo Stato. I fuggiaschi però, temendo di essere consegnati, si rimisero in mare e raggiunsero la Corsica, dove rimasero indisturbati circa un anno.
FRANCESCO I non si era rassegnato a vederli liberi in Corsica. Dietro sua richiesta, le autorità Francesi consegnarono al governo di Napoli il Gallotti, che a Salerno fu condannato a morte; ma la pena gli fu commutata in quella di dieci anni di detenzione alla Favignana per l'intercessione del governo francese, perché la stampa e il partito liberale in Francia avevano sollevato clamori e sdegno nella pubblica opinione.
Nell'ottobre del 1830, il governo di Luigi Filippo ottenne che il Gallotti fosse liberato e rimandato in Corsica, da dove poi passò a Parigi e narrò le vicende sue e del moto del Cilento nel volume "Mémoires de A. Gallotti, officer napolitain condanné trois fois à mort".

I tre fratelli CAPOZZOLI rimasero in Corsica, ma per poco, perché un certo MORELLI, falso carbonaro, messo alle loro costole dalla polizia borbonica, riuscì a persuaderli a tornare in Italia per evitare di esser consegnati anch'essi ai francesi. I Capozzoli tornarono nel Cilento, dove rimasero indisturbati per qualche tempo e vi sarebbero rimasti chi sa quanto se un loro amico, allettato dalla vistosa taglia imposta dal governo sulla testa dei tre fratelli, non li avesse traditi.
Erano da tre mesi ospiti di costui nel villaggio di Perito, quando l'amico decise di venderli alla polizia, scegliendo per il loro arresto, il giorno in cui un figlio suo andava a nozze. Era il 17 giugno del 1829. Sul più bello della festa, la casa fu circondata da sessanta gendarmi borbonici, ma i tre fratelli Capozzoli e il loro compagno Pasquale Rossi si asserragliarono in una stanza e fecero accanita resistenza fino a che ebbero munizioni e viveri. Poi vinti, arrestati furono condotti a Salerno, il 23 giugno, giudicati e condannati alla pena capitale, che fu eseguita quattro giorni dopo.
Le loro teste, come monito e per terrorizzare, furono mandate in giro per i villaggi del Cilento. Il DAL CARRETTO fu premiato da Francesco I, per aver represso il moto, con la croce di cavaliere, il titolo di marchese e la promozione a generale.

FRANCESCO I morirà l'anno dopo, l'8 novembre 1830 lasciando il trono al giovane 20enne figlio FERDIANNDO II; iniziativamente aperto a una politica innovatrice (come vedremo nel "Riassunto" del 1830) assunse poi un indirizzo reazionario, instaurando un regime poliziesco isolato in Italia e in Europa. Si trovò a dover vivere durante il suo regno tutti gli eventi del 1848, fino a quelli del 1859.

LEOPOLDO II E LA TOSCANA

"Vita tranquilla - scriveva ENRICO POGGI - conducevano i Toscani non funestati dalle persecuzioni che invece turbavano le altre regioni; non turbata anche per il silenzio che i diari ufficiali ignoravano questi dolorosi fatti. Dolce il Governo perché incurante delle ripetute pressioni austriache affinché fossero consegnati o cacciati gli Esuli; le polemiche letterarie e scientifiche continuavano con garbo e con temperanza; la facoltà di ciarlare era lasciata libera, senza rischio di avere molestie o sanzioni inquisitorie" . La Toscana era un'oasi di pace e di benessere. Qui le finanze erano floride, favorita da una saggia libertà commerciale era la prosperità economica, buone le leggi leopoldine, ritornate in vigore dopo il dominio napoleonico, ma di queste si mantennero il codice di commercio ed alcuni provvedimenti finanziari corrispondenti ai nuovi tempi.
Paterno era il governo di FERDINANDO III: mentre ovunque in Italia si cospirava e si lottava apertamente contro la tirannide, in Toscana le sette non riuscivano a fare gran numero di proseliti, non si tramavano congiure e, non avvenivano sommosse; il granduca era molto amato dai suoi sudditi ed era tanta la discrezione del suo governo che nel suo stato andavano a cercar rifugio molti di coloro che erano stati cacciati o costretti ad allontanarsi da molte altre parti d'Italia".

I perseguitati politici degli altri stati italiani non solo ricevevano larga ospitalità in Toscana, ma vi trovavano l'ambiente adatto a mantenere vivo il loro ideale di riscossa nazionale. Un'eletta moltitudine di nobili ingegni - il CAPPONI, il CENTOFANTI, il MICALI, il MONTANELLI, il NICCOLINI, il LAMBRUSCHINI ecc. - sognavano la grandezza della patria e maturavano nell'anima i propositi di libertà.
A rendere più saldo il legame e più stretto il contatto fra questi "liberi spiriti", contribuì considerevolmente il ligure-ginevrino, di formazione protestante, di cultura cosmopolita, GIAMPIETRO VIESSEUX (17779-1863) che nel 1820 aprì a Firenze il "Gabinetto Scientifico-Letterario" e nel 1821 fondò l' "ANTOLOGIA", che per dodici anni, fino a quando cioè nel 1832 per le pressioni dell'Austria che chiese di sopprimerla, fu un efficace strumento di cultura, di educazione nazionale e di liberalismo.
Il Palazzo Buendelmonti che era la sede, divenne un centro nazionale d'incontri e di discussioni, e poi da questi l' "Antologia" stampava oltre 700 copie molte delle quali diffuse fuori della Toscana. (ma allo scopo di giungere anche ai contadini, alcune tematiche delle nuove tecniche agrarie, le divulgarono attraverso giornali agrari e i tipici "almanacchi" in uso nelle campagne toscane.

Si avvaleva di molti napoletani esuli, GIUSEPPE POERIO, GABRIELE PEPE, PIETRO COLLETTA, PIETRO GIORDANI, NICCOLO' TOMMASEO, GIUSEPPE MONTANI, e molti provenienti dall'esperienza del lombardo "Conciliatore".
Oltre al Viesseux, l'apporto finanziario lo garantivano proprietari terrieri, aristocratici, e uomini d'affari liberali, come COSIMO RIDOLFI, BETTINO RICASOLI; ENRICO MAYER e altri, autori del liberismo in economia, impegnati nella ricerca e nella divulgazione di nuove tecniche agrarie, promotori di asili e scuole di mutuo insegnamento. Alla rivista, fondatori, redattori, scrittori cercarono di dare un'impronta illuministica moderata, caratterizzandola in funzione pedagogica e riservando alla letteratura un posto marginale rispetto all'economia, alla statistica, al diritto, alle scienze.

Abbiamo parlato di pressioni austriache, che non furono poche. L' imperatore considerava la Toscana come un proprio feudo e da Vienna voleva imporre la propria volontà a Firenze; ma trovò nei ministri granducali e nel fratello FERDINANDO II una gran resistenza che solo qualche volta riuscì a vincere.

Collaboratori efficaci del granduca furono il principe DON NERI CORSINI, LEONARDO FRULLANI e il conte VITTORIO FOSSOMBRONI. Il Corsini, avviato fin dalla giovinezza nella carriera diplomatica, aveva acquistato una grande pratica negli affari di stato sostenendo vari uffici sotto i Lorenesi e sotto l'Impero. Aborriva dalle idee reazionarie, favoriva il governo mite e pacifico e sosteneva l'indipendenza del granducato dall'Austria. Il Frullani era uomo probo e valente giureconsulto e mantenne la direzione delle Finanze con grandissima rettitudine, contribuendo non poco alla floridezza economica dello Stato. Ma il più valido collaboratore di Ferdinando III fu il FOSSOMBRONI.

"Questi - scrive il CAPPONI - era una mente di prim'ordine per la forza e l'estensione delle sue facoltà naturali, ma alla rapidità, alla giustezza, alla ammirabile lucidità dei suoi sguardi non rispondevano abbastanza la profondità del pensiero e del sapere. Una pigrizia calcolata gli impediva ogni sforzo di meditazione e di lavoro; la sua grande continua cura era di vivere lungamente, dolcemente, allegramente; amava i libri che lo divertivano, la forza, di penetrazione gli teneva luogo di studio. Il suo amor proprio era eccessivo e geloso, sebbene velato da forme dolci e da un'apparenza noncurante; ogni qualvolta questo amor proprio fosse offeso, aspettava la sua vendetta e la proseguiva con una memoria inesorabile. Si mostrava quasi cinico, amava circondarsi di uomini oscuri che potesse disprezzare o burlare; devoto, ma senza pensiero religioso, difendeva nei piccoli intrighi i suoi favoriti; poi, se rischiava di compromettersi, li abbandonava. Integro nell'amministrazione dello Stato, ma permettendo le dilapidazioni degli impiegati subalterni, era nel suo particolare di un'economia qualche volta troppo accurata".

Nella politica d'indipendenza dall'Austria i1 Fossombroni fiancheggiò validamente il suo principe. Quando da Vienna si facevano sollecitazioni per concludere una convenzione postale, egli scrisse: "A nessun governo italiano sotto i politici rapporti può essere conveniente affidare all'Austria il proprio carteggio". E quando l'imperatore insisteva sul granduca perché persuadesse gli altri principi a stringere una lega italiana, il Fossombroni disse: "Vogliamo esser padroni in casa nostra; perciò non vogliamo austriaci soldati che fanno qui loro i padroni".

Energia e prontezza nel mandare a vuoto i maneggi dell'Austria, il Fossombroni le mostrò subito dopo la morte di FERDINANDO III, avvenuta il 18 giugno del 1824. L'ambasciatore austriaco conte di BOMBELLES pretendeva che si aspettasse il permesso di Vienna, prima di proclamare il nuovo granduca; ma VITTORIO FOSSOMBRONI sostenne i diritti della Toscana come stato indipendente e il 19 giugno fece pubblicare l'editto con cui LEOPOLDO II annunciava ai sudditi la sua assunzione al trono e confermava in carica gli antichi ministri.

Il 1824 registrò la morte di vari principi. Il 10 febbraio si spense in Moncalieri VITTORIO EMANUELE I; il 21 dello stesso mese morì EUGENIO BEAUHARNAIS, già viceré d'Italia; il 13 marzo cessò di vivere a Roma MARIA LUIGIA, lasciando il trono di Lucca al figlio Carlo Ludovico, e infine il 16 settembre avvenne la morte di LUIGI XVIII che portò sul trono di Francia CARLO X.

LEOPOLDO II D'ASBURGO-LORENA (nato a Firenze nel 1797- figlio di Ferdinando) aveva ventisette anni quando diventò granduca di Toscana. Era uomo studioso, ma non di grande ingegno; era mite, giusto, alla mano; ma non aveva la preparazione necessaria per reggere uno stato; e fu una vera fortuna che volle proseguire la politica illuminata del padre, e che con al suo fianco volle tenere il FOSSOMBRONI e il CORSINI: il Frullani era morto e al suo posto era stato messo GIAMBATTISTA NOMI, che nel novembre fu sostituito da FRANCESCO CIAMPINI.
Il governo di LEOPOLDO II fu il migliore dei governi italiani di quel tempo. Il granduca, animato "da paterna sollecitudine a favore di ogni classe dì persone", abolì la tassa del "sigillo delle carni e provento dei macelli"; diminuì di un quarto la tassa prediale; istituì il Corpo degli ingegneri; riformò gli statuti della Banca di Sconto di Firenze, istituita nel 1817, riducendola ad una specie di accomandita, nella quale il governo si riservava solo una quarta parte delle azioni costituenti il capitale; diede principio al prosciugamento della maremma grossetana; riordinò, secondo concetti moderni, la magistratura, e permise che società private istituissero scuole e casse di risparmio.

Vuol essere qui ricordata un'altra opera che fa onore al governo di LEOPOLDO II e cioè la partecipazione della Toscana alla spedizione scientifico-letteraria in Egitto e nella Nubia, organizzata dal francese CHAMPOLLION.
IPPOLITO ROSELLINI, che si era acquistata molta fama negli studi orientali, aveva chiesto al Granduca di concedergli di partecipare alla spedizione. Leopoldo aveva bene accolta la domanda e, interpellati i suoi ministri, ne aveva ottenuto la seguente risposta: "Si tratta di un paese dove l'antico commercio toscano ebbe grandiosi e ricchi stabilimenti, e che per la sua posizione, offre ancora al commercio attuale i più naturali ed estesi vantaggi, onde può esser sempre utile ben conoscerlo e moltiplicare le nostre relazioni con il medesimo. Per tali motivi comparisce al Consiglio conveniente l'idea d'associare un professore toscano a quest'impresa scientifico-letteraria; e nessuno vi può essere più del Rosellini adatto, ed anche per la fiducia e la stima che Champollion gli accorda. I1 Consiglio oserebbe proporre di associare alla Commissione un naturalista incaricato di raccogliere per i nostri Musei di Storia Naturale e per i nostri Giardini di Botanica quegli oggetti dei quali mancassero, e che con leggerissima spesa potrebbero esser acquistati in Egitto. Utile in questo rapporto fu la spedizione RADDI al Brasile".

GIUSEPPE RADDI era stato mandato da Ferdinando III nel 1817 in Brasile e si era là procurato un cospicuo materiale per il museo di Storia Naturale.
Leopoldo II concesse oltre che al Rosellini pure al Raddi di partecipare alla spedizione, che ebbe inizio nell'estate del 1828. I due dotti toscani visitarono l'Egitto e la Nubia, affrontando disagi e fatiche. Il Raddi poi ammalatosi si mise sulla via del ritorno, ma non riuscì rivedere la Toscana, perché, giunto a Rodi, vi morì il 26 settembre del 1829. I1 Rosellini tornò invece in Toscana verso la fine del medesimo anno, recando del ricchissimo materiale archeologico, con il quale più tardi si formò il Museo Egiziano e che lo stesso Rossellini illustrò in una dotta opera- intitolata "I monumenti dell'Egitto e della Nubia".
Di LEOPOLDO II parleremo ancora negli avvenimenti del 1830, durante la rivoluzione dell'Italia Centrale (Modena, Parma, Bologna, Ancona)


LA QUARTA PARTE DI QUESTO PERIODO > >

MORTE DI LEONE XII ED ELEZIONE DI PIO VIII
MORTE DI FRANCESCO I DI NAPOLI - CARLO ALBERTO IN SPAGNA
IL GOVERNO DI CARLO FELICE
CARLO ALBERTO IN SPAGNA E RICONCILIAZIONE CON IL RE DI SARDEGNA

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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