ANNI 1834-1845

LE REPRESSIONI PONTIFICIE
IL "MANIFESTO DI RIMINI" - D'AZEGLIO " I CASI DI ROMAGNA"

PROCESSI E CONDANNE NELLO STATO PONTIFICIO - IL MOTO DI RIMINI -
LUIGI CARLO FARINI E IL MANIFESTO DI RIMINI - IL D'AZEGLIO E "GLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA"
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I PROCESSI E LE CONDANNE NELLO STATO PONTIFICIO


Dopo il moto bolognese (che abbiamo narrato in altre precedenti pagine), la polizia pontificia aveva eseguito numerosi arresti in Romagna e ad Ancona, a Macerata, a Fermo, a Loreto e a Perugia, dove si sospettava che i liberali ordissero trame; però, nonostante gli arresti, era continuato il fermento e si erano moltiplicati gli attentati, gli omicidi provocati dagli odi in crescita, specie in Ravenna, dove la sera del 14 gennaio del 1845 era stato ucciso il brigadiere dei carabinieri pontifici Antonio Sparagani.

Governava la provincia di Ravenna il cardinale FRANCESCO SAVERIO MASSIMO, che aveva sostituito da poco l'Amat. Egli chiese l'intervento nella sua provincia della commissione militare istituita a Bologna dallo Spinola, perché giudicasse coloro che si sospettavano autori dell'assassinio dello Sparagani; e la Commissione, trasferitasi a Ravenna, giudicò sommariamente 70 individui e con sentenza del 31 marzo condannò a morte GIACOMO BRAGIOLI e FRANCESCO CASADIO. Degli altri imputati, 4 furono condannati a quindici anni di galera, 6 a dieci, 4 a sette, 10 a cinque e 12 da tre a due anni; 20 furono lasciati in carcere per sei mesi e soltanto 10 furono prosciolti. Il Pontefice diminuì ai condannati due terzi della pena.

Nella relazione della Commissione una grave constatazione era fatta:
"Tutta, la popolazione di Ravenna - era detto - è nemica acerrima del Governo e i registri politici portano a conoscere un numero di circa solo trenta individui che possano dirsi affezionati al Governo della Santa Sede".
Dal canto suo il cardinal Massimo così scriveva, il 22 agosto del 1845: " ....tolti i vecchi, le donne, gli adolescenti delle città e una parte ben piccola della classe agricola, non ancora guasta del tutto, nelle campagne, il resto della popolazione, dai diciotto anni in sopra, meno pochissimi spauriti legittimisti, è tutta per massima parte ostile al Governo". E questo giudizio era condiviso dal giudice del tribunale di Ferrara DE LUCA-TROUCHET, che in data del 15 settembre scriveva: "I pochissimi amici del Governo non hanno voce in queste province, perché appunto sono pochi e l'universale è nemico".

Stando così le cose -e l'ostinazione a non volerle capire- non può recare meraviglia che i liberali di ogni tendenza preparassero delle rivolte. Una ne fu organizzata nel 1845 dai carbonari, mazziniani e riformisti per, iniziativa del dottor CARLO LUIGI FARINI di Russi, di LIVIO ZAMBECEARI, di RAFFAELE PASI, dei fratelli CALDESI di Faenza, del conte BIANCOLI e dell'ANDREINI di Bagnacavallo e da parecchi altri.
L'insurrezione che doveva scoppiare simultaneamente in diversi punti, per l'insufficiente organizzazione scoppiò soltanto a Rimini, dove PIETRO RENZI, alla testa di un centinaio di fuorusciti, il 23 settembre, sollevata la popolazione, colse di sorpresa la guarnigione pontificia, composta da due compagnie di fanteria, quattordici dragoni e quaranta carabinieri, e la costrinse ad arrendersi.
Impadronitosi della città, il Renzi istituì un governo provvisorio, che egli stesso presiedette e in cui ebbe a collaboratori il CESI e il GRANDI; ma questo governo non durò che tre giorni: all'annuncio che da Forlì era partito un battaglione pontificio, il Renzi - sul cui conto poi corsero gravi accuse - sciolse la banda, e gli insorti, abbandonata Rimini, parte si rifugiarono a San Marino e parte in Toscana.
Lo stesso fece un gruppo di circa duecento uomini raccolti nel faentino e nel forlivese e capitanata da PIETRO BELTRAMI da Bagnacavallo e da RAFFAELE PASI. Attaccata alle balze, presso Brisighella dagli Svizzeri pontifici, sebbene inferiore di numero, la banda di insorti si difese con valore e costrinse il nemico a non molestarla nella ritirata.
Dalla Toscana i rifugiati romagnoli passarono in gran parte in Francia. "Io ho sempre presente all'anima - scrive ATTO VANNUCCI (I Martiri della libertà dal 1794 al 1848) - il triste momento in cui vidi quegli infelici imbarcarsi a Livorno e lasciare con la patria tutte le umane dolcezze. Si era nei primi giorni del novembre 1845. Si vedeva molta gente accorsa sul posto a dar loro l'ultimo addio. Tutti eravamo tristi, tutti ci sentivamo il cuore oppresso alla vista di quei generosi che lasciavano le domestiche gioie e l'amor delle madri, delle spose e dei figli per andare alle amarezze dell'esilio, per andare a mostrare alle genti straniere le nostre sciagure".

Fu in occasione di quei moti che LUIGI CARLO FARINI, esule in Toscana, scrisse a Lucca il famoso "MANIFESTO DI RIMINI ai Principi e ai Popoli d'Europa", che prima fu stampato a Rimini dal Renzi, poi a Firenze, e quindi fu diffuso in tutta Italia e in Europa.

( E qui lo dobbiamo riportare integralmente e letteralmente ) :

23 SETTEMBRE 1845 - MANIFESTO DI RIMINI

"Allorquando il Pontefice Pio VII era restaurato in questi Stati, dava fede alle parole mandate innanzi al Motuproprio del 1816 di stabilire una maniera di reggimento, che ritraesse da quello del cessato Regno d'Italia, e fosse accomodato ai bisogni della progredite civiltà. Ma non andò guari che essendosi pubblicato il Codice civile e criminale, si parve manifesto lo studio di fare copia di un passato odioso, anziché mantenere le date promesse, e seguire i consigli che il Congresso di Vienna aveva dato alla Romana Corte. Nulla di meno per quanto fosse amara alle popolazioni la delusione delle concepite speranze, e per quanto andassero poco ai versi delle medesime la signoria non solo, ma la privilegiata potestà e fortuna del ceto clericale, che teneva lontano il laicale dai principali onori e ministeri, pure il malcontento non si tradusse in atti violenti, sebbene correndo gli anni 1821 e 1822 Napoli e Torino levassero grida ed insegne di libertà. Ma poiché gli Austriaci ebbero compressi i moti di quelle province italiane, la Corte Pontificia, lungi dal rimanervi paga della quiete, serbata in mezzo a tanto bollore di desideri e concitamenti di animi, volle prendere vendetta dei pensieri degli affetti e dei sentimenti, e rialzatasi dalla sofferta paura, diede mano ad inquisizioni politiche, le quali gettarono le semenze di quegli odi di parte, onde si colsero nell'avvenire tanti frutti di sangue.

" Moriva Pio VII nel 1823 e montava sulla cattedra di San Pietro Leone XII, il quale essendo di natura prona agli estremi, gridò la croce sugli amatori del vivere libero e civile, e mandò a governare le Romagne un Rivarola, che ne fu accusatore e giudice, e molti ne fece sostenere, molti ne dannò al carcere e molti all'esilio, senza riguardo di età, di condizione e di onorata vita. E nel tempo che il nuovo Pontefice travagliava in questa modo le opinioni e le coscienze dei sudditi, poneva la scure sulle radici della civiltà, ampliando i privilegi delle manimorte e locupletandole, abolendo i tribunali collegiali, ridonando nuovo vigore a quello del Santo Officio, concedendo facoltà agli ecclesiastici di ricercare e giudicare delle cause dei laici; imponendo l'uso della lingua latina nelle Curie, nei Collegi e nelle Università e mettendo in soggezione dei preti la pubblica istruzione ed ogni pio stabilimento. Poi, quasi ché il Rivarola non avesse oppresso e contristato abbastanza le province romagnole, gli mandava dietro una così detta Commissione costituita di preti e di soldati, la quale per anni ed anni stanziò nelle medesime, le insanguinò e le tribolò cosiffattamente che la memoria e l'astio durano ancora vivi e solenni. A Leone morto successe Pio VIII, il quale camminò sulle orme dell'antecessore, e lungi dallo studiare modo per sanare le gravi ferite, ne procacciò di nuove e ricolmò la misura della sofferenza. Il rivolgimento avvenuto in Francia nell'anno 1830 e gli altri che accaddero in quell'epoca in altri stati d' Europa, furono occasione a ciò, che passato di vita Pio VIII e vacante l'Apostolica Sede, le popolazioni dello Stato Romano ravvivarono di poter scuotere e rendere più lieve il giogo della pontificia soggezione.

"Ne' primi di febbraio del 1831, il Governo cadde da Bologna fin presso la capitale, e cadde senza sforzo e senza violenza; né certamente si sarebbe rialzato da quella caduta se l'Austria non fosse sollecitamente accorsa con le sue truppe a sollevarlo e fargli puntello. Ma nel tempo che codesta Potenza comprimeva il moto popolare, alla Francia si univa l'Inghilterra e la Prussia per esortare il nuovo eletto Pontefice Gregorio XVI a mutare in meglio il reggimento di modo da potersi sperare una durevole pace; per la qual cosa i rappresentanti delle quattro potenze presentavano il 21 maggio del 1831 una nota diplomatica, nella quale, fra le altre riforme, proponevano fossero i laici preposti a tutte le dignità e a tutti gli uffici civili amministrativi e giudiziari; il popolo eleggesse i municipali consigli, questi nominassero i provinciali, da cui fosse poi eletta una corte suprema da avere sede in Roma ed autorità di regolare le bisogne civili e militari e di sovrintendere il debito pubblico.

" I sudditi pontifici aprirono il cuore a dolci speranze, ed ebbero conoscenza di un somigliante atto quando il Pontefice annunciava pubblicamente che stava per fare mutamenti tali, da segnare l'inizio di un' Era novella. E sebbene non ponessero molta confidenza nella sincerità delle promesse della Corte, che di recente ancora aveva fatto segno di solenne mala fede, dichiarando nulla la convenzione alla capitolazione anconitana accordata dal cardinale Benvenuti, pur munito d'illimitati poteri, e nonostante questo ci fu quiete nell'aspettativa di giorni migliori. Ma a poco andare le speranze svanirono, perché nell'editto pubblicato il 5 luglio non era detto né di popolare elezione dei municipali consigli, né della istituzione del supremo Consiglio di Stato, né di alcun'altra di quelle provvisioni, che si convengono al vivere civile nelle temperate monarchie. Intanto gli Austriaci sgombravano dalle Legazioni alla metà del mese stesso e la custodia delle leggi e dell'ordine pubblico rimaneva affidata ad una guardia cittadina approvata dal Governo.

" Ma quantunque le popolazioni male soddisfatte rimanessero in balia di sé medesime, non solo rispettarono la sovranità, ma fornirono certe prove di amore alla quiete e di moderati pensieri e desideri. Fra quali merita di essere principalmente ricordato l'aver mandati a Roma alcuni cittadini deputati delle diverse province, fra i più rispettati per onestà, reputati per sapere, e riveriti per grado, affinché rappresentassero al Sovrano Papa i bisogni, implorassero i provvedimenti, e studiassero di porre il suggello ad una vera concordia fra governanti e governati. Ma la Corte, che manifestamente osteggiava il corpo della guardia cittadina, e tutti i novatori per temperanti che fossero, non solo rifuggiva dal pensiero di dare ascolto ai reclami, ma come mill'anni fa puniva coloro che li avanzavano; e mentre adulava e lusingava i deputati e li teneva a bada con giri di parole, andava raggranellando quanti uomini d'arme potesse, e riuniva a Rimini una truppa costituita nella maggior parte di banditi e di scherani sotto il comando del cardinale Albani, al quale affidava l'incarico non di pacificare, ma di invadere e conquistare le Legazioni; non di accomodare il reggimento ai pronunciati bisogni ed alle assegnate volontà, ma d'instaurare il dispostismo in tutta la sua pienezza.

"Così mentre da un lato si vedevano i sudditi supplichevoli offrire pace a patti ragionevoli, dall'altro si andavano affilando le armi che dovevano essere intinte nelle vene dei cittadini in nome di Colui che rappresenta in terra un Dio di mansuetudine e di amore.
"Le bande radunate dall'Albani mossero improvvisamente all'impresa in sul cominciare dell'anno 1832, e le guardie cittadine commosse all'annuncio corsero a Cesena per far fronte anche con gli inermi petti a coloro che di voglie ladre e sterminatrici già avevano fatte prove in Rimini e che dal condottiero erano spronate a violenze inaudite con la promessa dei premi temporali e spirituali. Ma gli Austriaci non lasciarono tempo e comodità alla difesa, perché entrarono nelle province di Bologna e Ferrara nel giorno stesso in cui i Papali avanzavano in quella di Forlì: onde accadde che imbaldanziti gli assalitori dalla facilità e sicurezza della vittoria, saccheggiassero Cesena e le circostanti chiese; poi giunti a Forlì facessero orrido macello di vecchi, fanciulli e femmine, mentre altri mossi da Ferrara spargevano sangue a Lugo, a Bologna ed a Ravenna; e così che cominciava di fatto la promessa Era Novella del pontificato di Gregorio XVI.

" Noi lasciamo alla storia l'ufficio di tramandare ai posteri, queste dolentissime memorie, tenendo che dai presenti venga a disonore e risentimento imputata la libera e vera narrativa, e ci contentiamo di segnare i sommi capi delle accuse che le popolazioni fanno al governo del regnante Gregorio; accuse, ciascuna delle quali è soverchia per dare il diritto di altamente protestare contro la tradita fede, la conculcata giustizia, la straziata umanità e l'improntitudine della tirannide.
Nel 1832 la setta dei Sanfedisti reclutò fra i più perduti individui delle più abiette classi della società, una mano di gente cupida e facinorosa la quale prese sacramento di fare sterminio dei liberali senza compassione dei pianti delle donne e delle strida dei fanciulli, ed in nome del Vicario di Cristo furono benedetti i pugnali di questi centurioni dell'Apostolica sede, i quali si lordarono del battezzato sangue dei fratelli.

"Più tardi il Governo scese alla vergogna di vestirli di uniforme ed intitolarli volontari pontifici, e si videro e si udirono pubblicamente vescovi e preti predicare la novella crociata adescando gli incauti all'amo dell'immunità e di privilegi, ed esasperando gli odi di parte. Centurioni e volontari per lunghi e lunghi anni impunemente percossero, ferirono, derubarono, uccisero a tradimento i cittadini tranquilli; gli assassini si annoverarono a centinaia; e migliaia e migliaia le ferite e le percosse, senza dire delle contumelie e dei soprusi di ogni maniera: e come se l'impunità non bastasse, andarono a loro lodi dal Governo, avanzamenti di gradi e decorazioni di ordini cavallereschi. Non il Pontefice, non Roma, non i Cardinali governarono per otto o dieci anni i popoli delle Legazioni, ma una sanguinaria fazione di plebe imbestialita che tenne le vesti e il ministero di governo. I consigli municipali e tutte le magistrature furono invasi dagli accoliti o fautori della medesima; si chiusero le Università, e fu tolto a molta gioventù di continuare gli studi ed ottenere i gradi accademici, ed a molti che li avevano ottenuti non solo fu proibito di accedere ai pubblici impieghi delle comunità, ma perfino di esercitare le libere professioni.
Il Bernetti segretario cardinale di Stato scrisse lettere circolari agli alti presidi dei tribunali ed ai governatori, con le quali faceva invito ad applicare ai liberali sempre il massimo grado della pena portata dai Codici, ed il minimo ai fedelissimi, quando non si trovava una via per assolverli. E nei Codici era sancito che i delitti politici fossero ricercati è giudicati da' tribunali speciali; che gli ecclesiastici avessero non solamente un tribunale speciale per sé, ma eziandio giudicante delle cause de' laici contendenti con i medesimi, ed era decretata la pena di morte per le più brevi colpe di lesa maestà, e con la pena di morte la confisca de' beni.

"L' istruzione intanto non solo rimaneva in assoluta podestà del Clero, ma i Gesuiti specialmente la presero a dirigere e ad amministrare, ed il mondo può immaginare il come, senza commenti né mestiere. La pubblica opinione ogni giorno più votava di perfidia e di stolidezza e il Governo, a talché gli stessi devoti alla Romana Sede non si tenevano dal vituperarla altamente; ma non per questo essa mutava consiglio in modo che si trovava scaduta dall'universale amore e rispetto, e già prevedeva con certezza che una volta abbandonata dalle truppe austriache occupanti, le province sarebbero nuovamente insorte, assoldava due reggimenti di fanti stranieri, che erano comperati nella Svizzera da vari mercanti ingannatori e frodatori del governo e dei reclutati.
Così per sopperire alle ingenti spese dell'arruolamento e del mantenimento di codesti Pretoriani, e per satollare la cupidigia dei gregari fedisti, e per dare premio e favore alle congreghe delle spie ed alle masnade dei sicari, e per mantenere la pompa lussureggiante della Corte e gli ozi insolenti dei cortigiani, era fatta necessità di contrarre prestiti rovinosi per lo stato, di accrescere a dismisura i pubblici tributi imposti sopra un nuovo censimento pieno di erronei calcoli e falsi apprezzamenti, e di appaltare le dogane e i pubblici balzelli a chi per censura anticipava denaro.

"Da ciò l'insolente fortuna di pochi, le strettezze di tutti i possidenti, lo sfrontato lusso dei reggimenti svizzeri, l'abiezione e la nudità delle truppe indigene; da ciò una universale mala soddisfazione, un'ira, un odio in molti che ad irrompere aspettavano tempo ed occasione. I quali effetti dell'insano reggimento della Romana Corte erano stati con ammirabile sagacia predetti da Lord Seymour ambasciatore d' Inghilterra, allorquando ritirandosi dalle conferenze scriveva nel settembre del 1932 ai rappresentanti delle altre nazioni in questa sentenza: - Che gli sforzi di più d'un anno e mezzo fatti dalle cinque Potenze per ristabilire la tranquillità negli Stati Pontifici erano stati inutili: che d'altronde non era stata accettata nessuna delle raccomandazioni fatte nella Memoria del 1831 per rimediare ai principali vizi del governo papale; e che questi lungi dall'adoperarsi per calmare il malcontento, lo aveva accresciuto anche dopo le negoziazioni, per cui un corpo di Svizzeri non basterebbe a mantenere la tranquillità la quale presto o tardi sarebbe stata turbata.

"Ed infatti, a mano a mano che nel volgere del tempo si andava dissipando il terrore, gli spiriti della parte avversa al Governo si rialzavano minacciosi più quanto più compressi erano stati ed il covato risentimento si andava manifestando in diverse maniere, e principalmente con qualche atroce fatto di reazione, contro i più esosi persecutori. Infelicissima condizione, se ve ne è una al mondo, quella di popoli che da natura hanno ricevuto generosità di cuore ed impeto di affetti, l'essere trascinati dalle provocazioni e dalle improntitudini di una fanatica setta governante, a stato permanente di sfida, di guerra e d'insidia contro gl'insidiatori ammantati delle sacre vesti della Religione e del Sovrano ! È nella storia romagnola un grave ammaestramento per i reggitori dei popoli: che quando in luogo della giustizia si pone lo spirito delle fazioni civili, il potere non è più conciliatore e giudice, ma ladro e omicida; è infranto ogni vincolo della società civile, la sola forza rimane arbitra delle sorti dei cittadini.

" E importa grandemente ripetere mille volte ai popoli ed ai potentati d'Europa, che le continue inquisizioni e le inaudite persecuzioni politiche fatte negli Stati romani dal 1820 fino ai giorni nostri, e la guerra contro ai pensieri, alle dottrine ed ai sentimenti che più onorano la umana specie ed i giudici sommari ed i molteplici assassini commessi in nome della legge; hanno inquinato e corrotto tutti gli animi con l'odio e con la vendetta, e non solo hanno tolto ogni morale considerazione al Romano Governo, ma lo hanno fatto considerare un nemico implacato ed implacabile della civiltà, spogliatore delle sostanze, insidiatore della libertà individuale e della vita contro al quale ogni mezzo di difesa ed offesa si tiene lecito ed onesto dalle coscienze per cagione sua pervertite. A quel modo che noi notiamo di vitupero ed infamia le provocazioni, le menzogne e le arti perverse del cieco dispotismo romano, così non intendiamo innescare rancori o le popolari vendette, perché queste e quelli offendono altamente il senso civile di tutti i popoli, la Divinità e la società; ma intendiamo bensì far ricader la responsabilità degli uni e delle altre su coloro che vi diedero origine e fomento.

" Certo che negli anni più vicini a questo, il partito contrario al governo dava segni di spiriti resti, insubordinati e minacciosi, certo che nell'agosto del 1843 nella provincia bolognese si vivevano atti di ribellione. La maggior parte della popolazione, quantunque si astenesse allora dal seguire la rischiosa via dei rivolgimenti operati con la forza, li applaudiva. Tuttavia credeva il Governo fosse capace di sentire i bisogni universali dei comuni desideri, e che avrebbe nella necessità preso il consiglio di come ricomporli. Ma questo lungi dal vedere nel fatto della banda armata bolognese e nel concitamento degli animi di tutto lo Stato, il segno di quel malcontento universale che i più insofferenti cominciavano a tradurre in atto di ribellione, montò nell'ira di partito, prese consiglio dalla paura, operò sotto l'imperio di parossismi dell'una o dell'altra, persuase a sé medesimo di poter dispensare l'infamia al pari dei colpi di moschetto e di mannaia, gridò al mondo essere quel moto procacciato dalle infami ree passioni di pochi; e che i molti si reputavano felici della tranquilla sudditanza; ma intanto costituiva in permanenza le commissioni militari giudicanti senza alcun forma di processo e senza ufficio di difesa e collocò nelle medesime i soldati più rotti a libidine di sangue e di oro ed i più efferati carnefici di toga.

" Vano il ricordare i tanti esili e le innumerevoli carcerazioni, le morti e le confische, di cui il mondo ha conoscenza! Procedimenti e giudizi degni dei secoli barbari, nei quali la stoltezza e l'imprudenza gareggiano con la crudeltà e dimostrano che, dove la più sfrenata delle passioni fa velo agli intelletti, non solamente si trascendono i limiti del giusto e dell'onesto, ma quelli perfino della ragione e del senso comune.
Perché le sentenze che da due anni a questa parte si vanno pubblicando dalla così detta Commissione mista residente nelle quattro Legazioni, sono tinte di crudeltà così tanto stolta da offendere perfino il pudore dei giudici musulmani, ed anziché enunciati di giustizia appaiono al mondo mandati di sangue connessi al carnefice negli abusati nomi di Dio, della Legge e del Principe !
Il cuore rimane così serrato nel vedere queste miserie che l'intelletto viene meno all'ufficio di esporre le altre mille da cui siamo travagliati. La consuetudine ci ha ormai resi indifferenti a molte di queste miserie; siamo minacciati ad ogni ora della vita, dell'esilio e della perdita della libertà individuale; o appena poniamo attenzione ai crescenti tributi, alla malversazione del pubblico erario, alla cupidigia fiscale provocante e perpetuante, alle liti civili, alle quotidiane violazioni di domicilio, all'impunità de' calunniatori, alla necessità dei passaporto per dare un passo fuori del municipio, e ad altre innumerevoli calamità partorite dal dispotismo.

"Vogliamo soltanto che i sovrani ed i popoli d'Europa considerino nella sagacia loro e sentano nella coscienza di uomini battezzati in Cristo, se questa nostra condizione sia sopportabile, e se in tanto spargimento di lumi, in tanto movimento di capitali progresso delle industrie, possa esserci un popolo collocato nel centro d'Italia, in contatto con altri stati che più o meno avanzano nel modo del vivere civile, lasciarsi come un rozzo gregge condurre al carcere ed al patibolo; essere contento di una Censura che solitamente inceppa gli ingegni, e della gesuitica istruzione; soffrire che sia negato agli scienziati non solo di adunarsi in congresso, ma di impedire a questi di adunarsi negli altri Stati italiani; e che la stampa, il commercio dei libri, le strade ferrate e perfino gli asili d'infanzia son colpiti d'anatema !

" Noi non ignoriamo come a onta di tante gravissime ragioni qualcuno darà colpa alle popolazioni dello Stato romano perché reclamando riforme e guarentigie di vivere riposato e civile protestano contro la tirannide con le armi in mano. Non l'ignoriamo e ce ne duole; perché abbiamo la coscienza dei mali dei violenti rivolgimenti politici e della loro natura, così poco conforme a quella della cristiana civiltà.
Ma preghiamo tutti i Sovrani d' Europa e tutti quelli che siedono nei loro consigli a considerare che spinti dalla necessità abbracciamo questo partito; perché siamo impediti di manifestare i nostri bisogni e i desideri attraverso qualsivoglia rappresentanza costituita, e non solo siamo privati del diritto di petizione, ma ridotti a tale modo che anche il chiedere, anche il lagnarsi è ritenuto un delitto di lesa maestà, quindi non ci rimane altra via per ottenere la fine dei mali da cui siamo oppressi.

" E non è di guerra lo stendardo che noi innalziamo, ma di pace; e pace gridiamo e giustizia per tutti, e riforma di leggi e garanzie di bene durevole. Non sarà per noi che una sola goccia di sangue sia sparso. Noi amiamo e rispettiamo i soldati pontifici, noi li abbracciamo come fratelli che hanno in comune con noi i bisogni, i desideri e gli oltraggi; noi cerchiamo pure di togliere il Pontefice dalle mani di una fazione cieca e fanatica e abbiamo in cuore di bene meritare da lui e dalla dignità della Apostolica Sede, nel tempo stesso in cui bene meritiamo della patria e della umanità.
Noi veneriamo l'ecclesiastica gerarchia e tutto il clero, e speriamo che seguendo gli ammaestramenti del Vangelo, considererà il Cattolicesimo nella sua vera e nobile essenza civilissima e non sotto il meschino ed acattolico aspetto di una intollerante setta. E perché né ora né mai siano interpretate sinistramente le nostre volontà in patria, in Italia e fuori, proclamiamo altamente di rispettare la sovranità del Pontefice come Capo della Chiesa universale, senza restrizione e nessuna condizione; ma per rispettarlo e obbedirlo come Sovrano temporale reclamiamo e domandiamo:

"1° - Che conceda piena e generale amnistia a tutti i condannati politici dall'anno 1821 a questo giorno.
2° - Che ci dia codici civili e criminali modellati su quelli degli altri popoli civili d'Europa, i quali consacrano la pubblicità dei dibattimenti, la istituzione dei giurati, l'abolizione della confisca e quella della pena di morte per le colpe di lesa maestà.
3° - Che il tribunale del Santo Officio non eserciti nessuna autorità sui laici, né su questi abbiano giurisdizione i tribunali ecclesiastici.
4° - Che le cause politiche siano quindi d'ora innanzi condotte e punite dai tribunali ordinari giudicanti colle regole comuni.
5° - Che i consigli municipali siano eletti liberamente dai cittadini ed approvati dal sovrano; che questi elegga i consigli provinciali fra le terne presentate dai municipali, ed elegga il Supremo Consiglio di Stato fra quelle che saranno avanzate dai provinciali.
6° - Che il Supremo Consiglio di Stato risieda a Roma, sovrintenda al debito pubblico ed abbia voto deliberativo sui preventivi e consuntivi dello Stato e lo abbia consultativo nelle altre bisogne.
7° - Che tutti gl'impieghi e le dignità civili e militari e giudiziarie siano per i secolari. 8° - Che l'istruzione pubblica sia tolta dalla soggezione dei vescovi e del clero, al quale sarà riservata l'educazione religiosa.
9° - Che la censura preventiva della stampa sia ristretta nei termini sufficienti a prevenire le ingiurie alla Divinità, alla religione Cattolica, al sovrano ed alla vita privata dei cittadini. 10° - Che sia licenziata la truppa straniera.
11° - Che sia istituita una guardia cittadina alla quale siano affidati il mantenimento dell'ordine pubblico e la custodia delle leggi.
12° - Che infine il Governo entri nella via di tutti quei miglioramenti sociali che sono reclamati dallo spirito del secolo, ad esempio di tutti i Governi civili d'Europa.

"Noi riporremo le armi nel fodero e saremo tranquilli ed obbedienti sudditi del Pontefice non prima però che con la garanzia delle altre potenze, abbia fatto ragione ai nostri reclami e concesso ciò che domandiamo. In rassomigliante maniera ogni stilla di sangue nostro ed altrui che per mala ventura fosse sparsa non ricadrà su di noi, ma su coloro che ritarderanno o impediranno l'accordo. E se gli uomini faranno sinistro giudizio di noi, l'Eterno Giudice infallibile, che inesorabilmente danna i violenti oppressori dei popoli, ci assolverà nella sua sapientissima giustizia; in faccia alla quale sono eguali i diritti ed i doveri degli uomini ed è maledetta la tirannide che in terra si esercita.

"A Dio dunque; al Pontefice ed ai principi d'Europa raccomandiamo la causa nostra con tutto il fervore del sentimento e l'affetto degli oppressi, e preghiamo e supplichiamo i principi a non volerci trascinare alla necessità di dimostrare che quando un popolo è abbandonato da tutti e ridotto agli stremi, sa trovare salute nel disperare salute"


Il manifesto del Farini, indirizzato come si è visto anche ai sovrani e ministri che avevano sottoscritto il Memorandum del maggio del 1831 e ai consigli di Filippo Canuti per la sua vigoria e nello stesso tempo per la sua temperanza richiamò l'attenzione generale sulle tristi condizioni dell'Italia Centrale, sulle quali poco dopo fece rivolgere gli sguardi pure uno scritto di MASSIMO D'AZEGLIO intitolato "Gli ultimi casi di Romagna".

Il d'Azeglio, che prima aveva sconsigliato il moto di Rimini, ora, pur non approvandolo, lo giustificava e mentre giudicava inopportune le rivolte parziali, si scagliava contro il mal governo che spingeva le popolazioni a questi tentativi "da disperati".

Il d'Azeglio chiudeva il suo scritto consigliando gli Italiani:

"Doversi usare, prima il coraggio civile per ottenere dai nostri governi miglioramenti, istituzioni e temperata libertà, poi il coraggio militare per ottenere l'indipendenza, quando ce ne vorrà Iddio concedere l'occasione. Protestare contro le ingiustizie apertamente, pubblicamente, in tutti i modi e in tutte le occasioni possibili, è, a parer mio, la formula che esprime la maggiore necessità della nostra epoca in Italia, il mezzo più utile e la più potente azione quanto al presente. La prima, la maggiore protesta debba essere contro l'occupazione straniera, in favore del pieno possesso del nostro suolo, della nostra nazionalità e della nostra indipendenza. Non proteste a mano armata, come vollero farle a Rimini; perché una protesta a quel modo, a volerla fare ora in Italia, occorrerebbe una buona posizione militare, 200.000 uomini e 200 pezzi di batteria".

Tuttavia (non avendo armi e uomini) il "Manifesto di Rimini" del Farini e "Gli ultimi casi di Romagna" del d'Azeglio rappresentano la voce dei liberali moderati, che non dai moti inconsulti sperano il bene d'Italia, ma da sacre riforme.
Dopo le sterili congiure e i moti che hanno insanguinato la penisola, si sta avvicinando al trionfo il riformismo e fanno breccia le dottrine politiche come quelle del VINCENZO GIOBERTI; che però non sono sempre prive di contraddizioni, d'utopie, di malcelate speranze e d'inversioni di marcia dopo alcune delusioni.
Spesso Gioberti indica il fine, ma ignora spesso il mezzo; come fare la lotta.

In alcuni scritti (come nella sua Storia della Filosofia) Gioberti disprezza la democrazia, il liberismo, il truce Napoleone; poi in altri scritti invoca la prima e la seconda e Napoleone lo celebra come "mandato dalla Provvidenza perché salvasse il cattolicesimo e insieme la civiltà" "Una gran testa, l'unica nell'età moderna".
Molti conoscono il "Primato" , pochi la Storia della Filosofia, e rarissimi sono i lettori che conoscono le pagine del "Gesuita moderno" del Gioberti; "Napoleone? Recò le idee salutari dovunque giunsero le sue armi trionfali… accrebbe la comunione morale dei popoli, avvalorò le tendenze unificatrici d'Europa…sommo riformatore… riformatore sapiente….genio unitario e acuminato…genio squisitamente italico…..guerriero dell'età moderna…."
Sono pagine mirabili, che compendia tutto quello che gli uomini migliori del Risorgimento italiano pensarono e sentirono verso Napoleone, quando si posero il problema di lui fuori d'ogni polemica, con mente serena.

Peccato che il Gioberti ci abbia lasciato anche queste "perle" nei riguardi delle "democrazie".

Ed eccone una: "La "democrazia"?....Un branco di pecore innumerabili è sempre men capace e men valido del mandriano...Mentre il diritto del Principe (l'Unto dal Signore Ndr.) è divino, poiché risale a quella sovranità primitiva onde venne organato ed istituito il popolo di cui regge le sorti...La sovranità si riceve, ma non si fa e non si piglia...Ella importa la sudditanza, come un necessario correlativo; e il dire che il sovrano possa essere creato dai suoi soggetti, e trarne i diritti che lo previlegiano, inchiude contraddizione. Insomma, il sovrano è autonomo rispetto ai sudditi, e se ricevesse da loro l'autorità sua, non sarebbe veramente sovrano, perché i suoi titoli ripugnerebbero alla sua origine... I sudditi dipendono dal sovrano, e non viceversa...L'obbligazione verso il sovrano dee dunque essere assoluta, altrimenti la sovranità è nulla..."La potestà è ordinata, e da Dio procede" a ciò allude l'Apostolo (Paul. ad rom., XII,1,2). Sapete donde nasce il più grave pericolo? Dal predominio della plebe, la quale promette una seconda barbarie più profonda di quella dei Vandali e degli Unni e un dispotismo più duro del napoleonico. Guai alla civiltà nostra se la moltitudine prevalesse negli Stati". - (Vincenzo Gioberti, Storia della filosofia, cap. Della politica, vol III, Tipografia Elvetica, Capolago 1849). (Il " Del primato morale e civile degli italiani" fu pubblicato invece nel 1843).


Ma di Gioberti di Mazzini e di altri, e del Risorgimento
avremo modo di riparlarne nel prossimo e nei prossimi capitoli
ma dato che si sta avvicinando il 1848
dobbiamo parlare anche del nuovo papa, PIO IX

 Il "Primato" di Gioberti, e alle "Speranze" di Balbo


nel capitolo dal 1846 al 1847 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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