ANNO 1848

C. ALBERTO E LA LOMBARDIA - LE FAZIONI -
LE ANNESSIONI CON I PLEBISCITI
Atto Decimo

LA POLITICA DI CARLO ALBERTO E LA LOMBARDIA - IL MAZZINI A MILANO - GLI ALBERTISTI - I PLEBISCITI: PIACENZA, PARMA, MODENA E REGGIO VOTANO L'ANNESSIONE ALLO STATO SARDO - BANDO DEL GOVERNO PROVVISORIO DI LOMBARDIA PER IL PLEBISCITO - TUMULTI DI MILANO - ANNESSIONE DELLA LOMBARDIA AL PIEMONTE - VENEZIA PROCLAMA L'ANNESSIONE - LA SICILIA OFFRE LA CORONA AL DUCA DI GENOVA - PROPOSTE DI PACE DELL'AUSTRIA
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LA POLITICA DI CARLO ALBERTO E LA LOMBARDIA

L'allocuzione papale e i fatti di Napoli del 15 maggio ebbero gravi conseguenze nel Lombardo-Veneto, dove, prima nei combattenti, poi nella popolazione civile, quel richiamo dell'esercito napoletano e la parola del Pontefice smorzarono l'entusiasmo e destarono (ed era quello che si voleva) scrupoli religiosi.

Al fallimento della guerra del 1848 (di cui narreremo la seconda parte nel prossimo capitolo) la politica di Roma e di Napoli certo contribuì non poco, ma vi contribuirono maggiormente anche i dissensi politici sorti nelle regioni che si erano sollevate contro lo straniero ed erano pure diventate il teatro della guerra.
L'Italia Unita, se vogliamo iniziare da questa prima guerra, non nacque, insomma, grazie alla forza delle proprie armi, e nemmeno per l'impulso delle sue popolazioni (che anzi -e in questo capitolo abbiamo la testimonianza- erano prevalentemente antiunitarie) ma grazie a manovre diplomatiche ordite, a favore del Piemonte, o contro, dalle forze rivoluzionarie europee e da altri fattori per nulla ideologici.

Palmerston, capo del governo inglese, che esaltava la liberazione d’Italia dagli stranieri, non solo quest'anno (come vedremo in fondo) suggeriva agli austriaci di ritirarsi dalla Lombardia e concedere l'indipendenza ai lombardi (quindi non a Carlo Alberto), ma suggeriva pure al governo napoletano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia. Insomma l’Inghilterra voleva fuori lo straniero dall’Italia ma nello stesso tempo anche separare il Regno, per appropriarsi della Sicilia. L’isola, infatti, dopo l’occupazione francese dell’Algeria e la costituzione di una base navale ad Algeri, era diventata per gli Inglesi importante per controbilanciare l‘accresciuta potenza navale francese nel Mediterraneo.
Ma non dimentichiamo il già fallito tentativo degli inglesi, di spingere l'Isola all'indipendenza durante il periodo napoleonico, Indipendenza (o sudditanza) che dal 1806 fino al 1815 di fatto lo era già diventata e con una costituzione di tipo inglese già pronta; c'era Ferdinando e Maria Carolina a Palermo ma non comandavano nulla (vedi quel critico e triste periodo).

Torniamo a Milano. Vi era il partito di quelli il quale sostenevano seriamente che soltanto a guerra finita si doveva pensare all'ordinamento politico (le stesse identiche cose furono poi dette nella Resistenza del 1943-45); altri appoggiavano la sollecita unione delle province lombarde e venete al regno sardo; le medesime e altre ancora desideravano che le province liberate si governassero a repubblica; infine il popolo delle città e delle grosse terre non si mostrava mosso da sentimenti monarchici o repubblicani ma solo dalla brama di cacciare gli Austriaci (così i tedeschi nel 1943-45); il popolo della campagna invece o si mostrava indifferente o, sia per i disagi della guerra, sia per timore di rappresaglie in caso di vittoria nemica, sia per avversione alle novità, parteggiava quasi per gli Austriaci (e fra poco nella stessa Milano, qualcuno rimpianse proprio questi; e nelle città Venete della terra ferma le classi dirigenti clerico-moderate, il clero, la burocrazia, le gerarchie ecclesiastiche, i nobili e i notabili, vivacchiarono bene; e qualche industriale deve agli austriaci la propria fortuna imprenditoriale e alcuni imperi tessili.

Carlo Alberto, dimenticando che nei suoi proclami aveva dichiarato di scendere in campo per prestare aiuto fraterno e disinteressato alle popolazioni della Lombardia e del Veneto, dimenticando il compromesso stipulato con Milano che soltanto dopo la vittoria, la nazione libera avrebbe deciso del suo avvenire politico, spinto dal timore che nell'una e nell'altra regione s'istituisse (con tutti quei volontari accorsi) il regime repubblicano, fin dal 6 aprile dettava al suo ministro della Guerra FRANZINI di scrivere al Governo provvisorio di Milano la lettera seguente:

"Nel riconoscere il Governo provvisorio residente in Milano e nel trattare con esso, Sua Maestà ha inteso aver che fare con un potere il quale traeva l'autorità, che con tanto patriottismo ha saputo esercitare, dalla forza imperiosa delle circostanze e dal concetto d'ottimi cittadini in cui erano universalmente tenuti i componenti esso Governo. Ma Sua Maestà non può a meno di considerare (ed è lieta di trovarsi in ciò pienamente con il sentimento già pubblicamente e chiaramente espresso dal Governo provvisorio) che solo popolo, che con tanto valore ha saputo di recente liberarsi dal giogo straniero, spetta il sacro diritto di determinare la forma del proprio suo governo. E' perciò desiderio di Sua Maestà che il Governo provvisorio provvede, nel più breve tempo possibile, alla convocazione di quell'assemblea elettiva che dovrà sovranamente decidere dei futuri destini di queste belle province italiane; è pure desiderio di S. M., ed anche in ciò confida trovarsi pienamente d'accordo con le intenzioni del Governo provvisorio, che l'assemblea emani da un sistema di elezioni larghissimo e liberalissimo, in modo che le decisioni possano veramente riguardarsi come l'espressione più sincera del comun voto .... ".

Così CARLO ALBERTO, prima ancora che cominciassero
le vere e proprie operazioni di guerra, già suscitava i primi dissensi.
(in fondo diremo poi di chi sono queste parole)

"Il regno dell'Italia settentrionale sotto il re del Piemonte avrebbe potuto essere un semplice "fatto", creato dalla vittoria, accettato dalla riconoscenza, subìto dagli altri principi per impossibilità di distruggerlo; ma gettato in via di programma anteriore ai primordi del fatto, era il pomo della discordia là dove la più alta concordia era necessaria. Era un guanto di sfida cacciato, con la negazione dell'unità, agli unitari: un sopruso sostituendo alla vita nazionale la volontà della parte monarchica ai repubblicani: una ferita alla Lombardia che voleva confondersi nell'Italia, non sacrificare la propria individualità a un'altra provincia italiana; una minaccia all'aristocrazia torinese che paventava il contatto assorbente della democrazia milanese: un ingrandimento sospetto alla Francia, perché dato a una potenza monarchica avversa da lunghi anni alle tendenze e ai moti francesi: un pretesto somministrato ai principi d'Italia per distaccarsi dalla crociata verso la quale i popoli li spingevano: una semenza di gelosia messa nel cuore del Papa: un raggelamento di entusiasmo in tutti coloro che volevano bensì porre l'opera e occorrendo la vita in un'impresa nazionale, ma non in una speculazione di egoismo dinastico. Creava una serie di nuovi ostacoli, non ne rimuoveva alcuno. Creava inoltre una serie di necessità logiche che avrebbero signoreggiato la guerra. E la signoreggiarono e la spensero nel danno e nella vergogna".

IL MAZZINI A MILANO - GLI ALBERTISTI

Le parole sopra appartengo a GIUSEPPE MAZZINI, che, avuta notizia dei moti italiani, era partito dalla Francia ed era giunto a Milano l'8 aprile, appena in tempo per leggere fresco di stampa il proclama del re. Nell'infuriare dei partiti, il grande agitatore fornì invece prova di sincero patriottismo, predicando la concordia, senza la quale non si sarebbe potuto vincere lo straniero. Il suo contegno fu così "riservato" e così "moderato", da farlo giudicare da una parte, dal CATTANEO, come "un venduto al Re sabaudo", e all'altra da far concepire ai consiglieri di Carlo Alberto la speranza di "tirare dalla loro parte" il fiero repubblicano.

Narra lo stesso Mazzini che, dopo la caduta di Udine, gli giunse dal campo un amico, il quale, in nome del conte di CASTAGNETO (segretario del re) gli propose di sostenere l'unione del Lombardo-Veneto al Piemonte e di trarre alla parte regia i repubblicani, assicurandogli che Carlo Alberto, nella futura costituzione, avrebbe incluso quegli articoli democratici da lui invocati. Il Mazzini rispose dettando alcune righe, che il sovrano doveva firmare, leggere e diffondere come un "suo programma":

"Io sento maturi i tempi per l'Unità della Patria; intendo, o Italiani, il fremito che affatica le anime vostre. Su, sorgete; io precedo. Ecco io vi do pegno della mia fede, spettacolo ignoto al mondo di un re-sacerdote dell'epoca nuova, apostolo armato dell'Idea-Popolo, edificatore del tempio della Nazione. Io lacero nel nome di Dio e dell'Italia i vecchi patti che vi tengono smembrati e grondano del vostro sangue: io vi chiamo a rovesciare le barriere che anche oggi vi tengono divisi e ad accentrarvi in legione di fratelli liberi, emancipati intorno a me vostro duce, pronto a cadere o a vincer con voi".

Era un programma che il re -il segretario conoscendolo bene- non poteva far suo e che perciò il conte di CASTAGNETO non accettò. Allora il Mazzini uscì dal "riserbo" e dalla "moderazione" per sostenere i suoi principi repubblicani e per impedire che l'impresa nazionale diventasse puro e semplice ingrandimento d'una monarchia e fondò "L'Italia del Popolo".
Ma i più, nella Lombardia e nell'Emilia, erano per l'unione al regno di Sardegna e a Milano anche gli stessi che avevano sognato una repubblica ambrosiana o lombardo-veneta, consideravano l'unione al Piemonte necessaria se si voleva che Carlo Alberto s'impegnasse a fondo contro gli Austriaci.
Anche il GIOBERTI (rientrato il 30 aprile a Torino dopo quindici anni di esilio) il 7 maggio si recava a Milano e parlava al popolo; favoriva e propagandava l'idea della fusione che, secondo lui, non contrastava con il suo antico programma federale.

I PLEBISCITI DI PIACENZA, PARMA, MODENA E REGGIO

I primi plebisciti si ebbero nell'Emilia: a Piacenza si chiusero gli scrutini il 2 maggio
e fatto lo spoglio, risultò che su 37.583 votanti, 37.089 avevano votato per l'immediata annessione, che fu solennemente proclamata il 10; a Parma si aprirono l'8 maggio, il 25 fu fatto lo spoglio da cui risultò che, su 39.703 votanti, 37.250 erano stati per
l'unione, che fu proclamata quel giorno stesso; a Modena e a Reggio, con voto quasi unanime, l'annessione fu proclamata nei giorni 25 e 26.
Il Governo provvisorio di Milano seguì l'esempio delle città emiliane e il 12 maggio lanciò il seguente bando:

"Cittadini ! Il Governo provvisorio di Lombardia, sorto fra le barricate, tiene il suo mandato dal fatto sublime dell'eroica nostra rivoluzione, la quale operata dal concorso di tutte le forze sociali, non aveva altro scopo che la cacciata dell'Austriaco e la conquista dell'indipendenza italiana. Perciò fin da quando tuonava il cannone nelle nostre contrade ed il popolo rispondeva ai colpi micidiali gridando Viva l'Italia!, il Governo, anche nella urgenza del momento, anche invocando il soccorso del generoso Re Sardo, anche ammirando le prove di maturità politica che dava il valoroso popolo disciplinato ed unito nei furori stessi d'una guerra a morte, non credette alzare altro grido che il grido di "Viva l'Italia !", e non altro vessillo che il vessillo dell'Indipendenza nazionale. Così lasciando intatte tutte le questioni di forma politica e di ordinamento definitivo, volle che queste regioni, per tanti anni forzate a chiamarsi straniere all'Italia, prima tornassero alla patria comune, e rassegnate ad ubbidire i voleri proclamassero la loro devozione all'Italia unita e concorde. Quindi nel proclama del 22 marzo dichiarava "che essendo chiamati a conquistar l'indipendenza di questa nostra carissima patria, di null'altro i buoni cittadini dovevano allora occuparsi che di combattere"; quindi nel proclama del 29 marzo soggiungeva: "Poiché un solo grido - l'indipendenza - ci ha fatto vincere, un solo grido deve farci compiere la vittoria: l'Italia unita e libera".

"Ma ora, o cittadini, il grido salutare di "Viva d'Italia!" che riassumeva tutta quanta la politica del Governo provvisorio, non esce più solo. Quella coraggiosa neutralità di opinioni, quella forte aspettativa che sarebbe stata uno spettacolo unico nella storia, ella avrebbe offerto un meraviglioso esempio di tolleranza, di momentaneo sacrificio di ciò che l'uomo meno facilmente tempera e sacrifica, non fu conservata. Quella santa concordia, quella generale fratellanza, dove ogni cittadino vedeva e cercava negli altri cittadini dei commilitoni, quella magnanima tolleranza, che nulla voleva dal presente e tutto aspettava dall'avvenire, purtroppo hanno dato luogo all'impazienza sdegnosa ed irritante. Indocili di freno, smaniose di preoccupare il libero arringo, le opinioni si agitarono, si occuparono, si accusarono a vicenda, si accamparono le une contro le altre.

La neutralità che fu proclamata per impedire i dissidi e le discussioni inutili in faccia al nemico, la neutralità che fu annunciata in ossequio alla patria italiana perché tutto si riferisse ai supremi di lei interessi ed intorno alla sacra di lei bandiera si raccogliessero per unificarsi tutti i desideri, tutti i voti, ora è accusata di nutrire e fomentare le discordie civili, di autorizzare le più avverse e nemiche speranze, di tenere tutto il resto d'Italia in una penosa incertezza. Né gli animi si contennero nei limiti di una discussione che nel suo ardore era già pericolosa: ma in molte province si pubblicarono appelli, si raccolsero firme a migliaia, preludendo così al voto della nazione, società si organizzarono con nomi ed intenti diversi in cui le questioni più sottili ed ardenti furono agitate, discusse, pubblicate: la stampa legale, la stampa anonima si diedero ad esercitare propagande fra loro contrarie, suscitarono passioni, alimentarono speranze, insinuarono, imposero la convenienza, la necessità ad uno scioglimento.
Ed intanto da tutte le parti ci giungono inviti, raccomandazioni pressanti di prendere una soluzione: popoli, governi, città, uomini ragguardevoli per il senno, per il patriottismo, per le guarentigie date alla causa italiana, ci esortano ad uscire da quel campo in cui c'eravamo trincerati, in aspettativa di quello che fossero per maturare gli avvenimenti generali d'Italia. In questo stato di cose il Governo provvisorio di Lombardia non può avere fiducia nel principio di quella neutralità che aveva proclamata per conservarsi tutto alla guerra ed alla difesa del paese. L'aveva proclamata per poter essere un governo unicamente guerriero ed amministratore, ed ora invece si trova trascinato in mezzo alle distrazioni di incessanti dispute politiche, e costretto a difendersi ogni giorno dall'insistenza delle più divergenti opinioni. Questo stato di cose non può durare.

"O il popolo riprenda il suo impegno di non voler parlare di politica e colla sua gran voce imponga silenzio ai partiti, o si decida per quella fusione che sola è naturale, sola è possibile nelle presenti circostanze. In favore del principio di neutralità stava la grandiosità e l'unità del concetto che tutto subordinava al voto dell'intera nazione. Ma perché si persistesse a professare e praticare questo principio, bisognava che gli animi si componessero in calma, si confermassero nel coraggio della pazienza, bisognava avere una stima grandissima degli uomini, un giudizio continuamente pacato delle cose bisognava in specie che diventasse legge per tutti il rispetto fraterno delle opinioni di tutti. Né veramente era da sperarsi che una condizione d'animi, una tale abnegazione d'ogni simpatia individuale, d'ogni preoccupazione di dottrine e di fatti a lungo durasse.
Ma quando si accoglieva tale speranza, guerra breve e vittoria sicura era nel pensiero di tutti: e perciò a tutti pareva facile e naturale rimettere a causa vinta la discussione dei destini politici del paese. Invece guerra grossa, sanguinosa, lunga, armamento di tutto il paese ed organizzazione di un esercito lombardo, sussistenza per questo, per il piemontese, per il toscano, per il romano, per il napoletano; finanze che hanno bisogno di rimedi e sussidi pronti efficaci, ubbiditi senza contraddizione in tutto il territorio; complicazioni politiche imprevedute; influenze ostili della straniera diplomazia; bisogno urgente di avere posto nel consorzio delle nazioni di Europa; le province venete in gran parte rioccupate dai barbari; ecco le nuove e gravi condizioni, nelle quali il paese si trova e che consigliano una decisione.

"Quale sarà questa decisione? Certo quella che più favorisca la gran causa d'Italia, quella che più acceleri il fine della guerra dell'indipendenza. E però come Lombardi, in nome e per l'interesse di queste province, come Italiani per l'interesse di tutta la nazione, dobbiamo riconoscere, provvido il pensiero che le nostre terre si associno al vicino e bellicoso Piemonte, salve le comuni guarentigie della libertà, per formare dell'alta Italia un inespugnabile baluardo contro tutte le straniere invasioni, sotto lo scettro costituzionale di quella illustre Casa di Savoia cui la storia assegnò il glorioso titolo di guardiana delle porte d'Italia.

"Già Parma e Modena ci hanno preceduto nella manifestazione più o meno esplicita di questo voto che inizia in sì nobile parte d'Italia il pensiero della italica unità; già la Sicilia dichiarando solennemente di affidare le sue sorti al reggimento monarchico costituzionale, ci ha mostrato quale sia nel presente la strada aperta all'unione d'Italia. Or dunque non dovrà la Lombardia, dall'altezza del posto in cui fu collocata dalla sua vittoria, rispondere fieramente all'accusa che le fu mossa di volere far da sé e per sé? Non dovranno i Lombardi attestare grato animo a quei fratelli che loro corrono incontro, che danno loro sì splendidi argomenti di simpatia, che sono pronti a muoversi in loro favore dalle ambizioni più legittime, e non altro anelare che di averli insieme nella grand'opera del ricomponimento dell'Italia unita? A voi tocca decidere, o cittadini, a voi tocca ponderare se nelle circostanze presenti sia da insistere in un partito che una volta era opportuno, ma che ora potrebbe forse essere oggetto di discordia, presso alla quale sta sempre la schiavitù: o se un altro se ne debba abbracciare determinato dal pensiero dei grandi interessi della patria italiana.

"Il vostro Governo non può rimanere spettatore indifferente del pericolo di una discordia civile; ed è nel proposito di rendervi uniti e forti che ha determinato di fare appello al popolo intero, perché la sua sacra e potentissima voce copra quella di tutti i partiti per confonderli in uno solo.
Premesse queste considerazioni, il Governo provvisorio della Lombardia decreta:

1° Sono aperti i registri presso tutte le parrocchie di tutti i comuni di Lombardia, ad effetto di ricevere le sottoscrizioni del popolo Lombardo.
2° L'uomo che avrà ventun'anni compiuti avrà diritto di sottoscrivere.
3° Gli illetterati faranno la croce alla presenza del parroco e di due delegati.
4° La sottoscrizione dovrà essere fatta da ciascheduno nella parrocchia dove tiene la propria abitazione, senza distinzione di culti.
5° I parroci o coloro che ne fanno le veci saranno assistiti nel ricevimento delle sottoscrizioni da due delegati nominati nelle città dalle rispettive congregazioni municipali.
6° Nei comuni di campagna i parroci saranno assistiti da due membri delle Deputazioni comunali o loro sostituti, oppure da due persone scelte dalle medesime deputazioni. Dove però esistono consigli comunali, i delegati saranno scelti di preferenza nel corpo dei consiglieri.
7° I registri saranno aperti presso le parrocchie dal giorno nel quale sarà fatta la pubblicazione della presente legge nei rispettivi comuni e saranno chiusi definitivamente il giorno 29 del corrente mese di maggio, anniversario della battaglia di Legnano. Dopo di che, sigillati dai parroci, saranno rimessi alle rispettive Deputazioni comunali ed alle Congregazioni municipali.
8° Dovendosi poi provvedere che il diritto di voto possa esser regolarmente esercitato anche dai cittadini che si trovano sotto le armi nell'esercito attivo, si dispone che i registri siano pure aperti presso i comandi dei corpi. I soldati italiani, tanto coscritti quanto volontari, che militano sotto la bandiera di Lombardia, voteranno anch'essi per sottoscrizione da farsi alla presenza degli ufficiali superiori del corpo al quale appartengono.
9° La Commissione governativa destinata ad inviare soccorsi alle province venete avrà cura di far raccogliere i voti dei cittadini, che formano parte della compagnia che ora si trova in quel territorio.
10° Le Deputazioni comunali e le Congregazioni municipali dovranno rimettere i registri sigillati alla Congregazione provinciale dalla quale dipendono con il mezzo più pronto e sicuro e sotto la più stretta loro responsabilità.
11° Le Congregazioni provinciali faranno lo spoglio alla presenza del Vescovo o suo rappresentante e di un Commissario governativo.
12° Per le speciali condizioni della città e provincia di Mantova, non potendo aver luogo il disposto degli articoli 10 e 11, si stabilisce che le Deputazioni comunali debbano rimettere i registri sigillati al Commissario straordinario del Governo residente in Bozzolo e che lo spoglio dei registri sia fatto da lui alla presenza dell'autorità ecclesiastica e comunale del luogo.
13° Lo spoglio dei registri dovrà essere sigillato dopo l'analogo processo verbale, e quindi rimesso al Governo insieme ai registri medesimi con la massima sollecitudine.
14° Lo spoglio dei registri delle province sarà reso pubblico dal Governo e quella delle due proposizioni che avrà avuto il maggior numero dei sottoscrittori costituirà il voto della Nazione".

TUMULTI DI MILANO - IL PLEBISCITO LOMBARDO

I giorni che intercorsero dall'apertura alla chiusura dei registri furono pieni di pericoli per la pace pubblica, tanto erano divisi gli animi ed accese le passioni di parte. Coloro che erano contrari alla fusione protestarono contro il plebiscito, paventarono quella forma di governo che avrebbero i vincitori imposto alla Lombardia, oltre ad allarmare che Milano avrebbe perso il suo privilegio di capitale.
Gli avversari dell'annessione ricorsero a tutti i mezzi possibili per fare proseliti. Dalle guardie civiche fecero sottoscrivere un appello con il quale si chiedeva:

1° indissolubilità della Guardia nazionale nel suo stato ed ordinamento attuale;
2° libero diritto di associazione;
3° libertà di stampa;
4° legge elettorale da pubblicarsi per l'assemblea costituente.

Il giorno 28 maggio, una folla di persone si radunò in piazza S. Fedele, invitata da foglietti anonimi, gridando al presidente CASATI, affacciatosi al balcone, che i quattro articoli dell'appello delle guardie fossero tradotti in legge. Il Governo, credendo di assicurare la pace, ebbe la debolezza di cedere e il giorno dopo pubblicò l'atto seguente:

"Il Governo sa che quei pochi, i quali si levarono in rappresentanti del popolo sono dal popolo disdetti; sa che il popolo deplora tutte queste dimostrazioni tumultuose: tuttavia, non a soddisfare esigenze inopportune, ma a rassicurare i buoni e a dare una nuova e solenne testimonianza della sua lealtà, dichiara: il popolo lombardo gode al presente delle seguenti franchigie: libertà di stampa, diritto di associazione, guardia nazionale.
Queste franchigie saranno conservate al popolo lombardo nella forma ed estensione attuale di diritto e di fatto, finché l'assemblea costituente non venga a regolare la sorte del popolo stesso. La legge, con la quale l'assemblea costituente sarà convocata, avrà per base il suffragio universale".

Il giorno 29 maggio, anniversario della battaglia di Legnano, mentre a Curtatone e a Montanara si combatteva, ci fu un'altra dimostrazione in piazza S. Fedele. Il palazzo del Governo fu invaso da alcuni audaci, e un ex-ebreo di nome URBINO, affacciatosi al balcone, annunciò che il Governo era dimissionario; poi cominciò a leggere i nomi dei nuovi governanti; ma il presidente Casati, strappatogli di mano il foglio, lo lacerò e dichiarò alla folla sottostante che il Governo era al suo posto.

VENEZIA PROCLAMA L'ANNESSIONE AL REGNO SARDO

L'8 giugno fu fatto lo spoglio e l'unione risultò approvata con 561.002 voti contro 681. Le province venete, nello stesso giorno seguirono l'esempio della Lombardia, avverse com'erano al primato di Venezia, ma anche alla democrazia repubblicana.
Senza neppure aspettar l'esito della votazione, i deputati di Vicenza, Padova, Treviso e Rovigo avevano già dichiarato che se entro il 4 giugno Venezia non avesse condiviso il desiderio delle loro province di unirsi allo Stato Sardo Sabaudo si sarebbero staccate dalla (da poche settimane, con Manin) dalla risorta Repubblica Serenissima.
DANIELE MANIN - e con lui alcuni altri membri del Governo - era contrario all'annessione e avrebbe preferito che il Veneto e la Lombardia formassero una repubblica, la quale per far fronte all'Austria chiedesse alla Francia l'aiuto di un esercito. Ma quando, dopo l'invio a Parigi di ANGELO ZANARDINI e GIACOMO NANI prima, e di ALEARDO ALEARDI e TOMMASO GAR poi, comprese che l'aiuto francese non sarebbe mai venuto, e sotto la minaccia dell'abbandono delle province della terraferma, il Manin insieme con il PALEOCAPA pubblicò, il 3 giugno, un decreto in cui era detto:

"È convocata a Venezia un'assemblea di deputati di questa provincia, la quale:
a) deliberi se la questione relativa alla presente condizione politica debba essere decisa subito o a guerra finita;
b) determini, nel caso ché resti deliberato per la decisione istantanea, se il nostro territorio debba fare uno Stato da sé o associarsi al Piemonte;
c) sostituisca o confermi i membri del Governo provvisorio".

La prima riunione dell'assemblea doveva aver luogo il 18 giugno, ma per le vicende della guerra (erano cadute l'11Vicenza, il 13 Padova e Treviso) fu differita al 3 luglio.
Nel frattempo il Governo veneziano mandava ai governi di Roma, Toscana e Sicilia una lettera circolare in cui, chiamandoli arbitri del destino del Veneto, chiedeva loro se giudicassero necessario che fosse chiamato l'intervento straniero.
I governi di Roma e di Firenze concordemente sconsigliarono di ricorrere all'aiuto straniero.
"Chi sa - scriveva il ministro dalla Toscana NERI CORSINI - che, chiamati i Francesi, invece di un solo nemico e di avere un solo oppressore, non si trovi ad averne due?".
Mentre il MARCHETTI, ministro degli esteri romano, considerava l'appello allo straniero "l'espressione di un disperato partito, cui gli Italiani non si appiglieranno mai finché vorranno e concordemente vorranno bastare a sé stessi".

Finalmente il 3 luglio, nelle sale del palazzo dei Dogi si riunirono i rappresentanti di Venezia, di Chioggia, di Loreo e di pochi altri distretti. Nella prima tornata ebbe luogo la verifica dei poteri e il presidente MANIN, in un lucido e sereno discorso, narrò gli eventi accaduti dopo il 22 marzo ed espose i motivi della convocazione dell'assemblea. Nella seconda tornata il Manin, parlando degli affari esteri della repubblica, disse tutto quanto aveva fatto per ottenere un soccorso della Francia; il CASTELLI dipinse a tinte fosche le condizioni dell'erario; il TOMMASEO parlò contro la fusione e propose che si differisse ogni deliberazione a guerra finita; il PALCOCAPA invece ammonì a non seguire
"una politica astratta, vaporosa e nubiforme, che si può convertire troppo facilmente come le nubi in tempesta"
e sostenne la necessità dell'unione con i Sardi.

Allora sorse ancora a parlare Daniele Manin (e fu realistico e pure profetico!):

"Io conservo oggi - disse - la medesima opinione che avevo il 22 marzo, quando dinnanzi alla porta dell'Arsenale e sulla Piazza di S. Marco proclamai la repubblica. Io l'ho ancora e tutti allora l'avevano. Ora tutti non l'hanno più. Parlo con parole di concordia e di amore e prego di non essere interrotto. È un fatto che tutti oggi non hanno quell'opinione. È pure un fatto che il nemico sta alle nostre porte, che attende e desidera una discordia in questo paese, inespugnabile finché siamo d'accordo, espugnabilissimo se qui entra la guerra civile.
Io, astenendomi da ogni discussione sulle opinioni mie e sulle altrui, domando oggi un gran sacrificio, e lo domando al partito mio, al generoso partito repubblicano. Al nemico che è sulle porte, e che aspetta la nostra discordia, diamo oggi una solenne smentita. Dimentichiamo oggi tutti i partiti; mostriamo oggi che dimentichiamo di essere realisti o repubblicani e che siamo invece tutti italiani. Ai repubblicani io dico: l'avvenire è nostro. Tutto quello che si è fatto e che si fa è provvisorio. Deciderà la dieta italiana a Roma".
.
Dopo queste generose parole, che commossero l'uditorio, si venne alla votazione, Di 133 deputati solo 6 votarono contro, 127 a favore dell'unione, che fu decretata con la formula seguente proposta da IACOPO CASTELLI:

"Obbedendo alla suprema necessità che l'Italia intera sia liberata dallo straniero, e all'intento principale di continuare la guerra dell'indipendenza con la maggiore efficacia possibile, come veneziani in nome e per l'interesse della città e provincia di Venezia, e come Italiani per l'interesse di tutta la nazione, votiamo l'immediata fusione della città e provincia di Venezia negli Stati Sardi con la Lombardia ed alle condizioni stesse della Lombardia con la quale in ogni caso intendiamo restare perpetuamente incorporati, seguendone i destini politici unitamente alle altre province venete".

NICCOLÒ TOMMASEO avrebbe voluto che nel patto della fusione fosse incluso il Trentino, ma il suo suggerimento non fu accolto e fu registrato soltanto nel verbale della seduta del 4 luglio. L'assemblea su proposta di un deputato, voleva dichiarare il Manin benemerito della patria, ma egli si oppose dicendo:

"Se i miei concittadini si vogliono mostrare riconoscenti per un atto molto semplice, io li prego, li scongiuro che la concordia inaugurata ieri duri finché il nemico sarà in Italia. Non si parli più, per amor di Dio, di partiti finché il nemico non sarà cacciato: ne parleremo in seguito e fra noi, fraternamente, questa è l'unica ricompensa che io chiedo".

Si procedette quindi all'elezione dei componenti del nuovo Governo. Tutti desideravano che il MANIN rimanesse presidente e la votazione gli diede la maggioranza: infatti, ottenne 76 voti, mentre il PALEOCAPA 46 e il CASTELLI 9.
Tuttavia il Manin rifiutò la nomina insistendo sulla sua fede repubblicana: "In uno Stato monarchico io non posso essere niente; posso essere solo dell'opposizione, quindi non posso essere del Governo".
Fu allora data la presidenza al Castelli e furono chiamati a far parte del Governo PALEOCOPA, CAMERATA, PAOLUCCI, MARTINENGO, CAVEDALIS e il REALI (5luglio).
Il 13 giugno era stato pattuito il testo della convenzione tra il Governo provvisorio di Lombardia e il governo sardo, relativo all'unione, per la quale si poneva come condizione la convocazione di un'assemblea costituente sulle basi del suffragio universale per discutere e stabilire le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale sotto la Casa Savoia.

Due giorni dopo, VINCENZO RICCI, ministro dell'Interno, presentava, al parlamento il seguente disegno di legge:

"La Lombardia e le province di Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo fanno parte integrante dello Stato. A partire dalla promulgazione della presente legge sino all'apertura del Parlamento comune, successivo, alla Costituente, la Lombardia e le dette province saranno governate con le norme stabilite. Al popolo lombardo sono conservate e garantite, nella forma ed estensione attuale di diritto e di fatto, la libertà di stampa, il diritto di associazione e la istituzione della guardia nazionale. Il potere esecutivo sarà esercitato dal re tramite un ministero responsabile. Gli atti pubblici saranno intestati in nome di S. M. il re Carlo Alberto. Sono mantenute in vigore le leggi ed i regolamenti attuali della Lombardia. Il governo del re non potrà concludere trattati politici e di commercio senza concertarsi previamente con una consulta straordinaria, composta dei membri attuali del governo provvisorio di Lombardia; e riguardo alle quattro province venete sopra indicate, con una consulta straordinaria composta di due delegati per ciascuna provincia.
La legge elettorale per l'assemblea costituente sarà promulgata entro un mese dall'accettazione della fusione. Contemporaneamente alla promulgazione della legge stessa, sarà convocata la comune assemblea costituente, la quale dovrà effettivamente unirsi nel più breve termine possibile e non più tardi del giorno 1° di novembre prossimo venturo. La legge elettorale sarà fondata sulle seguenti basi: Ogni cittadino che avrà compiuto l'età di anni ventuno è elettore, salve le seguenti eccezioni: Nei paesi soggetti allo Statuto Sardo sono escluse le persone che si trovano colpite da esclusione a termine della legge 17 marzo prossimo passato. Nella Lombardia i cittadini in stato d'interdizione giudiziaria, eccetto i prodighi; i cittadini in stato di prorogata minore età, quelli che furono condannati o che sono inquisiti per delitti nonché per reati commessi con offesa del pubblico costume, o per cupidigia di lucro, nella quale seconda categoria però non si riterranno comprese le contravvenzioni boschive e le contravvenzioni di finanza e di caccia; quelli sui cui beni è aperto il concorso dei creditori, qualora per il fatto del loro fallimento sia stata contro di loro pronunciata in via civile condanna od arresto; i cittadini che hanno accettato da uno stato estero all'Italia un pubblico impiego civile e militare, qualora non provino di avervi rinunciato, eccettuati i consoli degli Stati esteri e loro addetti. Il numero dei deputati è determinato nel rapporto di uno dai venti ai venticinquemila abitanti. Per la Lombardia, non avente circondari elettorali, si seguiranno i reparti amministrativi attuali, e il riparto e la nomina dei deputati si farà per provincia. Il suffragio è espresso con scheda segreta".

Questo disegno di legge, che in molti punti proclama la fine del vecchio stato sabaudo, provocò infinite discussioni nel parlamento e nel paese. Questa volta furono i Torinesi a temere che alla loro città si togliesse il grado di capitale, e fecero pervenire numerose petizioni alla Camera sostenendo che Torino doveva rimanere la capitale del nuovo regno. Gli animi erano cosi accesi che LORENZO VALERIO, direttore della "Concordia", che sosteneva come capitale Milano, fu minacciato di morte. Mentre a Genova il popolo si mise a dimostrare contro il gretto provincialismo dei Torinesi, chiedendo che il disegno il legge fosse prontamente sanzionato.

In Parlamento gli emendamenti proposti al disegno di legge non furono pochi, e ne presentò perfino uno, lo stesso RICCI. I dissensi, nati in seno allo stesso Ministero, consigliarono questo a chiedere che si formasse un nuovo ministero composto di lombardi e di piemontesi.
Finalmente il 6 luglio avendo la camera approvato l'articolo che proibiva al governo Torinese di stipulare trattati politici e commerciali, di far nuove leggi e abrogare o modificare le esistenti senza essersi prima accordata con una consulta straordinaria lombarda, il ministero Balbo diede le dimissioni.

Dopo il voto di Venezia un altro disegno di legge fu presentato al parlamento, che lo accettò:

"La città e provincia di Venezia faranno parte integrante dello Stato con le condizioni medesime stabilite dal governo provvisorio di Lombardia, contenute nel protocollo 13 giugno prossimo passato, come saranno pubblicate in Lombardia con la legge del governo di S. M. Per le province venete vi sarà una consulta straordinaria come per quelle di Lombardia, composta degli attuali membri del governo provvisorio di Venezia e di due membri per ciascheduno dei comitati delle quattro province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, che hanno già fatto e per cui fu accettata la loro unione con gli Stati Sardí. Quando le tre province di Verona, Udine e Belluno si riuniranno agli Stati medesimi, invieranno alla consulta due deputati per ciascheduna".
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Verso la metà del luglio 1848 tutta l'alta Italia, solo sulla carta e con su scritto questi proclami, formava teoricamente un solo stato sotto lo scettro di Carlo Alberto, ma in realtà la Lombardia continuava a governarsi da sé, mentre la terraferma veneta con gli eserciti di Radetzky era già tornata sotto l'Austria, e di commissari regi a Venezia (ormai isolata) non vi era neppure l'ombra.
Inoltre le condizioni del nuovo regno, sia politicamente che militarmente non erano felici; mica potevano cancellare, in poche settimane, tutto un passato fatto di tanti rancori; e se alcuni non li conoscevano, c'erano i nemici dell'annessione e della monarchia a far riprendere forza alle antiche gelosie municipali, innescando così un'opera disgregatrice e rendendo aspro il cammino del nuovo stato.

Ma oltre a questo, i tre grandi stati italiani, Toscana, Stato Pontificio e regno delle Due Sicilie si erano appartati dalla lotta e solo la Sicilia pareva accostarsi al Piemonte offrendo, il 10 luglio, la corona al Duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto.

Poi la Francia che non vedeva di buon occhio l'accresciuta potenza del regno sardo -senza aver mosso un dito- già vantava compensi territoriali.
Infine nelle vecchie e nelle nuove province del regno si criticava l'opera dei generali e dello stesso re e si voleva che le operazioni di guerra procedessero speditamente. Invece, non solo, non si procedeva, ma dopo il "tentennante" e il fallito tentativo del "re tentenna" a Rivoli e a Verona del 13 giugno, fino a metà luglio i piemontesi, al campo di Roverbella, rimasero in stallo, con l'esercito stanco, sfiduciato, indebolito, schiavo della situazione politica, e dov'erano stanziati perfino mal tollerati dalle popolazioni locali, e quindi in quell'ozio erano desiderosi solo di tornare alle proprie case (e mancò poco, anzi pochissimo, come vedremo più avanti).

PROPOSTE DI PACE DELL'AUSTRIA

In tali condizioni, una buona pace sarebbe veramente stata la benvenuta. Già fin dai primi d'aprile (quindi prima ancora della riconquista da parte di Radetzky delle città del Veneto, e prima di finire a Rivarbella nell'ozio e nei dubbi) il governo austriaco aveva, per mezzo del conte FRANCESCO HARTIZ, inoltrate al Governo provvisorio di Milano le seguenti proposte di pace:

"L'Austria sgombrerebbe la Lombardia dal Ticino al Mincio e la Lombardia assumerebbe per conto proprio 2000 milioni di fiorini del debito austriaco, e pagherebbe un indennizzo per le spese della guerra: conclusa la pace, si negozierebbe fra l'Austria e il Regno Sardo un trattato doganale e commerciale con le condizioni più vantaggiose alle due parti contraenti; durante la condotta dei negoziati, si stipulerebbe un armistizio con i Sardi".

Ma a lord ABERCROMBY, ambasciatore britannico a Torino, che, per incarico di lord PALMERSTON, aveva cercato di persuadere il Governo sardo a non impedire che i governanti Lombardi prendessero in considerazione le proposte austriache, il consiglio dei ministri, in data del 24 aprile, aveva risposto deliberando che:

"Si dovevano rifiutare tutte le proposte, che non assicuravano la completa liberazione dell'Italia dalla dominazione austriaca; e nel caso che la pace si dovesse negoziare all'infuori di una tale clausola, il ministero doveva rassegnare le due dimissioni".

Quasi la stessa risposta fu data al conte HARTIZ dal governo provvisorio di Lombardia, che da come abbiamo visto era ormai (ingenuamente) filo-sabaudo.

Poi, nelle successive settimane, essendosi aggravate, a causa della rivoluzione, le condizioni dell'Austria, questa (con ormai Metternich messo alla porta) aveva ripreso più tardi i negoziati, allargando le concessioni e facendo appello alla mediazione inglese. Il 24 di quel mese, per incarico del ministro degli esteri austriaco PELLERSDORF, il barone HUMMELAUER aveva presentato a lord PALMERSTON un memorandum nel quale era detto che...

" l'Austria avrebbe lasciato la Lombardia dandole facoltà di costituirsi indipendente o di unirsi ad altro stato; che il debito pubblico sarebbe stato proporzionalmente assunto dalla Lombardia, che il Veneto sarebbe rimasto sotto il dominio dell'imperatore, ma avrebbe usato un'amministrazione tutta nazionale, truppe stanziali proprie, e a capo del governo un arciduca viceré residente a Venezia".

Il PALMERSTON aveva risposto che l'Inghilterra non avrebbe accordato la sua mediazione se l'Austria non avesse ceduto tutte le terre italiane al di qua di una linea che poteva esser fissata da una parte fra Trento e Bolzano (confine di Salorno), dall'altra fra Venezia e Trieste (sul Carso) ed aveva aggiunto:
"Lo spirito di nazionalità e d' indipendenza si è fatto tra gli Italiani così universale e così energico che l'Austria, per mantenervi la propria dominazione, dovrebbe sostenere un dispendio di forze militari e pecuniarie sproporzionato rispetto a qualsiasi vantaggio da poterne ritrarre".

Ma il buon HUMMELAUER non era stato autorizzato a trattare a queste condizioni, perché il ministro degli esteri d'Austria WESSENBERG già le aveva respinte. Dopo di che l'Austria, rinunciando alla mediazione inglese, si era rivolta direttamente al governo provvisorio di Milano, mandando al suo presidente, per mezzo del consigliere di legazione SCHMITZERMEERAY, una lettera così concepita:

"S. M. Imperiale, mossa da sentimenti di umanità e di pace, desidera vivamente di veder presto posto un termine alla guerra che rende desolate le sue province italiane. A questo scopo, io sono autorizzato ad aprire con il Governo provvisorio stabilito a Milano un negoziato, che avrebbe per base la separazione e l'indipendenza della Lombardia. Il governo di S. M. I. R. A. non vi aggiungerà che alcune condizioni di pura equità, le quali consisterebbe principalmente nel trasporto di una parte proporzionale del debito dell'Impero austriaco a carico della Lombardia; più un regolamento che assicurasse certi vantaggi al Governo austriaco, ed alcune stipulazioni riguardanti la proprietà privata della famiglia imperiale e i danni sofferti dagli impiegati civili e militari in seguito agli ultimi avvenimenti. Voi vedete, signor Conte, che io entro nella questione con tutta la franchezza possibile. Io vi annunzio nel medesimo tempo che S. M. I. R. A. ha dato gli ordini opportuni per la conclusione d'un armistizio, al quale il governo provvisorio vorrà concorrere indubbiamente. Non rimane ora che nominare, da una parte e dall'altra, dei plenipotenziari per condurre il negoziato allo scopo desiderato".

La lettera, fu scritta, il 13 giugno, e fu presentata il 17.
Cioè quando Carlo Alberto a Roverbella era in stallo e non sapeva più cosa fare, mentre sapeva benissimo che Radetzky, ritornato a Verona e con a Nord e ad Est tutte le comunicazioni con l'impero centrale aperte, poteva far giungere tutti gli uomini e i mezzi che desiderava. Ed infatti era quello che Radetzky stava facendo. Qualcuno disse poi che mentre Carlo Alberto faceva contare qui e là i voti dell'annessione, Radetzky invece a Verona contava le divisioni e i 130.000 uomini per andare alla riscossa. L'uomo che aveva già combattuto a Marengo, mica poteva chiudere la sua carriera con una sconfitta.

Alla lettera il CONTE CASATI (indubbiamente poco informato dalla situazione militare)
aveva risposto così a WESSENBERG:

"Eccellenza, il signor consigliere di legazione Schmitzermeeray mi recapitò una lettera di V. E. contenente proposte di pacificazione, che si riassumono nei punti seguenti:
1o Indipendenza assoluta della Lombardia e sua separazione dalla monarchia;
2° Obbligo per la Lombardia di accollarsi una parte proporzionale del debito austriaco, ecc. Nello svolgimento di tali proposte si nota innanzi tutto la considerazione che V. E. tratta la questione come semplicemente lombarda, mentre da noi fu sempre tenuta come una questione italiana.
Ciò posto, se l'art. 10, in luogo di parlare dell'indipendenza lombarda, avesse accennato all'indipendenza di tutte le province italiane soggette allo scettro dell'Austria, i successivi contatti aprirebbero il campo a un negoziato, nel quale andiamo persuasi che non sarebbe difficile il riuscire ad intenderci. Il Governo provvisorio, in cui nome scrivo, partecipa vivamente al desiderio di porre fine ad una guerra desolatrice e che potrebbe durare a lungo con gravi sacrifici per entrambi le parti: ma la causa della quale si tratta è agli occhi suoi tanto sacra che non saprebbe mai determinarsi ad abbandonarla neppure in parte. Le dichiarazioni delle altre province proclamano la fratellanza, né la nostra indipendenza sarebbe sicura se fosse soltanto mezza. V. E. può essere certa che l'Austria troverebbe allora nella vicina Italia una nazione amica, e che gl'interessi materiali delle due nazioni ci guadagnerebbero immensamente, più che se le province italiane dovessero in tutto o in parte rimanere forzatamente unite alla monarchia austriaca".

Questa lettera era una bella lettera, molto altruistica, ma poco realistica (date le forze in campo e la defezione degli alleati) e purtroppo chiuse per sempre la via ad un accordo.
Se il Governo provvisorio di Milano avesse accettato queste proposte austriache, la Lombardia non sarebbe ancora rimasta per dieci anni sotto la dominazione straniera; non ci sarebbe stata quest'anno Custoza e Novara, e si sarebbe evitata più tardi un'altra guerra e per di più senza ottenere il Veneto (in pratica in quest'ultima si ottenne ciò che fu offerto quest'anno con questa lettera) e inoltre due grandi umiliazioni sarebbero state risparmiate all'Italia: l'aiuto francese e la pace del 1859 che fece andare in bestia Cavour).

Del rifiuto a questa seconda proposta austriaca non si può in verità attribuirne la colpa a CARLO ALBERTO. Anzi (ma lui era sul posto, gli altri a casa, a ciancionare) fu il più lucido nella situazione e anche il più realista. E fu perfino veggente di ciò che sarebbe accaduto poi nel 1859 a Villafranca.

Quando il ministro della guerra generale FRANZINI gli fece sapere al campo di Roverbella che ABERCROMBY (l'ambasciatore britannico a Torino) lo consigliava di concludere con l'Austria una pace onorevole, servendosi della mediazione inglese, il re, in data del 7 luglio, rispose con una lettera di cui riproduciamo le parti essenziali:
(ma sufficienti per far cambiare alcune pessime opinioni che sono state poi propinate sul Re sabaudo.
Forse Carlo Alberto, si era resa conto di essere stato di fatto il burattino di un progetto massonico internazionale, e cambiò idea, ma da quel momento venne beffeggiato come "il re tentenna". Suo figlio Vittorio Emanuele, invece dopo di lui come vedremo in seguito- stette al gioco di Palmerston e Napoleone III. Pura propaganda era l'idea di "'unità d'Italia", tant'è che l'italiana Corsica (ricordava troppo il "corso") fu lasciata fuori, e Nizza e la Savoia furono tranquillamente barattate. Con le leggi Siccardi il Piemonte buttò la maschera e cominciò un'aggressione anticattolica senza precedenti. Ed era questo il progetto inglese. Protestantizzare l'Italia. Ci teneva soprattutto a distruggere l'Austria "papista". E per farlo spinse il Piemonte. E paradossalmente accadde che l'Austria cattolica si trovò contro la chiesa, e la Francia antipapista dalla Rivoluzione, si mise a fare la paladina del papato.
Gli altri stati gli stati della penisola, anche i borbonici e perfino un contingente pontificio l'avevano capito prima di Carlo Alberto, e quando si accorsero che non si trattava di unire l'Italia in una confederazione secondo i progetti di Gioberti e Cattaneo, ma di star prestando man forte al progetto (imperialistico) inglese, tutti si ritirarono. E da quel momento le sole campagne vittoriose non furono quelle contro gli stranieri, ma furono quelle contro altri italiani: il Papa e il Sud. La Terza Guerra d'Indipendenza finì col disastro di Custoza e Lissa, malgrado l'Austria avesse offerto gratis il Veneto e il Trentino purché l'Italia si ritirasse dall'alleanza con la Prussia. Alla breccia di Porta Pia, dopo i bersaglieri, il primo ad entrare fu un carretto di Bibbie protestanti, tirato da un cane chiamato "Pio Nono". Tra i patti che Cavour (ma anche Mazzini) aveva fatto con gli inglesi, "padrini" dell'espansione piemontese, c'era anche l'appoggio alla divulgazione protestante contro l'odiato "papismo". Ricordiamo che il primo sindaco di Roma fu il massone Ernesto Nathan, figlio dell'amante inglese di Mazzini, il quale poté fare il sindaco della capitale d'Italia pur essendo cittadino inglese).

Torniamo alla famosa lettera di Carlo Alberto:

"Voi conoscete perfettamente il mio pensiero sugli ingrandimenti che io credo dobbiamo desiderare per il nostro paese, avuto riguardo soprattutto alle nostre finanze e alla forza effettiva che il nostro esercito può portare in battaglia. Dal momento che, noi non possiamo far conto su alcun alleato né d'altra parte da tempo non riceviamo un appoggio reale dalle truppe lombarde.
Voi avete visto tutto quello che vi ho scritto in questi ultimi giorni e che dovrebbe togliere ogni illusione agli uomini che riflettono in buona fede. Credo dunque in coscienza che, se potremo ottenere con la mediazione inglese, la Lombardia fino all'Adige e insieme i Ducati, avremo fatto una campagna gloriosa; con uno Stato così piccolo com'è il nostro a confronto del colossale Impero Austriaco, si potrà dire d'aver conseguito acquisti superbi e quasi inauditi nella storia. Ecco, davanti a Dio, il mio intimo pensiero, e voi potete confidarlo al signor Abercromby. Desiderare di più, specialmente ora che l'arciduca Giovanni è stato messo a capo della Confederazione germanica, la quale si è dichiarata a noi avversa, è una temerarietà, quasi una pazzia. Significa voler dichiarare la perdita, la rovina per sempre della causa italiana, o l'intervento della Repubblica francese, la quale vorrà toglierci allora la Savoia e Nizza, e ci porterà i suoi principi (rivoluzionari) dai quali potremmo esser travolti".

Tre giorni dopo però il ministro PARETO dichiarava alla Camera:

"Se vi fosse qualche trattativa di pace che non trattasse dell'evacuazione d'Italia dall'Austriaco,
ognuno di noi domanderebbe le sue dimissioni".

Del resto, anche se il pensiero di Carlo Alberto fosse stato condiviso dagli altri, ormai (forse) era troppo tardi. La guerra aveva preso un altro indirizzo. Radetzky che sapeva benissimo la situazione militarmente critica dei piemontesi, mentre per lui era straordinariamente rosea, consigliò il suo governo di non fare alcuna concessione al nemico. Lui, con le sue armi, a Carlo Alberto avrebbe ripreso tutto, perfino quel paese (la Lombardia) che con i recenti negoziati gli si voleva lasciare.
Radetzky più che fare un favore all'Austria, mandò all'aria tutti i progetti inglesi.

Dopo un mese circa di riposo, le negoziazioni diplomatiche cessavano
e ricominciavano a parlare le armi, incaricate di decidere delle sorti della guerra.


Ma la sorte era già segnata.
Anche se.... a Carlo Alberto, gli si presentò al campo
una vecchia conoscenza, un uomo in camicia rossa (mandato da chi?).
Ne parliamo nel successivo capitolo

ANNO 1848 - Atto Undicesimo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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