ANNO 1848

DALL'ADDA A MILANO - L'ULTIMA BATTAGLIA -
ARMISTIZIO DI SALASCO
Atto Dodicesimo

DALL'ADDA A MILANO, L'ULTIMA BATTAGLIA - TUMULTI MILANESI CONTRO CARLO ALBERTO - IL RE LASCIA MILANO - L'ARMISTIZIO SALASCO - II PROCLAMA DI VIGEVANO - GIUSEPPE GARIBALDI E I SUOI VOLONTARI - COMBATTIMENTI DI LUINO E DI MORAZZONE -- VENEZIA DOPO L'ARMISTIZIO
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I BOLOGNESI CACCIANO GLI AUSTRIACI


I Bolognesi cacciano l'8 agosto gli Austriaci a porta Galliera

Pianta di Bologna nel 1848

Combattimenti dell'8 agosto alla Montagnola


Combattimenti a Porta Galliera

Scendono nelle strade donne e bambini a combattere

I Bolognesi assediano gli Austriaci sulla Montagnola




Il Papa nonostante le ambigue precedenti allocuzioni, finoal 31 luglio 1848, con le fondate speranze riposte in Carlo Alberto, invitò a pregare i fedeli per la nobile causa.
Qui abbiamo un raro documento che fu stampato il 31 luglio, si era convinti di un successo di Carlo Alberto in Lombardia o con le armi o con un armistizio proposto agli Austriaci.....



....quando però giunsero le prime notizie che Radetzky si era potentemente riorganizzato e marciava minacciosamente verso Milano,
con in tasca un severo ultimatum alla capitale lombarda, il proclama-notifica non fu più pubblicato. Carlo Alberto, impreparato per aver (il "Tentenna") indugiato troppo, stava infatti, andando incontro a una clamorosa sconfitta. Dalla Roma papale giusero subito gli ordini di non più appoggiare il Re Sardo. Insomma un voltafaccia, lasciando nella costernazione i milanesi e tutti coloro che erano andati ad aiutarli.

DALL'ADDA A MILANO

Neppure la linea dell'Oglio era possibile tenere con un esercito così demoralizzato. Occorreva indietreggiare ancora e andare a schierarsi sulla destra del Po o sulla destra dell'Adda.
Senza dubbio la "linea del Po" era "migliore militarmente", perché l'esercito avrebbe avuto modo di rimettersi dalle sofferte fatiche e ingrossarsi con i battaglioni di riserva dei Ducati e delle Legazioni; avrebbe potuto tener fronte al nemico sulla Trebbia o sulla Nure se questo fosse passato sulla destra del fiume, ed avrebbe pure costituito una grave minaccia per il fianco sinistro dell'esercito austriaco avanzante in Lombardia; ma una malaugurata vittoria austriaca vicino ad Alessandria sarebbe stata fatale al Piemonte.
Mentre, a favore della "linea dell'Adda", più vicina, e più forte per le difese di Pizzighettone, Lodi o Cassano, e, per un'eventuale ritirata, vicina ai ponti di Piacenza e di Pavia, era "migliore politicamente" perché copriva, infatti, la Lombardia, che qualora abbandonata per andare invece sul Po Carlo Alberto temeva di esser "tacciato di tradimento" e di alienarsi l'animo delle popolazioni.

Il Re di Sardegna, il quale, purtroppo nella condotta della guerra guardava molto alle ragioni politiche, scelse la linea dell'Adda e, riuscita vana la speranza di fermarsi alcuni giorni a Cremona, vi condusse il 31 luglio l'esercito, ponendo il quartier generale a Codogno.
Tre giorni prima, il 28 luglio, si era finalmente costituito il nuovo ministero sotto la presidenza di GABRIO CASATI che aveva voluto come suo collaboratore VINCENZO GIOBERTI.
Nell'illusione che l'esercito poteva in poco tempo ricomporsi sulla destra del Po, i nuovi ministri (avrebbero dovuto farlo 4 mesi prima!) avevano chiamato sotto le armi cinque classi di riservisti e cinquantasei battaglioni di guardia nazionale e il 30 luglio, conosciute le condizioni poste dal Radetzky a Carlo Alberto per l'armistizio, da un canto avevano pregato l'ambasciatore inglese Abercromby di avviare nuove trattative con il comando austriaco, dall'altro avevano spedito a Parigi il marchese ALBERTO, affinché con il ministro BRIGNOLE già sulla Senna, sollecitasse l'intervento della Francia.

L'ULTIMA BATTAGLIA

Il 1° agosto, il generale AIX DI SOMMARIVA, che con la 1a divisione si trovava a Grotta d'Adda, invece di contrastare, come aveva ricevuto ordine, il passo al nemico abbandonava il posto assegnatogli e si metteva in marcia verso Piacenza. Crollava così stoltamente anche la linea dell'Adda, sulla quale Carlo Alberto avrebbe voluto combattere l'ultima battaglia di quella campagna per vincolare, con quel gesto d'onore, alla sua dinastia il destino di Milano.

Opponendosi al Bava, che consigliava di passare il Po, il re, poiché sulla linea dell'Adda non si poteva far più assegnamento, decise di recarsi con l'esercito sotto le mura di Milano per tentarne la difesa, scrivendo quel giorno stesso ai ministri di avere scelto "il partito meno militare, ma più nobile".

Intanto a Milano si vivevano giornate di grandissima ansia. La sera del 26 luglio, saputa la notizia della sconfitta a Custoza, il governo provvisorio, d'accordo con i generali LECHI e SOBRERO, aveva stabilito d'inviare in soccorso del re i cinquemila uomini che costituivano le sole uniche truppe lombarde disponibili, e la mattina del 27, conosciuta la ritirata del Mincio, era stato affidato al generale ZUCCHI il comando della guardia nazionale e si era formato un Comitato di pubblica difesa. A far parte del quale erano stati chiamati il generale MANFREDO FANTI, reduce dalla Spagna, il dottor PIETRO MAESTRI e l'avvocato FRANCESCO RESTELLI.
Il Comitato, mentre la Consulta inviava a Parigi il marchese ANSELMO GUERRIERI GONZAGA e GIULIO CARCANO per chiedere l'intervento armato della Francia, postosi all'opera, aveva ordinato un prestito forzoso di quattordici milioni, aveva proibito la partenza dei cittadini da Milano, aveva preso severi provvedimenti contro i funzionari che abbandonavano il loro posto e contro le persone che diffondevano notizie allarmanti; e per assicurare la difesa della città si era dato a raccogliere armi, munizioni e vettovaglie, non tralasciando di suscitare con manifesti infuocati l'entusiasmo dei cittadini:

"Risorgiamo all'ardore, all'impeto delle cinque immortali giornate. Erigiamo di nuovo le barricate, tagliamo i ponti, gli argini, le strade: mostriamo che sappiamo resistere alla sventura e che, se una forza preponderante ci sovrasta, siamo meritevoli dei soccorsi e delle simpatie di tutta l'Europa".

E ai parroci: "Sul pergamo, sulle piazze, da per tutto ove il popolo si raccoglie, mostratevi, predicate, incoraggiate .... Fate suonare le campane incessantemente per rinnovare al barbaro i terrori delle giornate di marzo .... Traete all'ospedale, alle ambulanze a recarvi la consolazione e il ristoro, a riportare salutevoli documenti per tutti quelli che anelano emulare i loro valorosi fratelli. Traete voi stessi e mandate vostri zelanti cooperatori a predicare la guerra santa nei templi più frequentati della città e delle campagne, sulle piazze, sulle vie. Intimate pubbliche preghiere ad invocare l'aiuto supremo sull'armi nostre ritemprate dalla sventura, su questo paese prescelto dalla Provvidenza a preparare le sorti d'Italia".

Inoperosi non stavano il MAZZINI e il GARIBALDI e l'uno e l'altro lanciavano appelli ai giovani perché accorressero ad arruolarsi per la difesa della patria:

"La guerra ingrossa, i pericoli aumentano - scriveva in un proclama il 27 luglio GIUSEPPE GARIBALDI alla gioventù. - La patria ha bisogno di voi. Chi v'indirizza queste parole ha combattuto per onorare come meglio poteva il nome italiano in lidi lontani; è accorso con un pugno di valenti compagni da Montevideo per aiutare la vittoria della patria o morire su terra italiana. Egli ha fede in voi; volete, o giovani, averla in lui? Accorrete; concentratevi attorno a me. L'Italia ha bisogno di dieci, di ventimila volontari: raccoglietevi da tutte le parti in quanti più siete, e alle Alpi! Mostriamo all'Italia, all'Europa che vogliamo vincere e vinceremo".

Il 30 luglio GARIBALDI fu mandato a Bergamo partendo da Milano con la sua legione di volontari formata dai settanta legionari di Montevideo, da quattrocento uomini del battaglione pavese, da seicento del battaglione vicentino, da centocinquanta liguri, da trecento del battaglione Anzani comandato dal Medici e da un drappello di cavalieri. Il l° agosto entrava a Bergamo dove si univano a lui i settecento bergamaschi e comaschi del battaglione CAMOZZI e si preparava a difendere il corso superiore dell'Adda da Lecco a Cassano.
Quello stesso giorno da Milano si ordinava la leva in massa di tutti gli uomini dai 18 ai 40 anni:

"Ognuno che ha un fucile deve portarlo con sé con tutte le munizioni che possiede. Quelli che non possono partire devono cederle a quelli che partono. Chi non ha armi marci pure con gli attrezzi da muovere la terra e spianare alberi, falci, scuri, vanghe, zappe, ecc. Dove le guardie nazionali sono costituite in compagnie e battaglioni organizzati marceranno con i loro ufficiali, bandiere e tamburi. L'ufficiale o sottufficiale superiore in grado che si trovasse presente n'assuma il comando. Dove le guardie nazionali di un comune non sono ancora organizzate con i rispettivi ufficiali, saranno guidate da chi sarà nominato dal Comitato della leva. Ogni comune dovrà fornire il pane per una settimana alle guardie nazionali che marciano, sia con utensili, sia con le armi .... Non è obbligatorio alcuna uniforme e basterà che ciascun uomo porti una croce rossa al petto .... Il servizio durerà per i pochi giorni del pericolo dell'invasione del territorio .... La marcia comincerà non più tardi delle ore 24 dopo la pubblicazione del presente decreto nel comune, e sarà inaugurata dal suono a stormo delle campane, annunciatore ad un tempo di festa per un popolo ridestato al sacro entusiasmo della guerra nazionale e di sterminio per il barbaro nemico".

Il 2 agosto giunse al quartier generale una deputazione lombarda per informare il re che il popolo milanese era risoluto a difendersi, e per pregarlo di mandare l'esercito sotto le mura della città. Faceva parte della deputazione il generale MANFREDO FANTI, il quale, pratico com'era delle cose di guerra, capì subito che l'esercito avrebbe meglio difeso Milano alla destra del Po che non sotto le mura e, d'accordo con il Bava, cercò di persuadere il sovrano di trasferire le truppe a Piacenza; ma Carlo Alberto rispose che oramai era troppo tardi per revocare gli ordini dati e non bisognava disperare.

Quel medesimo giorno il Governo provvisorio di Lombardia annunziava con un proclama di essersi trasformato in Consulta straordinaria e di avere rimesso i poteri al generale ANGELO OLIVIERI, al marchese MASSIMO CORDARO DI MONTEZEMOLO e al nobile GAETANO STRIGELLI, regi commissari. Rimaneva però in funzione il Comitato di difesa che lavorava a preparare opere di difesa aiutato dagli ufficiali piemontesi CADORNA e PETTINENGO.
L'esercito regio giunse a Milano il giorno 3 agosto e si dispose a semicerchio fuori della città con la destra appoggiata al Naviglio di Pavia e la sinistra a Porta Orientale. L'estrema destra era formata della 2a divisione, la quale occupava la Chiesa Rossa e per Castellazzo, Vigentino, Nosedo e Gamboloita, si univa al centro, costituito dalla divisione Broglia. Questa si protendeva a sinistra per Besana, Calvairate e Senavra legandosi alla 4a divisione stanziata alle Cascine Doppie e a Loreto. La divisione di riserva, comandata dal duca di Savoia, fu posta sulla strada di circonvallazione a Porta Romana e Porta Tosa, verso il centro della linea, per esser pronta ad accorrere dove in nemico avrebbe più minacciato.

La divisione Lombarda, comandata dal PERRONE e ridotta per le diserzioni a poco più di millecinquecento uomini, collocò le sue avanguardie a Crescenzago collegandosi per Ponte Seveso alle milizie comandate dal FANTI, consistenti in un battaglione di riserva delle Guardie, in uno del 18° reggimento, in duecento Polacchi dell 'ANTONINI e in quattromila reclute lombarde cui dovevano aggiungersi tremila guardie nazionali sotto lo ZUCCHI.
L'artiglieria lombarda, con venti cannoni e sei obici, era distribuita alle porte settentrionali ed occidentali; la cavalleria sarda, eccettuati alcuni drappelli dislocati presso le divisioni, era concentrata sulla piazza d'armi insieme con due batterie a cavallo. Il re alloggiava in un modesto albergo all'insegna di San Giorgio, fuori Porta Romana.

Gli Austriaci comparvero nelle vicinanze di Milano la mattina del 4 agosto. La battaglia incominciò verso le 10 alla Gamboloita divenne subito generale: una battaglia senza un piano, senza unicità di comando, senza collegamenti; un insieme di zuffe sanguinose tra i campi, accanto alle case dei sobborghi, presso i fossi, vicino a difese improvvisate. La brigata Casale, che per prima aveva ricevuto l'urto nemico, resistette due ore alla Gamboloita, poi sopraffatta, si ritrasse alla Casa Bianca, dove con l'aiuto di un battaglione delle Guardie combatté valorosamente fino a notte. Davanti a Besana e a Boffalora la divisione Broglia resistette fino alle cinque di sera. Pioveva a dirotto, tuonava e le case della campagna circostante bruciavano sinistramente.
Carlo Alberto si tenne per tutta la giornata nei punti dove maggiore era il pericolo. Forse cercava una morte gloriosa sul campo di battaglia e invece rimase illeso mentre attorno a lui caddero parecchi ufficiali tra cui il capitano Avogadro e il tenente Gazzelli. La giornata si chiuse con un bilancio doloroso. Gli Austriaci subirono quaranta morti, duecento feriti e settantatrè dispersi; gli Italiani quarantadue morti, duecentoventotto feriti e centoquarantasei prigionieri.

A sera fatta, mentre suonavano le campane, si costruivano barricate e dappertutto regnava una confusione grandissima, Carlo Alberto entrò in Milano con l'animo lacerato dallo sconforto e prese dimora al palazzo Greppi, dove subito dopo tenne consiglio di guerra. Tenuto conto che scarseggiavano i viveri e le munizioni e che ostinandosi in una difesa inutile si procurava danno alla città senza speranza di bene, si giunse nella determinazione di offrire la capitolazione a patto però che fosse accordato un indulto ai cittadini e si lasciasse libera la ritirata oltre il Ticino all'esercito sardo e a tutti coloro che volevano seguirlo.

Alle 9 pomeridiane del 4 agosto furono inviati al Radetzky i generali LAZZARI e ROSSI, accompagnati dal vice console inglese CAMPBELL e dal segretario della legazione francese REISET. Gli inviati tornarono da San Donato, dov'era il quartier generale austriaco, alle sei del mattino successivo. Il Radetzky aveva accordato l'armistizio alle seguenti condizioni:

"L'esercito sardo doveva sgombrare entro due giorni Milano e la Lombardia; ai cittadini maggiormente compromessi si concedevano dodici ore di tempo per lasciare la città; alle quattro e mezza del pomeriggio del 5 doveva avvenire lo scambio delle ratifiche; al mattino del 6 gli Austriaci dovevano ricevere la consegna di Porta Romana e al mezzogiorno il maresciallo sarebbe entrato in città con l'esercito".

TUMULTI MILANESI CONTRO CARLO ALBERTO

La mattina del 5 agosto, ratificata la convenzione, il re affidò l'incarico ai generali SALASCO, Bava e Olivieri di esporre alla Congregazione municipale, al Comitato di difesa e allo Stato Maggiore della Guardia nazionale i motivi che lo avevano costretto a scendere a patti con il nemico. Fatta la comunicazione, i più mostrarono di esser persuasi della necessità della convenzione, la stesso generale ZUCCHI, interrogato da alcuni se avrebbe abbandonato Milano, rispose che senza l'esercito la città non avrebbe potuto difendersi.
Chi protestò vivamente fu l'avvocato RESTELLI, il quale affermò che:

"il Comitato di pubblica difesa non essendo stato interpellato, lasciava la responsabilità di quell'atto e si asteneva dal discuterne i motivi addotti; non esser vero però che ci fosse difetto di viveri e di denaro, perché vi erano farine per otto giorni; e il Comitato aveva disposto che in quello stesso giorno e nei seguenti si versassero nelle casse quattro milioni di lire del prestito forzato; perciò come membro del Comitato di pubblica difesa, come cittadino e come italiano, protestava contro quel patto vergognoso".

E aggiunse:

"Milano, lasciata dalle armi sabaude, dovere resistere fino all'estremo; di essere la popolazione disperatamente preparata alla difesa; prova di ciò l'entusiasmo mirabile da essa mostrata nell'erigere serragli e ripari, e il suo festoso accorrere alle armi: ora quell'entusiasmo, che l'umiliante capitolazione non aveva potuto abbattere, doversi assecondare; che se fosse destinata a soccombere, cadrebbe salvando però sempre l'onor suo".

Sparsasi in città la notizia dell'avvenuta capitolazione, sorse una viva agitazione che ben presto degenerò in tumulto. Enorme lo sdegno verso il re che molti accusavano di aver tradito Milano. Una turba di forsennati verso mezzogiorno si raccolse intorno al palazzo Greppi con il proposito d'impadronirsi della persona del re, onde POMPEO LITTA e LUIGI ANELLI, membri della Consulta, fendendo la calca, si recarono dal sovrano e lo scongiurarono di non abbandonare Milano in balìa del nemico.
Giù nella piazza il tumulto cresceva, a stento i carabinieri contenevano la folla che voleva irrompere nel palazzo. Allora CARLO ALBERTO s'affacciò al balcone e, tra applausi, fischi, schioppettate e volgari ingiurie di ciarlatani, dichiarò che avrebbe continuato la guerra e poiché la folla non era soddisfatta di quelle dichiarazioni verbali fece pubblicare questo bando:

"Cittadini ! Il modo energico con il quale l'intera popolazione si manifesta contro qualsiasi idea di transazione con il nemico, mi ha determinato a continuare nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Tutto deve esser vinto da un solo sentimento: la liberazione d'Italia.
Cittadini! il momento è solenne; che tutti si pongano all'opera. Forti della giustizia della nostra causa, il cielo coronerà gli sforzi di un popolo eroico affratellato con un esercito, che ha già versato tanto sangue per la causa italiana. Io rimango fra voi con i miei figli; per la causa comune io soffro da quattro mesi i disagi della guerra con la più eletta del mio popolo. Io confido in voi: mostrate dal canto vostro che giusta è la mia convinzione e tutti uniti saluteremo quanto prima il giorno della comune liberazione".

Ma erano parole. L'esercito sardo oramai non era più uno strumento di difesa, anzi era indignato contro i Milanesi e, credendo che il re era prigioniero, si preparava a liberarlo. Saputo questo, Carlo Alberto ordinò che nulla facessero i suoi soldati:

"Dovesse anche questo popolo assassinarmi - disse egli - non permetterò giammai che i miei soldati si pongano al rischio di versare il sangue italiano !".

Intanto i tumulti ricominciavano; si chiudevano le botteghe, si sbarravano le porte, s'insultavano gli ufficiali regi; MANFREDO FANTI, non riconosciuto, corse pericolo di essere linciato dalla folla; si tentò di far saltare il portone del palazzo Greppi con un barile di polvere e gli autori del tentativo avrebbero effettuato il loro proposito se non fosse corso a sbandarli con un manipolo di bersaglieri e un battaglione della brigata Piemonte, il colonnello ALFONSO LA MARMORA.
Nel frattempo il podestà PAOLO BASSI, il generale ROSSI, l'arcivescovo ROMILLI, tre assessori e un rappresentante del console francese si recavano dal RADETZKY, il quale li accoglieva garbatamente, e prolungava, in seguito alla loro richiesta; il termine stabilito per l'espatrio dei cittadini. Malgrado ciò l'agitazione popolare non accennava a diminuire, anzi, essendo esplosa la polveriera della caserma del Genio ed essendosi sparsa la voce che erano stati i regi, il tumulto aumentò e si temette seriamente per la vita del Re.

IL RE DI SARDEGNA LASCIA MILANO

Si era fatta sera. Truppe sarde al comando del colonnello DELLA ROCCA e del tenente LUIGI TORELLI giunsero, e unite a quelle condotte prima dal La Marmora, scortarono il Re e il Duca di Genova fino a Porta Orientale e di lì a Porta Romana e a Porta Vercellina, mentre le campane suonavano a stormo. Non pochi soldati caddero uccisi dalla furia popolare al fianco del sovrano; finalmente, sgombrato il cammino delle barricate, Carlo Alberto riuscì a mettersi al sicuro.
Un solo battaglione delle Guardie rimase a Milano per consegnare, secondo i patti, agli Austriaci Porta Romana. Il resto dell'esercito sardo, in tre colonne, per Magenta, Abbiategrasso e Rho, prese la via del Piemonte, seguito da quasi un centinaio di migliaia di Lombardi, uomini e donne, vecchi e giovani, che si recavano in esilio oltre il Ticino o in Svizzera pur di non ricadere sotto il giogo austriaco e con la speranza della riscossa e con chissà quale vendicativa repressione.

Il giorno 6 agosto il maresciallo RADETZKY, alla testa del suo esercito, entrava a Milano e trovava la città quasi deserta, muta e costernata; il 7 Carlo Alberto giungeva a Vigevano e riceveva i ministri CASATI e GIOBERTI, venuti a lui per persuaderlo a continuare la guerra fidando nell'imminente arrivo degli aiuti francesi. Ma il sovrano dichiarò che "era necessaria una tregua delle armi se si voleva ricominciare poi la guerra con probabilità di vittoria". Allora i due ministri rassegnarono le loro dimissioni e quelle dei colleghi, e il Re le accettò.

Il rientro a Milano degli Austriaci
Armistizio di Salasco

Il preliminare della Convenzione del 5 agosto

La convenzione d'Armistizio dell'Esercito Sardo il 9 agosto

I tristi proclami di Carlo Alberto del 7 e del 10 agosto da Vigevano

L'ARMISTIZIO SALASCO

Il giorno 9 agosto a Milano, il generale piemontese SALASCO, capo dello Stato Maggiore dell'esercito sardo, e il generale HESS, quartier-mastro dell'esercito austriaco, conclusero l'armistizio. Le condizioni erano contenute nei seguenti capitoli:

"1° - La linea di demarcazione dei due eserciti sarà il confine stesso degli Stati rispettivi.
2° - Le fortezze di Peschiera, Rocca d'Anfo ed Osoppo saranno sgomberate dalle truppe sarde e alleate e consegnate alle truppe di S. M. Imperiale. La consegna di ciascuna di codeste piazze avverrà tre giorni dopo la dichiarazione della presente convenzione. Sarà restituito tutto il materiale di dotazione di quelle piazze che erano dell'Austria. Le truppe che escono porteranno con loro materiale, armi, munizioni e vestiario da esse introdotte e rientreranno a tappe regolari e per la via più breve negli Stati di S. M. Sarda.
3° - Gli Stati di Modena, di Parma e la città di Piacenza con la cerchia di territorio ad essa spettante nella sua qualità di piazza di guerra saranno sgomberati dalle truppe di S. M. il Re di Sardegna tre giorni dopo la notificazione della presente convenzione.
4° - Codesto trattato comprenderà del pari la città di Venezia e la terraferma del Veneto. Le forze militari sarde di terra e di mare abbandoneranno la città, i forti e i porti di quella piazza per rientrare negli Stati Sardi. Le truppe di terra potranno effettuare la loro ritirata per la via di terraferma e per tappe lungo una strada da convenirsi.
5° - Le persone e le proprietà nei luoghi citati sono posti sotto la protezione del governo imperiale.
6° - Quest'armistizio durerà sei settimane per dar seguito a negoziati di pace, e spirato un tal termine, esso sarà prolungato di comune accordo o denunciato otto giorni prima della ripresa delle ostilità.
7° - Saranno reciprocamente nominati commissari per la più facile ed amichevole esecuzione dei suddetti articoli".

IL PROCLAMA DI VIGEVANO

Il 10 agosto CARLO ALBERTO lanciò al suo popolo il seguente proclama:

"L'indipendenza della terra italiana mi spinse alla guerra contro il nostro nemico. Assecondato dal valore della mia armata, la vittoria arrise in prima alle nostre armi. Né io, né i miei figli abbiamo retrocesso davanti al pericolo; la santità della causa raddoppiava il nostro coraggio. Il sorriso della vittoria fu breve. Il nemico ingrossato, il mio esercito quasi solo a combattere, la mancanza di viveri ci costrinse ad abbandonare le posizioni da noi conquistate e le terre già fatte libere dalle armi italiane. Con l'esercito io mi ero ritirato alla difesa di Milano; ma, stanco dalle lunghe fatiche, non poteva questo resistere ad una nuova battaglia campale, perché anche la forza del prode soldato ha i suoi limiti. L'interna difesa della città non poteva sostenersi: mancavano denari, mancavano sufficienti munizioni di guerra e di bocca. Il petto dei cittadini avrebbe forse potuto per alcuni giorni resistere, ma per solo per seppellirci sotto le rovine, non per vincere il nostro nemico.
Una convenzione fu da me iniziata, fu dai Milanesi medesimi proseguita, sottoscritta. Non ignoro le accuse con le quali si vorrebbe da alcuni macchiare il mio nome, ma Dio e la mia coscienza sono testimoni dell'integrità delle mie operazioni.

Abbandono alla storia imparziale giudicare. Una tregua di sei settimane fu stabilita per ora con il nemico, e avremo nell'intervallo condizioni onorate di pace o ritorneremo un'altra volta a combattere.
I palpiti del mio cuore furono sempre per l'indipendenza italiana, ma l'Italia non ha ancora fatto conoscere al mondo che può fare da sé. Popoli del Regno! Mostratevi forti in una prima sventura. Mettete a calcolo le libere istituzioni che sorgono nuove tra noi. Se, conosciuti i bisogni dei popoli, io per primo ve le ho concesse, io saprò in ogni tempo fedelmente osservarle. Ricordo gli evviva con il quali avete salutato il mio nome: essi risuonavano ancora al mio orecchio nel fragore della battaglia. Confidate tranquilli nel vostro re. La causa dell'indipendenza italiana non è ancora perduta".

GIUSEPPE GARIBALDI E I SUOI VOLONTARI:
COMBATTIMENTI DI LUINO E DI MORAZZONE

Torniamo indietro di qualche giorno. Giuseppe Garibaldi, partendo da Milano con la sua legione di volontari, il 1° agosto dal Governo provvisorio di Lombardia era stato mandato a Bergamo con l'ordine di sorvegliare il corso superiore dell'Adda, da Lecco a Cassano, e poi eventualmente collegarsi con la destra all'esercito sardo, ma l'ordine non fu eseguito perché, dopo la defezione del Sommariva, gli Austriaci si erano impadroniti di Grotta d'Adda.
La sera del 3 agosto ricevette dal Comitato di difesa l'ordine di correre a Milano. Ai suoi volontari rivolse un breve proclama:

"Legionari, il cannone tuona; il punto in cui siamo è pericoloso, siamo nella posizione di esser tagliati fuori, mentre il giorno di domani ci promette un campo di battaglia degno di voi. Dunque vi chiedo ancora una notte di sacrificio; proseguiamo la marcia. Viva l'indipendenza italiana!".

Ma, giunto a Monza e conosciuta la capitolazione, anziché proseguire per Milano, piegò su Como per non subire le sorti dei vinti, deciso a fare la guerriglia con le sue bande.
A Como il MAZZINI, che si era arruolato nella legione di Garibaldi, lo abbandonò e passò a Lugano, e da qui con il MAESTRI e con il RESTELLI sperava di suscitar nella penisola la guerra di popolo; ma molti altri legionari si allontanarono; pure Garibaldi non si scoraggiò e cercò di attirare a sé gli altri corpi di volontari della Lombardia, quelli del DURANDO, quelli del MANARA, del GRIFFINI, del D'APICE, scrivendo loro:

"La guerra italiana contro l'Austria continua finché vi sono uomini che sanno e vogliono fare. Io sono sempre deciso a fare il mio dovere. Spero che voi dividerete gli stessi sentimenti e vi esorto quindi ad avvicinarvi alle mie le vostre forze. L'Italia farà questa volta veramente da sé".

Ma nessuno rispose al suo appello. GIACOMO DURANDO, che stava tra Gavardo e Vestorse, si ritirava verso Brescia per unirsi al GRIFFINI. Ma questi risalita la valle dell'Oglio e passato nella Valtellina, arretrava in Svizzera; a quel punto il Durando, ordinato ai trecento finanzieri che presidiavano Rocca d'Anfo di consegnare il castello agli Austriaci, si dirigeva su Adro per poi passare a Bergamo e da qui in Piemonte. I volontari del D'Apice, che stavano in difesa dello Stelvio, alla notizia dell'armistizio, ritenendo inutile e vana ogni altra azione, si sbandarono.
Rimasto con millecinquecento uomini, da S. Fermo, dov'era il 7 agosto, s'incamminò per Varese, verso il Ticino, e, dopo averlo attraversato a Sesto Calende, entrò il 10 agosto a Castelletto.
Qui venuto a sapere dell'armistizio Salasco, n'ebbe sdegno e lanciò un violentissimo proclama agli Italiani, in cui dichiarava di non potersi conformare alle umilianti convenzioni ratificate "con il nemico d'Italia il Re di Sardegna", al quale, più tardi faceva sapere che " lui e i suoi compagni non potevano consentire alla pace con il nemico della patria e che erano disposti a continuare la guerra contro il nemico comune in Lombardia e dovunque fosse più necessario".

Il 14 agosto GARIBALDI lasciò Castelletto; ad Arona, dove giunse quel giorno stesso, requisì viveri, barche e due vapori, il "San Carlo" e il "Verbano", e, imbarcati i suoi volontari, passò a Luino. Verso la sera del giorno dopo, mentre la legione, divisa in tre scaglioni, si dirigeva verso la val Travaglia, Garibaldi seppe che tre compagnie austriache, costeggiando il lago, marciavano su Luino. Deciso di attaccare il nemico, ordinò ad uno degli scaglioni di occupare l'osteria della Beccaccia, ma gli Austriaci avevano anticipato i legionari che dovettero scacciarli alla baionetta. Gli Austriaci, messi in fuga, lasciarono sul terreno due morti, quattordici feriti e ventitré prigionieri, ma nessuno di loro si sarebbe salvato se i legionari avessero avuto un po' di cavalleria per inseguirli.

Contro i legionari del GARIBALDI, che il 18 agosto entravano a Varese, il RADETZKY spedì il II corpo d'armata comandato dal D'ASPRE, che doveva essere sostenuto, occorrendo dalle brigate Maurer e Strassoldo, le quali si trovavano a Gallarate e a Tradate: in totale sedicimila uomini circa con trentasei pezzi d'artiglieria.

Informato dell'avvicinarsi di tante forze, il giorno 20 agosto Giuseppe Garibaldi si trasferì sulle alture d'Induno, distaccando la compagnia Medici a Viggiù, ma questa, ricevuti contrordini, la sera del 22 ridotta per le diserzioni a soli centodieci uomini, si portò a Ligurno e il giorno dopo, tra questa località e Rodero, tenne testa per tre ore ad una parte della brigata Schwartzenberg. Minacciato al fianco e alle spalle, il Medici, con i suoi che si erano battuti coraggiosamente, dopo un'ultima resistenza sul Monte S. Maffeo, passarono il confine svizzero.

Deciso a farla finita con i volontari, il D'ASPRE, spiegando opportunamente tutte le sue forze, prima tentò di chiuderli tra il Lago Maggiore, il confine svizzero e il Lago di Como, poi fra i laghi di Varese, di Monate e di Comabbio; ma tutte e due le volte il Garibaldi sfuggì alla stretta, la prima volta girando abilmente per la Valganna e la Val Cuvia intorno al massiccio di Campo di Fiori, la seconda gettandosi per la strada Tornate-Morvago-Caidate, su Morazzone, dove giunse alle 17 del giorno 26 con ottocento uomini circa.
Circondati da tutte le parti, per le nuove disposizioni impartite dal comando austriaco alle truppe, i legionari, la sera del 26 furono attaccati di sorpresa da parte della brigata Simbschen e, dopo una mischia, la scacciarono alla baionetta dall'abitato dove era penetrata. Assalito nuovamente, poco dopo, dal lato opposto, da reparti, austriaci comandati dallo stesso D'Aspre, i volontari tuttavia resistettero costringendo il nemico a rimandare il giorno dopo l'attacco decisivo.

Garibaldi, invece non aspettò il giorno dopo. Durante la notte, uscì inosservato da Morazzone, dirigendosi verso il lago di Varese, ma nel buio della notte la colonna si disperse né riuscì più a tenerla insieme. Garibaldi rimasto solo con una settantina di volontari proseguì verso il confine svizzero attraversandolo la notte del 27 agosto. Seguito poi alla spicciolata da altri legionari che s'erano in precedenza sbandati.

I BOLOGNESI SCACCIANO GLI AUSTRIACI

Dopo la battaglia di Custoza (quindi molto dopo l'"allocuzione" di Pio IX del 29 aprile) il generale WELDEN aveva mandato sulla destra del Po un piccolo distaccamento di Austriaci che gli abitanti di Sermide avevano attaccato e messo in fuga. Il 28 luglio altre truppe invasero le terre dello Stato Pontificio, saccheggiando e taglieggiando, e alcuni giorni dopo lo stesso Welden passò il Po e marciò su Ferrara.
Pio IX protestò energicamente contro la violazione austriaca, fece i suoi indignati passi presso le potenze europee e spedì al WELDEN il cardinal MACINI, il principe CORSINI e il ministro GUERRINI, per intimargli di uscire dal suo Stato, mentre il ministero pubblicava la seguente dichiarazione:

"Sua Santità è nella ferma risoluzione di difendere lo Stato suo contro l'invasione austriaca con tutti i mezzi che lo Stato e il ben regolato entusiasmo dei suoi popoli possono fornire. Sua Santità smentisce altamente per mezzo nostro le parole del signor maresciallo Welden (che accennavano al buon accordo dell'Austria con il Papa), protestando contro qualsivoglia sinistra interpretazione si volesse dare alle medesime, e dichiarando che la condotta del signor Welden stesso è tenuta da Sua Santità come ostile alla Santa Sede ed a Nostro Signore, il quale può intendere e intende di separare la causa dei suoi popoli dalla sua, e ritiene come fatta a sé ogni onta, ogni danno arrecato ai popoli medesimi".

Ma WELDEN, non curandosi delle proteste, occupato il Ferrarese, puntò pure su Bologna, mentre il LIECHTENSTEIN marciava su Parma, Reggio e Modena.
Bologna, per l'assenza del cardinale AMAT, era governata da CESARE BIANCHETTI, che riuscì a stento a tenere fermi i cittadini, i quali volevano respingere con la forza gli invasori, quantunque novemila volontari (gli stessi che per la capitolazione di Vicenza e Treviso, erano stati lasciati liberi di ritirarsi, ma avevano promesso di non combattere gli austriaci per tre mesi) fossero partiti con diciannove pezzi d'artiglieria e nella città non rimanessero che duecentottanta carabinieri, centotrentasei finanzieri e la guardia civica comandata dal conte PEPOLI.

All'avvicinarsi degli Austriaci, il BIANCHETTI, mandò presso il Welden CESARE BRUNETTI e FILIPPO MARTINELLI ed ottenne che le truppe accampassero fuori della città, limitandosi ad occupare le porte S. Felice, Galliera e Maggiore; ma in un paese mal disposto alla presenza di un nemico arrogante non potevano mancare gl'incidenti. Uno ne avvenne il giorno 8 in una trattoria, dove un ufficiale austriaco, avendo insultato un cittadino, fu disarmato e percosso. Il Welden, avuta notizia del fatto, intimò di subito ricercare, scovare e consegnare i colpevoli e nel frattempo pretese la consegna di alcuni ostaggi.
BIANCHETTI offri in ostaggio se stesso, ma il popolo non lo permise. Allora quattromila Austriaci penetrarono in città, che però al suono improvviso delle campane, si sollevò. Drappelli di cittadini scendevano armati nelle vie decisi a scontrarsi con il nemico; dalle case e dai tetti si sparava e si lanciavano proiettili di ogni sorta; dai casolari e dai villaggi vicini numerosi contadini accorrevano con forche e bastoni e ogni cosa a dar man forte ai fratelli della città.

Qui gli Austriaci, respinti da ogni punto, si erano rinforzati con l'artiglieria sull'altura della Montagnola, intorno alla quale in breve si concentrò un'accanita battaglia. Un centinaio tra carabinieri e finanzieri, guidati dal sottotenente FRANCESCO BONESI e seguito da numerosi cittadini diedero l'assalto alla Montagnola e, respinta una colonna che tentava da porta Lamme di coglierli alle spalle, riuscirono dopo tre ore di mischia furibonda a mettere in fuga gli Austriaci. I Bolognesi ebbero quel giorno centodieci uomini fuori combattimento, i nemici invece lasciarono sul terreno centottanta soldati tra morti e feriti e mezzo migliaio di prigionieri oltre ad aver perso alcuni cannoni.

La mattina del 9 agosto, gli Austriaci, in tre colonne, attraverso Panigale, Corticella e Sabbione lasciarono Bologna dirigendosi verso il Po, mentre dai paesi vicini schiere d'armati accorrevano nel capoluogo per difenderlo da un eventuale tentativo nemico di vendicare la sconfitta patita.
Ma il RADETZKY aveva disapprovato l'operato del WELDEN, preoccupato dallo sdegno che accendeva i petti delle popolazioni pontificie e dal contegno energico del governo di Roma, dove il conte FABBRI, ministro dell'Interno, esaltava in un pubblico manifesto il valore dei Bolognesi ed assicurava il popolo che sarebbe stato tutelata l'incolumità della nazione:

"Cittadini, i valorosi Bolognesi perseverano nell'eroica difesa della loro città loro e danno un ammirabile ed inimitabile esempio di amor patrio e di valore italiano. Voi pure, o Romani, animati di generosi spiriti, siete già risoluti a fiaccare la tracotanza dell'insolente straniero, e il governo vi rincuora e vi asseconda alla magnanima risoluzione. Siate fiduciosi nel governo, siate fiduciosi in me, a cui scorre nelle vene una fiamma che per anni non può spengersi, quando si tratta della libertà nostra e dell'Italia. Il governo ha già aperto i ruoli, ed appena conoscerà il numero degli scritti, si farà sollecito ad ordinare la partenza, agevolando la speditezza delle marce. Intanto serbate ordine, serbate dignitoso portamento per dare, con novella prova dell'italico senno e della romana fortezza, una smentita di più allo straniero, che dopo aver attentato all'indipendenza dell'Italia, attenta a quella dello Stato della Chiesa. Unione, o Romani, abbracciamoci tutti, e con la benedizione di Dio e del Pontefice sfideremo la rabbia nemica".

VENEZIA DOPO L'ARMISTIZIO (resiste)

Due giorni dopo della partenza degli Austriaci da Bologna, a Venezia, dove fin dal 7 agosto governavano i tre commissari regi JACOPO CASTELLI, VITTORIO COLLI, LUIGI CIBRARIO e il comando supremo delle truppe era stato affidato al generale GUGLIELMO PEPE, un messo austriaco portava l'annunzio dell'armistizio Salasco, che comprendeva la restituzione della città veneta. La notizia produsse grande agitazione nel popolo, e credeva che il COLLI e il CIBRARIO, piemontesi, erano stati mandati per consegnare Venezia al nemico.
Ma l'annuncio non era ancora ufficiale e i commissari non vi prestarono fede. Chiamati i consultori dichiararono che se mai la notizia fosse stata vera ....
"non si presterebbero a partecipare minimamente ad un atto che ripugna ai loro sentimenti, come sarebbe la consegna di Venezia; che dal momento in cui ricevessero notizia ufficiale di tale convenzione, considererebbero il loro mandato come cessato, e Venezia ritornava alla condizione politica in cui era al momento della fusione con il regno sardo-lombardo; che quindi Venezia era libera d'agire come Stato indipendente nel modo che credesse più utile alla causa propria ed italiana, valendosi della cooperazione dei propri privati cittadini".

Il commissario CASTELLI, "veneziano", aggiunse:

"La convenzione è nulla per lo stesso patto della fusione, non potendosi decidere delle sorti del paese senza l'adesione della Consulta; in ogni modo l'abbandono di Venezia da parte del Re ripone la città nello stato di prima. Essa nata libera e tale mantenendosi finché fu oppressa dalla forza, e poi dopo cinquant'anni rivendicatasi a libertà, non ha per la prima volta dalla sua origine aderito ad una monarchia che ad un patto inefficace, sicché la causa della sua libertà originaria rimane integra e potrà soccombere solo a quelle violenze che fanno perire i diritti"
(più avanti vedremo poi come si comportò !!!)

La sera una gran folla si radunò intorno al palazzo nazionale gridando:
"Abbasso i traditori ! Morte ai Commissari!"
ANTONIO MORDINI, invitato il COLLI (il piemontese che aveva portato la notizia) a dimettersi, si prese questa fiera risposta:

"Che violenza è questa? Credete di spaventarmi? Ho lasciato una gamba sul campo di battaglia, ho consacrato alla patria quattro figli, soldati al pari di me. Non voglio ritirarmi dinanzi al pericolo, morirò al mio posto, non m'importa in qual modo, né mi,dimetterò se non quando avrò notizia ufficiale dell'armistizio".

Ma intanto il tumulto cresceva. Dalla piazza si urlava:
"Fummo traditi! Fummo venduti ! A terra il mal governo !
Vogliamo Manin ! Viva Manin il salvatore della patria !".

E DANIELE MANIN, prontamente accorso, risoluto s'affacciò al balcone e affermò che si faceva garante del patriottismo dei commissari e che con loro avrebbe preso gli "opportuni provvedimenti per il salvataggio della città".

Aggiunse il CASTELLI che, ricevuta la conferma dell'armistizio Salasco, i commissari deponevano il potere per poi radunare l'assemblea: ma il popolo voleva le dimissioni immediate e tumultuava.
Allora il MANIN disse:
"I commissari regi dichiarano di astenersi fin da questo momento dal governo. Dopodomani si radunerà l'assemblea della città e della provincia e nominerà i nuovi rettori. Per queste quarantotto ore governo io".

Il popolo applaudì, ma, siccome continuava a tumultuare, il Manin andato nuovamente al balcone, aggiunse:
"Fra poco si batterà la Generale; la guardia civica sia in armi; da ogni battaglione sarà scelto un buon numero di cittadini che questa notte medesima andranno al forte di Marghera, dove lì si teme la minaccia del nemico".

Dalla folla si gridò: "Vi andremo tutti ! Armi ! Vogliamo armi !"
E il Manin:
"Armi ne avrete. Tutto serve da arma ad un popolo che vuole difendersi. Ricordate il 22 marzo, e con quali armi avete cacciato fuori l'austriaco. Ora sgombrate la piazza: ho bisogno di silenzio e di calma per provvedere ai bisogni della patria".

 

Il giorno 12 agosto il COLLI e il CIBRARIO, nonostante il Manin li pregasse di collaborare al nuovo governo, salirono a bordo di una nave della flotta sarda e il 15 abbandonarono Venezia.

Rimase il CASTELLI (il "veneziano") ma più tardi partì anche lui e, recatosi a Torino, fu nominato da CARLO ALBERTO consigliere di Stato.
Morì poi il 18 marzo del 1849, in tempo per non assistere all'onta di Novara.

Il 13 agosto si radunò l'assemblea. Su proposta del deputato ANTONIO BELLINATO, fu messo alla testa del governo il Manin, il quale volle al suo fianco l'ammiraglio LEONE GRAZIANI e il colonnello G. B. CAVEDALIS affinché dirigessero la difesa marittima e terrestre della città.
Il 20 agosto il Triumvirato avvisò il governo sardo che l'opera sua si limitava alla difesa e al mantenimento dell'ordine e che...
"tutte le condizioni politiche precedenti rimanevano impregiudicate e incolumi i diritti e i doveri della città e provincia intorno al proprio reggimento e intorno all'appartenenza politica".

Il 5 settembre, ricevutone ordine da Torino, ALBERTO DELLA MARMORA parti con i suoi tre battaglioni piemontesi; il 7 settembre parti anche la flotta dell' ALBINI che si recava ad Ancona, e Venezia rimase abbandonata a sé stessa, nelle circostanze l'unico fiero e nobile baluardo di italianità e di indipendenza accerchiato da un nemico, come vedremo, implacabile.

Ci ritorneremo sopra in una prossima puntata,
ancora ma già anticipiamo come fu la resistenza dei Veneziani.

Manin convocata l'assemblea aveva chiesto ai Veneziani con voce commossa ma decisa: "Volete resistere al nemico? - Vogliamo resistere!- Ad ogni costo? - Ad ogni costo!"
Passarono infatti mesi, e si entrò nel successivo anno. Gli austriaci concentrarono sulla terra ferma truppe e cannoni decisi a punire severamente la Serenissima. E venne il giorno fatidico: il Lunedì Santo, 2 Aprile 1849. In ogni angolo delle calli e dei campi apparve un breve proclama, con due righe soltanto!
"Venezia resisterà all'Austriaco a tutti i costi".
La firma non era necessaria. Tutti sapevano che quell'ordine di resistere ad oltranza proveniva da Manin. E i veneziani non si fecero pregare tanto, si prepararono con tutti i mezzi per difendersi.

Intanto venticinquemila Austriaci si preparavano ad assaltare la città lagunare; centocinquanta cannoni contemporaneamente iniziarono a sparare, cercando di abbattere la fortezza di Marghera. Qui una guarnigione veneta aveva il compito di difendere l'ingresso a Venezia. Ma gli uomini del presidio difensivo, sotto i primi colpi austriaci, furono massacrati. Ma non cedettero, preferirono morire; scelsero di farsi seppellire tra le rovine della fortezza.
Anche quando rimasero in pochi a nessun veneziano venne in mente di alzare bandiera bianca.

I veneziani si barricarono; ma i tre mesi che seguirono furono terribili e tragici per Venezia. L'assedio navale e terrestre cingeva la città da ogni lato isolandola completamente, come se non bastasse la stessa Laguna. Di conseguenza non arrivavano né più viveri né potevano arrivare rinforzi.
Caduta la fortezza a Marghera, con i cannoni più vicini, le bombe per due mesi iniziarono a cadere quotidianamente sulle case, nei campanili, incendiando Venezia ovunque, facendo scempio di secolari palazzi, chiese, tesori d'arte.

Poi, oltre gli austriaci, apparvero subito dopo, nel luglio caldo e afoso, altri nemici più tremendi: la fame e il colera. Ogni giorno si contavano morti di fame, di malattie varie e di epidemia, e morente appariva ormai anche la neo-Repubblica. Alla fine, il 23 agosto 1849 per evitare la distruzione totale dell'amata città (il colera intanto aveva già mietuto 270 vite umane e diverse centinaia erano gli appestati) Manin, Tommaseo ed altri 40 "ribelli", si arresero senza condizioni all'intimazione del maresciallo Radetszky. Arrestati furono inviati in esilio in Francia; qui Manin poi morì nel 1857.

La risorta Repubblica era durata poco più di un anno, la dura resistenza all'assedio cinque mesi. Lo sconforto fu tanto, l'amarezza pure. Tutto era stato inutile.
Sottoscritta la resa, dovranno passare altri 18 anni di dominio austriaco.

 

Lasciamo i fatti dell'Italia settentrionali con queste tristi conclusioni
e prima di riprenderli nel 1849 andiamo sul resto d'Italia:
A Napoli, e a Palermo, dove termina la rivoluzione siciliana
a Roma, dove dopo la fuga del Papa, è stata proclamata la Repubblica Romana
e in Toscana dove anche qui troviamo Leopoldo in fuga

Anno 1848 - Atto finale del '48 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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