ANNO 1849

10 GIORNATE DI BRESCIA - AUSTRIACI IN TOSCANA -
ASSEDIO DI ANCONA E DI ROMA
( Anno 1849 - Atto Secondo )

LE DIECI GIORNATE DI BRESCIA - LA TOSCANA DOPO LA BATTAGLIA DI NOVARA - IL GUERRAZZI DITTATORE - TUMULTI DI FIRENZE - TRIONFO DEL MOVIMENTO COSTITUZIONALE - GLI AUSTRIACI IN TOSCANA - LUIGI SERRISTORI COMMISSARIO STRAORDINARIO DEL GRANDUCA - CAPITOLAZIONE DI LIVORNO - RITORNO DI LEOPOLDO II - I FRANCESI A CIVITAVECCHIA - PROTESTA DELLA REPUBBLICA ROMANA PER L' INTERVENTO FRANCESE - TRATTATIVE FRA L'OUDINOT E I TRIUMVIRI - I FRANCESI SCONFITTI SOTTO LE MURA DI ROMA - GLI AUSTRIACI A BOLOGNA - ASSEDIO DI ANCONA -G. GARIBALDI CONTRO I NAPOLETANI A PALESTRINA E A VELLETRI
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LE DIECI GIORNATE DI BRESCIA

A Brescia, come in altre città della Lombardia, secondo gli accordi presi con il Chrzanowski, l'insurrezione doveva scoppiare il 20 marzo, terminato l'armistizio, ma già fin da quando il generale APPEL era partito, lasciandovi una guarnigione di mezzo migliaio d'uomini, l'agitazione era cominciata e il curato di Serle, don PIETRO BOIFAVA, alla testa di bande armate di montanari si era messo a battere la campagna predando i carreggi e le staffette dell'esercito austriaco.
Il 20 i cittadini deposero GIOVANNI ZAMBELLI, che dirigeva interinalmente il municipio, austrofilo più per paura, il quale in un proclama aveva invitato i bresciani alla calma, e lo sostituirono con l'avvocato SOLERI, che subito ordinò la costituzione di una guardia nazionale.
L'inopportuna richiesta da parte del capitano LESHKE, comandante il presidio, del rimanente di una somma, una multa inflitta durante l'inverno ai bresciani dal generale HAYNAU, provocò lo scoppio prematuro della rivolta: un drappello di soldati che scortava un convoglio fu assalito e malmenato, il palazzo del Broletto, dov'era l'ufficio di Polizia, fu invaso e il commissario fatto prigioniero, una sessantina di gendarmi usciti a sedar la rivolta, furono ricacciati, dopo aver subite gravi perdite, dentro la loro caserma di Sant' Urbano, furono distrutti gli stemmi austriaci e asportate le armi ai soldati degenti negli ospedali militari.
Il comandante del castello, che con tutti gli uomini venuti a rifugiarsi nel forte disponeva ormai di circa novecento soldati, cominciò a bombardar la città, credendo di atterrire i Bresciani, ma questi, indispettiti, si diedero con maggior vigore a preparare le opere di difesa, erigevano barricate, facevano incetta d'armi, nominavano un comitato di salute pubblica, a capo del quale mettevano l'ing. LUIGI CONTRATTI e il dottor CARLO CASSOLA.
Il 26 marzo, proveniente da Mantova, si presentò davanti a S. Eufemia, grosso borgo a tre miglia da Brescia, il generale NUGENT con quattromila uomini e cinque cannoni.
S. Eufemia era difesa da numerosi insorti della città e della campagna; sui monti di Caionvico e giù giù fino al piano, erano scaglionate le bande di don PIETRO BOIFAVA; in San Francesco di Paola, villaggio tra Brescia e S. Eufemia, stanziava una schiera di riserva.
Gli Austriaci iniziarono il fuoco contro il villaggio, ma furono tenuti in scacco dai difensori. Mancate le munizioni, i difensori chiesero soccorsi al comitato di difesa; giunsero invece alcuni parlamentari del Municipio, i quali, all'insaputa di TITO SPERI, che comandava i vari gruppi degli insorti, inalberarono la bandiera bianca.
Richiesto delle sue intenzioni, il Nugent rispose:
"Voglio l'ordine a Brescia. Si distruggano le barricate, i cittadini depongano le armi e si arrendano a discrezione. Concedo quattro ore di tempo per riflettere e, per usare clemenza, frenerò i miei soldati e farò tacere le artiglierie".

Sebbene gli Austriaci, approfittando dal fatto che agli insorti erano mancate le munizioni, avessero occupato S. Eufemìa ed erano quasi sotto le mura della città, la risposta che il CASSOLA e il CONTRATTI mandarono al NUGENT fu tanto fiera e dignitosa quanto la richiesta era stata spavalda e arrogante:
"Il popolo in massa ha respinto con indignazione le vostre proposte, proclamando che si deve vincere o morire, e che la città è pronta a resistere finché la sia ridotta in cenere. Nulla, noi aggiungiamo alla potente voce del popolo, e siamo perciò determinati a sostenere con tutti i mezzi che abbiamo in nostro potere, qualunque assalto. Signore, non confidate troppo nelle vostre forze, perché la massa popolare di una città agguerrita non si vince che con un imponente esercito. Pensate che le vostre truppe saranno massacrate sotto le mura di questa città, e quindi quale responsabilità attirerete sul vostro capo con un progetto disperato. Pensate inoltre che al principiare delle ostilità contro Brescia tutti i prigionieri e gli ammalati che abbiamo in nostre potere sarebbero massacrati dal furor popolare".

Quel giorno stesso giungeva il falso annunzio che il RADETZKY era stato pienamente sconfitto dai Piemontesi, e la notizia subito divulgata raddoppiò l'ardire dei Bresciani. Il 27, alle due pomeridiane, il nemico cominciò a battere con le artiglierie la porta di Torrelunga, mentre dal castello si riversavano sulla città una pioggia di bombe. Il bombardamento durò molte ore, poi cessò; le batterie del forte furono messe a tacere da abili tiratori bresciani, che appostati sui campanili, uccidevano con i loro precisi tiri gli addetti ai pezzi.
Cessato il bombardamento, un gruppo di audaci, al comando dello SPERI, uscì dalle porte e mise in fuga gli Austriaci inseguendoli fino al villaggio di S. Eufemia, poi rientrò a Brescia verso sera. Il giorno dopo, pochi ardimentosi, guidati sempre dallo Speri, vollero fare un'altra sortita. "Giunti - "scrive il Vecchi" - in San Francesco di Paola, il NUGENT che arretrava, per porsi in salvo da un'imboscata, fece suonare a stormo le campane del borgo di Santa Eufemia per dare loro ad intendere che si trovava tra due fuochi.
Lo Speri scoprì il tranello e ai compagni cercò di farlo capire. Ma lo tacciarono di "vile". Allora un ardimentoso giovane, levata in alto la spada, gridò "Seguitemi" e si cacciò con pochi volontari contro gli Austriaci disposti a gradini a piedi delle colline. Fu ingaggiata una fiera battaglia. Dai fossi, dai vigneti, dai muriccioli, dalle case, dai colli sbucavano nemici come d'incanto. Il pericolo dei compagni andati avanti spronava i rimasti indietro ad accorrere in loro aiuto per andare a tutti un solo destino. Nonostante il basso numero già i bresciani vincevano; i croati, sgominati di tanta furia, indietreggiavano. Il NUGENT si arrabbia, si picchia il capo, e fattosi innanzi per spronare i soldati e per incitare l'avanzare di un cannone, cadde per terra ferito a morte.
"Avanti! Avanti! A S'ant'Eufemia! Viva l'Italia! La vittoria è nostra!" è il grido eccitato di tutti i bresciani.
Invano lo SPERI e il ROSI e i più avveduti consigliano di tornare indietro. Ma l'odore della polvere inebria quanto i vapori del vino. La speranza è quella tale fiamma che brucia la vita di chi ciecamente vi si attacca. Nel borgo giunsero gli stranieri; combattono a colpi di baionetta, nelle anguste contrade; il TAGLIANINI si arrampica su per il campanile della parrocchia e con furiosi rintocchi chiama alle armi i villani e non cessa di martellare come una campana a morto. Ma il villaggio da ogni parte fu circondato. Vano il resistere a forze così soperchianti. I bresciani si stringono in colonna con la baionetta in resta e si aprono il varco; rovesciano più in là una schiera di cavalli; quindi uno stuolo di fanti lasciato in riserva. Molti i morti in quella disperata e sanguinosa battaglia; molti i prigionieri e i feriti, implacabilmente uccisi dal vincitore. Uno solo fu salvo, lo Speri, che la vita serbava a prodigio".

A sostituire il caduto Nugent, giunse con un forte contingente di soldati il feroce generale HAYNAU, che il 31 marzo intimò alla città di arrendersi a discrezione, minacciandola di saccheggio e distruzione se avesse continuato a resistere. Ricevuto un rifiuto, l'Haynau fece bombardare orribilmente la città, quindi ordinò l'assalto che, sostenuto dalle artiglierie, portò in breve gli Austriaci dentro Brescia.
Fu una giornata di eroismi, di stragi, di inaudita ferocia. I Bresciani si difesero da leoni, combattendo sulle barricate, nelle vie, nelle case, sui tetti, sulle mura, mentre l'artiglieria seminava la morte ed appiccava gli incendi. Combatteva sgominando il nemico in piazza dell'Albera, dove cadde il colonnello austriaco MILEZ. Resisteva eroicamente alla porta di Torrelunga, difesa da TITO SPERI, assalendo i nemici con i pugnali e con i coltelli quando erano finite le munizioni.
Giunta la notte, buona parte della città era in mano degli imperiali, che furono degni del loro generale, sfogando la ferocia, la libidine e il desiderio di strage su uomini e cose. Il giorno dopo, il comitato di difesa consegnò i poteri al Municipio e questo spedì al Castello il padre MAURIZIO dei Riformati con un altro frate e il popolano MARCHESINI per trattare la resa. L' HAYNAU, promise per iscritto che niente sarebbe stato fatto contro i pacifici cittadini; ma poiché a porta S. Giovanni e a Porta Pila la resistenza continuava e si sparava ancora qua e là dalle case, i soldati austriaci non si fermarono e continuarono con scellerato furore per due giorni il saccheggio e le gratuite stragi.
L' HAYNAU nel suo rapporto al Radetzky giustificò la sua barbara condotta scrivendo
"Preso atto della grave perdita che avevamo sofferto, dalle ostinazione e dal furore del nemico, si dovette procedere alle più rigorose misure; comandai perciò di non fare prigionieri ma immediatamente massacrare tutti coloro che erano colti con le armi in mano; le case da dove provenivano gli spari sì furono incendiate, ma avvenne poi che il fuoco in parte per opera delle truppe e in parte dai bombardamenti, si appiccò in molti altri luoghi".

Qualche ufficiale, come il colonnello JELLACHICH, cercò di arrestare, con le preghiere, con le minacce, con il pericolo della propria vita, il furore dei soldati; ma non riuscì ad evitare che si commettessero stragi degne di un'orda di barbari. Furono uccisi cittadini inermi, donne e fanciulli; di coloro che furono colti con le armi in pugno alcuni furono massacrati sul posto, altri impiccati o arsi vivi. Tra questi ultimi, degno di ricordo il fabbro ventisettenne CARLO ZIMA, il quale, mentre bruciava, afferrò un croato che era lì a godersi lo spettacolo e, tenutolo stretto, lo costrinse a subire la sua stessa morte.
I Bresciani all'eroe gli dedicarono questa strofa:
Dove nacque Carlo Zima
non si more da codardi;
fin morendo si è gagliardi
per uccider l'uccisor.
Il 1° aprile, mentre la città si arrendeva, era arrivato in soccorso di Brescia GABRIELE CAMOZZI con una colonna di Bergamaschi. Ma ad Ospedaletto del Mella, dove si erano fermati a riposarsi dalla lunga marcia, assaliti nel sonno dal nemico, dovettero ritirarsi; poi informati delle sconfitta di Novara, si sciolsero.

Millecinquecento uomini costarono agli Austriaci le dieci giornate di Brescia, un migliaio circa alla città che per giunta dovette pagare una grossa taglia all'Haynau. Il quale, non potendo colpire i capi dell'insurrezione perché si erano messi in salvo, fece chiudere in prigione centocinquanta dei più compromessi di cui un terzo fu mandato a morte.
Dodici di loro, per festeggiare la notizia della resa di Roma, offrì lo spettacolo in piazza e li fece impiccare il 9 e il 10 luglio.

LA TOSCANA DOPO LA BATTAGLIA DI NOVARA
TUMULTI DI FIRENZE
TRIONFO DEL MOVIMENTO COSTITUZIONALE E CADUTA DEL GUERRAZZI
GLI AUSTRIACI IN TOSCANA
CAPITOLAZIONE DI LIVORNO - RITORNO DI LEOPOLDO II

In Toscana, il 25 marzo, si era aperta l'Assemblea, composta quasi tutta di moderati, e il MONTANELLI aveva letto un discorso, in cui, tenuto conto dell'opera del Governo provvisorio, aveva esortato che fosse proclamata l'unione con Roma ed aveva concluso:

"Voi col fascio degli intelletti e dei voleri consociati, meglio e più agevolmente proseguirete l'opera incominciata dal Triumvirato. E tenete presente che, mentre qui discutiamo, il prode esercito piemontese è in faccia al nemico, e già sostiene le dure fatiche del campo e affronta i pericoli delle battaglie".

Più che affrontare e subire le fatiche in quello stesso giorno si era invece già compiuta la disfatta di Novara, Carlo Alberto aveva abdicato, partito per l'esilio e tra il nuovo re e il maresciallo Radetzky si stava trattando il "capestro" armistizio.
Solo il 27 giunse a Firenze la notizia della sconfitta e l'Assemblea deliberò di costituirsi in Comitato segreto. Poiché si stimava da alcuni che in quei momenti eccezionali era necessario concentrare nelle mani di un solo uomo l'autorità, e nonostante la forte opposizione dei repubblicani fu affidata la dittatura al GUERRAZZI (orientamento monarchico ma come facciata democratico).

Il MONTANELLI (orientamento democratici socialisti) che non approvava completamente quel provvedimento straordinario, per non dare esca alle discordie con la sua presenza a Firenze e per propiziare al paese la Francia e l'Inghilterra accettò di andare come ambasciatore a Parigi e a Londra. La sua partenza animò non poco i costituzionali, i quali, il 30 marzo, si opposero nettamente alla proposta avanzata dai repubblicani di proclamar l'unione della Toscana con Roma, proposta che, messa ai voti, ne ebbe 22 favorevoli e 42 contrari.

Il 3 aprile, l'Assemblea decretò:
"doversi sospendere ogni deliberazione intorno alla forma del governo ed alla unificazione della Toscana con Roma; doversi prorogare la tornata dell'Assemblea al 15 aprile; i deputati dover rimanere a Firenze; il capo del potere esecutivo non poter risolvere intorno alle sorti della Toscana senza il concorso e l'approvazione dell'Assemblea, non solo a pena di nullità, ma di essere punito come traditore della patria; poter esso bensì provvedere alle necessità dello Stato con l'emissione di buoni del tesoro fino alla concorrenza di due milioni di lire, ipotecando i medesimi sui beni dello Stato".

Il divieto di prendere deliberazioni intorno alle sorti della Toscana, era stato emesso perché da alcuni si sospettava che il GUERRAZZI pensasse alla restaurazione del Granduca. E così, infatti, era. Il Guerrazzi, che si era servito dei democratici per salire al potere, ora si accostava ai moderati per preservare il paese dall'intervento austriaco e preparare il richiamo di Leopoldo II.
Il GUERRAZZI era sicuro che il suo modo di far politica gli avrebbe assicurato il potere anche dopo la restaurazione del regime costituzionale, ma a loro volta i moderati lo accoglievano non per farne un capo, ma solo per giovarsi della sua opera; inoltre era odiato dai conservatori, che nelle province, eccettuata Livorno, avevano il sopravvento e mantenevano un'agitazione pericolosa e nella stessa Firenze complottavano contro il Dittatore e i suoi Livornesi, chiamando dalle campagne gente che al momento opportuno dovevano abbattere la dittatura.

L'opportunità fu data dal contegno dei militi livornesi, che si trovavano a Firenze, gente indisciplinata, licenziosa e manesca, che i legittimisti assicuravano che si trovavano nella capitale solo per la difesa del Guerrazzi loro concittadino. Il 9 aprile per oltraggi fatti a donne e per il rifiuto di pagare un oste era nato in Borgo Ognissanti un subbuglio, presto per fortuna domato. Non era il primo e poteva non esser l'ultimo. Sollecitato da persone autorevoli, il Guerrazzi si persuase della necessità di allontanare i suoi turbolenti compaesani e impartì ordini ai Livornesi di lasciare Firenze.
Nel pomeriggio dell'11 aprile il battaglione livornese del maggiore GUARDUCCI partiva alla volta di Prato. La maggior parte erano già entrati nella stazione, quando gli ultimi furono provocati e ingiuriati dai fiorentini e campagnoli venuti in quei giorni in città. Nacque un tafferuglio e ben presto cominciarono da una parte e dall'altra le fucilate. Accorsi il Guerrazzi e la Guardia Nazionale comandata dallo Zanetti, i combattenti furono divisi. Parecchi morti e numerosi feriti giacevano però nella piazza di Santa Maria Novella.
Tornata la calma, il Guerrazzi ordinò che fossero subito rimandati a Livorno gli altri Livornesi - un migliaio circa - che si trovavano nella fortezza e poiché si temeva, che appena saputasi la notizia del fatto, partisse gente da Livorno per dar man forte ai loro concittadini a Firenze, telegrafò che non si lasciasse partire nessuno e di richiamare tutti coloro che nel frattempo erano già partiti.

La mattina del 12 aprile, una folla di cittadini e di gente della campagna si mise a percorrere le vie di Firenze inneggiando a Leopoldo II. Non mancarono voci di "Abbasso lo Statuto! Viva Radetzky !":
Poiché la Guardia nazionale non si muoveva, i dimostranti, diventati audaci, abbatterono gli alberi della libertà, rimisero, al grido di "Abbasso il Guerrazzi" !, gli stemmi granducali sulle porte dei pubblici uffici e andarono a rumoreggiare minacciosamente sotto il palazzo dove si era riunita l'Assemblea.
Allora il Municipio, formato di moderati, deliberò di dominare la situazione guidandola e pubblicò il seguente manifesto:
"Cittadini! Nella gravità della circostanza il vostro Municipio sente tutta l'importanza della sua missione. Il Municipio in questo solenne momento si aggrega cinque cittadini che godono la vostra fiducia e sono GINO CAPPONI, BOTTINO RICASOLI, LUIGI SERRISTORI, CARLO TORRIGIANI, CESARE CAPOQUADRI"

La Commissione governativa - così si chiamò il nuovo governo costituito dal Municipio e dai cinque aggiunti - si trasferì quel giorno stesso, fra le dimostrazioni della plebe, a Palazzo Vecchio e prima offrì al Guerrazzi un passaporto per l'estero, poi, con il pretesto che l'uscir fuori per lui era pericoloso, lo fece andare, per il passaggio dei Pitti, alla fortezza di Belvedere. Qui non doveva rimanere che pochi giorni; calmatasi l'eccitazione popolare, sarebbe poi stato fatto partire per l'estero. Invece vi fu tenuto chiuso quaranta giorni, poi fu mandato nel Mastio di Volterra e da ultimo di nuovo nelle Murate, dove rimase fino al luglio del 1853, dopo un processo mossogli dal governo granducale, in cui il Guerrazzi si difese con la famosa "Apologia". Condannato a quindici anni, subito dopo fu commutata la pena in quella dell'esilio.
Al movimento costituzionale di Firenze aderì tutta la Toscana, tranne Livorno; le truppe che si trovavano nel territorio pistoiese al comando del Guarducci, del Pieri e del Petracchi, si sciolsero e soltanto un piccolo gruppo, guidata da GIACOMO MEDICI si mise in, marcia alla volta di Bologna.
Intanto la Commissione governativa si adoperava perché fosse mantenuto l'ordine in tutto lo Stato, che s'impedisse l'intervento delle armi austriache e si salvasse la costituzione.
Al Granduca fu dato l'annunzio del mutamento avvenuto tramite lettere e il 18 aprile gli fu mandata un'ambasceria per fargli atto di omaggio e per pregarlo di non menomare le libere istituzioni né di offendere il sentimento pubblico nel richiedere l'intervento degli Austriaci. Il Granduca annunziò alla deputazione che avrebbe mandato un commissario straordinario con pieni poteri per ripristinare puramente l'ordine e l'impero della legge, e diede assicurazione che, al suo ritorno, avrebbe ristabilito il regime costituzionale.

In questo frattempo gli Austro-Estensi entravano, senza che le truppe comandate da DOMENICO D'APICE opponessero resistenza, nella Lunigiana e nella Garfagnana e nei territori di Massa e Carrara. La Commissione governativa protestò in virtù dei diritti che a Leopoldo II avevano conferito su quei luoghi i voti popolari, e siccome si era sparsa la voce che gli Austriaci avrebbero marciato contro Livorno per ricondurla all'obbedienza del suo principe, fu mandato a Torino il professor G. B. GIORGINI per pregare il governo sardo di mandare truppe a Livorno allo scopo di ristabilire l'ordine e il governo granducale, ed impedir così l'intervento austriaco. Il governo piemontese accolse la richiesta della Commissione e si dichiarò pronto ad inviare truppe, alla condizione però che Leopoldo II ne facesse domanda.
Ma il Granduca aveva già chiesto il soccorso degli austriaci. Il 1o maggio, nominò commissario straordinario in Toscana il conte LUIGI SERRISTORI, che il 12 di aprile aveva lasciato Firenze per Gaeta. Il Serristori fu di ritorno a Firenze il 4 maggio e nell'atto di assumere la sua carica lanciò un proclama in cui dichiarò
"nulli, irriti e come non avvenuti sino dal loro principio tutti gli atti governativi emanati in Toscana dal dì 8 febbraio a tutto il dì 11 aprile " ed affermò di voler "ricondurre il paese all'osservanza delle leggi, assicurare il ristabilimento dell'ordine e preparare la più solida restaurazione del regime costituzionale" .

Il giorno dopo, 5 maggio, il generale D'ASPRE, alla testa di 18.000 Austriaci e in compagnia dell'arciduca ALBERTO e del DUCA DI MODENA, giungeva a Lucca e il 6 erano a Pisa. Grande fu l'indignazione dei liberali fiorentini; gli incaricati delle amministrazioni presentarono le dimissioni, ma poi rimasero al loro posto tranne l'avvocato MARCO TABARRINI, il Municipio presentò energica protesta al SERRISTORI, il quale cercava di scusare il Granduca affermando che pativa violenza da parte dell'Austria e tentava di calmare gli animi assicurando che gli Austriaci si sarebbero limitati ad occupare Livorno; i più autorevoli cittadini reclamarono che si dicesse come stavano veramente le cose; gli ambasciatori d'Inghilterra e di Francia chiesero che fosse sollecitamente dichiarato se l'intervento austriaco era stato richiesto o subìto.

Intanto il D'ASPRE, il 10 maggio, marciava contro Livorno dove funzionava una giunta governativa composta di GIOVANNI GUARDUCCI, dello scultore EMILIO DEMI, dei dottori GAETANO SALVI ed EUGENIO VITI e di GIOVANNI ANTONIO BRUNO. L'assalto cominciò lo stesso giorno 10. I difensori, pochi e con scarse artiglierie, resistettero fino il giorno dopo ed avrebbero resistito più a lungo se Emilio Demi, volendo salvare la città da una presa d'assalto non avesse inalberato sulla torre del Duomo la bandiera bianca.
Allora i cittadini si divisero in due campi: chi voleva la resa e chi la resistenza, e intanto gli Austriaci entravano per Porta a mare e, poiché alcuni Livornesi tirarono contro di loro, si diedero al saccheggio e alle rappresaglie. Si dice che i cittadini fucilati nelle vie furono 317: fra questi, ARTIDORO ZANOBETTI, maestro di scuola, e il giovane operaio ENRICO BARTELLONI, che morì gridando: Viva l' Italia!

Il generale D'ASPRE impose a Livorno l'arbitraria contribuzione di un milione di fiorini, quindi si mise in marcia alla volta di Firenze, ai cui abitanti, da Empoli, lanciò questo proclama:

"I vincoli di sangue che uniscono il vostro sovrano alla casa imperiale del mio monarca, i molteplici trattati che all'imperatore e re mio sovrano impongono il dovere di proteggere l'integrità della Toscana e di difendere i diritti del vostro principe, hanno determinato l'Austria a cedere al desiderio del Granduca ed a porre termine alle lite e allo stato di anarchia, sotto il quale la fazione che opprimeva Livorno fu dalle mie armi distrutta, e la popolazione, libera dal giogo dei ribelli, si sottomise al suo legittimo sovrano. Chiamato ora dal vostro principe, vengo con le mie truppe nella vostra città, come amico, come vostro alleato. Unitevi a noi per meglio consolidare la quiete, la pace e l'ordine".

Il giorno 25 maggio il D'Aspre entrò in Firenze e, presi accordi con il commissario, ordinò lo scioglimento della Guardia Nazionale e il disarmo dei cittadini, pose la città come in stato d'assedio e sottopose alla giurisdizione dei tribunali militari austriaci anche il giudizio dei reati comuni.
Il giorno stesso dell'ingresso degli Austriaci, il Municipio, interpretando i sentimenti della cittadinanza, indirizzava a Leopoldo II una lettera e una copia del proclama di Empoli
(che riportiamo fedelmente nella sua originale sintassi).

"Alcune asserzioni - diceva la lettera - contenute in quel documento contristano tutti coloro che avendo a cuore la causa dell'Altezza Vostra desideravano di non vederla pregiudicata verso quell'opinione che vede nel principato costituzionale il palladio della libertà, e in una politica nazionale, quanto i tempi consentono, la forza vera del principato italiano. A nessuno più che al Municipio di Firenze importava che la restaurazione toscana serbasse la nativa sua qualità, perché solamente a questa condizione il movimento del 12 aprile, preservando il cuore del principe da ogni cruccio di amare memorie, preservando il cuore del popolo da ogni rammarico di oltraggiata dignità, poteva divenire un nuovo patto d'amore, una nuova ragione di fiducia scambievole. Questo importava al Municipio di Firenze, il quale si gloria di avere partecipato a quel movimento, di averlo con tutte le sue forze indirizzato a quel termine che il desiderio dei buoni e tutte le ragioni dell'avvenire mostravano come il solo nel quale potesse felicemente conchiudersi. Il Municipio, così operando, sapeva di conformarsi alle intenzioni vostre, che furono sempre volte alla maggior felicità e decoro della Toscana, e le vostre parole recate a noi dalla deputazione e confermate dal commissario straordinario mostrarono che non si era ingannato .... Ma il proclama del generale D'Aspre sta in opposizione così manifesta con le vostre parole, con gli atti del vostro governo che il Municipio ha creduto di doverlo a voi denunziare invocando una parola vostra che illumini e rassicuri ....".

Il GRANDUCA naturalmente non rispose. Qualche giorno dopo il SERRISTORI deponeva i suoi poteri e annunciava i nomi dei nuovi ministri. Essi erano: GIOVANNI BALDASSERONI, presidente del Consiglio e ministro delle Finanze, ANDREA CORSINI, per gli Esteri, LEONIDA LANDUCCI per l'Interno, CESARE CAPOQUADRI per la Giustizia, JACOPO MAZZEI per gli Affari Ecclesiastici, CESARE BOCCELLI per l'Istruzione, il generale CESARE LAUGIER per la Guerra.
Questi ministri, entrando in carica, annunciarono con manifesto che non sarebbe stato toccato lo Statuto, concesso il 15 febbraio del 1848 dal Granduca, "il quale, sempre fedele alle sue promesse, voleva mantenerlo, sebbene da altri violato".
Ma la costituzione, che LEOPOLDO II e non altri aveva violato, era destinata ad avere tre soli anni di vita.
Il 6 giugno giunse a Firenze il Radetzky, che dai legittimisti, dai retrivi e dalla plebaglia prezzolata ebbe molte entusiastiche accoglienze. La maggior parte della cittadinanza però si mostrò molto fredda. "La curiosità - dice uno storico contemporaneo - di coloro che vollero vedere in volto l'uomo di cui tanto si era parlato fu giudicata, fuori del vero, come una dimostrazione di benevolenza da chi aveva interesse a credere e di far credere in questo modo". Lo stesso storico, parlando del ritorno del Granduca in Toscana, così si esprime: "Sulla fine di luglio Leopoldo II, sbarcato a Viareggio, tornava nei suoi Stati: riceveva per tutto il viaggio e specialmente a Firenze molte prove di benevolenza, in parte per profondo sentimento, in parte come incoraggiamento a operare per il bene dello Stato. Pochi e lievi atti fece di clemenza in favore di quelli che in un modo o in un altro avevano partecipato alla rivoluzione. Un prudente consiglio avrebbe dovuto indurlo a gettare un velo sul passato e a consolidare la signoria della sua famiglia, affezionandosi la parte intelligente del popolo. Ma egli tornava con l'animo diverso da quello che s'immaginavano alcuni: non seppe né volle dissimulare di sentirsi austriaco di affetti e di sentimenti; iniziò con il mostrarsi vestito da militare con la divisa di generale austriaco imperiale.
In questo cattivo modo fu compiuta la restaurazione iniziata dalla parte costituzionale, proseguita e condotta dai retrivi".

FRANCESI A CIVITAVECCHIA - GLI AUSTRIACI A BOLOGNA
ASSEDIO DI ANCONA -
G. GARIBALDI CONTRO I NAPOTETANI A PALESTRINA E A VELLETRI
VICENDE DELL'ASSEDIO DI ROMA - CADUTA DELLA REPUBBLICA ROMANA - LA RITIRATA DI GARIBALDI

Ciò che era accaduto a Firenze, molto simile accadde anche a Roma. Prima con la disfatta di Novara, poi con l'armistizio, ed infine giunse la notizia della rottura dell'armistizio Salasco, che voleva dire ripresa della "guerra". E questa fu comunicata alle popolazioni della Repubblica Romana con il seguente manifesto:

"Il cannone italiano, annunzio di battaglie e di riscatto, tuona di nuovo nelle pianure lombarde. Allarmi ! Tempo di fatti, non di parole ! Le schiere repubblicane, insieme alle subalpine e alle altre italiane, combatteranno. Non sia fra loro gara che di valore e di sacrifici. Maledetto chi nel supremo momento divide i fratelli dai fratelli. Dall'Alpi al mare non è indipendenza vera, non è libertà finché l'austriaco calpesti la sacra terra. La patria domanda a voi uomini e denaro. Sorgete e rispondete all'invito. Allarmi, e Italia sia"

Già il 26 marzo, prima di avere le tre notizie, il governo aveva decretato che a Roma e in tutto lo Stato si celebrasse un triduo solenne per invocare la benedizione del Cielo sulle armi italiane; purtroppo proprio quel giorno la guerra era già miseramente finita.
Sparsasi la notizia della disfatta di Novara, l'Assemblea costituente si radunò in comitato segreto e, sciolto il comitato esecutivo, istituì un triunvirato con pieni poteri per la guerra dell'indipendenza e la salvezza della repubblica. Furono eletti triunviri GIUSEPPE MAZZINI, AURELIO SAFFI e CARLO ARMELLINI.
Ed era tempo! Si era purtroppo aspettato troppo. Roma ora che era insidiata da ogni parte, poteva considerarsi alla vigilia della guerra, e la città si preparava a difendersi contro tutti, accogliendo tutti coloro che dalle altre parti d'Italia venivano ad offrirle il braccio, accogliendo gli esuli Lombardi di LUCIANO MANARA, i Genovesi di GOFFREDO MAMELI e dell' AVEZZANA, i legionari di GIUSEPPE GARIBALDI.
Anima del governo era sì GIUSEPPE MAZZINI, ma era poco energico e troppo ingenuo, ed aveva indugiato troppo; capo di tutte le forze era il generale PIETRO ROSELLI con CARLO PISACANE come capo di Stato Maggiore. Le truppe erano quanto di più eterogeneo si possano immaginare: cinque reggimenti regolari di fanteria comandati dai colonnelli DE PASQUALIS, CAUCCI, MARCHETTI, MASI e PASI, il reggimento "Unione" del tenente colonnello ROSSI, i bersaglieri romani (col. MELLARA), i bersaglieri lombardi (col. MANARA), i carabinieri (col. CALDERARI), la legione italiana (col. SACCHI), la legione romana (ten. col. MORELLI), la legione bolognese (ten. col. BERTI PICHAT), la legione universitaria (magg. ROSELLI), la legione toscana (magg. MEDICI), la legione polacca (col.MILBITZ), la legione straniera (cap. GÉRARD), i finanzieri mobili (magg. ZAMBIANCHI), i reduci (magg. PINNA), la civica mobile romana (col. PALAZZI), la civica- mobile umbra (magg. FRANCHI), la squadra dei sette colli, due reggimenti di dragoni (colonnelli SAVINI e RUVINETTI), i carabinieri a cavallo del maggiore TROMBA, i lancieri di Garibaldi del col. MASINA, gli Zappatori del Genio del col. AMADEI, il reggimento di Artiglieria CALANDERELLI e LOPEZ, la batteria svizzera del col. De SERÉ, la batteria bolognese, l'artiglieria civica e qualche altro reparto; in totale circa ventimila uomini con un centinaio di pezzi d'artiglieria.

I primi nemici che si presentarono nel territorio della repubblica furono i francesi. Il 24 aprile si presentarono nelle acque di Civitavecchia le navi da guerra "Labrador, Panama, Orcnoco, Albatros, Cristoforo Colombo, Santé, Infernale, Veloce, Ténare, Tonnèrre" al comando del contrammiraglio TRÉHOUART, che portava il corpo di spedizione destinato a restaurare sul trono il Pontefice. Erano settemila soldati circa agli ordini del generale OUDINOT, il quale, mandata avanti una fregata, ne faceva sbarcare il caposquadrone ESPIVENT e il segretario di legazione LATOUR D'AUVERGNE, latori di una lettera al preside di Civitavecchia MICHELE MANNUCCI, nella quale era detto:

"Il governo della Repubblica francese, desiderando nella sua sincera benevolenza verso le popolazioni romane di metter fine alla situazione in cui esse si trovano da parecchi mesi e di facilitare l'instaurazione di uno stato di cose egualmente lontano dall'anarchia di questi ultimi tempi e dagli abusi inveterati che prima dell'elezione di Pio IX desolavano lo Stato della Chiesa, ha deliberato di mandare a Civitavecchia un corpo-di truppe, di cui mi ha affidato il comando".

Il MANNUCCI, nonostante l'opposto parere del Municipio, della Camera di Commercio e del Comando della Guardia nazionale, rispose che non poteva permettere lo sbarco delle truppe francesi e mantenne il rifiuto anche quando l' ESPIVENT, e il LATOUR D'AUVERGNE gli fecero la seguente dichiarazione scritta:

"Il governo della Repubblica Francese, animato da spirito d'amore e di libertà, dichiara di rispettare il voto delle popolazioni romane e di venire amichevolmente tra loro con lo scopo di mantenere la sua legittima influenza. E' deciso altresì di non imporre a queste popolazioni alcuna forma di governo che non sia da loro accettato. Per quel che concerne il governatore di Civitavecchia, gli sarà conservato in tutte le sue attribuzioni e il governo francese provvederà all'aumento delle sue spese derivanti dall'accrescimento del lavoro che produrrà il corpo di spedizione. Tutte le derrate, tutte le requisizioni necessarie al mantenimento del corpo di spedizione saranno pagate in moneta contante".

Il triunvirato, avvertito dal Mannucci, gli mandò l'ordine di resistere ad ogni costo e spedì a Civitavecchia un battaglione di bersaglieri al comando del colonnello MELLARA; ma la resistenza era impossibile dato lo scarso numero di armati e il Municipio, poco coraggiosamente, preferì mandare all' OUDINOT un inutile appello in cui era detto:

"Noi fummo oppressi, o generale, e il Papato, prima sorgente delle sventure d' Italia non interrotte da secoli, no, viva Dio, non sarà ripristinato da voi, se memore dell'antica gloria, delle tradizioni, della fede dei padri, vi rammenterete che se soccorrere gli oppressi è debito più che virtù, l'opprimere i deboli è infamia più che tradimento".

Ben diversa fu la protesta dell'Assemblea romana, mandata all' 'OUDINOT per mezzo del ministro CARLO RUSCONI e del deputato FEDERICO PESCANTINI:

"L'Assemblea romana, commossa dalla minaccia d'invasione del territorio della Repubblica, conscia che quest'invasione, non provocata dalla Repubblica verso l'Estero, non preceduta da comunicazione alcuna da parte del Governo francese, eccitatrice di anarchia in un paese che, tranquillo ed ordinato, riposa nella coscienza dei propri diritti e nella concordia dei cittadini, viola ad un tempo il diritto delle genti, gli obblighi assunti dalla nazione francese nella sua costituzione e i vincoli di fratellanza che dovrebbero naturalmente annodare le due Repubbliche, protesta in nome di Dio e del popolo contro l'inattesa invasione, dichiara il suo fermo proposito di resistere e rende mallevatrice la Francia di tutte le conseguenze".

Quando il 25, il RUSCONI e il PESCANTINI giunsero a Civitavecchia, i Francesi erano
già sbarcati e l' ONDINOT, sebbene dicesse di essere venuto come amico, cominciava a mostrare che voleva farla da padrone. Infatti, disarmava il battaglione di bersaglieri bolognesi del colonnello PIETRAMELLARA e il giorno dopo, giunti i vapori "Nuovo Colombo" e "Giulio II" impedì lo sbarco dei volontari lombardi del MANARA e disse loro:
"Voi siete lombardi, perché v'immischiate negli affari di Roma".

E a lui il Manara: "E voi, generale, che siete di Parigi, di Lione, di Bordeaùx, di Marsiglia, cosa c'entrate?".

L' OUDINOT voleva che la due navi tornassero indietro; ma il mare era grosso, i bersaglieri minacciavano di gettarsi a nuoto, il popolo indignato rumoreggiava. Dopo lunga
discussone l'Oudinot permetteva al battaglione di sbarcare a Porto d'Anzio ma si faceva promettere dal Manara che non avrebbe combattuto fino al giorno 5 maggio.
Prima di marciare alla volta di Roma, il generale francese voleva esser sicuro che vi sarebbe stato accolto amichevolmente. Vi mandava pertanto il colonnello LEBLANC, il quale, richiesto dai triunviri sullo scopo della spedizione, incautamente rispose che la Francia voleva restaurare il governo pontificio. Cercò di correggere le imprudenti parole un altro delegato dell'Oudinot, il capitano FABOR, il quale affermò che i Francesi erano venuti solo per impedire l'intervento dell'Austria, della Spagna e di Napoli. Ma non valse questa precipitosa rettifica.
L'assemblea, riunita in Comitato segreto, dopo animata discussione, comunicava con un laconico decreto, al triunvirato
"di voler salvare la Repubblica e di respingere la forza con la forza".

Nonostante questa situazione diventata a questo punto critica, l' OUDINOT tentò ancora una volta le vie pacifiche preparando per la popolazione un manifesto:

"Accoglieteci come fratelli, noi giustificheremo questo titolo; noi rispetteremo le vostre persone e le vostro proprietà; pagheremo a contanti tutte le nostre spese; noi ci accorderemo con le autorità esistenti perché la nostra occupazione momentanea non v'imponga alcuna soggezione; staremo a salvaguardia dell'onor militare delle vostre truppe, associandolo dappertutto alle nostre per assicurare il mantenimento dell'ordine e della libertà. Romani, il mio attaccamento personale vi è già assicurato. Se ascolterete la mia voce, se avrete fede nella mia parola, io mi consacrerò senza alcuna riserva agli interessi della vostra bella patria".

Il 28 aprile l'OUDINOT, avendo ormai deliberato di marciare su Roma, lasciò a Civitavecchia, un migliaio d'uomini e con gli altri seimila si mise in movimento. Non recava né artiglieria d'assedio né mezzi per scalare le mura, persuaso che all'apparire dei Francesi i Romani avrebbero aperte le porte. Difatti in un proclama alle sue truppe assicurava i suoi uomini:

"Noi non troveremo nemici né fra le popolazioni né fra le truppe romane: le une e le altre ci considereranno come liberatori. Noi dovremo a combattere solo quelle nazioni che opprimono questo paese dopo aver compromesso la causa della libertà. Sotto la bandiera francese le istituzioni liberali riceveranno tutto lo sviluppo compatibile con gli interessi e i costumi della nazione romana".

Ma l'OUDINOT s'ingannava. Roma era decisa a difendersi disperatamente e prendeva le sue misure. Dei ventimila uomini, di cui disponeva, solo circa la metà erano nella città e con loro poteva anche affrontare il nemico in campo aperto. Ma quest'idea fu scartata per non prendere l'iniziativa delle ostilità. Divise le truppe in quattro brigate, alla prima che era sotto gli ordini di GARIBALDI ed era costituita della Legione italiana, dagli studenti, dagli emigrati, dai reduci e dai finanzieri (2700 uomini in tutto) fu affidato il settore del Gianicolo da Porta Portese e Porta San Pancrazio; alla seconda formata da truppe pontificie e guardie nazionali e forte di 2500 uomini al comando del colonnello MASI, il tratto da Porta Cavalleggeri a Porta Angelica; alla terza - 400 dragoni con il colonnello SAVINI - si affidò l'incarico di perlustrare tutta la cinta della sinistra del Tevere; la quarta - 1° e 2° di linea e legione romana al comando del colonnello B. GALLETTI - fu messa come riserva alla Chiese Nuova e in Piazza Cesarini. Il generale GIUSEPPE GALLETTI con 600 carabinieri e il MANARA con i bersaglieri lombardi furono collocati alla Longara.

LA SERA DEL 29 APRILE L' OUDINOT sostò a Castel di Guido e la mattina del 30 fece avanzare le sue truppe verso Roma e assalire contemporaneamente Porta Cavalleggeri e Porta Angelica.
S'iniziò a combattere furiosamente per oltre sette ore, specialmente alla villa Pamphili fuori Porta S. Pancrazio, dove le schiere di Garibaldi e del colonnello Galletti, piombate sul fianco destro del nemico, lo ruppero sgominandolo e mettendolo in fuga.
Oltre mille uomini, tra morti feriti e prigionieri, persero i Francesi; circa duecento i romani; tra i feriti GARIBALDI stesso, colpito al fianco da una palla. Lui avrebbe voluto continuare l'inseguimento, tagliare la ritirata all'Oudinot e batterlo in campo aperto: e non era un'impresa difficile, perché il morale delle truppe era altissimo e anche perché i romani potevano disporre di truppe fresche; ma si oppose il MAZZINI, che non voleva esporre la Francia ad una completa sconfitta nella speranza di una conciliazione.
Inoltre il Mazzini, in modo cavalleresco, rimandò liberi tutti i prigionieri; l'Oudinot fece altrettanto rimandando indietro sebbene disarmati il battaglione del Pietramellara, il preside Mannucci e l'unico prigioniero del 3°, il p. UGO BASSI, catturato mentre confortava un moribondo sul campo di battaglia.
Il generale OUDINOT, persuaso dopo la giornata del 30 che con i mezzi di cui disponeva non avrebbe potuto aver mai ragione della difesa di Roma, telegrafò subito a Parigi chiedendo altre truppe e cannoni d'assedio, e il presidente BONAPARTE, mentre dava ordine di allestire i rinforzi richiesti, spedì a Roma, come plenipotenziario, FERDINANDO LESSEPS. Questi, non avendo istruzioni precise dal suo governo, concluse prima di tutto una tregua d'armi, quindi sottoscrisse un trattato in cui la Francia accordava protezione alle popolazioni romane e d'accordo con il governo occupava, fuori le mura, i luoghi più adatti alla difesa del territorio. Ma l' OUDINOT, ricevuti i rinforzi e sollecitato da chi aveva interesse all'azione militare, respinse l'accordo e annunziò per il 4 giugno la ripresa delle ostilità.

Mentre duravano queste trattative, altri nemici erano penetrati nel territorio dello Stato romano. Questo, nei primi di maggio, fu invaso dal nord da un corpo di tredicimila Austriaci, comandati dal WIMPFFEN, che avanzò su Bologna. Poche truppe, dopo il richiamo della divisione Mezzacapo, difendevano questa città: tremila uomini con tre cannoni, tuttavia il preside BIANCOLI, coadiuvato da una Commissione di difesa, si diede ad organizzare la resistenza, ordinando alle vicine province di mandare armi ed armati e ordinò in città di costruire barricate, tagliare strade, rafforzar le porte.
La mattina dell'8 maggio il WINIPFFEN comparve davanti a Bologna ed assalì Porta Galliera, San Felice e Saragozza, ma, dopo tre ore d'accanito combattimento durante il quale cadde ferito il colonnello COLOMBARINI, fu costretto a ritirarsi, lasciando fuori Porta Galliera due cannoni che il colonnello Boldini, il maggiore Marliani e quaranta carabinieri uscirono dalle mura e riuscirono a prendere. Attaccati da forze preponderanti, ricacciarono due volte gli Austriaci alla baionetta, ma, caduti parecchi, fra cui il Boldini e il Marliani, furono costretti a rientrare.

Gl'imperiali trinceratisi fuori Porta S. Felice e impadronitisi del monte di S. Luca, di Villa Spada e della Madonna dell'Osservanza, cominciarono a fulminare la città e i difensori delle mura con tale furia che il magistrato municipale, di cui facevano parte ANTONIO ZANOLINI, CARLO MARSILI, RAFFAELLO ALDINI, LUIGI PIZZARDI e GIUSEPPE GANDOLFI, insieme con il generale BIGNAMI della Guardia civica e con il colonnello MARESCOTTI, essendosi dimesso il Biancoli, favorevole alla resistenza, stabiliva di venire a patti con il nemico e, spediti al Wimpffen LUIGI ALDOBRANDI ed Eugenio Albèri, chiedeva ed otteneva una tregua fino al mezzogiorno del 9.
Ma il popolo non volle sentir parlare di capitolazione e, terminata la breve tregua, furono riprese le ostilità. Poiché il nemico aveva occupato S. Michele in Bosco e il convento dell'Annunziata, il 4° reggimento, protetto da due pezzi della Guardia, andò all'assalto di quelle due posizioni cacciando gli Austriaci. Ma nonostante questo ed altri successi, il Municipio voleva iniziare trattative per la resa e, trovando un insuperabile ostacolo nella volontà popolare, cedeva il potere ad una Commissione governativa di cui era capo il professore ANTONIO ALESSANDRINI, la quale chiese ed ottenne una seconda tregua, che si protrasse fino al giorno 11 maggio.

Il 12 maggio un contingente di bolognesi uscì da Porta Maggiore per andare a Castel S. Pietro, dov'erano giunti tre cannoni per la città assediata; ma al ritorno, sorpresa dal nemico fu sbaragliata e, fuggendo, provocò lo sgomento nei paesi vicini e in mezzo ai
rinforzi che stavano giungendo dalle Romagne.
Intanto, il 14 maggio giungeva da Mantova il generale GORZKOWSKI con numerose truppe austriache e il parco d'assedio. Il giorno dopo, il 15, il bombardamento di Bologna si fece così terribile da togliere ormai anche ai più ostinati la voglia di continuare la resistenza.
Tuttavia i cittadini resistettero ancora tutto il giorno 15 e parte del 16, ma alla fine dovettero piegarsi e si decisero ad inviare a Borgo Panigale, dove era il quartier generale austriaco, una deputazione composta del cardinale OPIZZONI, del senatore ZACCOLINI, dei colonnelli MARESCOTTI e MALVEZZI e di altri, proposero e firmarono la resa ai patti seguenti:

"1° - Saranno immediatamente consegnate alle truppe imperiali le porte di S. Felice, Galliera e Castiglione, dovendosi le medesime sgombrar prima di qualunque impedimento.
2° - Tutti i pezzi d'artiglieria posseduti dalla città saranno subito trasportati e custoditi nel palazzo apostolico.
3° - Ne saranno garanti la truppa di linea, la guardia civica e il corpo dei carabinieri, che anzi provvederanno momentaneamente al buon ordine ed alla pubblica sicurezza. Le truppe regolari presteranno il giuramento di fedeltà al Sommo Pontefice Pio IX.
4° - Tutte le altre armi da fuoco, da punta e da taglio, sia di ragione pubblica che privata, debbono essere immediatamente depositate presso la porta Castiglione dove saranno ricevute da apposita Commissione, composta d'ufficiali imperiali e di cittadini bolognesi.
5° - Nessuna delle persone attualmente dimoranti a Bologna sarà molestata dalle truppe imperiali per quanto abbiano finora operato contro di esse.
6° - La magistratura municipale di Bologna assume di spedir subito la presente convenzione nelle altre città e nei comuni delle Legazioni, per impedire ogni eventuale resistenza e sollecitare la desiderata intera pacificazione dei paesi".

Presa Bologna, gli Austriaci occuparono anche Ferrara e si misero in marcia verso Ancona, occupando senza resistenza Imola, Forlì, Cesena e Rimini. Aveva il governo di Ancona, in nome della Repubblica, il colonnello LIVIO ZAMBECCARI, successo a Felice Orsini, che, mandatovi dal Triunvirato, vi aveva energicamente ristabilito l'ordine turbato da numerosi faziosi. Lo Zambeccari non disponeva che di quattromila uomini, eppure aveva tentato di appoggiare con colonne mobili la resistenza di Bologna. Caduta questa città dovette pensare più solo alla difesa da terra e da mare della capitale delle Marche.

Il 22 maggio dal mare comparve nelle acque di Ancona una squadra nemica mentre da terra il 25 giunse in vista della città il WIMPFFEN con 16.000 Austriaci, si fermò poco distante ma abbastanza da far vedere il suo esercito e quindi intimorire, e mandò ad intimare la resa e la restaurazione del governo pontificio. Il preside CAMILLO MATTIOLI rispose che avrebbe difeso con tutte le sue forze la città. A quel punto, furono iniziate dal nemico le operazioni di guerra.
L'attacco concertato, dalla parte di terra e dalla parte del mare, cominciò il 27 maggio con un nutrito tiro delle artiglierie, ma gli anconetani risposero per le rime con gran violenza. La batteria della Lanterna, comandata dal modenese GIOVANNI ARALDI, danneggiò la nave "Vulcano", che dovette allontanarsi malconcio insieme con una fregata seriamente colpita.
Un gravissimo colpo però inferto dagli Austriaci agli Anconetani fu il taglio degli acquedotti.
Il 1° giugno, occupate le alture del Posatore, del Polito e del Pelago, il nemico assalì energicamente Monte Gandeto, ma fu sbaragliato dagli uomini guidati dal maggiore Fontana, messo in fuga ed inseguito con le baionette alle costole. Il 6 gli Austriaci si videro consegnare da Bologna il parco d'assedio e un rinforzo dalla Toscana di cinquemila uomini condotti dal LIECHTENSTEI; si prepararono per dieci giorni poi il 15 sferrarono un'offensiva generale; ma, nonostante questa violentissima tutti gli assalti furono respinti.
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Ma continuare la resistenza non era più possibile. Le artiglierie nemiche producevano danni gravissimi alla città né il nemico voleva acconsentire alla richiesta dell'arcivescovo di tirare soltanto sui forti; quelli per demoralizzare tiravano in città e quotidiani erano gli incendi e gli scoppi, terribile fra tutti quello della polveriera di S. Agostino, gli ospedali erano pieni di ammalati e di feriti, mancava l'acqua, scarseggiavano le vettovaglie, le truppe erano stanche.
Il giorno 17 il WIMPFFEN chiese nuovamente al Municipio la resa, che con tanta amarezza fu accettata. Il 19, in una villa di Colle Ameno, fu firmata promettendo salve le persone e gli averi e gli onori delle armi al presidio, che il 21 uscì dalla cittadella e dai forti.

Altro nemico che aveva invaso il territorio romano era un corpo d'esercito napoletano di 8.500 uomini con cinquantadue pezzi d'artiglieria, preceduto da una colonna composta di un reggimento di cavalleria, un battaglione di cacciatori e due compagnie di carabinieri. Comandante supremo il generale WINSPEARE.
A fronteggiare questo nuovo nemico il Triumvirato mandò il generale GARIBALDI, che riuniti in Piazza del Popolo 2.300 uomini - la sua legione, i bersaglieri lombardi, un battaglione di studenti, i finanzieri, gli emigrati e un drappello di dragoni - e fatta sparger la voce che sarebbe andato su Civitavecchia, la sera del 4 maggio uscì da Roma e, dopo aver marciato per qualche chilometro sulla via Flaminia, voltò a destra per la Tiburtina, e giunse il mattino dopo a Tivoli, il 7, passò a Palestrina, prendendo, il 9, contatto col nemico ("napoletano") per mezzo di una pattuglia guidata dal p. UGO BASSI.

Allora il generale WINSPEARE ordinò al generale LANZA di cacciare i garibaldini da Palestrina. Il giorno 9, con 5000 uomini divisi in due colonne, il Lanza mosse su Palestrina per due vie parallele, una conducente verso la porta Valmontone, l'altra verso la porta Romana. Garibaldi, che si era ritirato sulla cima del monte di Castel San Pietro, quando vide i nemici alle porte, irruppe a diritta e a manca ed assalì furiosamente i borbonici.
Il MANARA, alla porta Valmontone, sbaragliò le truppe del colonnello NOVI; a Porta Romana GARIBALDI e BIXIO trovarono maggiore resistenza, ma dopo tre ore di accanito combattimento riuscirono a respingere il LANZA, che ripiegò in disordine su Colonna e poi su Frascati, dopo aver perso un centinaio di uomini e tre pezzi d'artiglieria.

GARIBALDI rimase a Palestrina tutto il giorno 10; richiamato dai Triumviri, partì la sera per Roma e vi giunse dopo una notte di marcia. Le operazioni contro i Napoletani furono riprese sei giorni dopo, sotto il comando, questa volta, del generale ROSELLI, il quale la sera del 16 maggio uscì da Porta S. Giovanni con 10.000 uomini. L'avanguardia - 2310 uomini e due cannoni - era comandata dal generale MAROCCHETTI, la retroguardia - 1912 uomini e quattro cannoni - era guidata dal GALLETTI, il grosso - 6652 uomini e 6 pezzi d'artiglieria - agli ordini di GARIBALDI.

I Napoletani erano 16.000 ed occupavano Albano e Velletri, dove si trovava FERDINANDO II, giunto ad assumere il comando dell'esercito. Accortisi che l'esercito romano mirava a prenderli di fianco, stabilirono di ritirarsi; ma Garibaldi, che voleva loro tagliar la ritirata, assuntasi tutta la responsabilità dell'iniziativa, il 19 avanzò con 2000 uomini, e, fatta occupare dal MAROCCHETTI una collina su Velletri, mandò ad avvisare il ROSELLI di accorrere immediatamente (ma non poteva volare!).
Venute a contatto la cavalleria borbonica con quella repubblicana, questa meno forte, piegò, e poco mancò che GARIBALDI, il quale si era spinto in prima fila, non cadesse vittima del proprio ardire. Sopraggiunto un manipolo di giovani legionari, il nemico in qualche modo fu poi respinto (anche perché stava ritirandosi da Velletri verso Terracina)..
Il ROSELLI giunse solo verso sera, quando i Borbonici erano in ritirata, e, disapprovata l'iniziativa di Garibaldi (ma lui era convinto che si poteva vincere in quel modo), Rosselli si dichiarò contrario al piano garibaldino. Il giorno 20 maggio i bersaglieri lombardi quando entrarono a Velletri, la trovarono vuota di nemici, i Borbonici si erano ritirati senza molestie e non perché temevano Garibaldi ma avevano un preciso piano.

Tuttavia grande fu l'entusiasmo a Roma, quando il Roselli rientrò due giorni dopo. A Garibaldi fu consentito di proseguire verso Frosinone ed Arce, per sollevare le popolazioni di quella provincia e liberarla dalle bande papaline organizzate dal generale ZUCCHI.
Il 24 maggio sera il battaglione MANARA occupò Frosinone e il 25 Ripi. Quindi GARIBALDI entrò a Rocca d'Arco, ma il 27 fu richiamato in Roma, dove fece ritorno il 1° giugno. Due giorni dopo, il corpo di spedizione spagnolo, forte di 9000 uomini e comandato da FERNANDEZ da CORDOBA, dopo essere stato passato in rivista e benedetto dal Papa presso Gaeta, partiva per Fondi e Terracina, dove più tardi si spingerà in Umbria e lì rimase poi rimase fino alla fine dell'anno.

Il giorno stesso che Garibaldi rientrava, a Roma, il generale francese OUDINOT (ricevuti i rinforzi) "stracciava" l'armistizio, e per dar tempo ai suoi connazionali di uscire dalla città comunicava all'ingenuo ROSELLI che "avrebbe differito l'assalto della piazza" fino il giorno 4; intanto teneva pronte le sue truppe, che assommavano a 30.000 uomini circa, componenti tre divisioni (D'Angely, Rostolan e Gresviller), con 76 pezzi d'artiglieria.
Il ROSELLI, giunto l'avviso dell'Oudinot, era sicuro che le ostilità sarebbero cominciate il 4, invece, la mattina del 3, poco prima dell'alba, una forte colonna francese, comandata dal generale MOLLIÈRE, apertasi con mine una breccia nel recinto, penetrò nella villa Pamphili e, spalleggiato dalla brigata Lavaillant, sorprese le poche centinaia di volontari che vi stavano di presidio; parte le uccise, parte le catturò; duecento circa si rifugiarono nel convento di S. Pancrazio e nella villa Corsini, dove, insieme con pochi bersaglieri comandati dal PIETRAMELLARA e con un battaglione del GALLETTI, resistettero per tre ore, ma sopraffatti dal numero, dovettero ritirarsi nella villa del Vascello.

GIUSEPPE GARIBALDI, che dormiva nel suo alloggio di via delle Carrozze, avvertito dell'assalto, dal colonnello DAVERIO, corse a Porta Cavalleggeri e manifestò il proposito di attaccare il nemico sul fianco sinistro, ma, quando seppe che villa Pamphili e Villa Corsini erano già state perdute, con alcune compagnie di volontari andò sul Gianicolo.
Era necessario riconquistare la villa Corsini o, com'era detta, il "Casino dei Quattroventi". Fatta piazzare una batteria sul bastione della casa Merluzzo alla sinistra di Porta S. Pancrazio, senza un piano prestabilito, Garibaldi lanciò all'assalto una dopo l'altra le compagnie della sua legione italiana, su per l'erta scoperta e dominata dal micidiale fuoco dei Francesi, i quali dalle finestre, dal terrazzo e nascosti dietro i parapetti delle scalee sparavano ininterrottamente contro i nostri; furono pochissimi quelli che riuscirono ad avvicinarsi per stanarli a colpi di baionetta.

Più volte il Casino fu preso e riperduto; anzi alle 7 e mezza il generale riuscì a comunicare ai Triumviri di avere completamente riconquistata la villa, ma poco dopo di questa fu ripersa e sul terreno bagnato di sangue giacevano moltissimi audaci, e fra questi il colonnello DAVERIO. Tra i feriti anche BIXIO e ANGELO MASINA, comandante dei lancieri di Garibaldi.
Giungeva intanto GIACOMO MEDICI, che con la sua legione si recava a difendere il Vascello, dov'erano ancora i superstiti delle schiere del PIETRAMELLARA e del GALLETTI, e verso le 8 arrivavano i bersaglieri lombardi di LUCIANO MANARA. Una di queste compagnie fu subito mandata nuovamente ad occupare casa Giacometti, e ricominciò una nutrita fucileria dalle finestre della villa Corsini; altre due compagnie furono lanciate all'assalto ( o meglio allo sbaraglio) del Casino dei Quattroventi, ma accolte da un fuoco più terribile di prima, dopo di aver lasciato sul terreno molti compagni tra cui il capitano ENRICO DANDOLO, dovettero ritirarsi pesti e sanguinolenti a S. Pancrazio.
Ma GIUSEPPE GARIBALDI voleva ad ogni costo avere ragione della difesa francese e lanciò ancora contro la villa una ventina di bersaglieri lombardi comandati da EMILIO DANDOLO, fratello di Enrico; ma, dopo alcuni minuti, dell'eroico manipolo sole sei facevano ritorno e fra questi il giovane Dandolo ferito a una coscia.
Era quasi mezzogiorno, quando GARIBALDI, non pago di quasi sei ore di massacri, si ostinò a fare un nuovo assalto contro il Casino dei Quattroventi: questa volta l'onore toccò ai quaranta lancieri del MASINA e il comandante, con il braccio al collo, volle essere della partita e accanto a lui, alla testa del plotone eroico, si pose il generale GALLETTI ferito anch'egli ad un braccio.
L'assalto salì veloce ed irresistibile e poco dopo fu visto il MASINA a cavallo sulla scalea menar colpi di sciabola sui Francesi. A quella vista, la folla che assisteva dalle mura, vinta dall'entusiasmo, si slanciò, insieme con garibaldini e legionari lombardi, dietro le tracce dei conquistatori. In breve la villa fu occupata da una massa di gente disordinata, la quale, anziché essere d'aiuto, fu d'impaccio ai rincalzi e fornì un comodo bersaglio ai Francesi.
Così ancora una volta, la "massa informe" subì altre gravissime perdite, dovettero insomma tornare indietro, e con loro GARIBALDI e MANARA.
ANGELO MASINA, invece non tornò più; il suo cadavere solo un mese più tardi fu ritrovato e sepolto.

Quello dei lancieri non fu l'ultimo assalto della giornata del 3 giugno. Essendo sopraggiunto nel tardo pomeriggio a Porta S. Pancrazio, il reggimento Unione, GIUSEPPE GARIBALDI volle ritentare la prova, mettendosi lui alla testa e corse all'attacco, che come gli altri fallì nonostante l'impeto, forse della disperazione.
Anche qui cadde, fra gli altri, ferito ad una gamba, il giovane poeta genovese GOFFREDO MAMELI, che, trasportato in un ospedale, vivrà ancora per un mese, dolorando e cantando inni alla patria.
Quel giorno stesso Ponte Molle fu occupato di sorpresa dalla brigata Sauvant discesa da Monte Mario.

Incerte sono le perdite subite dai Francesi in quell'epica giornata; che non furono meno di quattrocento uomini fuori combattimento, numero che rappresenta tuttavia una prova del valore dei "garibaldini" se si pensi che il nemico occupava posizioni dominanti e combatteva dietro i ripari.
Gli italiani non ebbero meno di seicento morti e molto di più furono i feriti. Fra i morti, oltre il DAVERIO, il MASINA ed ENRICO DANDOLO, furono il colonnello PAOLINI, i maggiori RAMORINO e RIALTA, i capitani DAVID, MELONI, VISANOTTI, i tenenti CAVALIERI, BONNET, GROSSI, SCHERANI, LORETO, BACCI, CAZZANIGA, MEZARI, SANTINI, COVÌZZI. Fra questi nomi va collocato pure quello di un'eroina: Colombo Antonietta, moglie del tenente Porzio, la quale, avendo voluto raggiungere il marito, fu colpita al fianco da una palla mentre riempiva un sacco di terra per la difesa di un muro.
Dopo la giornata del 3 giugno la difesa avanzata di Roma ebbe come perni la casa Giacometti e il Vascello. La custodia di questa celebre villa fu affidata alla legione di GIACOMO MEDICI, alla quale furono aggiunti alcuni reparti dei bersaglieri lombardi, alcune compagnie del reggimento Unione e qualche altra delle legioni italiane.
Intanto l' OUDINOT iniziava delle offensive parallele verso il convento di S. Pancrazio e a Monte Verde; le artiglierie producevano danni ingenti agli edifici della città, specie a quelli di Trastevere i cui animosi abitanti si distinsero come coraggio e audacia nel fare piccole sortite, ma il risultato fu quello di far aumentare il numero dei morti del 3 giugno.

La sera del 12 giugno l'OUDINOT scrisse al presidente dell'Assemblea nazionale una lettera in cui lo invitava a render noto un proclama agli abitanti di Roma che nel medesimo tempo gli mandava, e gli concedeva dodici ore di tempo per la risposta. Il proclama era così concepito:
(lo riportiamo fedelmente nella sua originaria sintassi - così le altre)

"Noi non venimmo a portarvi la guerra; il nostro scopo era di consolidare nella vostra patria l'ordine e la libertà. Le intenzioni del nostro governo furono misconosciute. I lavori di assedio ci hanno condotto innanzi alle vostre mura. Fino ad ora non abbiamo, se non che di rado risposto al fuoco delle vostre batterie. Ora però siamo giunti all'istante supremo in cui le necessità della guerra scoppiano in terribili calamità. Risparmiatele ad una città ripiena di tante gloriose memorie. Se voi persistete a respingerci, la responsabilità d'irreparabili disastri sarà tutta vostra".

Il giorno dopo l'Oudinot ricevette tre risposte. I Triumviri gli scrivevano:
"Noi non tradiamo mai le nostre promesse. Abbiamo promesso di difendere, in esecuzione agli ordini dell'Assemblea e del Popolo romano, la bandiera della Repubblica, l'onore del paese e la santità della capitale del mondo cristiano, e manterremo la nostra promessa".

Lo STURBINETTI, comandante della Guardia nazionale, così si esprimeva:

"La guardia civile, destinata a mantener l'ordine, ha il dovere di assecondare le risoluzioni del governo ed a questo dovere adempire volenterosa e zelante, senza curare disagio o fatica. La guardia nazionale ha mostrato nell'accompagnare i prigionieri le sue simpatie per la Francia; ma ha pure mostrato in ogni incontro che sopra tutto le è a cuore la propria dignità, l'onore di Roma. Ogni infortunio alla capitale del mondo cattolico, alla città monumentale non potrebbe attribuirsi mai ai pacifici cittadini costretti a difendersi, ma solamente a chi n'avesse provocata l'aggressione"
Mentre G. GALLETTI, presidente dell'Assemblea, aggiungeva:
"Generale, l'Assemblea costituente romana vi fa sapere, come risposta al vostro dispaccio di ieri, che avendo concluso una convenzione dal dì 31 maggio 1849 in poi con il signor di Lesseps, ministro plenipotenziario della Repubblica francese, convenzione che lui confermò, anche dopo la Vostra dichiarazione, essa deve considerarla come obbligatoria per le due parti e posta sotto la salvaguardia del diritto delle genti, sino a che sia ratificata o respinta dal governo francese. Perciò quest'Assemblea deve riguardare come una violazione di questa convenzione ogni ostilità ripresa dal detto giorno in poi dall'esercito francese ed ogni altra ostilità che si dovrà riprendere prima che Le si comunichi la risoluzione del vostro governo a questo proposito, e prima che sia spirato il termine pattuito dell'armistizio.
Voi domandavate, generale, una risposta analoga alle intenzioni ed all'onore della Francia. Ma nulla vi ha di più conforme alle intenzioni ed all'onore della Francia quanto la cessazione di una violazione flagrante del diritto delle genti. Quali siano per essere gli effetti di una tale violazione, il Popolo romano non può esserne responsabile. Egli è forte del proprio diritto. E' deciso a mantenere le convenzioni che lo attaccano alla vostra nazione. E si trova soltanto costretto dalla necessità della propria difesa a respingere ogni ingiusta aggressione".

Il giorno stesso che l'Oudinot scriveva al presidente dell'Assemblea, uno scontro si verificò tra un battaglione del reggimento Unione comandato dal maggiore modenese PIETRO PANIZZI e un reparto francese che lo molestava mentre eseguiva lavori di trincea presso la porta S. Pancrazio. Cadeva ai primi colpi il Panizzi e, corsi a contendere ai Francesi le spoglie del loro comandante, andavano a fargli compagnia parecchi dei suoi soldati.

Il 15 giugno tornò a infuriare il combattimento presso Ponte Molle e terminò a sera con la vittoria dei romani. Vi si distinsero il generale ROSELLI, i colonnelli MASI, MILBITZ e BERTI-PICHAT, il tenente BRUGNOLI, il soldato SCHELINI e il livornese ENRICO LEMMI, ma più di tutti il capitano polacco PODULAK che alla testa di un drappello osò caricare un intero battaglione e stretto fra i nemici che volevano catturarlo esclamava: "Indietro, canaglia; io muoio, non mi arrendo" e, roteando il moncherino di una spada mozzata, si faceva largo, quando, colpito alla testa e al petto da tre palle, cadde e andò ad abbracciare i corpi di alcuni Francesi che aveva appena uccisi.

Dal 16 giugno in poi, il bombardamento non diede più un momento di requie; le batterie francesi si accanivano giorno e notte contro il Vascello, contro la casa Savorelli, contro la villa Gabrielli, contro il convento e la chiesa di S. Pietro in Montorio, contro tutte le opere di difesa non solo ma anche contro la stessa città. Si preparavano intanto sempre a colpi di mortaio le brecce per sferrare poi i definitivi attacchi. Specie il Vascello e le mura erano presi di mira. Tra le rovine fumanti del glorioso Vascello morivano il capitano MINUTO e il tenente FEDELI della legione italiana, il tenente TAVOLACCI del Genio, il LENZI del reggimento "Unione"; e sul bastione n. 8 un colpo di cannone stroncava la vita del prode colonnello LUIGI CALANDRELLI.

Nella notte del 20 giugno un attacco di zuavi francesi alla casa Giacometti fu respinto alla baionetta, ma la notte successiva, dopo un'intensa giornata di bombardamento, praticate tre brecce nei bastioni centrali e in quelli detti Barberini custoditi dal reggimento Unione, dodici compagnie francesi agli ordini del colonnello NIEL assalirono i bastioni e, sorprese le sentinelle, se ne impadronirono. Il colonnello ROSSI che veniva con la ronda da porta Portese fu improvvisamente circondato e fatto prigioniero con il drappello che lo seguiva.

Roma ormai non aveva più scampo, era sotto un "fatale" assedio
Nascono intanto le accese dispute come difendersi. Chi vuole battersi usando un po' di sommaria strategia e i tempi giusti, e questo era GARIBALDI (ma aveva truppe stanche e sgomente) e chi come il MAZZINI e il ROSSELLI che avrebbero voluto chiamare il popolo alle armi (con quale successo non si sa, dopo quasi un anno si ricordavano che c'era il popolo!).

Questa disputa fatte con proclami e contro proclami
e infine con il completo fallimento è appunto
la prossima puntata

anno 1849 - Atto Terzo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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