Vienna, 29 aprile 1859

Nota austriaca 
alle Potenze europee 
per annunziare la guerra

 del CONTE BUOL 
e dell'Imperatore FRANCESCO GIUSEPPE

[Diamo questo documento secondo la versione italiana fattane dai giornali ufficiali del regno Lombardo-Veneto]
(integralmente)

"Vienna, 29 aprile 1859.

"Mando qui acclusa a V. S. una copia dell’allocuzione indirizzata oggi dal nostro imperiale Signore ai suoi popoli. Le parole dell’Imperatore annunziano all’Impero la risoluzione di Sua Maestà di far inoltrare l’esercito imperiale oltre il Ticino. Il Gabinetto imperiale aveva accettata ancora l’ultima delle proposte di mediazione della Gran Bretagna; ma i nostri avversarî non seguirono quest’esempio, e la difesa della nostra causa è ormai affidata alle armi. In questo grave momento m’incombe l’obbligo di esporre un’altra volta ai nostri rappresentanti all’estero i fatti, contro la forza dei quali malauguratamente si ruppero tutti i tentativi di conservare la pace d’Europa, felicemente mantenuta per tanto tempo.

"La corte di Torino, rispondendo evasivamente alla nostra intimazione per il disarmo, manifestò per tal modo anche una volta la stessa ostile volontà, che esercita già da tanto tempo il privilegio tre volte infelice di oppugnare i diritti incontrastabili dell’Austria, d’inquietare l’Europa e di incoraggiare le speranze della rivoluzione. Siccome questa volontà non si ruppe contro la longanimità dell’Austria, dovette subentrare da ultimo per l’Impero la necessità di ricorrere alle armi.

"L’Austria sopportò tranquillamente una lunga serie di offese recate dall’avversario più debole, perché essa è conscia dell’alta missione di conservare al mondo la pace quanto lungamente è possibile, e perché l’Imperatore e i suoi popoli conoscono ed amano i lavori dello sviluppo pacificamente progrediente verso i più alti gradi della prosperità. Però nessuna mente retta, nessun cuore onesto fra i contemporanei può dubitare del diritto dell’Austria a muover guerra contro il Piemonte. Il Piemonte non accettò mai sinceramente il Trattato con cui promise a Milano, dieci anni or sono, di mantenere la pace e l’amicizia con l’Austria. Questo Stato che soggiacque due volte alle armi provocate dalla sua arroganza, s’attenne fermamente con una deplorabile ostinazione al delirio gravemente espiato. Il figlio di Carlo Alberto sembrava anelare appassionatamente al giorno in cui il retaggio della sua casa, che egli avea riavuto intatto dalla moderazione e magnanimità dell’Austria, avrebbe formato per la terza volta la posta d’un giuoco rovinoso per i popoli.

"L’ambizione d’una dinastia la cui vana e frivola pretesa all’avvenire d’Italia non è giustificata né dalla natura, né dalla storia di questo paese, né dal suo proprio passato e presente, non rifuggì dall’entrare in una alleanza contro la natura coi poteri del sovvertimento. Sorda a tutte le ammonizioni, essa si circondò dei malcontenti di tutti gli Stati d’Italia; le speranze di tutti i nemici dei troni legittimi della Penisola cercarono e trovarono il loro focolare in Torino. Da Torino veniva esercitato un abuso criminoso del sentimento nazionale delle popolazioni italiane. Ogni germe di inquietudine in Italia veniva coltivato accuratamente, affinché, quando spuntasse la sementa, il Piemonte avesse un pretesto di più per accusare ipocritamente le condizioni degli Stati d’Italia, e per pretendere agli occhi dei miopi e degli stolti l’ufficio di liberatore. A questa temeraria impresa doveva servire una stampa sfrenata, intenta quotidianamente a suscitare una sollevazione morale contro il legittimo stato di cose negli Stati vicini oltre il confine: impresa che nessun paese di Europa potrebbe sostenere a lungo andare, senza profonda e pericolosa agitazione. In grazia di questi vani sogni di avvenire si vide il Piemonte, affine di procurarsi appoggi stranieri, — con un contegno col quale la sua propria fora sta in sproporzione patente, — sobbarcarsi a una guerra che non lo riguardava punto, contro una grande Potenza europea. Poi nelle conferenze di Parigi, con una arroganza nuova negli annali del diritto pubblico, esercitare, un’ardita censura contro i Governi della propria patria italiana, Governi che non lo avevano offeso.

"E perché nessuno potesse credere che nemmeno una scintilla di sincero interesse per la pacifica prosperità d’Italia si mescolasse in quei desiderî e sforzi sregolati, le passioni della Sardegna raddoppiaronsi ogni qual volta uno dei Sovrani d’Italia seguì le insinuazioni della mansuetudine e della clemenza, e massime ogni qualvolta l’Imperatore Francesco Giuseppe diede splendide prove di amore pei suoi sudditi italiani, e di cura pel felice progresso dei bei paesi d’Italia. Quando l’Augusta Coppia imperiale percorse le province italiane, ricevendo gli omaggi dei fedeli suoi sudditi e contrassegnando ogni suo passo con pienezza di beneficî, era permesso a Torino di lodare senza alcun ostacolo nei pubblici fogli il regicidio! Quando l’Imperatore affidò l’amministrazione della Lombardia e della Venezia all’augusto suo fratello l’Arciduca Ferdinando Massimiliano, Principe distinto per elevate qualità di spirito, animato dalla mansuetudine e dalla benevolenza, ed intimamente amico del vero genio del popolo italiano, nulla a Torino fu lasciato intentato perché le nobili intenzioni di quel Principe trovassero tanta ingratitudine, quanta produrre ne potevano, anche fra una popolazione bene intenzionata, odiosi giornalieri eccitamenti [*...].

"La Corte di Torino, trascinata una volta sulla via nella quale non le rimaneva altra scelta o di seguire la rivoluzione o farsene capo, perdette sempre più il potere e la volontà di rispettare le leggi delle relazioni fra Stati indipendenti, anzi di riconoscersi ristretta nei limiti che il diritto delle genti impone all’operare di tutte le nazioni civili. Sotto i più nulli patenti pretesti la Sardegna si sciolse dai doveri dai Trattati, come dimostra l’esempio dei suoi Trattati coll’Austria e cogli Stati italiani per l’estradizione dei delinquenti e dei disertori. I suoi emissarî percorsero gli Stati vicini per indurre i soldati ad essere infedeli contro i loro duci sovrani. Calpestando tutte le regole della disciplina militare, aperse ai disertori le file del proprio esercito. Questi furono i fatti di un Governo, che ama vantarsi di avere una missione di civiltà, e nei cui Stati si hanno lettori e scrittori di giornali, i quali, non contenti più della semplice apologia dell’assassinio, numerano le proprie sanguinose vittime con gioia veramente scellerata.

"E chi si meraviglierà che quel Governo abbia avanti a tutto considerato i diritti dell’Austria, fondati nei Trattati, come il potente ostacolo dal quale pensar doveva liberarsi con tutti i mezzi di una sleale politica? Le vere intenzioni del Piemonte, che da lungo tempo non erano per nessuno un segreto, furono confessate al primo momento in cui esso ebbe fiducia sufficiente sull’aiuto straniero, e non trovò più necessaria veruna maschera pei suoi disegni, tendenti alla guerra e alla rivoluzione. L’Europa che scorge nel rispetto dei sussistenti Trattati il Palladio della propria pace, intese con giusto sdegno la dichiarazione che il Governo della Sardegna si credeva attaccato dall’Austria, perché l’Austria non rinunziò all’esercizio di diritti e doveri fondati negli stessi Trattati; perché sostiene il proprio diritto di guarnigione a Piacenza, garentitole dalle grandi Potenze d’Europa, e perché osa andar d’accordo con altri Sovrani della penisola, affine di tutelare in comune interessi legittimi. Mancava un’altra arroganza: ed anche questa ebbe luogo. Il gabinetto di Torino dichiarò che per le condizioni d’Italia non vi erano se non mezzi palliativi, fino a che il dominio della Corona imperiale austriaca si estendesse sulla terra italiana. Così fu eziandio apertamente intaccato il possesso territoriale dell’Austria, fu oltrepassato l’estremo limite fino al quale una potenza come l’Austria può tollerare le disfide di uno Stato meno potente senza rispondere colle armi.

"Questa, spogliata del tessuto con che si volle bugiardamente sfigurarla, si è la verità sul modo di operare, al quale da dieci anni la real Casa di Savoia si lasciò trascinare da perversi consigli. Diciamo ora eziandio che le cause e i rimproveri con cui il Gabinetto sardo cerca di coprire i suoi attacchi contro l’Austria, altro non sono che temerarie calunnie. L’Austria è una potenza conservatrice: e religione, costume e diritto storico sono per essa cose sacre. Essa sa rispettare, proteggere e pesare colla bilancia di eguale diritto tutto quel che di nobile e di autorizzato sta nello spirito nazionale dei popoli. Nei suoi vasti territorî abitano nazioni di varia origine e lingua, l’Imperatore le abbraccia tutte con amore eguale: e la loro unione sotto l’augusta imperiale Famiglia giova alla totalità della famiglia dei popoli europei. La pretenzione poi di formare nuovi Stati secondo i confini nazionali è la più pericolosa di tutte le utopie. Far tale pretenzione, è romperla con la storia; volerla eseguire su qualche punto d’Europa, si è scuotere dalle fondamenta l’ordine saldamente ratificato degli Stati, minacciare la nostra parte di mondo con la confusione e col caos.

"L’Europa lo comprende, e per questo mantiene più fermamente una divisione territoriale, fondata dal Congresso di Vienna: rispettando, quanto più fu possibile, le condizioni storiche dei territorî al termine di una guerra che dominò un’epoca.

"Nessun possesso di nessuna potenza è più legittimo del possesso in Italia, che quel Congresso (lo stesso che ristabilì il Reame di Sardegna, e che gli fece dono del magnifico acquisto di Genova) restituì alla Famiglia imperiale di Absburgo. La Lombardia fu feudo per secoli dell’Impero germanico, Venezia pervenne all’Austria perché questa rinunciò alle province del Belgio. Quello dunque che il Gabinetto di Torino, dimostrando così da sé stesso la nullità delle altre sue accuse, chiamò il vero motivo della scontentezza degli abitanti della Lombardia e della Venezia, la signoria cioè dell’Austria al Po e all’Adriatico, è diritto fermo ed irrepugnabilmente fondato, diritto che le Aquile austriache difenderanno contro ogni ostilità.

"Ma non solo legittimo, giusto e benevolo è eziandio il Governo delle provincie lombardo-venete. Più presto di quanto si poteva attendere, dopo le gravi prove degli anni della rivoluzione, quei bei paesi rifiorirono. Milano e tante altre città sviluppano vita rigogliosa e degna della loro storia. Venezia si solleva da profonda decadenza a nuova crescente prosperità * [
Lo stato deplorevole in cui è ridotta Venezia dopo l’invasione piemontese giustifica questa asserzione]. L’amministrazione e la giustizia sono regolate, l’industria e il commercio prosperano, le scienze e le arti sono coltivate con zelo. I pubblici pesi non sono più gravi di quelli che sopportano gli altri dominî della monarchia. Essi sarebbero più leggeri di quel che sono, se gli effetti della disgrazia politica della Sardegna non aumentassero le esigenze in riguardo alle forze dello Stato. La grande maggioranza del popolo della Lombardia e della Venezia è contenta. Accanto ad essa il numero dei malcontenti che hanno dimenticato le lezioni del 1848 non è ragguardevole: sarebbe più piccolo di quello che è, se non crescessero le incessanti arti istigatrici del Piemonte.

"Il Piemonte non s’interessa dunque per una popolazione che per avventura soffrisse e fosse oppressa. Invece impedisce ed interrompe uno stato di regolare impulso e di svolgimento ripieno di avvenire. La previdenza umana non può presagire per quanto lungo tempo questo giuoco deplorabile possa turbare la pace d’Italia. Ma terribile responsabilità pesa sul capo di coloro che esposero a nuove catastrofi con maligno proponimento la loro patria e l’Europa.

"La rivoluzione, tanto accuratamente alimentata in tutta la Penisola, seguì rapidamente il datole impulso. Una sollevazione militare a Firenze ha indotto S. A. I. il gran Duca di Toscana ad abbandonare i suoi Stati [*...]. A Massa e Carrara [*...] regna la sollevazione sotto la protezione della Sardegna. La Francia poi, dividendo da lungo temp moralmente, — lo ripetiamo, — questa terribile responsabilità, si è ora affrettata ad assumerla in tutta la sua estensione, anche coi fatti.

"Il Governo imperiale di Francia fece il giorno 26 scorso dichiarare a Vienna dal suo incaricato d’affari, che il passaggio del Ticino per parte di milizie austriache sarebbe considerato dichiarazione di guerra alla Francia. Mentre a Vienna si attendeva la risposta del Piemonte alla intimazione del disarmamento, la Francia inviò le sue truppe (nota bene) al di là del confine di terra e di mare della Sardegna, ben sapendo che così gettava il peso decisivo nella bilancia delle ultime risoluzioni della Corte di Torino.

"E perché, dimandiamo noi, dovevano essere d’un colpo solo annientate le speranze tanto legittime dei partigiani della pace in Europa? Perché è giunto il tempo in cui progetti in cui progetti, coltivati lungamente in silenzio, si sono maturati; in cui il secondo Impero francese vuol chiamare in vita le proprie idee; in cui lo stato legale politico dell’Europa esser dee sacrificato alle sue non giustificate pretenzioni, e in cui ai Trattati, che sono base del diritto delle genti d’Europa, essere dee sostituita la scaltrezza politica, coll’annunzio della quale il potere che regna a Parigi sorprese il mondo. Le tradizioni del primo Napoleone vengono ripigliate. Ecco la importanza della lotta alla vigilia della quale si trova l’Europa.

"Possa il mondo disingannato penetrarsi della convinzione che oggi, come mezzo secolo fa, si tratta della difesa, della indipendenza degli Stati e della protezione dei supremi beni dei popoli, contro l’ambizione e la smania di dominare. Ma l’Imperatore Francesco-Giuseppe, Sovrano del nostro Impero, sebbene afflitto per gl’imminenti mali della guerra, affidò con tranquillo petto la sua giusta causa alla Divina Provvidenza. Ei trasse la spada perché mani scellerate toccarono la dignità e l’onore della sua corona. Egli l’adoprerà nel pieno sentimento del prorio diritto, forte per l’entusiasmo e pel coraggio del suo popolo, ed accompagnato dagli augurî di vittoria di tutti coloro la coscienza dei quali distingue fra la verità e l’inganno, fra la ragione e il torto.

"firmato, Buol".

Il documento al quale allude il Conte Buol:

Manifesto di S. M. l’Imperatore d’Austria.

"Ai miei popoli!

"Io ho dato l’ordine alla mia fedele e valorosa armata di porre un termine alle ostilità commesse già da una serie di anni dal limitrofo Stato di Sardegna, ed in questi ultimi tempi giunte al colmo a pregiudizio degl’incontrastabili diritti della mia Corona e dell’inviolata conservazione dell’Impero a me affidato da Dio.

"Con tale determinazione ho adempiuto un grave, ma inevitabile dovere di Sovrano.

"Tranquillo nella mia coscienza, posso sollevare lo sguardo a Dio onnipotente e sottopormi al suo giudizio.

"Pieno di fiducia, rimetto la mia risoluzione alla sentenza imparziale dei contemporanei, e delle generazioni future; del consenso dei miei popoli fedeli sono pienamente sicuro.

"Allorché già più di dieci anni fa lo stesso nemico, violando ogni diritto delle genti e gli usi della guerra, senza che gli fosse dato un qualsiasi motivo, soltanto allo scopo d’impadronirsi del Regno Lombardo-Veneto, ne invase col suo esercito il territorio; allorché fu per ben due volte sconfitto dal mio esercito dopo glorioso combattimento, esso si trovò in balìa del vincitore; io gli usai tutta la generosità, e gli porsi la mano per la riconciliazione.

"Io non mi sono appropriato nemmeno un palmo del suo territorio, non ho leso alcun diritto spettante alla corona di Sardegna nel consorzio della famiglia dei popoli europei; non ho pattuita alcuna garanzia onde prevenire la rinnovazione di simili avvenimenti; io ho creduto di trovarla soltanto nella mano conciliatrice che gli stesi e che venne accettata.

"Alla pace feci il sacrifizio del sangue versato dal mio esercito per l’onore ed il diritto dell’Austria.

"La risposta a tanta moderazione, di cui non havvi altro esempio nella storia, fu l’immediata continuazione delle ostilità, un’agitazione sempre crescente d’anno in anno, ed afforzata coi mezzi più sleali contro la pace ed il benessere del mio Regno Lombardo-Veneto.

"Ben sapendo quanto io debba al prezioso bene della pace pei miei popoli e per l’Europa, tollerai con pazienza quelle ostilità rinnovate.

"Essa non si esaurì, allorché avendo io dovuto prendere negli ultimi tempi estese misure per la sicurezza del mio Stato italiano, costrettovi dall’eccesso delle mene rivoltose intraprese ai confini ed anche nell’interno del paese, se ne trasse partito per agire ancora più ostilmente.

"Tenendo conto della benevola mediazione di amiche grandi Potenze per la conservazione della pace, acconsentii a un congresso delle cinque grandi Potenze.

"I quattro punti proposti dal regio Governo della Gran Bretagna e trasmessi al mio Governo come base delle deliberazioni del congresso, vennero da me accettati a condizioni soltanto che potevano essere opportune a facilitare il conseguimento di una vera sincera durevole pace.

"Nella coscienza che il mio Governo non aveva fatto alcun passo, che nemmeno nel modo più remoto avesse potuto turbare la pace, feci in pari tempo domanda che preventivamente avesse a disarmare quella Potenza ch’è colpa degli scompigli e del pericolo di turbare la pace.

"Sulle istanze di amiche Potenze ho finalmente dato il mio assenso alla proposta di un disarmamento generale.

"Questa mediazione andò fallita per l’inammissibilità delle condizioni a cui la Sardegna vincolò il suo consenso.

"Non restava pertanto che un unico passo per conservare la pace. Io feci intimare direttamente al regio Governo sardo di ridurre la sua armata sul piede di pace e di licenziare i corpi franchi.

"La Sardegna non ha assecondata una tale domanda. Ecco adunque arrivato l’istante, in cui per far valere il diritto conviene ricorrere alla decisione delle armi.

"Ho dato ordine al mio esercito di penetrare nella Sardegna.
"Conosco la portata di questo passo, e, se mai le cure del regno mi riuscirono gravi, lo sono in questo momento.
"La guerra è un flagello dell’umanità; con cuore commosso veggo com’esso minaccia di colpire migliaia dei miei sudditi fedeli nella vita e nei beni; sento profondamente qual grave prova sia appunto ora la guerra pel mio Impero, che progredisce sulla via di un regolare sviluppo interno, e che a tal uopo ha bisogno che si conservi la pace.
"Ma il cuore del Monarca deve tacere allorché comandano l’onore e il dovere.

"Ai confini si troverà il nemico in armi collegato col partito della generale sovversione, e col palese progetto d’impadronirsi a forza dei paesi posseduti dall’Austria in Italia. A suo sussidio il dominatore della Francia, che con vani pretesti s’immischia nei rapporti della penisola italiana, regolati a tenore del diritto delle genti, pone in moto le sue milizie, e già alcune divisioni di queste hanno oltrepassato i confini della Sardegna.
"Tempi difficili trascorsero già sulla Corona che ho ereditata senza macchia dai miei antenati; la gloriosa storia della nostra patria fa fede che la Provvidenza, allorquando minacciavano diffondersi sopra questa parte del mondo le ombre annunciatrici di peripezie ai maggiori beni dell’umanità, si servì della spada dell’Austria per disperdere col suo lampo quelle ombre fatali.
"Ci troviamo di nuovo alla vigilia di un’epoca, in cui si vuole scagliare la distruzione di quanto sussiste, non solo dalle sètte, ma persino dai troni!

"Se forzatovi pongo la mano alla spada, questa è consacrata ad essere la difesa dell’onore e del buon diritto dell’Austria, dei diritti di tutti i popoli e Stati, e dei beni più sacri dell’umanità.
"Ma a voi, miei popoli, che colla vostra fedeltà verso l’avita Casa regnante, siete un modello per tutte le genti, a voi si volge la mia voce, invitandovi a starmi da lato nell’intrapresa pugna colla vostra antica lealtà a tutta prova, colla vostra devozione e colla vostra prontezza a qualsiasi sacrificio; ai vostri figli da me chiamati nelle file del mio esercito, io, loro duce supremo, mando il mio guerriero saluto; voi potete con orgoglio volgere ad essi lo sguardo, perché fra le loro mani l’onorata aquila austriaca aprirà i vanni a voli sublimi.

"La nostra pugna è giusta. Noi vi entriamo con coraggio e fiducia.
"Speriamo che in questa pugna non istaremo soli.

"Il suolo su cui combattiamo è impregnato anche del sangue sparso dal popolo dei nostri fratelli tedeschi; fu conquistato e fu conservato fino a questi giorni come uno dei suoi propugnacoli; fu di solito in que’ paesi che gli astuti nemici della Germania cominciarono il loro giuoco, allorché si sforzarono d’infrangere la potenza nell’interno. Il sentimento di tale pericolo percorre anche ora le piaggie della Germania, dalla capanna sino al trono, dall’uno all’altro confine.

"Io parlo come Principe della Confederazione germanica, destando l’altrui attenzione sul pericolo comune, e rammentando i giorni gloriosi in cui l’Europa dovette la sua liberazione al divampante entusiasmo generale.

"Con Dio per la patria!

"Dato dalla mia residenza e capitale di Vienna 28 aprile 1859".

"Francesco Giuseppe."


Questo documento fece viva impressione non meno sui popoli ai quali era diretto che sugli stessi liberali non accecati da politiche passioni.

Cesare Cantù, certamente non filo-Austria, nella sua Cronistoria si esprime così: "Se facciasi tacere la ripugnanza degli Italiani per lo straniero, [...] potrà riconoscersi nobiltà e verità in questo manifesto. All’Austria instigata incessantemente, rivoltatile i sudditi, sottrattile i soldati, reso impossibile il governare, che restava più altro da fare? Solo doveva farlo bene e nol seppe: e l’esito le diede torto * [Cantù: Cronistoria, Vol. III, pag. 244]."

Mentre il cannone era per tuonare, il Papa si rivolgeva a Dio colla preghiera, invitandovi i fedeli colla seguente Enciclica.


LETTERA ENCICLICA

della Santità di Nostro Signore, per Divina Provvidenza Papa Pio IX, a tutti i Patriarchi, Primati Arcivescovi, Vescovi ed altri Ordinarii aventi grazia e comunione colla Sede Apostolica.

PIO PAPA NONO.

Venerabili Fratelli, salute ed Apostolica Benedizione:

Mentre la santa Madre Chiesa, in questi sacri e festivi giorni, celebrando per tutto il mondo, con grande gioia, l’anniversaria solennità delle feste Pasquali, richiama alla memoria di tutti i suoi fedeli le lietissime parole di quella soavissima pace che l’Unigenito figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro, vinta la morte ed abbattuta la tirannide del Demonio, risorgendo annunziò frequentemente ed amorevolissimamente ai suoi Apostoli e discepoli; ecco innalzarsi e agli orecchi di tutti risuonare un tristissimo clamore di guerra, eccitatasi tra popoli cattolici. Noi dunque, i quali, benché immeritevoli, siamo in terra Vicario di Colui che, nascendo dalla Vergine Immacolata, annunziò per mezzo degli angeli suoi la pace agli uomini di buona volontà, e risorgendo dalla morte ed ascendendo al cielo per sedere alla destra del Padre, lasciò la pace ai suoi discepoli; per la singolare e affatto paterna carità e sollecitudine che nutriamo verso i popoli, specialmente cattolici, non possiamo non gridare pace, ed inculcando a tutti, colla massima contenzione dell’animo nostro, le stesse parole del Divino Nostro Salvatore, non ripetere senza intermissione: Pace a voi, pace a voi! E con queste parole di pace amorevolissimamente ci rivolgiamo a Voi che siete chiamati a parte della nostra sollecitudine, affinché, secondo la vostra esimia pietà, eccitiate con ogni cura e studio i fedeli commessi alla vostra vigilanza a pregare Dio Ottimo Massimo che voglia concedere a tutti la desideratissima sua pace. Per questa cagione noi, secondo il pastorale Nostro dovere, non abbiamo lasciato di ordinare che in tutti gli Stati Nostri Pontificî si offrano pubbliche preghiere al clementissimo Padre delle misericordie. E, seguendo gl’illustri esempî de’ Nostri predecessori, abbiamo stabilito di rivolgerci alle preghiere vostre, e di tutta la Chiesa. Pertanto con queste Nostre Lettere vi chiediamo, o venerabili Fratelli, che, secondo l’esimia vostra religione, vogliate ordinare quanto prima pubbliche preghiere nelle vostre diocesi, colle quali i fedeli a Voi commessi, implorato il potentissimo patrocinio dell’Immacolata e Santissima Madre di Dio Vergine Maria, caldamente preghino e supplichino Iddio ricco in misericordia perché, pei meriti dell’Unigenito Figliuolo suo Signor Nostro Gesù Cristo, allontanando da noi la sua indignazione, e togliendo le guerre fin dagli ultimi confini della terra, colla sua divina grazia illumini tutte le menti, e tutti i cuori infiammi dell’amor della pace cristiana, e faccia colla sua onnipotente forza che tutti, radicati e fondati nella fede e nella carità, osservino diligentissimamente i suoi santi comandamenti, chiedano con cuore umile e contrito il perdono de’ loro peccati, e declinando dal male e facendo il bene camminino per le vie della giustizia, ed abbiano ed esercitino fra sé vicendevole e continua carità, e conseguiscono così, con Dio, con sé stessi e con tutti gli uomini la pace salutare. Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che Voi, secondo la vostra provata osservanza verso Noi e quest’Apostolica Sede, non siate per compiere diligentissimamente questi Nostri desiderî. E perché i fedeli con più ardente calore e più ampio frutto instino nelle preghiere che voi ordinerete, credemmo dovere aprire e largire i tesori dei doni celesti di cui l’Altissimo ci diede la dispensazione. Perciò concediamo ai fedeli l’Indulgenza di trecento giorni, nella forma consueta della Chiesa, da lucrarsi quante volte essi assisteranno devotamente alle dette preghiere e le avranno recitate. Inoltre durante il tempo di quelle preci, concediamo ai fedeli l’Indulgenza plenaria da lucrarsi soltanto una volta al mese, in quel giorno in cui essi ben confessati e comunicati avranno visitato devotamente qualche Chiesa e vi avranno pregato allo stesso fine. Finalmente nulla ci è più grato che di servirci anche di quest’occasione per di nuovo assicurarvi di quella speciale benevolenza che portiamo a voi tutti, o Venerabili Fratelli. Della quale vi sia anche pegno l’Apostolica Benedizione, che dell’intimo del cuore amantissimamente compartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e Laici alla vostra cura commessi.

Dato a Roma presso S. Pietro, il dì 27 di Aprile dell’anno 1859; 
l’anno decimo terzo del nostro Pontificato.

 

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