ANNO 1860

REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ATTO
( anno 1860 )
------------------------------------------------------------(visto dalla Sicilia)

L'ASSEDIO DI GAETA

L'eroina di Gaeta

Nell'assedio di Gaeta, cominciato il 12 novembre 1860, gli ultimi sovrani di Napoli, Francesco II e Maria Sofia, guadagnarono gloria e fama per la loro crepuscolare dinastia, mostrando sugli spalti un coraggio degno di ammirazione e rispetto. Maria Sofia fu conosciuta in tutta l'Europa come "l'eroina di Gaeta", diventando il vero simbolo della resistenza borbonica. Lontana dalle ipocrisie e dalle asfissianti regole di corte e in un'atmosfera spartana ed eroica da caserma, la giovanissima regina espresse tutta la sua esuberanza e la sua vitalità, passando le sue giornate sugli spalti, incoraggiando gli artiglieri ed i feriti, e sparando anche personalmente. I soldati la adoravano, tanto da comporre poesie per lei. Questo fu anche il momento più bello per questa infelice coppia regale. Francesco, incoraggiato dalla condotta della moglie, affrontò con dignitosa fermezza e con audacia l'assedio, riscattando, anche se troppo tardi, le miserie di una dinastia giunta al tramonto.

La piazzaforte
Gaeta sorge sopra un promontorio (monte Orlando) a forma triangolare che si protende nel Tirreno per oltre un chilometro e mezzo, elevandosi sul livello del mare fino a 167 metri. Un istmo, il piano di Montesecco, largo circa 600 metri, unisce il promontorio al continente, per rialzarsi gradualmente in una serie di alture.
In base alle regole d'assedio di Vauban (maresciallo di Francia Sebastien La Preste, marchese di Vauban, geniale ideatore delle più efficaci tecniche d'assedio), che prevedevano l'accerchiamento della fortezza con un anello ininterrotto di opere fortificate che si avvicinavano sempre più alle mura con trincee dette parallele (trinceramenti avanzanti in linee oblique, a zig-zag), Gaeta appariva fortissima e quasi inespugnabile. L'attacco alla fortezza poteva avvenire da una parte sola, cioè dall'istmo di Montesecco. La squadra navale francese, per il momento, impediva il blocco navale; ma, comunque, non appariva possibile affrontare le formidabili fortificazioni del fronte di mare con le navi del tempo, non ancora corazzate ed estremamente vulnerabili, mentre tutta la parte sud del promontorio era protetta dalla ripida scogliera a strapiombo sull'acqua. Inoltre una breccia potava essere aperta soltanto nella parte nord, vicino alla porta di terra e prospiciente il mare. Su tutto il resto del fonte, infatti, le mura si appoggiavano alla viva roccia, che poteva solo essere scalfita dalle granate.

Gaeta aveva anche delle gravi deficienze. Di fronte c'erano troppi ripari per l'assediante, fra i quali il Borgo e le villette dei colli Lombone e Cappuccini. Molte batterie non erano blindate, mentre molti passaggi e, perfino, alcune polveriere risultavano vulnerabili. Le munizioni dell'artiglieria non erano così numerose da poter affrontare un lunghissimo assedio, e mancava il legname per le riparazioni degli affusti ed i sacchetti di sabbia per i ripari. Insufficienti erano i viveri per una guarnigione così numerosa, mentre mancava il denaro per pagare gli stipendi e per acquistare viveri, armi e munizioni all'estero (Francesco aveva lasciato le casse a Napoli). Ma la differenza più netta fra l'assediato e l'assediante stava nella qualità e nella potenza dell'artiglieria. I napoletani possedevano 450 bocche da fuoco (26 mortai e 424 fra cannoni e obici), di cui 220 sul fronte di mare (divise in 19 batterie, in due ordini di fuoco, uno in casamatta, l'altro scoperto), 230 sul fronte di terra (divise in 16 batterie poste sui 1200 metri della cinta principale, 5 batterie in opere esterne, più la poderosa batteria Regina posta alle spalle della cinta principale). Sebbene i pezzi fossero numerosi, si trattava di armi ad anima liscia, con gittate corte e tiro impreciso. Molti risalivano al secolo precedente. Alcune furono rigate artigianalmente, con ingegnosità tutta napoletana, adoperando un congegno usato per la fabbricazione delle viti.

Gli assedianti
Il IV corpo d'armata del gen. Enrico Cialdini (808 ufficiali e 15500 fra sottufficiali e soldati) possedevano, invece, un parco d'artiglieria modernissimo, anche se poco numeroso, costituito da 78 cannoni rigati (molti a retrocarica), 65 mortai e 34 cannoni ad anima liscia. I più potenti tra i pezzi rigati potevano tirare fino a cinque chilometri, senza rischio di essere colpiti dagli antiquati cannoni della piazzaforte.
La rigatura della canna dei cannoni aveva costituito una vera e propria rivoluzione nella tecnica e nella tattica militare, consentendo di imprimere ai proietti un'accelerazione e di dotarli di una penetrazione fin allora sconosciute, tanto da rendere improvvisamente superate le tecniche d'assedio di Vauban. Pioniere di tale progresso era stato il gen. piemontese Cavalli, il quale aveva portato l'artiglieria dell'esercito sabaudo all'avanguardia nel mondo.
Comunque, seppur moderna, l'artiglieria del IV corpo d'armata era in numero insufficiente per un bombardamento intenso della piazzaforte e per aprirvi una breccia. Così Cialdini, responsabile dell'assedio, sbraitava chiedendo a Torino cannoni e mortai. Nel frattempo installò il suo comando nel villaggio di Castellone (vicino Mola e diviso da Gaeta dal mare del golfo) e diede inizio ai lavori d'assedio. Collaboratori preziosi di Cialdini furono il comandante del genio, gen. Luigi Federico Menabréa (ufficiale colto e intelligente, futuro presidente del consiglio e ambasciatore a Londra e Parigi) e il col. Valfré, conte di Bonzo, comandante dell'artiglieria. I lavori diretti da questi ufficiali furono, per l'epoca, formidabili. Furono costruiti 18 chilometri di strade, con 15 fra ponti e viadotti, per il trasporto dell'artiglieria da piazzare sulle alture dominanti il piano di Montesecco. Furono tagliati centinaia di alberi e riempiti di terra migliaia di sacchi per costruire i parapetti delle postazioni. Fu ampliato il porticciolo di Castellone, nel quale confluiva tutto il traffico marittimo dei trasporti che recavano il materiale bellico.
I piemontesi divisero il fronte in tre settori, piazzando 23 batterie: primo settore, strada Castellone-Gaeta, con una batteria a Castellone, una fuori paese sul lungomare, una ai piedi del monte Conca (nei pressi della cappella di S. Martino); secondo settore, le colline in seconda linea, con una batteria sul colle S. Agata, tre sul colle Tortano, una sul monte Cristo; terzo settore, le colline in prima linea, con una batteria blindata a casa Albano (nel Borgo), quattro sul colle dei Cappuccini, sette sul colle Lombone, una a Torre Viola, una blindata sul poggio Atratino (la più vicina alle mura).
Mentre dentro la fortezza le condizioni di vita apparivano difficili sin dall'inizio, nel campo piemontese la vita non era spiacevole ed i soldati vivevano privi di dure restrizioni. Per gli ufficiali era proprio una ella permanenza, dove oltre al lavoro e all'addestramento, era basata su lauti banchetti, su copiosi brindisi a base di robusti vini meridionali e champagne, e su cavalcate e concerti. Alloggiavano in villette nei pressi del comando e dormivano in fresche e pulite lenzuola. Poi, per qualche altra "distrazione", c'erano le vivandiere a séguito del corpo d'armata.

Pressioni politiche per la resa
A Gaeta, intanto, Francesco riceveva pressioni da Napoleone III per lasciare volontariamente Gaeta, dato che quest'ultimo subiva forti sollecitazioni ad abbandonare la causa del Borbone dal suo governo, dall'Inghilterra e dagli inviati segreti di Cavour (le relazioni diplomatiche fra Torino e Parigi erano ufficialmente interrotte), mentre la sua consorte spagnola ed i circoli reazionari francesi lo spingevano a non ritirare la squadra navale. Un ritiro volontario di Francesco lo avrebbe tolto da questo imbarazzo. Ma il Re di Napoli non aveva nessuna intenzione di abbandonare l'ultimo lembo del suo reame.

Situazione a Gaeta
Il 10 novembre il governatore della fortezza di Gaeta, ten. gen. Francesco Milon, fu sostituito dal ten. gen. Pietro Carlo Maria Vial de Maton, nizzardo di 83 anni, vecchio legittimista piemontese che aveva cominciato la sua carriera militare nell'esercito sabaudo quale ufficiale; dopo la conquista del Piemonte da parte di Napoleone, era passato nell'esercito austriaco, poi in quello inglese e, infine, nel 1806 in quello borbonico; con quest'ultimo aveva partecipato alla campagna di Spagna e agli assedi di Genova e di La Spezia. Vice governatore fu nominato il conte gen. Gennaro Marulli, valoroso combattente a Palermo e sul Volturno. A capo del genio pose il ten. gen. Francesco Traversa, a cui ordinò di organizzare lavori di rinforzo, quali parapetti, blinde, spianate, traverse paraschegge, modifiche e protezioni per polveriere, eseguiti, con i pochi mezzi posseduti, dai soldati del genio e dell'artiglieria. In questi lavori, svolti per sostenere l'assedio, il vecchio generale pugliese superò se stesso per efficienza e sacrificio nell'adempimento del dovere. Comandante del castello venne nominato il brig. Nicola Melendez, uno dei responsabili del disastro nelle Calabrie, assolto, però, dalla corte marziale. Il comando di tutto il fronte di terra fu affidato al col. Gabriele Ussani, quarantenne napoletano, che si era distinto per capacità e valore sul Volturno, dove aveva comandato l'artiglieria della divisione di Afàn de Rivera, sul Garigliano e a Mola di Gaeta. Allo svizzero ten. gen. Agostino De Riedmatten fu affidato il comando delle batterie del fronte di terra, mentre quelle del fronte di mare furono affidate all'altro generale elvetico Giuseppe Sigrist, ex ispettore delle truppe estere. Ispettore di tutte le batterie fu nominato il ten. gen. Francesco Ferrari, nativo proprio di Gaeta nel 1797. Direttore dell'artiglieria era il mar. Rodrigo Afàn de Rivera, sessantaduenne napoletano di antiche origini spagnole, veterano delle campagne di Sicilia e dello Stato Pontificio del 1848-49., nelle quali fu decorato sia dal Re sia dal Papa.

Il problema principale per Gaeta erano le condizioni di vita. Oltre 20000 soldati (1770 ufficiali e 19700 tra sottufficiali e soldati) e circa 3000 abitanti, affollavano la cittadina. C'erano, inoltre, un migliaio di cavalli e muli privi di foraggio. Gli uomini non avevano coperte, né pagliericci, né ricambi d'abito e di biancheria. Dormivano sulla terra nuda e la loro situazione igienica era paurosa, con grave pericolo di epidemìe. Così il principale pensiero del governatore Vial fu di mandar via da Gaeta tutte le persone non indispensabili alla difesa.
Il 18 novembre Cialdini chiese una tregua al gen. Vial per lo sgombero del Borgo, e gli fu concessa. Approfittando del cessate il fuoco, abbandonarono la fortezza la Regina madre (Maria Teresa) con i piccoli prìncipi e le principesse, l'intero corpo diplomatico estero, con l'eccezione del coraggioso ambasciatore di Spagna Salvador Bermudez de Castro, marchese di Lema, sbarcati a Terracina.

La guerriglia
Alcuni dei soldati inviati a Terracina furono destinati negli Abruzzi, dove resisteva ancora il forte di Civitella del Tronto, per rinforzare le già attive bande partigiane che combattevano contro le truppe piemontesi e contro la Guardia Nazionale. Alla guida della reazione furono inviati il t. col. Francesco Saverio Luverà, trentatreenne di Augusta, e il conte francese Theodule de Christen. Luverà conquistò Carsoli il 10 gennaio; poi, a Tagliacozzo, sconfisse un reparto di 400 piemontesi. Andato a Roma per reclutare altri volontari, fu sostituito negli Abruzzi da Giacomo Giorgi, avvocato di Avezzano, digiuno di tattica, che imprudentemente il 20 gennaio occupò Scùrgola, dove i soldati del temibile generale savoiardo de Sonnaz, messi sull'avviso, circondarono il paese e catturarono 117 uomini del corpo di Luverà, fucilandoli tutti per brigantaggio. Rientrato Luverà, i partigiani borbonici si ritirarono a Orticoli, dove furono raggiunti dai volontari di de Christen. Con 800 uomini si prepararono per nuove azioni, ma, caduta Gaeta (13 febbraio), ricevettero l'ordine di ritirarsi nello Stato Pontificio, cosa che riuscirono a fare a stento, inseguiti dalle truppe di de Sonnaz. Malgrado lo scioglimento di questa banda, la miccia del brigantaggio politico era stata accesa, e avrebbe caratterizzato il sud Italia per circa un decennio.

Il ritorno di Bosco
In concomitanza alle partenze ci furono diversi arrivi, fra i quali, il più importante, fu quello del gen. Ferdinando Beneventano del Bosco, guarito dalla lombalgia che lo aveva tenuto infermo a letto, e liberato dopo l'arresto subito dalla polizia di Garibaldi. L'arrivo del corpulento e valoroso generale siciliano fu accolto dai soldati con entusiasmo. Si trattava, infatti, di uno dei pochi alti ufficiali borbonici a possedere il carisma del condottiero e del trascinatore di uomini. Lo stesso Re gioì nel vederlo, nutrendo per lui sentimenti di amicizia e di stima. Nella piazzaforte arrivarono anche molti réduci della disciolta armata pontificia di la Moriciére, per lo più ufficiali francesi e belgi, membri dell'aristocrazia più reazionaria e crociati del legittimismo pre-rivoluzione francese.
Ripresi i bombardamenti, il 26 novembre il Re emanò un ordine del giorno rivolto ai soldati napoletani rifugiatisi nello Stato Pontificio, col quale li invitava a riprendere le armi ed a costituire delle bande partigiane per combattere l'invasore.

La sortita
Intanto Bosco, messo al comando di una brg, organizzò una sortita. All'alba del 29 novembre 400 cacciatori, tratti dai btg 8°, 9° e 16°, nonché una quarantina di carabinieri esteri, comandati dal t. col. di stato maggiore Migy (neopromosso), uscirono dalla porta sotto gli spalti della batteria Philipstadt, sboccando sul piano di Montesecco. Lo scopo di questa ricognizione era di scoprire e, eventualmente, distruggere i lavori volti ad installare le batterie dietro la torre dell'Atratino e sul colle dei Cappuccini. Bosco aveva a disposizione una riserva di 500 cacciatori, presi dai btg 7°, 8° e 9°, al comando del mag. Francesco Gottscher, che schierò sotto gli spalti, pronta ad intervenire in appoggio a Migy.
Coperto da esploratori e fiancheggiatori, quest'ultimo superò il colle Atratino, ma fu sorpreso dall'intervento immediato di due colonne di bersaglieri, uscite dal convento dei Cappuccini e dal Borgo, che accesero un vivo fuoco di fucileria, a cui risposero vivacemente i napoletani. Fra i primi a cadere fu Migy, mortalmente ferito. Poi, vedendo l'arrivo di una nuova forte colonna piemontese, i borbonici si ritirarono combattendo. Ai piedi del colle Atratino intervenne la riserva di Bosco per coprire la ritirata; dopodiché rientrò nella fortezza anche questa. A quel punto cominciò un duello d'artiglieria che costrinse le colonne piemontesi a fermarsi. Lo scontro ebbe termine alle nove del mattino.
L'obiettivo della sortita era stato raggiunto solo parzialmente, scoprendo che fin allora non erano stati iniziati lavori sull'Atratino. Il costo umano era stato di 3 morti, 17 feriti (fra i quali Migy che morirà la sera dello stesso giorno) e 15 prigionieri per i napoletani; solo di 5 feriti per i piemontesi. Fra i morti ci fu anche il caporale trombettiere di Bosco. Quest'ultimo ebbe un calzone bucato da una pallottola.

L'ultima azione napoletana
Il 1° dicembre fu installata una batteria rigata sul monte Cristo, a quasi 3000 metri dagli spalti, distanza sufficiente per colpirli, ma fuori della gittata di tiro dei cannoni della piazzaforte. In risposta, però, furono piazzati due cannoni da campagna rigati nella batteria Trinità, portati dentro Gaeta dalle truppe ivi rifugiatisi dopo il combattimento del 12 novembre, e idonei a controbattere il tiro dal monte Cristo.
La notte del 4 dicembre Bosco organizzò una nuova sortita, con l'obiettivo di distruggere le case del Borgo più vicine alla piazzaforte, dietro le quali i piemontesi effettuavano lavori e sparavano contro le guardie sugli spalti. Nella notte nebbiosa e buia uscirono 8 artiglieri, guidati dal ten. Corrado, protetti da 120 cacciatori tratti dai btg 7°, 8° e 9°, al comando del cap. Simonetti. Mentre i cacciatori accendevano un combattimento con le sentinelle nemiche, gli artiglieri piazzarono vari barili di polvere da sparo dentro le case e accesero le micce. Ritiratisi, si udirono le esplosioni che mandarono in rovina varie case. La missione era riuscita, anche se i risultati furono irrilevanti nel contesto dell'assedio. Si trattò, comunque, dell'ultima azione di difesa attiva della guarnigione di Gaeta.

Il proclama
Il 2 dicembre il vecchio e malandato gen. Vial, governatore di Gaeta, diede le dimissioni e si recò a Roma. Fu sostituito dal suo vice, il valente conte Marulli.
L'8 dicembre Francesco II indirizzò un proclama ai suoi sùdditi, nel quale, con molta dignità, esprimeva nostalgìa per la patria comune invasa da un brutale straniero, amore per essa, rivendicando comunanza di affetti, di civiltà, di costumi, di lingua con essi. Finiva promettendo lotta per l'indipendenza delle Due Sicilie e rispetto per le norme costituzionali.

Nuove pressioni per la resa
Lo stesso giorno del proclama, Cialdini ricevette l'ordine di cessare il fuoco. Cavour, con l'appoggio dell'Inghilterra, era riuscito a convincere Napoleone III a ritirare la squadra navale e ad inviare una lettera a Francesco, nella quale lo invitava ad abbandonare Gaeta. La lettera giunse l'11 dicembre, consegnata al Re dall'ammiraglio le Barbier de Tinan; ma il Sovrano di Napoli non accettò il consiglio, chiedendo all'Imperatore francese di non ritirare immediatamente la flotta, in modo da avere la possibilità di difendere l'onore militare del suo Regno e della sua dinastia sugli spalti di Gaeta. Colpito dalla dignità della risposta, il Bonaparte decise di non ritirare le sue navi per un altro mese.

Il tifo
Approfittando della tregua, furono congedati i tre rgt della Guardia Reale che tanto male si erano comportati a S. Maria Capua Vetere il 1° ottobre, ed inviati, con le loro famiglie, via mare a Terracina. Vennero tenuti in servizio solo i quadri necessari per formare le 8 compagnie, con truppa da trarsi dai rgt di linea scioltisi, che avrebbero costituito il btg volteggiatori della Guardia Reale. Insieme ai reggimenti della Guardia Reale furono congedati 2000 uomini appartenenti ad altri reparti.
Nella fortezza restarono 994 ufficiali e 12.219 tra sottufficiali e soldati così ripartiti:


generali dell'alto comando 27
S. M. esercito 44
S. M. territoriale 54
8^ direzione artiglieria 34
3^ direzione genio 32
Intendenza generale 80

1^ divisione brig. Marulli
- 1^ brg D'Orgemont
cmp carabinieri dello S. M. 181
btg tiragliatori della guardia 993
frazioni della guardia 312
- 2^ brg Sanchez
btg treno 456
rgt cacciatori a cavallo 404
frazioni di cavalleria 107

2^ divisione brig. Bosco
- 3^ brg Paterna
2° btg cacciatori 459
3° btg cacciatori 331
4° btg cacciatori 578
6° btg cacciatori 543
- 4^ brg Bosco
7° btg cacciatori 398
8° btg cacciatori 557
9° btg cacciatori 559
10° btg cacciatori 538
- 5^ brg conte di Trani
rgt Re artiglieria 1.030
un btg rgt Regina artiglieria 451
btr n° 6 193
btr estera n° 15 182
una cmp btg artefici 150
4 cmp del 2° btg pionieri del genio 629
14° btg cacciatori 526
16° btg cacciatori 901
frazioni fanteria di linea 128
una cmp del rgt Reali Veterani 139
btg veterani carabinieri svizzeri 540
frazioni del 3° btg carabinieri cacciatori esteri 226
una cmp del 4° btg gendarmeria 81
una cmp di riserva provinciale 71
cannonieri marinai 1.126
Corpo telegrafico 33


Fallite le azioni diplomatiche, le ostilità ripresero la notte fra il 13 e il 14 dicembre, con un duello d'artiglieria che durò più di due ore. Ma su Gaeta incombeva un pericolo terribile come le granate: il tifo. Le condizioni igienico-sanitarie avevano raggiunto il livello mìnimo, facendo moltiplicare i pidocchi. Era impossibile lavarsi e cambiarsi gli indumenti; inoltre si dormiva in fétidi locali. Così a dicembre esplose l'epidemìa che provocò più vittime delle bombe. Fra i primi a morire, il 12 dicembre, fu l'aiutante del Re, il ten. gen. Emanuele Caracciolo, duca di S. Vito.

Duelli d'artiglieria
Il 15 dicembre entrarono in azione le nuove batterie poste sul monte Tortano, tirando da 2700 metri sia contro le fortificazioni, sia contro le abitazioni, e provocando le prime pérdite fra la popolazione. Il 27 dicembre i napoletani poterono piazzare due cannoni, rigati artigianalmente dall'intelligente col. Vincenzo Afan de Rivera, nella torre Orlando, dalla quale rispondere al fuoco nemico.
Lo stesso giorno arrivò una nuova proposta di capitolazione e, in alternativa, di una tregua di 15 giorni, ma fu respinta da Francesco, dato che avrebbe permesso agli assedianti di avanzare indisturbati le loro batterie.
Ogni giorno cadevano in media 500 proietti dentro la piazzaforte, anche se molti non esplodevano perché difettosi, e venivano rispediti al mittente dai cannoni napoletani. Il 7 gennaio una granata colpì il palazzo reale, costringendo i Sovrani a trasferirsi in una casamatta addossata al bastione Ferdinando del fronte di mare. L'8 i piemontesi scoprirono tutte le batterie, meno quella sul Lombone, lanciando verso Gaeta ben 8000 granate, ma con risultati modesti. Più efficace e precisa fu la risposta napoletana.

Intimazione di resa
Il 9 gennaio, su nuova proposta di Napoleone III, recata al Re da Tinan, le ostilità vennero sospese, con un armistizio avente valore fino al 19 gennaio, passando la parola nuovamente alla diplomazia. Lo stesso giorno il Re nominò governatore di Gaeta il mar. Giosué Ritucci, il quale, rispettando i términi dell'armistizio, fece interrompere i lavori sulle batterie, cosa che non fece il più scaltro ed infido Cialdini.
Il 16 gennaio una commissione formata da ufficiali del genio e dell'artiglieria borbonici consegnò al governatore Ritucci un verbale, nel quale esprimeva l'opinione che la fortezza avrebbe potuto resistere altri due mesi.
Il 19 Cialdini inviò il gen. Menabréa ed il col. Piola ad intimare la resa che Francesco rifiutò.

Il blocco navale
La sera stessa la squadra di le Barbier de Tinan lasciò il golfo di Gaeta, sostituita dalla flotta piemontese di Persano. Il giorno dopo venne dichiarato il blocco navale di Gaeta.
La situazione della cittadina era peggiorata sensibilmente: un fetore malsano appestava l'aria, provocato dalle carogne in putrefazione degli animali (gli uomini venivano seppelliti sotto il selciato delle strade) e dalle immondizie non rimosse; i viveri ed i medicinali scarseggiavano e, di conseguenza, molti feriti venivano operati (con frequenti amputazioni) senza anestetico.; il tifo, le malattie, la sporcizia e la denutrizione indebolivano al mìnimo sopportabile i difensori e gli abitanti di Gaeta. I soldati, malgrado ciò, avevano ancora la carica per battersi, esaltati dal coraggio dei Sovrani, spesso presenti sugli spalti con i combattenti o negli ospedali ad assistere i feriti.

Un giorno glorioso
La mattina del 22 gennaio, illuminata da uno spléndido sole, la batteria Regina riprese le ostilità alla presenza della famiglia reale. Poi, tutti i cannoni del fronte di terra della fortezza tirarono contro il colle dei Cappuccini, sorprendendo l'assediante che rispose al fuoco solo dopo qualche tempo. Dopo un paio di ore intervennero le navi di Persano, e un fragore spaventoso soffocò ogni altro rumore, comprese le grida atroci dei feriti. Tutto era avvolto da un fumo densissimo e da fiamme. I piemontesi avevano inaugurato le batterie installate sul colle Lombone, sparando in tutto il giorno 22 ben 18000 proietti, 4000 dei quali dalla flotta. La fortezza rispose con 11000 colpi, danneggiando, in particolare, le batterie del colle dei Cappuccini. Sotto questo fuoco spaventoso il Re, accompagnato dai fratelli, dirigeva il fuoco dalle batterie; mentre Maria Sofia, muovendosi a cavallo, andava a soccorrere i feriti.
Efficace e preciso fu il tiro delle batterie piemontesi di terra, anche grazie alla collaborazione degli ufficiali napoletani disertori, fra i quali il maggiore del genio Giacomo Guarinelli che aveva prestato servizio nella guarnigione di Gaeta negli ultimi vent'anni; innocuo fu, invece, il tiro della flotta che si tenne a débita distanza, subendo le pernacchie ed i gestacci degli artiglieri napoletani.; l'ùnica nave che si avvicinò a tiro, la cannoniera Vinzaglio, fu danneggiata tanto da doversi ritirare. Anche a séguito di questo episodio, l'ammiraglio Persano fu considerato un falso coraggioso da Cialdini.

Il 22 gennaio, seppur terribile, era stato un giorno glorioso per i napoletani, i quali avevano combattuto con sprezzo del pericolo, gridando ad ogni colpo "viva 'o Re", accompagnati dall'inno nazionale di Paisiello suonato dalla banda militare. Le pérdite di quella giornata furono di 11 morti e 122 feriti per la guarnigione; 18 morti e 53 feriti fra gli assedianti. Innumerevoli anche le perdite fra la popolazione.
Intanto in quei giorni ci fu una recrudescenza del tifo, con 70 nuovi malati ogni giorno. Fra i molti deceduti ci furono il gen. Francesco Ferrari, il duca di Sangro (aiutante generale del Re) e l'abate svizzero Eichholzer (confessore della Regina).

Esplosione della batteria S. Antonio
Negli ultimi giorni di gennaio il bombardamento continuava con una certa stanchezza. La situazione cambiò a febbraio, quando i piemontesi, indirizzati da ufficiali borbonici disertori, cominciarono a mirare sui depositi di polvere. Il 4 saltò in aria la conserva di munizioni della batteria Cappelletti, provocando una breccia che fu prontamente riparata. Fatale fu il 5 febbraio, quando, nel pomeriggio, fu colpita in pieno la polveriera della batteria di S. Antonio (posta sul fronte del mare, ma a contatto con l'ala destra del fronte di terra di Montesecco), provocando uno scoppio tremendo che fece tremare la terra per parecchi chilometri, seguito da una spaventosa oscurità causata dalle dense colonne di fumo e dalla polvere. Il bastione di S. Antonio e le case vicine erano scomparse. Al loro posto c'era un'enorme voragine piena di cadaveri, di brandelli umani e di feriti urlanti. Sotto le macerie erano centinaia le persone seppellite vive. Calata la polvere, cominciarono i lavori di soccorso, ostacolati dal tiro concentrico delle batterie nemiche che cercavano di sfruttare i risultati dello scoppio. Le batterie della piazzaforte risposero con disperata energìa, danneggiando anche due navi dell'ammiraglio Persano. I soccorritori mostrarono un grandissimo coraggio, salvando, sotto il fuoco nemico, centinaia di persone.
Furono contate 216 morti fra i militari, un centinaio fra i civili, nonché moltissimi civili e dispersi. Fra i caduti ci fu pure il comandante del genio ten. gen. Francesco Traversa, vecchio ed eroico veterano; trovato il suo corpo tra le macerie, i suoi soldati piansero a lungo questo ufficiale modesto, riservato e fedele sino alla fine. Fu sostituito dal suo vice, il brig. Pietro Pelosi. Altro valoroso caduto fu il t. col. Paolo De Sangro, napoletano quarantunenne, brillante ufficiale del genio, protagonista della resistenza di Gaeta.
Gli effetti materiali dell'esplosione, seppur gravi, non furono decisivi, perché la breccia provocata era sfruttabile solo con un assalto dal mare con truppe caricate in barche, le quali, però, sarebbero state sottoposte a tutto il fuoco delle batterie e della fucileria di quel lato. Determinanti furono, invece, gli effetti sul morale della guarnigione, che precipitò nella disperazione.

La mattina del 6 febbraio fu colpito ed esplose un piccolo deposito di bombe nel bastione di S. Giacomo. La precisione con cui colpivano i piemontesi provocava lo scoramento tra i difensori, i quali sospettavano fortemente l'opera di traditori.
Lo stesso giorno venne messo a riposo l'anziano maresciallo svizzero Giuseppe Sigrist, responsabile del fronte di mare, e sostituito col più giovane ufficiale superiore della piazza, il t. col. Francesco Saverio Anfora, ventottenne napoletano, ufficiale del genio di grandi capacità ed uno dei personaggi carismatici fra i difensori di Gaeta.

L'ultima tregua
La sera Ritucci chiese una tregua a Cialdini per i lavori di soccorso, dato che sotto le rovine del bastione di S. Antonio si udivano ancora lamenti. Il comandante piemontese concesse 48 ore di tregua a partire dalle 10 di sera del 6 febbraio, a condizione che si interrompessero i lavori di riparazione della breccia. Durante la tregua furono inviati a Mola 200 soldati feriti o malati col consenso di Cialdini.
La sera dell'8 febbraio, su ordine del Re, Ritucci convocò il consiglio di difesa, composto da 31 generali ed ufficiali superiori, per esprimere un parere su un eventuale prolungamento della resistenza. Si trattava degli uomini più valorosi e fedeli che, all'unanimità, decisero per la resistenza.

Esplosione della batteria Transilvania
La mattina del 9 ricominciarono le ostilità. I piemontesi erano sempre più precisi; così si sviluppavano incendi, crollavano muri e parapetti, saltavano blindature, ammutolivano cannoni e morivano uomini; mentre l'artiglieria della fortezza non poteva arrecare grave danno perché le batterie e i depositi del nemico erano sparsi, ben protetti e, in parte, fuori tiro.
Il 10 Maria Sofia ricevette una lettera dall'Imperatrice di Francia, Eugenia, nella quale consigliava la resa, poiché non esistevano più possibilità di interventi stranieri e la resistenza di Gaeta era già durata abbastanza per salvare l'onore militare napoletano. Resistere ad oltranza avrebbe solo provocato altre inutili vittime, senza averne alcun frutto. Francesco e Maria Sofia, molto umani e sensibili, non volevano imporre altri sacrifici ai loro fedeli soldati e agli abitanti di Gaeta, per cui diedero délega a Ritucci di trattare la resa. Questi chiese un armistizio a Cialdini per lo svolgimento delle trattative, inviando il t. col. di stato maggiore Giovanni Delli Franci a Castellone. Ma Cialdini non voleva perdere tempo, così rispose che si sarebbe potuto trattare anche senza sospendere le ostilità, dimostrando un forte disprezzo per la vita umana. Ciò scatenò le proteste di Ritucci che entrò in polemica col comandante nemico. Per non nuòcere alle trattative di resa, Francesco fece dimettere Ritucci, nominando al suo posto il vecchio ten. gen. Francesco Milon. Poi nominò la commissione per la capitolazione, formata dal capo di stato maggiore dell'esercito gen. Francesco Antonelli, dall'ammiraglio Roberto Pasca e dal t. col. Giovanni Delli Franci. La commissione piemontese era formata dal comandante del genio gen. Menabréa e dal capo di stato maggiore del IV corpo d'armata col. Piola Caselli.
Mentre le commissioni trattavano a Mola di Gaeta, il 13 febbraio gli assedianti scoprivano due nuove batterie, bersagliando duramente la fortezza. Quando già le condizioni di resa erano state decise, alle 3 pomeridiane, si sentì una nuova tremenda esplosione: un proietto aveva colpito una polveriera e l'attiguo laboratorio, distruggendo la batteria Transilvania. Oltre ad alcuni civili, perirono 17 soldati e 25 furono feriti.

La capitolazione
Il dolore e l'indignazione fece lacrimare gli ufficiali napoletani della commissione di resa che furono testimoni dell'esplosione dalla villa Caposele di Castellone. Le batterie dei difensori risposero con rabbia ed energìa, fino alle 6 e mezza pomeridiane, quando, firmata la capitolazione dalle commissioni, gli assedianti cessarono il fuoco.
Tornavano, finalmente, la calma ed il silenzio, dopo tre mesi di assedio e venticinque giorni di blocco. In questo periodo i piemontesi spararono contro la fortezza circa sessantamila proietti; i napoletani risposero con quasi quarantamila. Fra i militari napoletani 829 furono i caduti in combattimento ed i morti per malattìa, quasi 600 i feriti, circa 1400 gli ammalati, per un totale di 2800 uomini fuori combattimento. Fra la popolazione civile i morti furono circa 200, più varie centinaia di feriti e di ammalati. Le perdite dei piemontesi, 46 morti e 321 feriti, furono di molto inferiori per le motivazioni già citate.
La capitolazione, composta da 23 articoli, prevedeva gli onori militari a tutta la guarnigione, la consegna di tutte le armi, le munizioni ed i materiali della fortezza ai vincitori; due mesi di paga per i militari e gli impiegati napoletani; possibilità per ufficiali, sottufficiali e graduati nazionali di essere arruolati nell'Esercito Sabaudo; congedo assoluto peri militari di truppa che avessero terminata la ferma obbligatoria; licenza di due mesi per quelli ancora in obbligo di leva; sussidi e pensioni per chi avesse maturato l'anzianità, ai mutilati, agli invalidi, alle vedove ed agli orfani dei caduti (questo articolo non fu poi rispettato dal governo di Torino); prigionìa per tutti i militari fino alla resa di Messina e di Civitella del Tronto; ritorno in patria dei militari esteri dopo la prigionìa, con concessione delle liquidazioni previste dalla legge. Si trattava di un accordo complessivamente dignitoso per i vinti, anche se poi non completamente rispettato dai vincitori.

Verso l'esilio
La notte fra il 13 e il 14 febbraio Francesco II redasse il suo ultimo ordine del giorno, col quale lodava e ringraziava i suoi fedeli soldati. La mattina del 14 febbraio 1861, mentre i fanti piemontesi della brg Regina al comando del gen. De Regis entravano nella fortezza, Francesco II e Maria Sofia uscirono col loro seguito dalla casamatta e si diressero verso la porta di mare, attraverso un corridoio formato da due schieramenti di soldati napoletani con alle spalle altri commilitoni e cittadini di Gaeta. Li accompagnava il suono dell'inno napoletano di Paisiello, suonato dalla banda militare. I soldati, làceri e smunti, piangevano e gridavano "viva 'o Re"; alcuni si gettavano ai piedi dei Sovrani, baciandogli le mani. Molti si abbracciavano singhiozzando; altri spezzavano le sciabole e si strappavano le spalline. La popolazione, commossa, sventolava i fazzoletti. I due giovani Sovrani, pallidissimi, salutando salirono sulla lancia che li portò a bordo della nave francese Mouette, e da quel giorno non rividero più il loro Regno. Sulla torre d'Orlando fu ammainata la bianco-gigliata bandiera borbonica ed issato il tricolore con la croce dei Savoia. La Mouette approdò a Terracina e, da lì, i due Sovrani furono portati in carrozza a Roma, dove furono ospitati nel palazzo del Quirinale da Pio IX.

L'onore delle armi
La mattina del 15 febbraio, inquadrati, uscivano dalla fortezza i reparti della guarnigione. Presentavano le armi i fanti della brg Bergamo del gen. Casanova, schierati sull'istmo di Montesecco.
I prigionieri napoletani, con esclusione dei generali, dei chirurghi e dei cappellani, liberati sulla parola, furono deportati sulle isole del golfo di Napoli e liberati alla fine di marzo, dopo la resa di Civitella.
Il comportamento della guarnigione di Gaeta fu, senza dubbio, eroico. Soldati di un esercito umiliato, vergognosamente tradito dai suoi capi, assalito da forze superiori per organizzazione ed armamento, questi uomini dimostrarono uno spirito di resistenza e un entusiasmo eccezionali, conservando in 103 giorni d'assedio una condotta coraggiosa e dignitosa, anche in mezzo a condizioni materiali quasi insopportabili, sotto pesanti bombardamenti e in mezzo ad una epidemìa di tifo, riscattando le vergognose prove delle Calabrie.

Il Regno delle Due Sicilie non esisteva più,
ma questi uomini coraggiosi, stretti attorno ai loro Sovrani,
ne consentirono un eroico tramonto.

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