ANNI 1895-1896

GUERRA AFRICA - RINFORZI - BATTAGLIA ADUA - CRISPI CONTENSTATO

CONCENTRAMENTO ITALIANO AD ADIGRAT ASSEDIO DI MAKALLÈ - AIUTI DELLA FRANCIA A MENELICK - RINFORZI ITALIANI IN ERITREA - MOVIMENTI DELLE TRUPPE ITALIANE ED ETIOPICHE - DEFEZIONE DI RAS SEBATH E DI AGOS TAFARÌ - COMBATTIMENTO DI SEETÀ E DI ALOQUÀ - DIMOSTRAZIONE DI ADÌ CHERAS - IL GENERALE BALDISSERA NOMINATO GOVERNATORE CIVILE E MILITARE DELL' ERITREA - COMBATTIMENTO DI MAI MARET - CONSIGLIO DI GUERRA DEL 27 FEBBRAIO 1896 - L'ORDINE DI OPERAZIONE DEL 29 FEBBRAIO - LA MARCIA DI AVVICINAMENTO - LA BATTAGLIA DI ADUA: COMBATTIMENTO DI ENDA CHIDANE MERET; COMBATTIMENTO DI MONTE RAIB-REBBI ARIENNI; COMBATTIMENTO DI MARIAM SCIAVITTÙ - LA RITIRATA - IL PROCESSO BARATIERI - CADUTA DI F. CRISPI
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CONCENTRAMENTO ITALIANO AD ADIGRAT
ASSEDIO DI MAKALLÈ


Il mattino dell'8 dicembre il generale ARIMONDI decise di ripiegare su Edagà Amus presso Adigrat, ma non avendo il tempo di sgomberare e distruggere il forte di Enda Jesus, a Makallè, vi lasciò a presidio il III battaglione Indigeni comandato dal maggiore GALLIANO e nel pomeriggio partì per Edagà Amus, dove giunse la sera del 10 dicembre.
Intanto il generale BARATIERI, appresa la tragica notizia del combattimento dell'Amba Alagi, ordinava lo sgombro di Adua, chiamava alle armi tutti gli uomini validi e si recava ad Adigrat e quindi ad Edagà Amus.
GALLIANO aveva sotto di sé, oltre che il III Indigeni, una compagnia dell'VIII battaglione, una batteria da montagna, due plotoni del genio, un distaccamento del treno e alcuni carabinieri, in complesso 20 ufficiali, 13 sottufficiali, 176 soldati italiani e 1150 ascari; con questi erano presidiati il villaggio e il forte di Enda Jesus e un piccolo ridotto, poco distante, su un'altura a nord-est. La costruzione del forte Enda Jesus non era ancora terminato, aveva viveri appena per tre mesi e grano-orzo per uno, mancava di foraggi e legna (siamo in pieno dicembre) ed era privo di acqua, che doveva essere attinta a due sorgenti fuori della fortezza.

Appena assunto il comando, il maggiore GALLIANO iniziò i lavori per completare le fortificazioni, sgomberare il campo di tiro e costruire difese accessorie e serbatoi, ordinò che fossero raccolti foraggi e legna ed entrò in trattative con ras MAKONNEN, mentre numerose orde abissine si andavano raccogliendo intorno a Makallè preparandosi ad un assedio ad oltranza e tagliando così le comunicazioni con Adigrat.
Il 20 dicembre ras Makonnen tentò un attacco che fu respinto; il 23 in una sortita ordinata da Galliano per fare provviste la centuria Giusti fu assalita dagli Scioani, che dovettero ritirarsi con gravi perdite; il 7 gennaio del 1896 giunse MENELIK con il grosso del suo esercito e sferrò un furioso attacco; la gran guardia del forte di Enda Jesus fu ritirata e il presidio del ridotto, dopo un'eroica resistenza e aver fatto saltare in aria l'opera fortificata, rientrò nel forte, che resistette valorosamente per tutto il giorno respingendo gli assalti nemici.
Le incursioni si ripeterono più furiose durante la notte e nei giorni 8 e 9. Il giorno 8 gli Abissini riuscirono ad occupare le sorgenti d'acqua, che nella notte del 10, dopo un'intera giornata di combattimenti, furono riconquistate, ma nuovamente abbandonate la mattina dell'11.
Quello stesso giorno un attacco generale del nemico fu coraggiosamente respinto e con tali perdite per il nemico che questi rimase il giorno successivo in stallo; poi il 13 e il 14 attaccò ancora, ma fu ancora impavidamente respinto dagli italiani.

Dopo questi inutili attacchi gli Abissini rinunziarono a prendere il forte con la forza e si limitarono ad azioni di artiglieria e a sorvegliare i pozzi, nella certezza che, prima o poi, avrebbero capitolato per sete. La situazione degli assediati, infatti, per la mancanza d'acqua era molto critica e BARATIERI, che la conosceva, era entrato in trattative, per mezzo del cav. FELTER, con il Negus Menelick.
I negoziati portarono ad un accordo per il quale a GALLIANO, che il 14 era stato promosso tenente colonnello per merito di guerra, era data facoltà di cedere il forte, ottenendo da Menelick di potere uscire con armi e bagagli e raggiungere Adigrat.
Il 18 gennaio MAKONNEN tentò un ultimo assalto, ma fu respinto; il 19 Galliano ebbe notizia dell'accordo, il 21, dopo un consiglio di guerra, i patti furono accettati e il 22 il presidio - che durante l'assedio aveva avuto una trentina di morti ed una settantina di feriti - uscì dal forte con armi e bagagli e con l'onore delle armi e andò ad accamparsi presso le truppe di ras Makonnen.

Nel frattempo il Governo italiano trattava con l'Inghilterra per ottenere la facoltà di sbarcare a Zeila un corpo di truppe, che, minacciando l'Harrar, influissero sulla condotta di ras Makonnen. L'Inghilterra concesse tale facoltà, ma alla condizione che le truppe non si fermassero a Zeila, per non dispiacere alla Francia, con la quale, nel febbraio del 1888, il Governo inglese aveva stipulato un accordo che stabiliva l'indipendenza (Sic!) dell'Harrar.
Inoltre lord Salisbury dichiarò che alla Francia dovevano esser date, possibilmente dallo stesso Governo italiano, comunicazioni soddisfacenti sul passaggio delle truppe.
Sia per quest'ultima singolare pretesa, sia per l'accordo anglo-francese che l'Italia ignorava, a Roma avrebbero dovuto riflettere a lungo.

AIUTI DELLA FRANCIA A MENELICK
RINFORZI ITALIANI IN ERITREA

Della facoltà di sbarcare a Zeila ovviamente non se ne fece nulla; né del resto era dignitoso per l'Italia (Crispina!) fare simili comunicazioni alla Francia, che, con Menelick, faceva di tutto per favorirlo, permettendo che armi e munizioni di sua fabbricazione giungessero per Obock e Gibuti in Abissinia, come molti documenti comprovano, fra cui una lettera del capitano Luigi Canovetti, scritta alla madre alcuni giorni prima del tragico combattimento dell'Amba Alagi: "I nostri nemici sono armati di fucili francesi e sono provvisti di cartucce della medesima origine: è penoso, è grave. La nazione francese ne risponderà davanti a Dio e agli uomini".

Mentre pendevano le trattative con l'Inghilterra, il Governo italiano, accortosi della gravità del pericolo che incombeva sulla colonia, sebbene BARATIERI avvertiva di non avere modo di assicurare il vettovagliamento, con un'incredibile superficialità, provvedeva a mandare rinforzi. Undici battaglioni di fanteria, due di bersaglieri, uno di alpini e cinque batterie da montagna oltre numerosi quadrupedi, sbarcarono a Massaua dal 25 dicembre al 27 gennaio; altri rinforzi, e cioè sette battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, una batteria da montagna, due batterie a tiro rapido, una di mortai someggiabili di 9 cm. e due compagnie treno, sbarcarono tra il 20 gennaio e il 12 febbraio e tre giorni dopo sbarcò a Massaua il colonnello PITTALUGA con un battaglione di fanteria, una batteria da montagna, una compagnia del genio, una di sussistenza ed un'ambulanza della Croce Rossa, che dovevano sbarcare ad Assab per raggiungere l'Aussa e difendere quel sultanato dall'invasione scioana.
Poi…altri rinforzi costituiti da nove battaglioni di fanteria, due di bersaglieri, due batterie da montagna, una compagnia del genio, tre ospedali da campo, un'ambulanza della Croce Rossa e una sezione di sanità, sbarcarono a Massaua tra il 26 febbraio e l' 8 marzo; cioè… quando la tragedia di Adua si era ormai già conclusa.

Con questi invii, ormai la tattica del governo italiano era improvvisamente cambiata; da difensiva era ormai sostanzialmente offensiva; ma era una tattica sciagurata, per il semplice motivo che avveniva in grave ritardo; quando ormai nel frattempo gli Etiopi non solo avevano allestito un esercito di centomila uomini, ma erano pure discretamente armati dalla Francia; ed avevano ad Addis Abeba, osservatori russi che indubbiamente non erano lì a mangiare banane come turisti.
Infine finora l'azione italiana era stata sciagurata, perché non esisteva un piano di guerra prestabilito.

MOVIMENTI DELLE TRUPPE ETIOPICHE
DEFEZIONE DI RAS SEBATH E DI AGOS TAFARÌ
COMBATTIMENTI DI SEETA ED ALEQUA

Il 7 gennaio 1896, l'esercito abissino al comando di MENELICK attacca il forte di Macallè, che difeso dal maggiore GALLIANO, lui e i suoi uomini sono catturati.
Poi il 24 gennaio l'esercito etiopico, forte di oltre 100.000 uomini, quasi tutti armati di fucili, mosse da Dolo, preceduto dall'avanguardia con la quale marciavano in testa gli uomini di Galliano, e giunta questa avanguardia ad Aibà, il 30 gennaio, gli italiani furono spinti sulle linee italiane, eccettuati il comandante, otto ufficiali e un sottoufficiale, trattenuti come ostaggi e restituiti dopo quattro giorni, durante i quali MENELICK li usò come trofei e sfilò con l'esercito per Hausien, dirigendosi poi verso Entisciò.

La mossa del Negus minacciava l'aggiramento di Edagà Amus e l'invasione della Colonia per la frontiera indifesa del Mareb o del Belesa. Per coprire la Colonia dall'invasione, il governatore ordinò "un cambiamento del fronte da sud verso ovest, dal fronte verso Makallè al fronte verso Adua con Adigrat punto d'appoggio per la manovra".

Il movimento, iniziato il 1° febbraio, fu compiuto il 3; quel giorno le truppe italiane si schierarono fra Mai Gabetà ed Entisciò. In seguito ad una ricognizione offensiva eseguita il 5 con un battaglione Alpini, uno Indigeni e parte delle bande, il 7 gennaio tutto il corpo d'occupazione occupò le alture di Tucuz, schierandosi con la brigata Indigeni del generale ALBERTONE (6 battaglioni indigeni, 2 batterie da montagna, 2 batterie a tiro rapido e le bande del capitano BARBANTI) a sinistra, la Brigata Dabormida (6 battaglioni bianchi, 1 indigeno e il battaglione di M. M.) a destra, la Brigata Arimondi (6 battaglioni bianchi e 6 batterie da montagna) al centro, la Riserva (6 battaglioni bianchi) a Tucuz; l'avanguardia a Tzalà, da dove il giorno prima gli Abissini si erano ritirati verso la conca di Gandaptà.

Il giorno stesso in cui avveniva lo spostamento delle truppe italiane, dietro richiesta di MENELICK, avveniva un abboccamento tra il maggiore SALSA, sottocapo di Stato Maggiore, inviato dal Baratieri, e ras MAKONNEN, plenipotenziario del Negus. Questi proponeva la pace alle seguenti condizioni: ritorno degli Italiani ai confini stabiliti con il trattato di Uccialli e stipulazione di un nuovo trattato; ma il governatore, "in base alle istruzioni ricevute da Roma", chiedeva la riconferma dell'articolo 17 del trattato di Uccialli, il riconoscimento dei territori occupati fino alla linea Adua-Adigrat e l'occupazione temporanea di Makallè e l'Amba Alagi.
A Roma probabilmente non erano a conoscenza che MENELICK, aspettava la risposta con 100.000 uomini armati ai suoi ordini, pronti ad un suo cenno a muoversi ; ed essendosi ovviamente MENELICK rifiutato alle condizioni poste da Roma, le trattative furono interrotte il 12 febbraio.

Subito, il giorno dopo, il 13 febbraio, l'esercito abissino avanzò schierato a battaglia verso le linee italiane, ma poi subito retrocedette sulle posizioni di partenza, poi dirigendosi verso Adua.
Quella stessa notte ebbe luogo la defezione (nelle file italiane) di ras SEBATH e il degiacc AGOS TAFARL con le loro bande, che poi si gettarono tra il corpo operante e il forte di Adigrat.

Allo scopo di assicurare le comunicazioni tra il forte e le truppe, dietro ordine di BARATIERI, il colonnello FERRARI, comandante la piazza di Adigrat, mandò il capitano MOCCAGATTA con 200 italiani e 150 indigeni ed Atebei sul Mai Mergas e un distaccamento indigeno sul colle di Seetà. Moccagatta, nella notte dal 13 al 14, fu attaccato dai ribelli e costretto a ritirarsi; sorte peggiore ebbero il giorno dopo il tenente CISTERNI e il tenente DE CONCILIIS, mandati successivamente, l'uno con 70 (!) italiani, l'altro con 35 (!), a rioccupare la posizione. L'insignificante gruppo ovviamente fu accerchiato da orde impressionanti e quasi interamente fatto a pezzi..

Il giorno 15 il capitano MOCCAGATTA, appresa la notizia che dal colle di Seetà i ribelli muovevano verso il colle di Alequà, dov'era un presidio italiano composto da indigeni, a rinforzarlo inviò il tenente CIMINO con 100 ascari e, durante la notte, come scorta di un convoglio, il tenente NEGRETTI con 70 soldati italiani. All'alba del 16 i ribelli attaccarono il colle di Alequà, s'impadronirono facilmente del convoglio e distrussero il drappello italiano.
I pochi superstiti ripararono ad Adigrat. II capitano Moccagatta, giunto sul posto a combattimento finito, fu a sua volta assalito, e dato il numero soverchiante dei ribelli dovette ritirarsi.

Avuta notizia di questi combattimenti, il generale BARATIERI mandò il maggiore VALLE con il VII Battaglione Indigeni a rioccupare Seetà, e il capitano ODDONE con due compagnie a disimpegnare Moccagatta con il quale riuscirono a scacciare il nemico da Alequà. Allora gli etiopi, pur aumentati di numero, si ritirarono a Debra Matzò facendo insorgere le popolazioni a tergo del corpo operante e per far fronte a questa nuova spiacevole situazione fu necessario mandare a Mai Maret il colonnello STEVANI con un battaglione di cacciatori, due di bersaglieri e una batteria e trasferire da Adi Ugri ad Adi Caiè il colonnello DI BOCEARD con tre battaglioni.

Nonostante queste misure più o meno valide, la ribellione popolare incitata dagli etiopi, rendeva ancor più grave la difficoltà dei mezzi logistici e il generale BARATIERI "decise di ripiegare con tutte le forze" ad Adi Caiè. Ma il 21 febbraio l'esercito abissino andò ad accamparsi nella conca di Adua, lasciando un corpo nel vallone di Mariam Sciavitù, fece occupare da un distaccamento il passo di Gasciorchè sulla via del Mareb e inviò una forte colonna in esplorazione verso Gundet.
A BARATIERI parve che il nemico con questa mossa (che invece mirava a distogliere gli Italiani dal ripiegamento) minacciasse la Colonia, priva di difese da quel lato.
Abbandonata, pertanto l'idea di ripiegare, BARATIERI stabilì di tagliare (ingenuamente o in buona fede) a MENELICK la via di Adi Qualà e Godefelassi e il 24 febbraio (ce lo racconta lui stesso) fece avanzare...

"...la massima parte del corpo di operazione, per una dimostrazione offensiva verso Gundapta al di qua e al di là dello sperone di Adi-Cras e sullo sperone stesso. La colonna di destra (brigata Dabormida) mosse dal colle di Zalà e per la conca di Guldam venne ad occidente del monte di Adi-Cras, presso il villaggio di Adi-Cras, dove si congiunse con la colonna di sinistra formata dalla brigata Indigeni; mentre la colonna centrale (generale Arimondi) presso il monte di Adi Cras costituiva la riserva. Le nostre truppe stettero in posizione fino a notte inoltrata; poi si ritirarono nei loro accampamenti avendo visto molto lontano stormi di nemici" (da "Memorie d'Africa" di Baratieri).

IL GEN. BARATIERI RADIATO - IL GEN. BALDISSERA
COMBATTIMENTO DI MAI MARET
CONSIGLIO DI GUERRA DI BARATIERI DEL 27 FEBBRAIO

Tre giorni prima, il 21 febbraio 1896, in un consiglio di ministri, si era stabilito d'inviare in Eritrea altri 5 battaglioni di fanteria, 4 di alpini, 2 di bersaglieri, 4 batterie e 1 compagnia del genio, agli ordini del generale HEUSCH e di sostituire il BARATIERI, che pareva non avesse un piano di guerra prestabilito. La scelta cadde sul generale ANTONIO BALDISSERA. Ma questa sostituzione doveva rimanere segreta e, infatti, il (fidato) generale LAMBERTI, vicegovernatore dell'Eritrea, aveva ricevuto ordine d'intercettare qualsiasi telegramma, che informasse BARATIERI della sua destituzione. Il 23 febbraio ANTONIO BALDISSERA, in incognito, si era imbarcato a Brindisi sopra un piroscafo inglese.

Intanto nella colonia, le operazioni di guerra continuavano. Il 25 febbraio, il colonnello STEVANI, alla testa di due battaglioni bersaglieri, di due compagnie del XVIII battaglione d'Africa, di due compagnie, del VII Indigeni e di una, batteria, muoveva da Mai Maret verso Debra Matzò e sorprendeva e disperdeva il campo di ras Sebath.
Quel giorno stesso BARATIERI dava notizia al Ministero della vittoria e comunicava etiche anche che le orde di ras Alula, ras Mangascià e ras Oliò si erano ritirate dal Mareb; ma da Roma CRISPI telegrafava:

" Codesta è una tisi militare, non una guerra; piccole scaramucce sulle quali ci troviamo sempre inferiori di numero davanti al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare perché non sono sul luogo; ma costato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l'onore dell'esercito e il prestigio della Monarchia".

Aggravatesi le condizioni logistiche ed avendo anzi l'Intendenza dichiarato di non poter più assicurare il vettovagliamento, la sera del 27 il generale BARATIERI (sempre ignaro della sua destituzione) riunì sotto la sua tenda i generali di brigata ARIMONDI, DABORMIDA, ALBERTONE, ELLENA e il capo di Stato Maggiore colonnello VALENZANO e, dopo avere esposto "le condizioni inquietanti del vettovagliamento" e avere accennato "ad una possibile ritirata", disse: "Non vi chiamo ad un consiglio di guerra perché la responsabilità della decisine sarà sempre mia: vi chiamo ad aprirmi l'animo vostro, come nelle ordinarie occasioni di manovre; e vi chiamo a darmi le consuete informazioni circa le condizioni delle truppe".(Baratieri, ib.)

Senza che il governatore la lasciasse intendere, tutti e quattro i generali, ragionando con serena calma, espressero il loro parere per l'offensiva. BARATIERI chiuse la riunione con queste parole: "Il consiglio è animoso, il nemico è valoroso e disprezza la morte; com' è il morale dei nostri soldati?". "Eccellente !" risposero tutti i comandati di brigata. Allora il governatore li congedò, dicendo "Attendo ulteriori informazioni da informatori che devono arrivare dal campo nemico: dopo averle ricevute, prenderò una decisione".(Baratieri, ib.)

L'ORDINE DI OPERAZIONE DEL 29 FEBBRAIO
LA MARCIA DI AVVICINAMENTO LA BATTAGTIA DI ADUA.
COMBATTIMENTI DI ENDA CHIDANE MERET,
DI MONTE' RAIOREBBI ARIENNI, E DI MARIAU SCIAVITÙ.
LA RITIRATA

La decisione, presa nella notte tra il 28 e il 29 febbraio 1896, fu quella di avanzare, non per attaccare in campo aperto il nemico, il che, data l'enorme superiorità numerica dell'esercito etiopico, avrebbe portato gli Italiani ad un sicuro insuccesso, ma per occupare una forte posizione a contatto con il nemico, costituita dai monti Semaiata-Raiò-Esciasciò.
BARATIERI prevedeva tre casi in conseguenza di questo balzo in avanti, com'egli stesso scrisse nelle sue "Memorie d'Africa":

"O il nemico attaccava; ed io credevo di avere tutte le probabilità di respingerlo con i fianchi appoggiati, con una triplice via di ritirata, con l'azione abbastanza libera sul davanti; o il nemico non attaccava; ed io - senza avere perso del tempo - nella notte successiva avrei ripiegato alle alture di Sauria con il vantaggio di avere osato un'altra volta una manovra offensiva e di avere sfidato l'imponente numero degli Scioani; o il nemico porgeva il destro di attaccare il campo nella conca di Mariam Sciavitù (15.000 uomini); e quel successo parziale ci avrebbe giovato non poco perché era nella coscienza mia e di tutti che un successo parziale avrebbe probabilmente determinato il disgregamento delle forze nemiche".

Nel pomeriggio del 29 febbraio il generale BARATIERI chiamò a rapporto i comandanti di brigata ed emanò il seguente ordine del giorno:

"Stasera il corpo d'operazione muove dalla posizione di Sauria in direzione di Adua formato nelle colonne sotto indicate:
* Colonna di destra (generale Dabormida): 2a brigata fanteria - battaglione di Milizia Mobile - comando 2a brigata di batteria con le batterie 5a, 6a e 7a.
* Colonna del centro (generale Arimondi): 1a brigata fanteria - 1a compagnia del 5° battaglione indigeni - batterie 8a e 11a.
* Colonna di sinistra (generale Albertone): quattro battaglioni indigeni - comando della 1a brigata di batteria e batterie 1a 2a, 3a e 4a.
* Riserva (generale Ellena): 3a brigata fanteria - 3° battaglione indigeni 2 batterie a tiro rapido e compagnia genio.
* Le colonne Dabormida, Arimondi ed Albertone alle ore 21 muoveranno dai rispettivi accampamenti; la riserva muoverà un'ora dopo la coda della colonna centrale.
* La colonna di destra segue la strada: colle Zalà, colle Guldam, colle Rebbi Arienni; la colonna centrale e la riserva la strada Addi Dicchi, Gandaptà, colle Rebbi Arienni; la colonna di sinistra la strada Saurià, Addi Cheràs, colle Chidanè Meret; il quartier generale marcia in testa alla riserva.

* Primo obiettivo: la posizione formata dai colli Mai Meret e Rebbi Ariennii, tra monte Semaiatà e monte Esciasció, la cui occupazione sarà fatta dalla colonna Albertone a sinistra, dalla colonna Arimondi al centro e dalla colonna Dabormida a destra. La colonna Arimondi però, ove siano sufficienti le colonne Albertone e Dabormida, prenderà posizione di attesa dietro le due brigate predette.
* Avvertenza: Ogni militare di truppa italiana porterà seco la propria dotazione di cartucce (112), due giornate viveri di riserva, la mantellina, borraccia e tascapane. Per ogni battaglione italiano marceranno al seguito delle truppe, riunite in coda alle singole colonne, due quadrupedi da soma con materiali sanitari e otto con le munizioni di riserva. Tutti i rimanenti quadrupedi da salmerie, con un soldato ogni cinque quadrupedi oltre ai conducenti, in quadrato per battaglione e batteria, un ufficiale subalterno per reggimento fanteria, un capitano per tutte le salmerie (fornito dalla 2a brigata di fanteria) si raccoglieranno, uno ad Entisciò con la razione viveri prelevata oggi per domani, le trenta cartucce per ogni soldato prelevate oggi dal parco, le tende, le coperte e gli altri materiali non trasportati dai corpi. Tanto le suddette salmerie quanto le sezioni sussistenze, i vari servizi di tappa e il parco di artiglieria resteranno fermi ad Entisciò pronti a muovere quando riceveranno l'ordine da questo comando, sotto la protezione di un. presidio del 7° reggimento fanteria che giungerà stasera da Mai Gabetà. Le brigate di artiglieria e i battaglioni indigeni si regoleranno per le loro salmerie in modo analogo a quanto è detto per i battaglioni italiani. Nessuno altrepassi le punte ed i fiancheggiatori delle colonne. Tutte le persone fermate dai drappelli di sicurezza siano inviate al più presto al comando. Il Direttore dei servizi del Genio provvederà a stendere la linea telegrafica al seguito del Quartiere generale e appena possibile, questo sia pure messo in comunicazione colle colonne laterali ed antistanti mediante telegrafia ottica. I comandanti delle varie colonne mandino frequenti avvisi al Quartiere generale ed alle colonne vicine".
(Baratieri, ib.)

A quest'ordine del giorno fu unito uno schizzo delle località da occupare.

Tra le ore 21 e 21 e mezza del 29 febbraio le brigate Dabormida, Arimondi
Albertone partirono dal campo di Sauria; la brigata Ellena si mosse alle ore 23. La brigata Albertone, forte di 4067 uomini e 14 pezzi; essendo composta di soldati indigeni, marciò più rapidamente delle altre e alle ore 3.30 giunse tra il Raiò e il Semaiata, su un colle che lo schizzo del comando indicava col nome di Chidane Meret. Qui si fermò per circa un'ora; poi, avendo il generale Albertone, appreso dalle guide che il vero colle di Chidane Meret non era quello su cui si trovava, ma sorgeva sei o sette chilometri più avanti, verso Abba Garima, riprese la marcia e verso le ore 5.30 giunse al colle di Enda Chidane Meret, che invece non era quello indicato dall'ordine d'operazione.
All'avanguardia della colonna Albertone era il 1° battaglione Turitto, il quale, avvistati gli avamposti abissini, li assalì con imprudente temerarietà, provocando una terribile reazione nemica. Allora il generale Albertone, poiché mancava il collegamento con le altre brigate e le forze etiopiche erano enormemente superiori di numero, schierò le sue truppe sui contrafforti occidentali del Monte Semaiata col VI battaglione a destra, il VII e le bande Sapelli a sinistra e l'VIII al centro, e cercò di disimpegnare il 1° battaglione, come risulta da un suo biglietto a Baratieri, scritto alle ore 8.15.(Baratieri, ib.)

Poco dopo però il Turitto, sopraffatto dagli Abissini, che numerosi provenivano da Abba Garima, da monte Gesosso e dalla sella di Enda Chidane Meret, volse in ritirata. Allora - è raccontato nella Relazione ufficiale;

"…tutti i quattordici pezzi di artiglieria aprirono il fuoco con un tiro molto efficace, cui in breve si aggiunse quello dei battaglioni più vicini al nemico: per quattro volte tentò di scendere per l'insellatura di Enda Chidane Meret ed altrettante volte fu costretta ritirarsi".

"Sì continuò a combattere con accanimento per circa due ore; ma non poteva la brigata Indigeni tener testa per altro tempo ancora al numero dei nemici, i quali, con una colonna scesa per le pendici meridionali dell'Abba Garima, riuscirono ad aggirarli. Verso le ore undici le sorti della battaglia erano decise: preso prigioniero il generale Albertone, morti o feriti o caduti in mano del nemico la maggior parte degli ufficiali italiani, rimasta senza munizione l'artiglieria, i resti della brigata si ritirarono senza ordine e per vie diverse in direzione di Sauria. (R.Uff)

"La brigata Dabormida, forte di 3800 soldati e 18 pezzi, giunse alle ore 5.15 sul colle di Rebbi Arienni e si fermò. Tre quarti d'ora dopo, in una zona a un chilometro e mezzo circa, giunse la brigata Arimondi, che contava 2493 fucili e 12 cannoni, e verso le ore 7 a due chilometri dietro, si fermò la brigata Ellena, forte di 4150 soldati e 12 pezzi.

"Il generale Baratieri, giunto alle 6.30 sul colle di Rebbi Arienni, si accorse, dal vivo fuoco di fucileria, che la brigata Indigeni era impegnata ed ordinò alla brigata Dabormida di spostarsi verso quella parte e di sostenere la brigata Albertone. Al generale Arimondi ordinò di avanzare al posto della brigata Dabormida mentre al generale Ellena ordinò di serrare con la riserva sotto Rebbi Arienni.
La brigata Dabormida finì di sgombrare il colle di Rebbi Arienni poco dopo le ore otto, alla quale ora la brigata Arimondi, ammassata al colle suddetto, ebbe ordine di occupare monte Belah. In quell'ora medesima BARATIERI ordinò alla brigata Ellena di avanzare sul colle di Rebbi Arienni; alle ore 9 si trasferì con il Quartiere generale da Esciasciò sul monte Raiò; alle ore 9.30 inviò ordine al generale Albertone di ritirarsi sotto la posizione della brigata Arimondi.

"L'artiglieria di questa brigata ben presto aprì il fuoco contro orde nemiche che, aggirata la sinistra dell'Albertone, scendevano dalle pendici del Semaiatà incalzando gli ascari italiani che si ritiravano. Verso le ore 11, le due colonne etiopiche, che avevano disfatto la brigata Albertone, si lanciarono contro la brigata Arimondi: quella di sinistra contro il monte Belah, quella di destra dal Semaiatà contro la fronte Raiò-Chidane Meret e verso la conca di Gandaptá, alle spalle dell'Italiani.
Mentre la brigata Arimondi teneva testa al nemico, un'altra colonna abissina, incuneatasi tra l'Arimondi e la Dabormida, giungeva allo sperone nord-ovest di monte Belah che "fu occupato per sorpresa degli Abissini, - narra il Baratieri - e così repentinamente che neppure i reparti inviati dalla brigata di Riserva riuscirono a giungere a tempo - e neppure me ne fu dato avviso - come non mi fu mandato avviso che una parte della Riserva era successivamente impegnata dal doppio avvolgimento scioano. Invano il colonnello Stevani da monte Belah inviò allo sperone Belah due compagnie di bersaglieri. Vi poterono giungere soltanto una quarantina dei più svelti e audaci, i quali vi lasciarono in gran parte la vita con il tenente-colonnello COMPIANÒ e il capitano FABBRONI".

"Proprio allora il 3° battaglione Indigeni, schierato sull'estrema sinistra della posizione di monte Raiò, preso da inesplicabile panico, rompeva gli ordini e si disperdeva verso Rebbi Arienni; ma l'eroico ten. colonnello GALLIANO, che lo comandava, rimaneva con un manipolo di prodi a fronteggiare le orde nemiche e spariva dopo poco nel turbine della lotta.

"Rimasto scoperto il fianco sinistro dello schieramento italiano di monte Raiò, gli Abissini riuscirono facilmente ad aggirare da quel lato la posizione e riuscirono a tagliare la via di ritirata sopra Sauria alle brigate Arimondi ed Ellena. Queste inoltre furono separate dalla colonna scioana che, occupato lo sperone di Belah, aveva continuato ad avanzare parte verso il colle di Rebbi Arienni e parte verso i monti Belah e Raiò. Divise, circondate da ogni parte, scompigliate dai reparti che si ritiravano, nell'impossibilità di organizzare qualsiasi difesa, nonostante la valorosa resistenza di pochi manipoli, morto il generale Arimondi e cadute in potere del nemico le artiglierie, queste due brigate verso le 12.30 erano nel completo sfacelo e si ritiravano in disordine verso Adigrat, Adi Ugrì ed Adi Caiè" (R.Uff)

Ma un nucleo di prodi, raccoltosi sulla vetta del monte Raiò, resisteva tutta la notte del 2 marzo alle orde scioane. Queste soltanto il mattino del 3 riuscirono a raggiungere la cima, ma non vi trovarono un anima viva, soltanto un mucchio di cadaveri, erano morti tutti.

La brigata Dabormida, appena ricevette l'ordine di appoggiare la brigata Alberatone, anziché seguire il battaglione indigeno di Milizia mobile, comandato dal maggiore DE VITO, che faceva da avanguardia, e puntava sul monte Derer trascurando il collegamento lasciandosi ingannare dal terreno s'incanalò nel vallone di Mariam Sciavitù e così, allontanatisi dalla brigata Indigeni, andò a cozzare contro il campo di ras Makonnen, mentre il battaglione della Milizia mobile, rimasto isolato, "veniva furiosamente ed a brevissima distanza, attaccato all'improvviso di fronte e sul fianco destro da numerosi nemici" e, dopo mezz'ora di fuoco, fu sopraffatto.

"La brigata Dabormida - narra il Baratieri - combattendo sul davanti, era avanzata fino allo sbocco della conca di Mariam Sciavitù. Qui per ben sei volte i battaglioni furono condotti all'assalto dal colonnello Airaghi, presente il generale Dabormida, con slancio e vigore tali che il nemico fece sosta; ma poi ebbe i rinforzi, onde dopo un settimo assalto i nostri dovettero iniziare la ritirata, la quale si svolse sotto la protezione delle tre batterie".

La Relazione ufficiale sulla battaglia di Adua così narra la ritirata dei resti della brigata Dabormida:

"Fino al cadere della notte la ritirata proseguì attraverso i monti Esciasciò con sufficiente ordine, nonostante il tempestare di numerose turbe di nemici. Fatto buio, in mezzo a quel terreno quanto mai difficile, le minacce della cavalleria inseguente fecero sì che gli ordini si ruppero quasi totalmente né fu più possibile riannodarli. I superstiti, guidati dal colonnello RAGNI (essendo caduti valorosamente nelle prime ore della ritirata il generale Dabormida e il colonnello Airaghi) per i monti Esciasciò proseguirono verso il colle di Zalà, dove durante la notte incontratisi con una banda di etiopi, si divisero in due colonne, delle quali una con il colonnello Ragni proseguì per Entisciò verso Mai Maret ed Adi Caiè, l'altra con il capitano PAVESI della 1a Compagnia Indigeni, per Belesa, si diresse verso Adi Ugri".

"Poco dopo il mezzogiorno, vedendo ormai persa la battaglia, dal monte Raiò BARATIERI decise di recarsi a Rebbi Arienni per organizzarvi la ritirata sopra Gundapta e Sauria; ma subito si accorse che non c'era più nulla da fare contro il nemico che premeva da tutte le parti l'orda disordinata dei vinti che si allontanava dal campo della lotta, che era stato testimonio di sfortunati eroismi. Tentò, tra le ore 14 e le 15, sopra un'altura tra Jeha e Kokma, insieme con i colonnelli BRUSATI e STEVANI, col ten. Colonnello MENINI, pochi altri ufficiali e un gruppo di alpini, bersaglieri e fanti, di fare resistenza, roteando la sciabola e gridando "Viva l'Italia", poi continuò a ritirarsi verso Adi Caiè, dove giunse il 3 mattina.

"Il nemico inseguì per pochi chilometri e soltanto fra il 3 e il 4 ras Mangascià avanzò fino a Sauria e il degiacc Area fino al Mareb; ma i fuggiaschi furono molestati dalle popolazioni insorte e dalle bande dei ribelli. Ordinatamente invece il maggiore Ameglio con il suo battaglione e con le bande del Seraè marciò da Sauria verso Adi Ugri raccogliendo al suo passaggio i superstiti di Adua.
Il colonnello DI BOCCARD, che si trovava a Mai Maret con un reggimento di Fanteria, i rimase fino alle 12 del giorno 2, poi si ritirò su Adi Caiè, dopo avere ordinato al maggiore PRESTINARI che con il suo battaglione cacciatori presidiava il forte di Adigrat di sgombrare e ripiegare. Ma il Prestinari, non volendo abbandonare i numerosi feriti ricoverati nel forte, si rifiutò di lasciarlo e si preparò a resistere al nemico.

"La battaglia, che va sotto il nome di Adua ma che fu l'insieme di tre combattimenti indipendenti l'uno dall'altro, costò dolorose perdite all'esercito italiano. Dei 10.400 Italiani che presero parte alla tre battaglie, 3100 restarono morti sul campo, 3700 scamparono, dei quali 450 feriti. Gli ufficiali caduti furono 254 oltre i generali Arimondi e Dabormida.
"Gli ascari ebbero un migliaio di uomini fuori combattimento. I prigionieri, bianchi e indigeni furono 1700.
"Ma di gran lunga più gravi furono le perdite degli Abissini che ebbero circa 7000 morti e 10.000 feriti.(R.Uff)

DOPO LA DISFATTA: IL PROCESSO A BARATIERI
CADUTA DI FRANCESCO CRISPI

Nella notte del 3 e 4 marzo 1986, BARATÌERÌ partì da Adi Caiò per Saganeìtì, diretto all'Asmara, dove giunse nel pomeriggio del giorno 5. Solo allora seppe che il giorno prima il generale BALDISSERA era sbarcato a Massaua e lo aveva sostituito nel comando.
Quella sera stessa il governatore cedette il comando al generale LAMBERTI. Il giorno dopo Baldissera giunse all'Asmara e iniziò ad impegnarsi per prepararsi alla difesa della Colonia.

Qualche mese dopo al Tribunale di Guerra dell'Asmara, composto dai generali Dei Mayno, Bisesti, Gazzurelli, Mazza, Heusch e Valle, si svolse il processo contro il BARATIERI. La sentenza, pronunciata il 14 giugno 1896, fu d'assoluzione; però il tribunale il deplorò "che la somma delle cose, in una lotta così disuguale ed in circostanze così difficili fosse affidata ad un generale che si dimostrò molto al di sotto delle esigenze della situazione".

La prima notizia di Adua giunse al Governo il 1° marzo con un telegramma da Massaua del generale LAMBERTI. CRISPI, durante la notte, si recò con il ministro MOCENNI a Napoli per comunicare al re la notizia che il 2 marzo si diffuse a Roma e il 3 in tutto il paese.

Era l'annuncio di un grave scacco militare più che di una sconfitta decisiva. Scacco -forse- facilmente riparabile se l'Italia di allora non fosse stata sotto il malefico dominio della demagogia ed avesse avuto un po' di dignità e di coraggio.
Purtroppo però l'Italia diede lo spettacolo vergognoso di una nazione la quale, anziché accogliere la notizia della sconfitta con la calma dei forti ed esprimere energici propositi di rivincita, si lascia vincere dalla viltà e rinuncia alla tutela dei suoi interessi morali e materiali.
Le cronache di quei giorni sono varie e anche queste demagogiche, populiste, e ambigue; strumentalizzate palesemente da alcuni gruppi, ma in modo occulto anche da altri.

Scrissero i giornali e poi tanti libri di storia successivi:
* Le dimostrazioni dell'opinione pubblica contro la guerra furono violenti.
* Le proteste contro il Governo Crispi si trasformarono in esplosioni di collera.
* I moti erano spontanei e vi parteciparono, senza distinzioni di categorie sociali, buona parte della popolazione.
* In quasi tutte le città si organizzarono comizi e raduni.
* Dimostrazioni studentesche.
* Proteste di operai.
* Moti popolari, rotaie divelte alla stazione ferroviaria di Pavia per impedire la partenza di altri soldati;
* Ma anche proteste di "vecchi borghesi" che si richiamavano al perduto onore militare.

Ma tutte queste proteste contro la politica di Crispi, contro la politica della triplice, contro la politica colonialista africana, era già in pieno sviluppo prima della sconfitta del 1° marzo ad Adua.
L'insuccesso militare veniva in realtà al seguito dalla crisi del suo disegno politico complessivo e all'erosione delle maggioranze che lo sostenevano, che era la borghesia, ma non quella vera nuova borghesia che da qualche tempo stava nascendo.
All'inizio degli anni '90, la crisi economica era finita, e quella borghesia legata all'industria nell'emergente triangolo industriale del Nord Italia, si stava avviando verso una decisiva fase di sviluppo, ed era quindi insofferente agli alti costi economici e sociali delle avventure coloniali.

Potrebbe sembrare paradossale ma questa nuova borghesia, era insofferente anche a quella politica ultimamente adottata dal Crispi che si proponeva -con la drastica politica dell'ordine pubblico- di stroncare il movimento di classe, e che invece di raggiungere il suo obiettivo, Crispi con tutta la sua politica illiberale e reazionaria- contribuì semmai a dare un'impennata alla sua diffusione, anche se questa diffusione non fu esente da contraddizioni.
Non dimentichiamo che il primo partito di massa - e che Crispi aveva tentato di sciogliere- avvenne per iniziativa prevalente di intellettuali, e prima di tutti quel TURATI, che non credeva di poter incarnare e....
"realizzare il programma di rinnovamento sociale con l'elemento operaio e contadinesco che si desta appena e stira le braccia...., mi vo sempre persuadendo (ed anche il "Fascio Operaio" di Milano me lo ribadisce in testa) che la nostra fisima di mandare avanti gli operai, a parlare, a scrivere ecc., è per ora, in Italia almeno, una fisima sciocca…Prima convien proprio che i più colti, gli elementi men borghesi della borghesia, combattano per il povero operaio minorenne". (Lettera di Turati a Ghisleri - in La Scapigliatura democratica pp.98-99).

Né possiamo dimenticare che il socialista ANDREA COSTA, rivolse poi a Rudinì, una petizione per la "fine dell'Impresa Africa" firmata da circa 100.000 cittadini "Milanesi"; che non erano di certo 100.000 "poveri operai minorenni" .

Di fronte alle proteste, alle dimostrazioni di piazza, ai moti; di fronte a tale contegno più o meno spontaneo del paese, a CRISPI non rimaneva altro che dare le dimissioni.

Il 5 marzo, alle 2 pomeridiane, mentre il popolo tumultuava in piazza, si aprì la Camera. Riportiamo di quella breve seduta la descrizione che sobriamente ne fece ENRICO CORRADINI:

"Apparve finalmente il vecchio miserando che aveva amato la patria e dato mezzo secolo d'esistenza a farla grande. Tutta la pietà della miseria umana era nella sua persona piccola ed esile, già segnata dalla morte. Quando fu al suo banco fra gli altri ministri, girò appena gli occhi ancora attoniti dentro le occhiaie già vuotate dagli anni. Ma per la dignità della sua anima quegli occhi erano ora velati di una tristezza più schiva. Ferma era la parola in cui il vecchio quasi ottantenne, carico d'opere e degli errori della sua misera umanità e dell'ultima sconfitta, doveva morire.
Disse: "Ho l'onore di annunciare alla Camera che il Ministero ha presentato a Sua Maestà le proprie dimissioni".
"Tacque. Poi riprese più forte"
"Sua maestà il Re le ha accettate".
"Scrosciarono gli applausi dagli scranni e dalle tribune. Molte voci gridarono: Viva il Re ! Ma l'Estrema Sinistra inveiva contro quella reliquia d'uomo. Allora questi si voltò verso di essa e, quando fu fatto silenzio, aggiunse: "I ministeri restano al loro posto fino alla nomina dei successori per mantenere l'ordine pubblico".
"Allora fu ricoperto d'improperi e fu chiamato "Vile"

"E così - scrive Gualtiero Castellini - Francesco Crispi, fu ucciso in una giornata ignominiosa di marzo, sotto gli applausi di quattrocento deputati del disordine e dell'ordine che bestemmiavano il nome del Re, applaudendolo poiché accettava - nelle dimissioni del Crispi - la sconfitta della patria. E nessuno, tranne il grande vecchio, pianse sulla sconfitta d'Africa. Tutti gioirono della sconfitta dell'Italia. L'Estrema si abbandonava sul finire della seduta a sconci dialoghi con le tribune della stampa; il popolo gridava in piazza - Viva Milano ! poiché Milano era stata l'antagonista della guerra ....".

I moti popolari contribuirono non poco a suscitare il timore che la crisi politica coinvolgesse le istituzioni dello Stato. "Sacrificare l'uomo per salvare il regime" secondo l'efficace espressione di uno storico, fu la scelta che costò la carica a Crispi, ancora prima del dibattito parlamentare.

Andrea Costa, pochi mesi prima, lanciandosi nella polemica aperta dalla "Critica sociale" sulla "questione morale", aveva precisato che....
"per i socialisti la battaglia non era contro la persona di Crispi, ma contro la classe che questo personaggio rappresentava.
Non è per niente il rappresentante della borghesia, bensì di quella razza di avventurieri e ciurmatori rifatti, i quali senza professione economica né voglia né potere di abbracciarne una pur che sia, per sbarcare il lunario, si appigliano alla vita politica a un tratto dischiusa alla loro vanità e cupidigie, invasero le amministrazioni, presero a trescar colle banche, ed ebbero per programma minimo e massimo di vendersi al miglior offerente; è il rappresentante, cioè, non di una classe vera e propria, bensì di una schiuma sociale uscita dai disordini e dalle incompiutezze del giovane Stato unitario. Ne consegue che la "borghesia, la vera borghesia, quella la cui presenza e il cui sviluppo generano il socialismo e con la quale il socialismo direttamente combatte…non ha nulla o ben poco da vedere con le ribalderie e le briganterie dei cafoni e dei guappi, che hanno fatto del Crispi il loro "picciotto di sgarro", e che, impostisi con ogni frode più lercia a una vasta parte del paese, ove gli analfabeti sono l'80 per cento e gli elettori il 3 per cento dei vivi, s'impongono di rimbalzo, colla forza bruta del numero, all'Italia civile e vi menano ogni disastro".

Questo significa che, per accelerare i tempi del processo di sviluppo sociale ed economico, per favorire l'avvento di un governo politico effettivamente liberale (in questa fase necessariamente democratico), era necessario sia da parte socialista sia da parte della nuova borghesia… intendersi.

Un ex socialista, che s'intenderà con la nuova borghesia, (non dimentichiamolo) sarà poi Mussolini.
Anche allora, molti (spinsero e) gioirono all'inizio l'"avventura" del '36 e del '40, e molti (in molti casi gli stessi) (dal 1940 al 1943, spinsero e) "gioirono alla sconfitta dell'Italia".

Ma ritorniamo all'"avventura" di questi anni,
alla sconfitta di Crispi e… alla sconfitta di Adua….

…periodo dal 1896 al 1897 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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