ANNI 1900-1901

V. EMANUELE III RE - MINISTERO SARACCO - L'ITALIA IN CINA

IL TERZO RE D'ITALIA - IL PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE III ALLA NAZIONE - IL DISCORSO DELLA CORONA - LA RIVOLTA XENOFOBA IN CINA E L'AZIONE DELLE FORZE INTERNAZIONALI - PARTECIPAZIONE DELL'ITALIA ALLA SPEDIZIONE IN CINA - L'AZIONE DEI SOLDATI E DEI MARINAI ITALIANI NELL'ESTREMO ORIENTE - LA CONCESSIONE ITALIANA ALLE SPONDE DEL PEI-KO - DISCUSSIONE ALLA CAMERA SUL DISEGNO DI LEGGE PER LA TUTELA DEGLI EMIGRANTI - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA DEL LAVORO DI GENOVA E SUA RICOSTITUZIONE - DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA DEL GOVERNO - CADUTA DEL MINISTERO SARACCO
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IL TERZO RE D' ITALIA: VITTORIO EMANUELE III

IL PROCLAMA ALLA NAZIONE
IL DISCORSO ALLA CAMERA

< La nascita, la vita
e la FINE DI UN REGNO
di VITTORIO EMANUELE III

29 Luglio 1900. Era mezzanotte, quando a Roma, SARACCO, rientrando da una passeggiata serale a Piazza Colonna per prendere un po' di fresco in quell'afoso fine luglio romano, il portiere ansioso che l'aspettava sulla soglia di casa, gli diede in mano il dispaccio con la tragica notizia. Il colpo fu così tremendo che l'ottantenne vecchio barcollò. Dovettero aiutarlo a salire sulla carrozza per andare con i cavalli al galoppo al ministero degli interni.
Povero Saracco!
Il Re d'Italia era morto assassinato. L'erede era assente né si sapeva dov'era. L'Italia era senza un re. E pensare, che lui un mese prima, dopo la caduta di Pelloux, formando il governo aveva esordito dicendo "Per ora, vessati come siamo dalle cose e dal tempo, dobbiamo limitarci ad un programma minimo".

Altro che minimo! Ora sulle spalle aveva lui la più grande responsabilità. Cosa sarebbe accaduto? Una rivoluzione? Una guerra civile? La fine della monarchia?
Del resto, gli ultimi dieci anni del regno di Umberto I si erano svolti attraverso gravissimi e sanguinosi travagli. Lo Statuto albertino pareva inadeguato, e negli ambienti parlamentari si faceva un gran parlare di Costituente.
Insomma in quei dieci anni era successo di tutto: scandali, caduta degli ideali del Risorgimento, destra in minoranza, alla Camera sempre più presenti forze disgregatrici e antiunitarie; infine c'erano state le cannonate sul popolo del "Radetzki italiano", Bava Beccaris. Il più ottimista degli osservatori, dopo quelle quattro pistolettate non si sarebbe impegnato sulla durata della monarchia in Italia.

C'era da farsi venire altro che un malore, c'era da morire dalla paura anche per uno come Saracco, nato nel lontano 1821, che ne aveva viste d'ogni sorta: le rivoluzioni, l'intero Risorgimento, e gli ultimi caotici trent'anni della politica italiana. Gli ultimi dieci poi erano stati "avventurosi" e "drammatici", e molti -rivolgendosi alle capacità dei politici di questi anni- aggiungevano sono "vergognosi", "disgustosi", "pietosi","vili,. "hanno il fango fino alla bocca".
Dopo la lunga politica di rilasciamento di Depretis, si era passati all'estrema destra con il pluri-voltagabbana Crispi, poi alla sinistra con Giolitti, poi ancora, dalla destra con Crispi ad una destra nominale con Di Rudinì, che allargò bruscamente i freni. Fino a che si arrivò a mettere al Governo e agli Interni (non era mai più accaduto da 30 anni) un generale: Pelloux; e agli esteri un altro militare, l'ammiraglio NAPOLEONE CANEVARO (due militari nei tre posti chiave).

Con questa scelte che cosa si temeva e a cosa si mirava? A molti era chiaro: ridurre le libertà costituzionali. A Milano ci fu l'esempio più clamoroso, mandato proprio da Pelloux, BAVA BECCARIS fece rimpiangere ai milanesi perfino l'austriaco Radetzki, gli oscurò la fama.

In questo clima, non c'era da meravigliarsi se in giro c'era qualche cervello arroventato come il Bresci.
Un mese prima dell'attentato, tuttavia era avvenuto un piccolo mutamento di rotta. Nell'attesa di qualche schiarita, il Re aveva dato l'incarico di formare un governo a SARACCO. L'80enne senatore, pur uomo di destra, era un saggio realista e avrebbe solo dovuto riempire una breve fase di transizione, forse per aprire la via ad un ritorno al liberalismo di sinistra, con uomini meno compromessi e anche un po' meno cassandre.

"Ma molti in quel momento, pensarono come lui, che quella era per i conservatori, l'occasione buona per una definitiva sterzata a destra, con una completa liquidazione delle correnti di estrema sinistra che -secondo i retrivi - minacciavano da qualche tempo l'unità del paese. E dato che in quell'ora buia, era in gioco anche la stessa monarchia, "era possibile che il giovane re si lasciasse sfuggire questa occasione?"
C'erano, dunque, molte buone ragioni per stringere i freni, per limitare ancora di più certe libertà; i crespini, i pelluxiani, forse appoggiati dai cannoni di Beccaris, avrebbero trionfato. Ma i colpiti, la piazza, il popolo come avrebbe reagito?

Invece non accadde nulla. Cioè secondo l'intima logica del popolo italiano, le cose cominciarono finalmente a raddrizzarsi. L'uccisione di Umberto richiamò bruscamente e tragicamente gli italiani al senso della loro responsabilità e dei loro interessi".
"E anche il giovane re fu di questo avviso. Invece della sterzata a destra, scelse la via di sinistra, in un momento in cui, di fatto se non di diritto, la sua opinione aveva valore decisivo" (1).

Ma innanzi tutto fu la grande saggezza del vecchio ottantenne Saracco a salvare quel giorno il Paese da una guerra civile. Proviamo a pensare cosa sarebbe successo, se in quelle 48 ore di vuoto, al governo sedeva un Crispi o un Pelloux; avrebbero subito gridato "Ecco, cosa vi dicevamo! Che bisognava reprimere, reprimere, reprimere! Le nostre preoccupazioni non erano infondate!". E avrebbero aperto le caserme, messo in stato d'assedio il Paese, e con Bava Beccaris a sparare con il cannone ad alzo zero, su assembramenti di tre persone e anche su conventi dei frati, come accadde realmente a Milano.

Invece senza la repressione, senza gli eserciti nelle strade, non accadde nulla. Poi dicono che la "piazza" non fa la politica! Semmai sono i politici che non fanno la piazza. ("Il popolo se vuole fa quello che vuole" questa è una frase proprio di Vittorio Emanuele III, in un altro fatidico giorno: 25 luglio 1943. E anche allora "non accadde nulla". "bruscamente gli italiani quel giorno furono richiamati al senso della loro responsabilità"…"secondo l'intima logica del popolo italiano". La politica di venti anni si squagliò come neve al sole. Dei dieci milioni, più nessuno era fascista! "Ma anche i 150 mila fedelissimi della guardia nazionale?" chiese con sgomento il giorno dopo il Duce defenestrato; "Si anche quelli! e molti gerarchi si sono messi già a disposizione del Re" fu la risposta).

Dunque, l'immatura e violenta morte di Umberto I portava sul trono, a 31 anni, VITTORIO EMANUELE III. Lui era nipote di quel Vittorio Emanuele II che, irruente era sempre sceso in campo a cavallo con la spada sguainata. Ed era figlio di Umberto che invece si era regolato in modo del tutto diverso; salvo quando da giovane fu a fianco del "battagliero" padre, lui con la "bellissima" regina, con la perfetta "consorte di rappresentanza", avevano cercato la popolarità, partecipando vivamente alla vita esteriore del Paese; i due avevano cercato di incarnare un ideale di regalità grandiosa, convinti che nel Paese della gloria e dell'arte, la regalità dovesse essere fastosa e munifica.
Del periodo "eroico" del padre più nulla, niente battaglie, cariche di cavalleria, frasi storiche, caporali d'onore, medaglie al valore, gloriosi quadrati; in un quarto di secolo imperversò solo il "Margheritismo", dalla "pizza" al "cannone", dal "cappellino" alla "rivista" ecc. ecc. tutte le cose preferite dalla sovrana tutto era alla "moda di Margherita". Lei, riesuma il carnevale romano, diventa la "regina" di mille sfarzose feste; il Quirinale una grande sala da ballo, sempre più frequentata dall'aristocrazia nera romana, da tempo in quarantena a fare compagnia ai sacrestani del Papa, ma che in breve tempo perde colore, sedotta dalla effervescente sovrana che "danza con piacere", "cammina musicalmente con certe pause magistrali, quasi wagneriane". E non erano assenti nelle feste a corte, baldi ufficaili prussiani, e tipi come i Bulow, i repubblicani come Nicotera, i Poeti, i lacchè e tanti altri.

Lui, Vittorio Emanuele III, vivendo a Napoli, appartato da questa vita, con un fisico antieroico, un forte complesso d'inferiorità per la sua statura, aveva capito che quella non era né la sua strada, né la sua vita. Il pettegolezzo e la maldicenza di cui il nonno, il padre, la madre e lui stesso erano stati vittime, introverso com'era diventato fin da bambino, lo avevano aiutato a capire.

Così distaccato dalle cose interne, che quando salì sul trono in questa fatale circostanza, doveva concepire un disprezzo sentimentale per quella caotica classe politica che il padre gli aveva lasciato in eredità, in mezzo a intrighi, scandali elettorali, bancari, clientelari e anche tante piccole miserie, che non avevano più nulla a che vedere con il patriottismo delle eroiche lotte risorgimentali; le lotte semmai da sostenere, dimenticando in blocco tutta la retorica militaresca, erano le immanenti pressioni sociali; e queste realistiche realtà il giovane Re le colse all'istante.

Non accadde nulla quel giorno, né accadde qualcosa nei successivi 12 anni; i tempi favorirono un re e un ministro (Giolitti): due geni della moderazione, che fin dal primo giorno della tragedia sdrammatizzarono ogni cosa. Fu l'incontro di due uomini e di due caratteri: un re adatto a quel ministro e un ministro adatto a quel re. Il primo aveva 31 anni l'altro 58, ma entrambi appartenevano ad una nuova generazione e ad un nuovo secolo; che guardava in avanti e non indietro.
Furono dodici anni di pace operosa nella vita di una nazione; che proprio partendo dall'anno più "oscuro", iniziò ad essere una nazione moderna; con un re silenzioso e appartato e un ministro montanaro iperattivo, piccolo borghese di Mondovì Dronero, che conosceva i poveri del suo paese senza abbandonarsi al romanticismo sociale, e conosceva i ricchi che nei piccoli centri come Mondovì non possono lasciarsi prendere dalla volontà di potenza. La moderazione era la costante necessaria alla provinciale società piccolo borghese.
E anche la vita familiare di Vittorio Emanuele III, era in un certo senso, il modello della società piccolo borghese alla quale il nuovo secolo aveva aperto le porte.

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VITTORIO EMANUELE era nato a Napoli 1' 11 novembre del 1869 (questa singolare nascita l'abbiamo già accennata nelle pagine di quell'anno
( < < E ANCHE NELLA BIOGRAFIA DI UN RE).
Piccolo, gracile, bruttino, ma d'ingegno pronto e vivace, era stato rigidamente educato (alla prussiana) dal colonnello Egidio Osio (un ex addetto militare in Prussia).
Aveva con grande profitto studiato l'italiano, il latino, il francese, l'inglese, il tedesco, la storia, la geografia, la filosofia, le scienze, la musica, il disegno, l'arte militare, il diritto civile amministrativo, costituzionale e internazionale; si era dato con passione allo studio della numismatica, in cui più tardi doveva acquistare grande fama per la magistrale opera "Corpus Nummorum Italicorum".
Raccoglieva le monete e le descriveva in un minuzioso e scientifico catalogo.

Risero molti per quel catalogo di "monetine". Ma se i cronisti e gli storici si lasciassero guidare da un po' di curiosità umana, forse non pronuncerebbero dei giudizi così affrettati. La numismatica, è certamente, una disciplina secondaria e sussidiaria. Essa, tuttavia, coltiva ed esalta parecchie tendenze. Il numismatico si introduce nella storia delle epoche e del Paese attraverso la vita economica; le variazioni del peso e del valore lo informano con esattezza sulla maggiore o minore prosperità di un certo Paese in una certa epoca, sui suoi traffici, sui suoi costumi; la bellezza del conio e dei profili gli danno un'esatta nozione del livello di cultura, di arte e di progresso di quel Paese. Insomma, noi siamo sicuri che un valente numismatico è un uomo dotato di profonda cultura storica ed economica.

E l'eloquente aspetto del carattere di Vittorio Emanuele III, è appunto questo; nella storia e nell'arte del nostro Paese egli non entrava attraverso gli eroi e gli artisti, ma attraverso le monete. E lo stesso Risorgimento lo doveva sentire non come un mito, ma come realtà storica.
Se ci fu uno che davanti ai suoi occhi vide decomporsi la mitologia del Risorgimento, che vide rimpicciolire gli uomini nei loro intrighi, brogli, scandali e piccole miserie in cui si frantumava la vita democratica, questo fu proprio Vittorio Emanuele, nei suoi primi 31 anni, stando fuori dalla politica, ma osservandola da un posto privilegiato.

Insomma era un uomo di cultura, insolita nella sua casa; all'opposto del padre e del nonno, che si vantavano di non aver mai letto un libro; loro erano convinti che era il "diritto divino", la "provvidenza", che guidava i loro passi, quindi non c'era bisogno di letterati e ingegni umani in casa Savoia, per modificare il corso della loro esistenza o la storia dei Sabaudi.
Le armi anche quelle le mandava Iddio, perché "… Ho spesso udito che qualche volta Dio nei suoi alti e imperscrutabili fini, qualche volta si serve di un re per castigare un papa, o un papa per castigare un re; strumento della Provvidenza usato per quei fini che superano l'umana penetrazione" (è un concetto espresso al Papa da Vittorio Emanuele II).

Con il "prussiano" alle costole (che non parlava a vanvera quando diceva "Il principe può fare tutto quello che voglio io") il regale fanciullo senza compagni di giochi, fratelli o amici coetanei, il suo tutore lo trasformò in un uomo imperscrutabile, freddo e di poche parole. Era nato e vissuto a Napoli ma non aveva di sicuro nulla del partenopeo. Nel 1887, diciottenne era entrato nell'esercito con il grado di sottotenente di fanteria; nel 1897, con il grado di tenente generale, aveva assunto il comando del X Corpo d'Armata.
Un giornalista, Scarfoglio dopo averlo visto in testa a una rivista militare scrisse "possibile che quel tenentino con un pentolino in testa debba rappresentare 25 milioni di uomini?".
Ma forse non c'era bisogno di ricordarglielo, che era piccolo, un nano quasi, (era alto 1,50) se ne rendeva conto da solo: o in casa guardandosi allo specchio, o fuori guardando i suoi sottoposti quasi sempre dal basso verso l'alto.
Guglielmo per umiliarlo ancora di più lo riceveva circondandosi con ufficiali minimo alti 1,90.

Poi la svolta. Il 24 ottobre del 1896 aveva sposato la principessa Elena Petrovich del Montenegro, con un matrimonio "moltissimamente sobrio"; essendo Re di Napoli, sul "Mattino", il solito Scarfoglio, risentito, il giorno dopo titolò il suo pezzo "le nozze coi fichi secchi""In fin dei conti -scrisse- "piccolo o non piccolo era pur sempre il Re di Napoli che si sposava, che diamine!".
Fu quel matrimonio preso dagli espansivi partenopei come uno sgarbo.
La giustificazione ufficiale fu "a causa dei recenti lutti di Adua".

C'era invece dell'altro.
Il matrimonio era un po' anomalo. ELENA PETROVIC-NIEGOS, era nata a Cettigne l'8 gennaio 1873, figlia di Nicola I Petrovic-Niegos, "vladika" (che si proclamerà più tardi Re nel 1910 del Montenegro nato il 25 settembre 1841 morto il 1° marzo 1921) e di Milena Petrovna Vucotic (nata il 22 aprile 1847 morta il 16 marzo 1923) . Costei, era una patrizia russa, e proprio per questo, fece studiare le sue cinque figlie nel collegio della corte imperiale e, dandosi da fare, riuscì a darle a ciascuna un marito principesco. E così ne cercò uno anche per Elena; e in Italia Crispi non aspettava altro.
Ma la famiglia era di religione ortodossa, ed essendoci ancora forti contrasti tra la Santa Sede e il Regno Sabaudo, il Vaticano si era opposto nel far precedere una cerimonia ortodossa a Cettigne. La coppia giunta in Italia per le nozze, sbarcò a Bari, dove il 19 ottobre avvenne l'abiura di Elena alla chiesa di San Nicola e abbracciò il cattolicesimo; il celebrante non era un'autorità della Chiesa, ma un semplice abate, PISCITELLI TALOGGI.

Ed è lo stesso abate che salirà nella Capitale, per celebrare a Roma (dopo quelle civili, e che il Vaticano ha ritenuto uno sgarbo) il 24 ottobre 1896 le nozze religiose a Santa Maria degli Angeli. Alla basilica di San Pietro, il Vaticano ha detto un bel "No". Né il Papa ha mandato una berretta cardinalizia al matrimonio, celebrato senza fasti, e con l'assenza perfino della madre della sposa, Milena, in dissidio per quella "abiura preventiva" pretesa dai Savoia o forse imposta dalla Chiesa.
Scarfoglio le chiamò "nozze coi fichi secchi"; Farini invece commentò subito al matrimonio "Officina il clero di seconda mano, o dei giorni lavorativi".
Colajanni, fece invece uscire la "Rivista Popolare" con l'editoriale in bianco, censurato. I morti di Adua c'entravano poco.

Qualche deluso nel vedere la modesta nuova principessa, scrisse "creatura dolce e gentile, ma non certo una Elena greca, infiammatrice di cuori". Né mancarono i commenti popolari "La nostra regina è sempre la più bella". In effetti la montenegrina era sì bella ma senza esagerazione, era gentile, alta e regale come persona, ma era timida e impacciata, nonostante avesse studiato allo Smolny, il collegio dell'élite imperiale russa. Al matrimonio la toilette di Margherita surclassò quella della sposa, che fra l'altro -per la sprovvedutezza delle sue accompagnatrici montenegrine- comparve con un bouquèt fatto di crisantemi; e come ultima gaffe, l'abate celebrante ignaro del cerimoniale reale chiamò il "basso" principe, "vostra altezza..." dimenticando di far seguire il "...reale".

Eppure, fu quello, uno dei matrimoni più riusciti nella cronaca della dinastia. Le virtù di questi due sposi nessuno le ha mai messe in dubbio. Mai è colato il veleno della maldicenza su quest'unione. I due vissero insieme quarantanove anni; i primi anni in una serenità perfetta, con un ritmo di vita placida e appartata, quasi da anonimi borghesi. Poche cerimonie, niente vita mondana; lui letture, monete, fotografia e con lei viaggi, tanti viaggi.
Poi… la corona turrita, poi la guerra, e proprio lui che non era nato e odiava fare il soldato, diventò il "Re soldato" (che sarebbe stato più giusto, dato che la retorica la detestava, parlare di "re borghese"); poi la politica a rotta di collo, i periodi turbolenti, la fine, e infine in esilio la morte in Egitto, con accanto la sua Elena.

Di Elena, Vittorio Emanuele si era innamorato veramente, e si sostenne che era stato un matrimonio "senza l'aiuto della politica". Invece questo matrimonio fu combinato da Crispi, perché quelle nozze -combinate nel '95- erano propizie per le sue trame politiche nei Balcani. Prima ancora che il Principe, incontrasse le Petrovic, le foto delle due probabili candidate spose erano già state visionate da Crispi e dai due regali genitori. La candidata non era blasonata, ma era una buona pedina del Crispi per un "trait d'union" con l'Est Europeo. Era povera, ma graziosa. Bastava ora farli incontrare. Era Elena di religione ortodossa? nessun problema, sarebbe bastato farla abiurare.
Il principe ebbe il suo primo incontro con Elena, sua sorella e sua madre alla Biennale di Venezia del '95 (le Petrovic non vi erano andate casualmente!). Poi il Principe, Elena la rivide pochi mesi dopo, nel giugno '95 a Pietroburgo, all'incoronazione di NICOLA II; "fa di tutto per restare attaccata al principe" scrisse la regina di Romania. E il principe non rimase indifferente alla corte di questa ventitreenne graziosa -e alta- fanciulla; fino al punto che in quei giorni nel suo diario moscovita scrisse "Ho deciso! Me la sposo!". Il 18 agosto 1896, è a Cettigne a chiedere la mano di Elena al burbero padre. Il 19 ottobre i due fidanzati partirono per l'Italia diretti a Bari.

Celebrato il matrimonio -che abbiamo già accennato sopra- il principe, invece di mettersi a fare il soldato tutto casa e caserma e a dare ordini con quell'odioso tedesco che gli aveva insegnato il filo-prussiano Osio, diede sfogo ai suoi gusti personali con una vita raccolta e borghese, placida e appartata, nella sua residenza a Napoli, dov'era nato; niente vita mondana, niente caserme, niente divise e niente politica.
Grande appassionato di viaggi, visita la Svizzera, la Germania, la Russia, l'Inghilterra, l'Egitto, la Siria, la Palestina, la Turchia, la Grecia, la Serbia, la Romania.
In questi Paesi, a Londra, Parigi, Berlino, Pietroburgo, le visite d'obbligo lui le fa, ma occupandosi allora i sovrani attivamente di politica estera, per ragioni di protocollo, solo loro personalmente trattavano le cose più importanti. Il Principe quindi non faceva altro -se qualche volta parlava di politica- che seguire le istruzioni del suo governo, come un qualsiasi ambasciatore. Ma anche nei successivi 12 anni non risulta che V.E. III abbia mai agito in contrasto col suo governo in fatto di politica estera. E lo poteva fare, lo Statuto Albertino glielo permetteva.

La coppia tarderà ad avere figli. E già si temeva che il cugino (dal lato paterno) Filiberto di Savoia duca d'Aosta, andato in sposo a Elena Luisa Enrichetta di Orleans (matrimonio 25 giugno 1895 - fastoso, e che non volle posticipare) diventasse lui l'erede (o la sua prole maschile nel frattempo già nata - Amedeo (nato 21 ottobre 1898) e Aimone (nato 9 marzo 1900), quando la coppia reale, con Vittorio nel frattempo diventato improvvisamente Re, dopo l'assassinio del padre Umberto, inizia la figliolanza; prima con due femmine, poi il tanto desiderato erede maschio, poi altre due femmine-

Si trovava appunto in viaggio, nelle acque del Pireo, tra le Cicladi e le Sporadi a bordo dello yacht Yela, quando il principe ereditario apprese la dolorosa notizia dell'assassinio del padre. Ci vollero due giorni per rintracciarlo e appena ebbe a disposizione un telegrafo -e non aveva dunque vicino nessun uomo politico che lo consigliasse- telegrafò al presidente del consiglio per rinnovargli la sua fiducia e approvare il suo operato. Per Saracco fu un sollievo, e per entrambi, primo pensiero fu quello di rafforzare il governo che aveva, naturalmente, ricevuto una tremenda scossa. Né poteva bastare a calmare le acque la retorica che scorreva in quei giorni a fiumi sui giornali.

Il 31 luglio, verso sera, l'erede al trono sbarcò a Reggio Calabria e raggiunse in treno Monza. Qui, il 2 agosto del 1900, il piccolo uomo giudicato fisicamente e moralmente incapace, riconfermò in carica il gabinetto Saracco, e lanciò il suo proclama alla Nazione, che riportiamo integralmente:

"Italiani ! Il secondo Re d'Italia è morto! Scampato per valore di soldato dai pericoli delle battaglie, uscito incolume per volere della Provvidenza dai rischi affrontati con lo stesso coraggio a sollievo di pubbliche sciagure, il Re buono e virtuoso è caduto vittima di un atroce misfatto, mentre nella tranquilla e balda coscienza partecipava alle gioie del suo popolo festante. A me non fu concesso di raccogliere l'estremo respiro del Padre mio. Sento però che il mio primo dovere sarà quello di seguire i paterni consigli e di imitare le sue virtù di Re e di primo cittadino d'Italia! In questo supremo momento d'intenso dolore, mi soccorre la forza che mi viene dagli esempi del mio Augusto Genitore e del Gran Re, che meritò di essere chiamato il Padre della Patria, e mi conforta la forza che ricevo dall'amore e dalla devozione del popolo italiano. Al Re venerato e rimpianto sopravvivono le istituzioni, che Egli conservò lealmente e giunse a rendere incrollabili nei ventidue anni del suo regno. Queste istituzioni, sacre a me per le tradizioni della mia Casa e per amore caldo d'Italiano, protette con mano ferma ed energica da ogni insidia o violenza, da qualunque parte esse vengano, assicureranno, ne sono certo, la prosperità e la grandezza della Patria. Fu gloria del mio Grande Avo l'aver dato agli Italiani l'unità e 1'indipendenza; fu gloria del mio Genitore, averle gelosamente custodite; la mèta del mio Regno è segnata da questi imperituri ricordi. Così mi aiuti Iddio e mi consoli l'amore del mio popolo, perché io possa consacrare ogni mia cura di Re alla tutela della libertà ed alla difesa della Monarchia, legate entrambe, con vincoli indissolubili ai supremi interessi della Patria.
Italiani ! Date lagrime ed onore alla sacra memoria di Re Umberto I di Savoia, voi che l'amaro lutto della mia Casa dimostraste di considerare ancora una volta come lutto domestico vostro! Codesta solidarietà di pensieri e d'affetto fu e sarà sempre il baluardo più sicuro del mio Regno, la migliore guarentigia dell'unità della Patria, che si compendia nel nome augusto di Roma intangibile, simbolo di grandezza e pegno d'integrità per 1'Italia. Questa è la mia fede, la mia ambizione di cittadino e di Re!".

Poi in Senato, il "piccoletto" s'impose con un'aria così superba che nessuno gli conosceva; rifiutò il discorso redatto dal primo ministro Saracco e dal consiglio dei ministri, li ringraziò della loro fatica, e lesse quello che aveva scritto lui; che rispondeva esattamente all'idea che si era fatta sulla situazione politica, ma guardandola attentamente e con distacco dall'esterno e non dall'interno dove lui non c'era mai entrato

L' 11 agosto, VITTORIO EMANUELE III, nell'aula del Senato, prestò il giuramento quindi, spesso interrotto da applausi vivissimi, pronunziò il "suo" discorso, che è doveroso riportare interamente:

"Signori Senatori, Signori Deputati ! Il mio primo pensiero è per il Mio Popolo, ed è pensiero di amore e di gratitudine. Il Popolo che ha pianto sul feretro del Suo re; che affettuoso e fidente si è stretto attorno alla Mia Persona, ha dimostrato quali salde radici abbia nel Paese la Monarchia liberale. Da questo plebiscito di dolore traggo i migliori auspici del Mio Regno. La nota nobile e pietosa, che sgorgò spontanea dall'anima della Nazione all'annunzio del tragico evento, mi dice che vibra ancora nel cuore degli Italiani la voce del patriottismo, che inspirò in ogni tempo miracoli di valore. Sono orgoglioso di poterla raccogliere. Quando un popolo ha scritto nel libro della Storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più alte idealità. Ed è a fronte alta e mirando alle più grandi idealità che mi consacro al Mio Paese con tutta l'effusione ed il vigore di cui mi sento capace, con tutta la foga che mi danno gli esempi e le tradizioni della Mia Casa. Sacra fu la parola del Magnanimo Carlo Alberto, che elargì la libertà, sacra quella del Mio Grande Avo, che compì l'unità d'Italia. Sacra altresì la parola del Mio Augusto Genitore, che in tutti gli atti della sua vita si mostrò degno erede, delle virtù del Padre della Patria. All'opera del Mio Genitore diede ausilio ed aggiunse grazia e splendore quella della Mia Augusta Genitrice che m'istillò nel cuore e m'impresse nella mente il sentimento del dovere di Principe e di Italiano. Così all'operar mio si aggiungerà quella della Mia Augusta Consorte, che, nata anch'essa da forte prosapia, si dedicherà interamente alla Sua Patria di elezione. Dell'amicizia di tutte le Potenze abbiamo avuto eloquente prova nella partecipazione al Nostro lutto con l'intervento di Augusti Principi e di Illustri Rappresentanti; ed Io mi dichiaro a tutti che ne sono profondamente grato. L' Italia fu sempre efficace strumento di concordia, e tale sarà ancora durante il Mio Regno, nel fine comune della conservazione della pace.

Ma non basta la pace esteriore. A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buona volontà per rivolgere le nostre forze intellettuali e le nostre energie economiche. Educhiamo le nostre generazioni al culto della Patria, all'onesta operosità, al sentimento dell'onore; a quel sentimento cui s'ispirano con tanto slancio il Nostro Esercito e la Nostra Armata, che vengono dal Popolo e sono pegno di fratellanza, che congiunge nell'unità e nell'amore della Patria tutta intera la Famiglia Italiana. Raccogliamoci e difendiamoci con la sapienza delle leggi e con la vigorosa loro applicazione. Monarchia e Parlamento procedono solidali in quest'opera salutare. Signori Senatori, Signori Deputati! Impavido e sicuro ascendo al Trono con la coscienza dei miei diritti e doveri di Re. L'Italia abbia fede in ME come IO ho fede nei destini della Patria; e forza umana non varrà a distruggere ciò che i Nostri Padri hanno, con tanta abnegazione, edificato. È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare intatte le grandi conquiste dell'unità e della Libertà, e non mi mancherà la forte iniziativa e l'energia dell'azione, per difendere vigorosamente le gloriose istituzioni del Paese, retaggio prezioso dei nostri maggiori. Cresciuto nell'amore della Religione e della Patria, invoco Dio in testimonio della Mia promessa, che da oggi in poi il Mio cuore, la Mia mente, la Mia vita offro alla grandezza e alla prosperità della Patria".

Concetti chiari e coraggiosi e così aderenti alla realtà del Paese e dell'ora, che il governo non poté che inchinarsi.
La solenne promessa di rispettare le libertà costituzionali, scaturita liberamente dal suo cervello, fatta in questo momento, significava respingere nettamente le "tesi" "reazionarie" e aderire nettamente alla "tesi" della "sdrammatizzazione".

E se molti dopo l'attentato si aspettavano una grande svolta a destra, furono tutti delusi; il Re scelse, la via (in parte da qualche tempo già tracciata) della sinistra di Giolitti e Sonnino.

Prima di occuparci di questo importante mutamento della politica italiana, che inizia storicamente il 4 febbraio 1901 (quando Giolitti polemicamente interviene sullo scioglimento della Camere del lavoro di Genova, e parla di un "nuovo" governo) occupiamoci di altri fatti accaduti nel corso dell'anno e negli ultimi due mesi dell'anno in cui, nonostante nulla è cambiato alla maggioranza della Camera, vi è già la conferma di una svolta in senso liberale del governo.

DISCUSSIONE ALLA CAMERA SUL DISEGNO
DI LEGGE PER LA TUTELA DEGLI EMIGRANTI
SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA DEL LAVORO DI GENOVA E SUA RICOSTITUZIONE
DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA DEL GOVERNO
CADUTA DEL MINISTERO SARACCO.

Negli ultimi due mesi del 1900 si discussero alla Camera i bilanci. Verso la fine di novembre iniziò il dibattito su un disegno di legge di Visconti-Venosta che mirava a tutelare gli emigranti e istituiva un Commissariato dell'emigrazione. Illustrando il suo disegno, nella tornata del 27 novembre, VISCONTI-VENOSTA disse:
"L'emigrante è la merce su cui si esercita la speculazione degli intermediari. La speculazione va a cercarlo nel tugurio per fargli balenare le speranze dell'avvenire, lo accompagna e lo sfrutta fino al porto d'imbarco, lo segue nella traversata e al suo arrivo lo consegna ad un'altra speculazione, che è là ad aspettarlo, per abusare della sua inesperienza, per spingerlo agli incauti contratti, per mandarlo ad imprese talvolta destinate a disastri. E questa emigrazione non può dirsi nemmeno interamente libera.

"L'emigrante parte sotto il peso di una dura necessità: ignorante, incosciente spesso non sa nemmeno il luogo dove va; e più tardi la lontananza, la solitudine, l'impossibilità del ritorno possono fare del suo lavoro una vera schiavitù .... L'emigrazione non deve essere lasciata al regime sfrenato della speculazione, ma deve esser posta sotto il regime della tutela sociale. Accettare l'emigrazione come un fatto del nostro sviluppo economico, aiutarla, dirigerla, fare di quest'opera un grande servizio pubblico: tale è il concetto che informa il presente disegno di legge".

Il disegno sull'emigrazione fu combattuto dall'on. PANTALEONI, ma trovò un valido difensore nell'on. LUZZATTI e fu approvato.

Con la nuova legge il 31 gennaio del 1901, fu poi istituito il Commissario generale sull'emigrazione al fine di disciplinare il forte flusso migratorio.
I dati dell'ultimo censimento, terminato, quattro giorni dopo, il 4 febbraio, rivelarono che dall'ultimo censimento del 1881, erano emigrate dall'Italia 2.251.436 persone, la maggior parte -il 67%- con destinazione gli Stati Uniti.

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LO SCIOPERO IN LIGURIA

Il 20 dicembre di quello stesso anno1900, il prefetto di Genova GARRONI, avutane l'autorizzazione dal Governo, per ragioni d'ordine pubblico (c'era il sentore di qualche sciopero) sciolse la Camera del Lavoro di quella città. Una decisione governativa inopportuna. I lavoratori genovesi, per protesta, proclamarono lo sciopero generale, che durò quattro giorni, poi si estese a tutta la Liguria, e fu il primo grande sciopero generale esteso ad una regione. Ebbe termine quando il Governo, preoccupato dei danni che la continuazione dello sciopero avrebbe portato al commercio e all'industria della nazione, permise la completa ricostituzione della Camera del Lavoro. Per i lavoratori fu un successo non da poco!

La condotta del Governo con quell'ordine dato al prefetto di Genova, fu aspramente rimproverata da "tutti" i partiti. Il 4 febbraio, alla Camera, provocata da una mozione dell'on. DANEO sul contegno tenuto dal Governo nello sciopero genovese, iniziò un'accesa discussione sulla politica generale del Ministero. Quasi tutti gli oratori furono concordi nel deplorarla, i conservatori chiamandola "fiacca e incerta", gli estremi dicendola "reazionaria". Questi ultimi erano anche irritati da un disegno di legge contro gli anarchici presentato al Senato.
Non erano già più i tempi di Crispi.

I discorsi più importanti furono quelli di GIOLITTI e di SONNINO, che aspiravano entrambi alla successione dell'on. Saracco. Il primo spezzò astutamente una lancia in favore delle organizzazioni operaie, e precisò il suo pensiero sull'azione che il Governo doveva svolgere di fronte ai conflitti tra capitale e lavoro. Il secondo pur proponendo qualcosa come Giolitti, fu piuttosto fumoso.

I due (aspiranti a premier) sulla stampa avevano avuto poche settimane prima uno scambio d'idee sul nuovo corso da dare alla politica.
SONNINO il 16 settembre sulla "Nuova antologia", in un articolo ("Quale agendum?") aveva delineato un programma di riforme con l'intento di trovare l'appoggio della grande maggioranza liberale. Prospettava un "governo forte", e la necessità di alcune riforme economiche, giuridiche e sociali.

GIOLITTI il 23 su "La Stampa", con l'articolo "Per un programma e per la unione dei partiti liberali", gli rispondeva accettando la proposta fatta dal Sonnino di un accordo tra le forze liberali, ma riteneva troppo generiche le altre sue proposte. "La prima cosa urgente da fare - disse chiaro e tondo- era una riforma tributaria; quella era la vera causa del malcontento popolare, e anche la più pericolosa; poi molto sinteticamente aggiunse "questa riforma deve nascere dal doveroso coraggio di chiedere alle classi ricche di sopportare il peso di eventuali nuove spese".

Con questi articoli e poi con i due discorsi, l'on. SARACCO si accorse di avere contraria la maggior parte della Camera, ciononostante l'ottantenne senatore, volle difendersi strenuamente e pronunciò un discorso forte, coraggioso, abile e pieno di onesta sincerità, che sì gli procurò applausi ma non valse a salvarlo dalla caduta. Neanche Di RUDINÌ riuscì a salvare il Ministero. Gli onorevoli FULCI e MASSINI presentarono un emendamento alla mozione DANEO con il quale "non si approvava l'azione del Governo nei fatti di Genova", e il 6 febbraio del 1901 l'emendamento fu approvato dalla Camera con uno "tonfo": 318 voti contro 102.
Al Gabinetto Saracco non gli rimase altro da fare che dare le dimissioni.
Qualcosa stava insomma cambiando.

Ce ne occuperemo nel prossimo capitolo.

Ora torniamo a qualche mese prima della morte del Re.

Prima del "fattaccio", cioè prima dell'estate, un fatto nuovo venne a distrarre l'opinione pubblica. L'eccidio degli europei in Cina

LA RIVOLTA XENOFOBA IN CINA E L'AZIONE DELLE FORZE INTERNAZIONALE
PARTECIPAZIONE DELL'ITALIA ALLA SPEDIZIONE IN CINA
L'AZIONE DEI MARINAI E DEI SOLDATI ITALIANI NELL' ESTREMO ORIENTE
LA CONCESSIONE ITALIANA ALLE SPONDE DEL PEI--HO

Nel maggio del 1900, provocati dalla società segreta dei Boxers e del governo imperiale, scoppiarono a Pao-ting-fu, in Cina, gravissimi tumulti contro gli stranieri, che in poco tempo si estesero in quasi tutte le province cinesi del nord. Ci furono massacri orribili contro gli occidentali: frati, monache, missionari furono assaliti, uccisi, torturati, chiese e case religiose incendiate e distrutte; fu data la caccia ai bianchi e a tutti gli indigeni che avevano abbracciato il Cristianesimo; ucciso il barone VON KETTELER, ministro di Germania; assaliti a Pechino i palazzi delle legazioni estere e a tutti fu appiccato il fuoco, salvandosi solo quello della legazione inglese, dove trovarono riparo numerosi europei.

La reazione delle potenze civili fu immediata. Verso la metà di giugno navi inglesi, russe, tedesche, francesi, austriache, giapponesi ed americane, presentatesi davanti a Ta-ku ne bombardarono i forti, iniziando le operazioni contro Tien-tsin, che il 14 luglio fu espugnata.
Il 2 luglio il ministro degli esteri italiano aveva espresso l'ipotesi di una partecipazione alla spedizione internazionale. Ci furono interpellanze alla Camera, e Visconti Venosta sottolineò la necessità di intervenire con un corpo di spedizione. Non vi furono problemi; il 7 la Camera approvava l'invio di truppe italiane in Cina.
In poche ore l'Italia allestì e fece partire alcuni battaglioni e si mise all'opera per preparare navi ed altre truppe.
L'impressione dell'opinione pubblica fu enorme. I giornali ogni giorno in prima pagina riportavano i raccapriccianti fatti; e nonostante la recente delusione africana, la spedizione fu immediatamente popolare e accompagnata da una generale simpatia.
La forte componente emotiva c'era; le principali vittime erano missionari cattolici, monaci e monache. E proprio per questo motivo si verificò un fatto singolare. Il Papa autorizzò il vescovo di Napoli ad impartire la benedizione alle truppe partenti; che così ebbero per la prima volta nella storia dell'Italia Unita, sulla banchina l'augurio del Re e la benedizione del Papa.
In Cina gli Italiani sbarcarono il 23 agosto presso Ta-ku.

Intanto da Tien-tsin, i distaccamenti europei, giapponesi ed americani avevano iniziato a marciare su Pechino, dove entrarono il 15 agosto, costringendo la corte imperiale e le truppe cinesi a fuggire e liberando gli europei assediati nella legazione inglese e nella cattedrale di Pe-tang.
Nel medesimo tempo, d'accordo con il Giappone e gli Stati Uniti, allo scopo d' infliggere una grave punizione alla Cina, le varie potenze europee allestirono una spedizione sotto il comando del maresciallo tedesco WALDESSEE. Più che vere e proprie azioni di guerra le truppe internazionali si misero a compiere terribili rappresaglie, vendicando con altrettanti massacri i massacri dei cristiani.

Nel dicembre s'iniziarono trattative di pace, che si conclusero il 7 settembre del 1901 con un trattato con il quale il Governo cinese si obbligò ad erigere un monumento commemorativo sul luogo in cui era stato ucciso il barone VON KETTELER, a mandare a morte i principali colpevoli della rivolta xenofoba, a proibire l' importazione di armi nel territorio cinese, a pagare alle Potenze, un'indennità di 450 milioni di taels, a consentire che il quartiere delle Legazioni fosse fortificato e sorvegliato da un corpo di polizia delle Potenze, le quali ebbero la facoltà di occupare parecchi punti tra Pechino e la costa, ed infine a proibire sotto pena di morte la costituzione di società xenofobe.

All'azione delle Potenze contro la Cina, come abbiamo detto sopra, partecipò anche l'Italia. Al bombardamento e alla presa dei forti di Ta-ku presero parte le navi italiane "Elba e "Calabria. Più tardi altre navi si aggiunsero a queste due (Fieramosca, Vettor Pisani, Stromboli e Vesuvio), che furono messe sotto il comando dell'ammiraglio CANDIANI. Drappelli di marinai italiani, tra cui si distinse il tenente di vascello SIRIANNI, fornirono magnifiche prove di coraggio, di resistenza e di disciplina nel tentativo dell'ammiraglio inglese SEYMOUR di soccorrere le legazioni estere a Pechino, nella presa di Tien-tsin, nell'assedio delle legazioni e del Pe-tang e nell'occupazione di Pechino.

Alla spedizione internazionale l'Italia partecipò con due battaglioni, uno di fanteria al comando del tenente colonnello TOMMASO SALSA e uno di bersaglieri agli ordini del maggiore LUIGI AGLIARDI. Il piccolo corpo ebbe come capo supremo il colonnello VINCENZO BARIONI.

Il corpo di spedizione partito da Napoli il 13 luglio, sbarcò il 23 agosto presso Ta-ku, quindi marciò su Tien-tsin e, un mese dopo, su Pechino. Prese parte poi alle azioni di Pao-ting-fu, di Cu-nan-Shien e di Kalgan, dando prova di grandissima disciplina e di grande valore sì da meritarsi gli elogi del maresciallo Waldersee.
Infine - e questo forse è l'elogio migliore - nei saccheggi e nelle rappresaglie di ogni sorta perpetrati dalle truppe internazionali, quelle italiane furono forse le sole che non commisero abusi.

SIRIANNI, di cui abbiamo già accennato, si guadagnò per la sua bravura l'Ordine Militare di Savoia; cavaliere dello stesso ordine fu nominato il colonnello GARIONI. Degno di essere qui ricordato è il marchese SALVAGO RAGGI, ministro italiano a Pechino, che nel gennaio del 1901, fece occupare sulla sinistra del Pei-ho un territorio di circa 46 chilometri quadrati, con una popolazione di 17 mila abitanti territorio che con trattato del 7 giugno del 1902, fu concesso dal Governo cinese all' Italia.

Il 13 luglio come dicevamo sopra, si era recato a Napoli a salutare i partenti UMBERTO I, che li arringò con queste parole:
"A voi, pronti a salpare, vi porto il mio saluto, e con il mio quello della Patria bene augurante alla fortuna delle vostre armi. Non a conquista, ma solo a difesa del sacro diritto delle genti e dell'umanità calpestata voi vi recate in una lontana regione, dove la nostra bandiera è stata oltraggiata. Alla vostra missione, come già altre volte, avrete come compagni i soldati delle più potenti nazioni del mondo. Siate con loro buoni camerati, e sappiate tener alto il prestigio dell'esercito italiano e l'onore del nostro Paese. Andate dunque fiduciosi, io vi accompagno con il cuore e Iddio benedirà, la vostra impresa".

Dopo la partenza del primo convoglio il re e la regina ritornarono a Roma il giorno 19; tempo di fare i bagagli, celebrare il 20 la festa onomastica di Margherita, per poi partire per Monza dove giunsero il 21; qui avrebbero fatto una sosta una decina di giorni, per poi proseguire il 1° agosto, nella Val d'Aosta dove abitualmente passavano gran parte dell'estate.
Ma ad attendere UMBERTO I a Monza, c'era già Bresci e…la Morte.
Più il dramma di un Paese, quasi sull'orlo di una guerra civile o di una rivoluzione da qualche tempo temuta.

Abbiamo interrotto sopra, prima di questi ultimi fatti,
con le dimissioni di SARACCO.
E a queste dimissioni e al nuovo governo ora dobbiamo ritornare…

… periodo dal 1901 al 1903 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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