ANNO 1927

OVRA
LA POLIZIA POLITICA DI MUSSOLINI
l'organizzazione segreta che durante il fascismo dava la caccia ai "nemici del regime".
Fondata a Milano nel 1927, la sua copertura era…

"ANONIMA VINICOLA MERIDIONALE"

di ILARIA TREMOLADA


La Gazzetta Ufficiale del luglio 1946 pubblicò i nomi dei 622 confidenti dell'Ovra

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"Signori: è tempo di dire che la polizia non va soltanto rispettata, ma onorata.
Signori: è tempo di dire che l'uomo, prima di sentire il bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell'ordine. In un certo senso si può dire che il poliziotto ha preceduto, nella storia, il professore, perché se non c'è un braccio armato di salutari manette, le leggi restano lettera morta e vile. Naturalmente ci vuole il coraggio fascista per parlare in questi termini."


Un Mussolini assolutamente fiero e baldanzoso recitava queste parole nel discorso che poi sarebbe passato alla storia come discorso dell'Ascensione, il 26 maggio 1927, segnando così il termine di un percorso di crescita della dittatura fascista e dell'apparato di polizia politica al suo interno che iniziato nel 1922 sarebbe culminato cinque anni dopo nella creazione dell'Ovra. Della storia che si cela dietro questa sigla piuttosto misteriosa ed enigmatica, parleremo più tardi, non prima cioè di avere visto, anche se brevemente, come si arriva alla costituzione di questo apparato che in qualche modo anticipa i servizi segreti, onnipotenti e sconfinati, che verranno organizzati nel secondo dopo guerra dai paesi più potenti del mondo.

L'11 novembre 1922 il quadrumviro Emilio De Bono veniva nominato, da Mussolini, intendente generale di polizia. In questa veste egli orienta i lavori dell'apparato statale preposto al controllo dell'ordine pubblico secondo gli interessi fondamentali del fascismo e lo fa innanzitutto dichiarando lotta aperta a tutti i nemici del partito dominante: "Non credo
di indicare per speciali attenzioni i comunisti piuttosto che i repubblicani o i popolari. Lo Stato può avere nemici pericolosi anche fra gli uomini che più ostentano devozione allo Stato stesso e alla Patria".
Nei due anni in cui fu alla guida della polizia, De Bono rese operativo un servizio di vigilanza sui sovversivi (che in particolare sorvegliava le azioni dei comunisti) attivo sia in Italia sia all'estero. La dittatura era però solo agli esordi ed era inoltre abbastanza lontana dall'essere uno stato totalitario. Molte strutture avevano ricevuto un'organizzazione in verità mutuata da quelle già esistenti prima dell'avvento del fascismo. Alcune di queste strutture avrebbero ben presto subito le modifiche imposte dalla creazione di un regime totalitario che nelle intenzioni di Mussolini avrebbe dovuto permeare di sè tutta la società.

La prima sferzata alle istituzioni del vecchio stato liberale, che fino ad allora non avevano praticamente subito modifiche rilevanti, venne insieme alla crisi provocata dal delitto Matteotti. Pochi mesi dopo l'uccisione del leader socialista, il 3 gennaio 1925, il duce pronunciò il famoso discorso che rompendo ogni indugio ammetteva le responsabilità squadriste dell'assassinio e proclamava l'inizio della cosiddetta "dittatura a viso aperto". Le prime indagini sul delitto Matteotti svelarono l'esistenza di una sorta di polizia segreta interna al partito fascista, la Ceka, che prendeva il suo nome dall'italianizzazione della sigla della polizia politica sovietica ed era nata un anno prima dall'incontro tra una decina di squadristi violenti, fanatici e disposti a tutto, e il capo Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, Cesare Rossi. Quest'ultimo era il tramite tra l'organizzazione e il Primo Ministro ed era inoltre il responsabile del servizio di reclutamento degli informatori, spesso scelti negli ambienti giornalistici.

La Ceka di cui facevano parte tra gli altri, il toscano Amerigo Dumini e i milanesi Amleto Poveromo, Aldo Putato, e Albino Volpi era una vera e propria struttura parallela che poi si scoprì essere responsabile di una lunga serie di reati di aggressione che rientravano in una strategia preordinata mirante all'eliminazione di tutti quegli elementi che venivano giudicati pericolosi per il fascismo. Numerosi furono i pestaggi commessi nell'ambito di questa strategia della violenza. Si possono ricordare l'aggressione del 29 agosto 1923 al dissidente fascista Alfredo Misuri, la devastazione dell'abitazione dell'ex presidente del Consiglio Nitti, che avendo colto il messaggio intimidatorio sotteso all'azione violenta decise di lasciare l'Italia poco dopo, e il 12 marzo 1924, a poche settimane dalle elezioni si colloca il pestaggio di Cesare Forni promotore di un'eterodossa lista di fascisti pavesi poi lasciato morire alla stazione ferroviaria di Milano.

Se fino ad allora avendo colpito persone di minore rilevanza istituzionale (tranne Nitti che però fu solo, si fa per dire, vittima di un'aggressione), la Ceka aveva potuto continuare ad agire indisturbata, con il delitto Matteotti si apriva una scena completamente nuova che avrebbe cambiato la forma dello stato fascista e il suo atteggiamento verso tutto ciò e tutti coloro i quali avevano già mostrato di non aderire al progetto mussoliniano. La prima ed immediata conseguenza del delitto fu la fine della condizione di organo segreto di cui la Ceka aveva fino ad allora goduto, la sua messa sotto inchiesta e la defenestrazione di De Bono che perse il posto di capo della polizia, affidato poi a Crispo Moncada.

Il processo istituito per indagare sui retroscena del delitto chiamò a testimoniare i membri della Ceka ai quali vennero però comminate pene assai lievi, indice della volontà di coprire e allo stesso tempo legittimare un movimento di polizia segreta che svelava in parte i meccanismi occulti di controllo della società. La mano leggera verso lo squadrismo, ancora così vitale, contrastava con il giro di vite che in breve tempo Mussolini avrebbe dato nei confronti dell'attività di tutti i partiti antifascisti, dei loro organi di informazione e di tutto ciò che in qualche modo poteva nuocere al nuovo stato fascista.
La costituzione di quest'ultimo prese avvio con il discorso del 3 gennaio 1925, già ricordato sopra, e continuò nei mesi successivi attraverso la dichiarazione di illegalità di tutte le formazioni partitiche e dei loro quotidiani. Cominciava un processo di instaurazione della dittatura che avrebbe coinvolto anche la polizia. Dopo che Mussolini ebbe stroncato la peraltro debole opposizione legale, l'ostilità al fascismo continuò ad esprimersi attraverso l'azione solitaria e maldestra di individui che tentarono di uccidere il duce. Nessuno degli attentatori, tranne una vecchia signora irlandese, Violet Gibson, che riuscì a colpire il dittatore di striscio con un colpo di pistola, ebbe fortuna.

Nonostante la vena dilettantistica che traspariva in modo neanche troppo velato da queste goffe azioni, esse misero in rilievo l'inefficienza della prevenzione di competenza degli organi di polizia e l'inadeguatezza della direzione di Crispo Moncada, immediatamente travolto da una raffica di critiche che lo indussero a dimettersi il 13 settembre 1926. Tra 1926 e '27 questa strategia degli attentati sortì però l'effetto contrario a quello che forse gli organizzatori si erano immaginati. Fornì infatti a Mussolini un ulteriore pretesto per accentuare le misure di repressione e partire con una nuova azione liberticida. Si trattò nello specifico di un pacchetto di leggi, dette fascistissime ed emanate nel novembre '26, che cancellarono ciò che rimaneva della vita democratica.
Naturalmente tra i provvedimenti legislativi c'era anche un Regio Decreto che riformava le strutture preposte al controllo dell'ordine pubblico e alla lotta contro l'antifascismo potenziandone le competenze e l'organizzazione. Nasceva così, all'interno della segreteria del capo della polizia, la Divisione polizia politica, finalizzata alla razionalizzazione della lotta contro l'antifascismo, attraverso la raccolta d'informazioni fiduciarie sugli oppositori, di competenza della Divisione affari generali e riservati che aumentò il numero dei propri informatori. Questi ultimi svolgevano una vera e propria attività spionistica: penetravano nelle strutture ormai clandestine dei partiti all'opposizione, puntando soprattutto al partito comunista che del resto era stato l'unico ad avere la forza di riorganizzarsi nella totale clandestinità, mirando a distruggerne le cellule che si disseminavano più o meno su tutto il territorio nazionale.

La nuova e potenziata struttura fu affidata ad Arturo Bocchini. Figura centrale per le vicende dell'organizzazione poliziesca tra la metà degli anni Venti fino all'ingresso in guerra dell'Italia, l'ex prefetto di Brescia si circondò di collaboratori scelti per lo più tra quelle province del sud dalle quali anch'egli proveniva. In questo modo egli mantenne in vita un giro di clientele paesane che seppure non gli facessero onore spiegano però molti dei caratteri della struttura stessa. Questi informatori reclutati nel profondo sud dovevano poi lavorare in una realtà così lontana dalla loro da impedire a volte che essi, chiamati ad infiltrarsi nelle strutture clandestine dell'antifascismo, potessero capirne e quindi smascherarne logiche e scopi segreti. Manovriero per carattere e abile nel gestire le fila di un'organizzazione estesa e dai compiti delicati, Bocchini ridusse la polizia a feudo privato dal quale lo allontanò solo la morte (1940) quando il fascismo era ormai in declino.

Al suo interno, la polizia ebbe una segreteria personale del capo e sette Divisioni. Tra queste ultime la più importante, quella cioè alla quale erano affidati gli incarichi più delicati, era la Divisione di polizia politica che gestiva la rete spionistica formata all'inizio da oltre 300 informatori (negli anni successivi e fino al '43 sarebbero più che triplicati). Con un tale ed imponente apparato di controllo, la vita quotidiana venne messa sotto stretta osservazione da parte dei funzionari divenuti, dopo la ristrutturazione, uno strumento di governo, come ebbe a dire Mussolini nel discorso dell'Ascensione poc'anzi citato. In questa occasione la polizia politica ebbe la propria consacrazione di organo fondamentale dello stato e con la gestione sapiente di Bocchini poté anche assicurarsi una certa indipendenza dal partito fascista e dai suoi controlli.
Dopo avere assunto il nuovo incarico, l'ex Prefetto di Brescia creò l'Ispettorato generale di polizia, il cui primo nucleo, affidato alla direzione dell'ispettore generale di PS Francesco Nudi, fu costituito il 27 maggio 1927 a Milano in via Sant'Orsola 7. Veniva creata così, apparendo come Società anonima vinicola meridionale, la 1° Zona Ovra che aveva competenza su Lombardia, Veneto, Piemonte, Val d'Aosta, Venezia Giulia e Liguria, cioè sulle regioni che più predisposte ad accogliere l'attività antifascista.

Sebbene la denominazione delle zone abbia corso nei documenti ufficiali già dalla data ricordata sopra, essa verrà in qualche modo ufficializzata solo nel dicembre 1930, quando, a conclusione di una importante operazione contro il gruppo milanese di Giustizia e Libertà tutto l'ispettorato avrebbe preso quel nome. Fu Mussolini a legittimarne l'uso e lo fece con un documento del 2 dicembre 1930 che informando del buon risultato ottenuto dalla polizia iniziava così: "La sezione speciale dell'Ovra della Direzione generale di Pubblica Sicurezza…". Il duce non ha mai spiegato cosa volesse dire quella sigla misteriosa, ma sembra che parlando con Bocchini abbia detto che era sicuro che quel nome "avrebbe fatto colpo ed avrebbe acceso le fantasie". Non c'è studioso del fascismo che non si sia chiesto quale sia stato il vero significato che si nascondeva dietro ad un nome circondato di mistero almeno quanto lo fu in quegli anni la polizia politica per ragioni di sicurezza e per la segretezza che richiedeva il lavoro che svolgeva. Alla fine, dopo la realizzazione di varie opzioni interpretative, la più accreditata è stata quella che vedeva in Ovra l'acronimo di Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascismo.

I nuovi ispettorati concentrarono le maggiori energie nella lotta ai comunisti. A parte i gruppi, comunque abbastanza innocui, di altre formazioni partitiche che si erano organizzate per svolgere una poco consistente attività di disturbo al regime, la struttura costruita dai dirigenti del PCI era capillare e ben inserita nelle maglie della società fascista. Poteva oltretutto contare su un centro di coordinamento estero con sede a Lugano e su un centro interno affidato a Camilla Ravera. Occorreva quindi una lotta estesa che ebbe come principali esecutori gli informatori della polizia. Usando una rete di agenti infiltrati, gli ispettorati riuscirono a catturare alcuni militanti comunisti e a portare a termine alcune grosse operazioni.

Una di queste è la cattura dello svizzero Karl Hofmaier avvenuta il 26 ottobre 1927. Al momento dell'arresto, "Max" (era lo pseudonimo usato da Hofmaier nel suo lavoro) ricopriva da oltre un anno il ruolo delicato e importante di tramite tra i nucleo lombardi, il vertice del partito e l'Internazionale. Durante i suoi ripetuti viaggi a Milano e in altre città del nord, "Max" consegnava e distribuiva materiale propagandistico, raccoglieva i dati delle adesioni e concordava insieme ai dirigenti interni la ridefinizione delle strutture cospirative. Avendone individuato i traffici sovversivi, la polizia lo seguì per lungo tempo e il 26 ottobre '27 mentre compiva un giro di spostamenti tra Pavia, Genova, Milano, venne arrestato dagli agenti in borghese alla stazione di Como. "Max" tentò di spacciarsi per turista, ma la sua valigetta piena di lettere e rapporti per il centro estero lo tradì senza possibilità di scampo.

Nei giorni successivi la polizia fascista faceva cadere nella propria rete anche il responsabile del Soccorso rosso, Guglielmo Jonna e l'informatore di Togliatti, Gastone Sozzi. Inoltre, fu scoperto e posto sotto sequestro il laboratorio attrezzato dal partito per la falsificazione dei documenti. La conseguente cattura di altri elementi chiave dell'organizzazione mise in seria difficoltà la rete clandestina che il PCI aveva così abilmente intessuto nell'Italia settentrionale. Questa fu poi ulteriormente indebolita dal passaggio di Jonna, dopo l'arresto, alla collaborazione attiva con la polizia. All'inizio l'ex responsabile della rete solidaristica comunista continuò a condurre un pericoloso doppio gioco che gli valse un processo al termine del quale ritrattò la sua fede con queste parole: "Fin dall'età giovanile ho cullato nell'animo il pensiero socialista: era però un'idea vaga, che si riassumeva in una smisurata passione per tutto ciò che parlava di fratellanza e di umanità. Nell'ottobre 1927 venni arrestato a Torino […]. Il mio stato d'animo è apparso subito al funzionario che ebbe a interrogarmi. Offrii la mia modesta opera per combattere le teorie comuniste e da quel giorno sono al servizio del mio benefattore."

Solo allora Jonna cominciò seriamente a fornire notizie di prima mano alla polizia di Bocchini. Fornì notizie sui quadri del partito, sulle sedi clandestine, sui metodi di lavoro, sui cifrari segreti, sui collegamenti con il centro estero e con l'Internazionale. Oltre che come fiduciario della polizia, l'ex comunista lavorò fino al '43 anche come archivista della 1° Zona Ovra.
Sebbene questo primo periodo di attività avesse mostrato le qualità della sapiente organizzazione data da Bocchini alla polizia fascista, purtroppo però le cose non andarono sempre allo stesso modo. Il primo insuccesso operativo e investigativo si ebbe con l'episodio che si sviluppò intorno all'esplosione di una bomba posta in un lampione stradale di piazzale Giulio Cesare a Milano, il 12 aprile 1928. Morirono 14 persone e 30 rimasero ferite a soli 15 minuti dal passaggio di un corteo reale.
La polizia non perse tempo e già poche ore dopo l'accaduto era al lavoro. Le indagini si aprirono a tutto campo con l'arresto immediato di tutti coloro che anche lontanamente sembravano essere i responsabili di quanto accaduto.

Dopo il fermo dei due coniugi che facevano i portieri nello stabile di fronte al quale c'era il lampione dove era stata messa la bomba, era però abbastanza chiaro che la polizia non aveva una pista da seguire e al contrario, pur di mostrare il proprio zelo, seguiva l'idea di Mussolini, secondo la quale era meglio agire, anche se non si sapeva cosa cercare, piuttosto che rimanere inattivi. Informazioni sui presunti responsabili arrivarono anche dall'estero. Dopo una quindicina di giorni il centro propulsore delle indagini si spostò da Milano a Roma sotto la diretta responsabilità di Bocchini. Purtroppo però neanche questo provvedimento fu utile alla risoluzione del caso. Si seguirono insieme la pista anarchica e quella comunista, ma tutte le ipotesi tracciate dai confidenti risultarono presto, ad un esame più attento, del tutto inventate. Nuovi arresti vennero eseguiti anche durante i mesi di maggio e giugno, ma dato che le autorità di polizia brancolavano nel buio, non trovarono niente di meglio da fare che denunciare al Tribunale speciale per la difesa dello stato, in qualità di responsabili della strage di Milano e di altri attentati minori, 15 persone i cui nomi erano il risultato di un'indagine tanto approssimativa quanto errata. A suggello della sconfitta del servizio di polizia la commissione istruttoria del Tribunale speciale ritenne tuttavia di non poter aprire un processo penale per insufficienza di prove.

Poco più di un anno dopo l'Ovra replicò la cattiva prova peggiorandola e ponendo in essere ciò che da uno storico viene definito "… l'insuccesso più bruciante mai inflitto all'apparato repressivo del regime". Si trattava dell'evasione dal carcere dell'isola di Lipari di Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e Carlo Emilio Rosselli. La fuga avvenuta il 27 luglio 1929, dopo un anno di accurata preparazione, sollevò di fronte all'opinione pubblica internazionale il problema dei prigionieri politici italiani, e l'arrivo a Parigi dei tre giovani antifascisti avviò una nuova fase della lotta contro la dittatura, con la costituzione del movimento di Giustizia e Libertà nato nella capitale francese nell'autunno dello stesso anno.
( su "Giustizia e Libertà" vedi PAGINE DEDICATE )
Il movimento si distinse per l'energia con la quale faceva propaganda antifascista e per l'intraprendenza con la quale allestì una complessa rete clandestina nelle città dell'Italia centrosettentrionale e in Sardegna.

Il gruppo milanese fu tra i primi ad essere costituito. Venne gestito da Ernesto Rossi, rientrato dalla Francia per dedicarsi alla lotta contro il fascismo e da Riccardo Bauer. La vita di questa cellula di Giustizia e Libertà divenne l'obiettivo primario del lavoro dell'Ovra, lavoro che poi ebbe, nell'ottica interna della polizia, ottimi risultati e divenne, valutando l'attività del ventennio nel complesso, l'impresa più importante portata a termine da questi nuclei speciali. Vediamone gli sviluppi.

L'intensa attività svolta dal nucleo di GL insospettì fin da subito le autorità preposte al controllo della pubblica sicurezza. Nella primavera del 1930 furono numerose le segnalazioni fatte dal prefetto e dal questore di Milano all'Ispettorato dell'Ovra. Quest'ultima mise in moto la sua macchina utilizzando come fiduciario un personaggio assai ben integrato, l'avvocato milanese Carlo Del Re, "… soggetto dalla personalità inquieta ed enigmatica, fornito d'intelligenza e astuzia non comuni." Il nuovo fiduciario si mise subito al lavoro, anche se lo fece, all'inizio, utilizzando un intermediario. Fu quest'ultimo ad avvisare Nudi (responsabile dell'Ispettorato Ovra Zona di Milano) che il fiduciario infiltrato nel gruppo di Giustizia e Libertà era stato incaricato di acquistare dieci movimenti di orologeria da inserire in alcune bombe incendiarie preparate a Milano dal tecnico e chimico Ceva. Era l'11 ottobre.

Una volta completati, questi ordigni esplosivi sarebbero serviti per "compiere atti terroristici alla vigilia della celebrazione della Marcia su Roma, provocandone l'accensione negli uffici del governo ed in quelli delle agenzie delle imposte di determinate città quali Milano, Roma, Genova, Firenze ed altre".
Sotto gli occhi di Del Re le bombe vennero provate nelle campagne bergamasche. Pochi giorni dopo egli stesso consegnò i meccanismi che doveva procurare a Riccardo Bauer (questi aveva impiantato nella sua casa di piazza Cadorna 4 a Milano una stazione radioricevente e trasmittente per comunicare con Parigi). Nel frattempo il fiduciario Del Re aveva fatto anche il nome del professor Ernesto Rossi, insegnante presso l'Istituto tecnico di Bergamo, indicandolo come uno dei maggiori esponenti, se non il principale, del movimento in Italia. Il 26 ottobre Del Re spiegava, in un documento, le successive fasi della vicenda. Durante la preparazione delle bombe qualcosa non andò come avrebbe dovuto e una piccola combustione ne rovinò in modo irreparabile il buon funzionamento. Sorse allora il problema di come sbarazzarsi di questi residui. Si decise di gettare tutto nel fiume. Del Re propose una strategia alternativa che prevedeva il ritorno a Milano per recuperare delle taniche nelle quali nascondere gli ordigni. Il fiduciario avrebbe così avuto il tempo e il modo per informare la polizia di quanto successo e per consentire un intervento diretto in casa di Ernesto Rossi.

La soluzione proposta non venne però neanche presa in considerazione e si decise di recarsi direttamente al fiume. Il fiduciario Ovra partì con Ceva e con gli agenti in borghese alle spalle. La macchina che trasportava le bombe si fermò a metà del ponte del Brembo dove gli agenti della polizia del duce videro il compagno di Del Re che sceso dalla macchina si sbarazzava delle bombe. Nessun attentato dinamitardo poteva più essere compiuto e forte di questo la polizia politica emise mandati di cattura per Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Raffaele Cantoni e altri ancora. I primi due vennero individuati come la mente della struttura antifascista e incolpati di cospirazione contro il regime. Attraverso lo studio dell'attività del nucleo milanese di Giustizia e Libertà l'Ovra riuscì a ricostruire le trame ordite tra questa cellula e il fuoriuscitismo francese e svizzero in connessione con l'antifascismo interno.

L'unione delle forze permise la creazione di una rete che organizzava propaganda nelle fabbriche, distribuiva materiale propagandistico e progettava, nel corso di riunioni segrete, un'insurrezione contro i poteri dello stato allo scopo di abbattere il fascismo. Al termine del processo, Ernesto Rossi e Riccardo Bauer vennero condannati a vent'anni di reclusione, gli altri imputati ottennero pene minori, mentre Ferruccio Parri venne scagionato dalle accuse per insufficienza di prove. Del Re venne considerato latitante e pertanto non fu rinviato a giudizio. Continuò invece a fare il confidente della polizia politica e dopo la caduta del fascismo passò a lavorare nei servizi di sicurezza del III Reich.
Ernesto Rossi, dopo la liberazione scoprì le tresche di quello che credeva un vero collaboratore e pubblicò nel 1955 l'intero carteggio che Del Re aveva indirizzato all'Ovra con il titolo Una spia del regime.

Pochi anni dopo, nel marzo 1934, l'operazione appena portata a termine contro la cellula di Milano si ripeté a danno del nucleo Giustizia e Libertà di Torino. Fra gli arrestati ci fu Leone Ginsburg, Cesare Colombo, Marco Segre, Attilio Segre, Carlo Levi e Giuseppe Levi. L'operazione fu però di minor rilievo.
Negli anni successivi l'Ovra venne potenziata e riorganizzata. Nel 1936 ci fu una prima riforma che rivedeva, dando loro una nuova impostazione, i rapporti tra la polizia politica, prefetti e questori. A questa seguì due anni dopo l'emanazione di un "decalogo" che riorganizzava il lavoro dei fiduciari. L'autore della razionalizzazione fu il nuovo direttore della Divisione polizia politica, Guido Leto.

Le dieci regole, che secondo quanto diceva il documento, nessun informatore avrebbe mai dovuto dimenticare si rifacevano all'oggettività dell'informazione, alla segretezza del lavoro e alla massima cura nel criterio di scelta dei propri informatori. Infine per completare il quadro di salute dell'Ovra tra la fine degli anni '30 e i primi anni '40 non si può dimenticare il potenziamento degli organismi della polizia che fu voluto come ultimo atto prima della morte, nel giugno '40, dall'instancabile ed efficiente Bocchini che affermava di mirare ad una "più completa e vasta azione di vigilanza in tutti i settori che comunque potevano interessare la difesa dello Stato". Nelle parole di Bocchini era contenuta una chiara presa di visione di come l'attività dell'Ovra fosse cambiata negli anni. Secondo l'analisi del capo della polizia, poiché le organizzazioni antifasciste erano meno pericolose che in passato, gli ispettorati dovevano orientare la loro attenzione verso la società, al fine di offrire al regime il quadro esatto dello spirito nazionale:
"Sondare con ogni mezzo e continuamente la pubblica opinione, sfruttando la capacità di osservazione dei Funzionari, agenti che debbono permanere negli uffici il minor tempo possibile, che debbono sviluppare conoscenze e relazioni in tutti gli ambienti, spostandosi abitualmente nelle rispettive giurisdizioni per osservare, ascoltare, controllare, sviluppare le notizie apportate dagli informatori e inviate dal Ministero. L'Ovra dev'essere un organo agile e duttile che lavora con la massima celerità e precisione, che colpisce con prontezza ed energia, che previene offese e pericoli, che precede l'avversario in tutti i campi operando con fede, accortezza e tecnica."

Il dittatore, regolarmente aggiornato sul lavoro svolto dagli ispettori speciali, poteva così rendersi conto in tempo reale della "temperatura del paese". Tale funzione informativa fu ampiamente vantata da Guido Leto in toni sempre molto enfatici.
Dopo la morte di Bocchini la direzione della polizia politica venne assunta da Senise. L'Italia aveva già cominciato la sua tragica avventura in guerra. Davanti a questa prova, l'Ovra fu nuovamente potenziata, ma le difficoltà di un'azione condotta mentre il paese era in guerra finirono per portare l'intero apparato a concentrarsi in modo tanto maniacale quanto inutile sui servizi informativi. Il sospetto di complotto contro una dittatura molto indebolita dalla guerra venne esteso a persone insospettabili.

Per quanto Mussolini si ostinasse a cercare una difesa contro i nemici interni, che alla fine sferrarono l'attacco mortale al fascismo, questi erano davvero insospettabili in quanto alleati durante tutto il ventennio della dittatura. Intanto la guerra infiacchiva il morale della popolazione italiana facendo calare bruscamente la fiducia che pure un popolo intero aveva riposto nel duce. Il 25 luglio una specialissima seduta del Gran Consiglio del Fascismo decretò per ordine del Re la fine del governo dittatoriale di Benito Mussolini. Il nuovo primo Ministro Badoglio scelse la via della continuità. Guido Leto rimase a capo della Divisione polizia politica insieme ad altri dirigenti che non si posero problemi di nessuna sorta, mentre qualcuno, scelse di seguire il duce nell'impresa di Salò
.
Al termine della guerra toccò allo stato repubblicano far sparire tutto ciò che ancora rimaneva della dittatura, cercando di lenire il dolore ancora vivo in tanti italiani. I metodi utilizzati e i risultati ottenuti sono ugualmente discutibili. Anche la polizia politica ebbe a subire un processo di cancellazione che per quanto rivelano le fonti fu piuttosto poco profondo. Il 2 luglio 1946 venne pubblicata la lista ufficiale dei nominativi dei confidenti dell'Ovra approntata da una Commissione creata appositamente.
Essa conteneva inizialmente 900 nomi che poi per effetto di una duplice scrematura scesero a 622. Fu mantenuto un riserbo pieno di un assurdo rispetto per molti dei nomi contenuti nell'elenco più corposo. L'amputazione di quasi 300 nomi sollevò polemiche e critiche alle quali nessuno rispose. Non si poté capire con quale criterio la lista venne smagrita e il rimando al lavoro "di qualche laureando in lettere" che secondo Salvemini avrebbe potuto svelare, magari un cinquantennio dopo, i segreti dell'Ovra si scontra ancora oggi con la segretezza che sigilla gli archivi italiani.

ILARIA TREMOLADA

BIBLIOGRAFIA
* I tentacoli dell'Ovra, di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
* I servizi segreti del duce, di Romano Canosa, Arnoldo Mondadori, Milano, 2000
* Le polizie di Mussolini, di Franco Fucci, Mursia, Milano, 1985
* Da Roma a Mosca, di Giorgio Fabre, Edizioni Dedalo, Bari, 1990
* L'Ovra: fatti e retroscena della polizia politica fascista, di Franco Martinelli, G. De Vecchi, 1967


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