1929

parte 4



IL LUNGO DISCORSO CHE MUSSOLINI
PRONUNCIO' IL 13 MAGGIO ALLA CAMERA
(una lunghissima e interessante carrellata storica sui rapporti Chiesa-Stato)

"RELAZIONE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI
SUGLI ACCORDI DEL LATERANO"

(Atti del Parlamento Italiano. Camera dei deputati. Discussioni. 1929 - Volume I, pag. 129-154)

(prima parte: rievocazione storica - fino al 1870)

"Onorevoli camerati !
"Non è per una ovvia consuetudine che io comincio il mio discorso col mandare un ringraziamento alla Commissione dei diciotto che ha esaminato i disegni di legge, e particolarmente ai relatore onorevole Solmi, che ha compiuto opera sotto ogni aspetto egregia. Così pure voglio sottolineare la serenità e l'importanza della discussione che su questo delicato argomento si è svolta, e, come anticipazione, in sede di discussione sull'indirizzo di risposta ai discorso della Corona, e in sede di discussione dei disegni di legge.
Mi rammarico di non aver potuto ascoltare tutti i discorsi; però li ho letti nei testi stenografici e saranno tutti raccolti a mia cura e pubblicati dalla Libreria dei Littorio. La nazione italiana deve sapere che la discussione s'è svolta con grande dottrina, con fervida passione e che è stata degna dei temperamento politico di quest'Assemblea. Dico politico, poiché tale è la parola che definisce quest'Assemblea.

Il giorno in cui questa parola non avesse più senso, la sorte dell'Assemblea sarebbe segnata.
Tuttavia mi sia concesso di riprendere la formula con la quale l'onorevole Solmi chiudeva il discorso nella seduta di sabato. Egli ha detto « Chiesa libera e sovrana; Stato libero e sovrano ». Possiamo trovarci di fronte a un equivoco : è urgente quindi chiarire le idee. Questa formula potrebbe far credere che ci sia la coesistenza di due sovranità. Un conto è la città del Vaticano, un conto è il Regno d'Italia, che è lo Stato italiano. Bisogna persuadersi che tra lo Stato e la città dei Vaticano c'è una distanza che si può valutare a migliaia di chilometri, anche se per avventura bastano cinque minuti per andare a vedere questo Stato e dieci per percorrerne i confini. (Approvazioni).
Vi sono quindi due sovranità ben distinte, ben differenziate, perfettamente e reciprocamente riconosciute. Ma, nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera. Non è sovrana per la « contraddizione che nol consente »; non è nemmeno libera, perché nelle sue istituzioni e nei suoi uomini è sottoposta alla leggi generali dallo Stato ad è anche sottoposta alla clausola speciali dal concordato. Ragion per cui la situazione può essere così definita: Stato sovrano nel Regno d'Italia; Chiesa cattolica, con certe preminenze lealmente a volontariamente riconosciuta; libera ammissione dagli altri culti. Ciò precisato - ed io ritengo cha questa precisazione non vi sia dispiaciuta - passo innanzi nel mio preambolo.

Il mio discorso sarà analitico a documentato. D'altra parta, noi abbiamo posto fina ad una questione cha -ha affaticato non i decenni, ma i secoli. Non c'è nessuna esagerazione retorica nel dire cha per la Questione romana sono corsi fiumi d'inchiostro e si sono stampate montagne di carta. Il Signor Bastgen, tedesco, durante la guerra si è sottoposto alla fatica di raccogliere tutti i documenti concernenti la Questione romana. Ne sono usciti tra volumi ponderosi ad un supplemento di quattrocento pagina. Li ho letti tutti e ho potuto constatare che l'elenco non è completo, anche perché questo autore si è fermato al 1919. Mancano molti documenti cha figurano, ad esempio, nel Libro Verde, diramato nel 1870 dal ministro dagli Esteri del tempo, Visconti Venosta. Si calcola che non meno di mille siano i progetti cha, a distanza di tempo, sono stati lanciati all'opinione pubblica per risolvere la Questione romana : progetti seri a progetti strampalati, a seconda dei temperamenti e dei climi. Si era finito par concludere cha la Questione romana era uno di quei problemi statici, cronici, cha non hanno soluzione, coma la quadratura dal circolo. Si aggiungeva cha questa soluzione non potava avvenire in regime fascista, perché il nostro è un regime dittatoriale, perché ha fatto tabula rasa di molta ideologie, perché la vecchia diplomazia vaticana, onusta dalla esperienze di due millenni, non avrebbe dato credito al regime cha ha dieci anni di vita a sette di governo.
Il giorno stesso in cui si firmavano gli accordi del Laterano, qualcuno, nella sua trionfante e obesa stupidità con sicumera quasi dogmatica, diceva cha egli non credeva alla possibilità di questo evento. Viceversa, l'evento era già compiuto, realizzato. Sorpresa, giubilo, commozione, campana, fanfara, bandiere. A tre mesi di distanza questi ardori si sono naturalmente attenuati. Io vi farò quindi il discorso mano lirico possibile, il più freddo possibile; e sono sicuro che non vi stupirete se qua a là vedrete spuntare gli artigli della polemica.

Giova premettere ancora cha non v'è stata nessuna improvvisazione, nessuna precipitazione, nessun miracolo. Vi è stato il logico risultato di determinate premesse storiche, morali e politiche. Io ho continuato la strada che molti avevano percorsa fino ad un certo punto: essi non arrivarono in fondo, il fascismo v'è arrivato! Ma tutto, nella storia, si tiene, e se la natura non fa dei salti nel mondo fisico, non ne fa nemmeno nella storia degli uomini.

Prima constatazione : l'Italia ha il privilegio singolare, di cui dobbiamo andare orgogliosi, di essere l'unica nazione europea che è, sede di una religione universale. Questa religione è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina, molto probabilmente sarebbe stata una dalle tante sette che fiorivano in quell'ambiente arroventato, come ad esempio quelle dagli Essani e dei Terapeuti, e molto probabilmente si sarebbe spenta, senza lasciare traccia di sé. Il nostro collega Orano non ama i precursori e si batte valentemente contro il pracursorismo. Non si dorrà, dunque, se io, che ho letto nella prima e nella seconda edizione il suo pregevole libro “Cristo e Quirino”, gli ricordo che agli stesso addita un precursore dal cristianesimi nel poeta Orazio. Recentemente, un noto letterato, cha ha scritto una storia di Cristo molto famosa, ma forse non troppo cristiana, nel suo libro “Gli operai della vigna”, ritiene che ci siano altri due precursori del cristianesimo: Virgilio, e questo nome non vi stupisca, e Giulio Cesare, é questo forse vi potrebbe stupire di più.

Avendo ripensato la vita di questo straordinario Capitano, conquistatore dalla Gallie, e avendo avuto occasione di rileggere in questi ultimi tempi l'apologia di Giulio Cesare, fatta nel XVII secolo dal Guarino, mi sono convinto cha veramente quest'uomo era di una singolare bontà : è forse il primo romano cha ha il senso del prossimo. Quei formidabili inglesi dall'antichità che furono i romani, avevano la formula : « Io, ancora io, poi il mio cane, e finalmente il mio prossimo ». Non è varo, però, cha questa sia la formula di vita dai nostri amici inglesi contemporanei.
L'altruismo romano non usciva dai confini dalla “gens romana”; tutto il resto era barbaro, spregevole. Comunque, sta di fatto, e su questa constatazione tutti possiamo essere concordi, che il cristianesimo trova il suo ambiente favorevole in Roma. Lo trova, prima di tutto, nella lassitudine della classi dirigenti a delle famiglia consolari, che ai tempi di Augusto arano diventate stracche, grasse a sterili, e lo trova, soprattutto, nel brulicante formicaio dell'umanità levantina che affliggeva il sottosuolo sociale di Roma, e per la quale un discorso come quello della Montagna apriva gli orizzonti dalla rivolta a dalla rivendicazione.
Ma da queste constatazioni non bisogna parò trarre illazioni d'ordine contemporaneo. Qui è l'errore di qualche polemista, cha su questo argomento ha dissertato in questi ultimi giorni. Bisogna distinguere le mèta a la funzioni dal proselitismo chiesastico dagli ideali dalla nostra conquista imperiale.
Altra constatazione : nei primi otto secoli dal cristianesimo non vi è traccia di principato civile nella storia della Chiesa : ci sono soltanto, specialmente durante e dopo Costantino, alcune proprietà più o meno vaste che formano il nucleo primigenio del Patrimonio di San Pietro. Documenti dell'epoca assicurano che queste proprietà vennero lasciate da religiose, pietose persone non solo a Roma, ma in varie parti d'Italia e anche da individui che avevano bisogno di farsi perdonare i loro delitti e le loro ruberie.
Del resto la storia più sommaria ci dice che nei primi tre secoli il cristianesimo fu la religione di una minoranza mal conosciuta, mal tollerata e finalmente nonché intermittentemente perseguitata dagli imperatori. E solo negli anni 311-313 che viene elargita prima da Galerio, poi da Costantino e Licinio, col famoso editto di Milano, la libertà religiosa ai cristiani. Questo evento coincide colla terribile strage di tutti i discendenti delle vecchie famiglie imperiali - uomini, donne, fanciulli - ordinata da Licinio, dopo la disfatta e il suicidio di Massimino. Quindici secoli dopo, è accaduto qualche cosa di similmente orrendo in Russia, colla strage di tutti i Romanoff.
E Costantino che introduce il foro ecclesiastico. Talune delle agevolazioni concesse ai cristiani sul terreno civile daranno materia ai futuri concordati stipulati dalla Chiesa colle autorità civili. E solo attraverso le negoziazioni e gli atti tra Carlo Magno e Leone III si costituisce il principato civile dei Pontefici romani. Questo dura dieci secoli. Ma intanto, qual'è la situazione?
Roma non è più la capitale dell'impero, e nemmeno la capitale politica d'Italia; è la capitale religiosa di tutti gli italiani, di tutti i cattolici del mondo, ed è la capitale politica di quel piccolo Stato che è lo Stato pontificio. Dieci secoli di guerre, di paci, di disordini, di tumulti, di grandi eventi, di grandi miserie. Tre fatti dominano questo lungo percorso storico: la Riforma, il concilio di Trento e la cattività avignonese. Alla fine del decimottavo secolo, dopo la rivoluzione francese, due Stati, in Italia, si trovavano dolenti per consunzione dei loro tessuti organici: la Repubblica di Venezia e lo Stato pontificio.

La rivoluzione francese doveva urtare, dopo aver fatto tabula rasa di tutte le istituzioni religiose di Francia, contro lo Stato pontificio : e ciò accade nel 1796.
E’ il generale Bonaparte che suscita gli entusiasmi unitari degli italiani, appoggiandoli con le baionette.
E’ il generale Bonaparte che, in data 26 settembre del 1796, manda un messaggio ardentissimo al Senato di Bologna; che scrive, il 7 ottobre, agli abitanti di Reggio: «Coraggio, bravi abitanti di Reggio, formatevi in battaglioni, organizzatevi, correte alle armi; è giunto finalmente il tempo in cui anche l'Italia sia annoverata fra le nazioni libere e potenti ».
E il 10 dicembre dello stesso anno invia al congresso di Stato della Lombardia un proclama: « Se l'Italia vuole essere libera, chi mai potrà impedirglielo? ».
Il 1° gennaio del 1797, al congresso cispadano: « La misera Italia è da lungo tempo cancellata dalla carta delle potenze di Europa. Se gli italiani di oggi sono degni di riconquistare i loro diritti e di darsi un libero governo, si vedrà un giorno la loro patria figurare gloriosamente tra le potenze del mondo. Ma non dimenticate - aggiungeva - che le leggi nulla valgono senza la forza ».

Questi proclami suscitarono un entusiasmo immenso. Il non ancora ventenne Ugo Foscolo scriveva l'ode a “Bonaparte liberatore”. Osservate il contrasto tra le forze irrompenti dalla rivoluzione e lo Stato pontificio: contrasto che aveva condotto all'armistizio di Bologna, alle trattative di pace di Firenze, rinnegate poi dal Papa, il quale sperava nel soccorso dell'Austria, che si faceva regolarmente battere, e nel soccorso del Borbone di Napoli, che si ritirava sentendo il vento infido. Le Somme Chiavi erano nelle mani di un Papa incerto e oscillante, che non si rendeva ragione degli avvenimenti, di un cardinale che si chiamava Busca e di alcuni generali assai curiosi. Uno di essi, il Colli, si dimenticava i battaglioni, come noi potremmo dimenticare le chiavi di casa.

Accadde che al fiume Senio, nei pressi di Castelbolognese, fossero schierati due eserciti: quello pontificio era raccogliticcio, senza quadri. C'era un proclama col quale si imponeva agli oziosi e ai vagabondi di andare sotto le bandiere, che furono portate e benedette in San Pietro; in una fu inciso il motto di Costantino : « In hoc signo vinces ». Alcuni ufficiali si presentarono ai franco-italiani - poiché non bisogna dimenticare che c'erano già degli italiani in queste truppe napoleoniche - e fecero sapere che, se l'indomani mattina le truppe francesi avessero varcato il fiume, si sarebbe fatto fuoco.
Gli ufficiali dell'altra parte risposero che prendevano atto di questa gentile comunicazione, che intanto andavano a dormire e che di ciò si sarebbe riparlato al mattino. Al mattino accadde una tale fuga che tutto fu perduto: cannoni, uomini, stendardi; l'esercito si squagliò come neve al sole d'agosto. Dov'era il generale? A colazione a Roma dal duca Braschi, mentre l'altro generale, che doveva difendere Ancona, si poté ritrovare dopo molte e laboriose ricerche, in una casa di nobili signori mentre egli stava riavviandosi le abbondanti chiome.
Questi episodi vi dimostrano che non c'era più consistenza nel tessuto, che tutto andava sfilacciandosi e perdendosi. Bisogna considerare la pace di Tolentino del 19 febbraio 1799 come il primo colpo di campana funebre, che segnò l'inizio dell'agonia del principato civile del papato. Bisogna soffermarsi qualche istante per esaminare qual è stato l'atteggiamento di Napoleone nei confronti della Santa Sede. In un primo momento egli la rispetta, non occupa Roma, si ferma a Tolentino; malgrado le sollecitazioni atee e anticlericali del Direttorio, egli non spinge la sua azione fino in fondo. Difatti, nel concordato del 1801, si stabiliscono dei patti fra Pio VII e la Repubblica francese. La Chiesa, in quel momento, era così debole che rinunziò, in favore del Primo console, alla nomina dei vescovi, come risulta dall'articolo 4 del congresso. Nel concordato di due anni dopo con la Repubblica italiana è detto : « La religione cattolica apostolica romana continua ad essere la religione della Repubblica italiana ».
In un secondo tempo, Napoleone ritiene che il Papa possa giovare ai suoi piani di egemonia mondiale. Ma Pio VII gli fa sapere : «Se resto a Roma, sono il Papa; se mi trasportate a Parigi, voi non avrete che il monaco Barnabò Chiaramonti ».
E il momento in cui il Papa va a Parigi per incoronare l'imperatore.

Tutti ricordano le fasi di questo viaggio avventuroso: l'incontro fortuito tra Napoleone e il Papa, la cerimonia dell'incoronazione, quando Napoleone si fece attendere un'ora e mezzo, e parve annoiatissimo durante tutto il tempo della cerimonia, e non volle la corona dal Papa, ma da se stesso se la pose in testa. In questo momento Napoleone ritiene che il Papato gli possa giovare. Quando intavola negoziati, dichiara ai suoi ambasciatori: «Supponete che il Pontefice abbia dietro di sé duecentomila uomini ». Ma poi, siccome quello del Pontefice era un principato civile con territori, con porti, con una neutralità che era più o meno rispettata, ma sulla quale Napoleone, ad ogni modo, vigilava attentissimo, siccome tutto poteva nuocere o giovare a Napoleone nello svolgimento delle sue interminabili guerre, entriamo nella terza fase dei rapporti tra lo Stato pontificio e Napoleone, fase della rottura : piena, clamorosa, completa.

Vi prego però di considerare che quando Napoleone emanò a Schónbrunn, nel maggio 1809, il suo famoso proclama, nemmeno allora si spinse sino a Roma. Difatti:
All'articolo 1 dice: « Lo Stato del Papa è unito all'Impero francese ».
All'articolo 2: « La città di Roma, prima sede del cristianesimo, e sì celebre per antiche memorie e grandi monumenti che tuttora conserva, è dichiarata città imperiale e libera. Il Governo e l'amministrazione di essa saranno determinati da un particolare statuto ». All'articolo 6: « Le proprietà e i palazzi del Papa, non solo non saranno sottoposti ad imposizione, giurisdizione o a visita alcuna, ma godranno inoltre di immunità speciale ».

Voi sentite in questo decreto imperiale qualche cosa che vi ricorda la legge delle guarentigie del 1871. Pio VII risponde colla scomunica e Napoleone il 6 luglio dello stesso anno replica colla violenta cattura del Papa. Tuttavia Napoleone sembra riconoscere il suo errore, quando ritiene che il Papa debba essere lasciato a Roma. « Il Papa - egli dice - deve stare a Roma. Anzitutto perché non voglio essere il capo ecclesiastico della nazione. Si è troppo ridicoleggiato Robespierre. E poi, soprattutto, perché il Papa è il solo che possa aiutarmi nella mia opera di pacificazione interna e di espansione all'estero. Non quello che può stare a Berlino o a Vienna: il Papa è colui che sta in Vaticano: e non è come se fosse a Parigi. Forse che se il Papa fosse a Parigi i viennesi e gli spagnoli seguirebbero le sue decisioni? Ed io le seguirei forse s'egli fosse a Vienna o a Madrid? ».

Nel 1813, abbiamo l'ultimo concordato fra la Santa Sede e Napoleone; ma può essere interessante notare che questo concordato non durò più di due mesi. Pio VII lo denunciò ammettendo, tra grandi lamentazioni, di essersi « sbagliato ».
Il giudizio sulla politica ecclesiastica di Napoleone è dato dal ministro Talleyrand, l'obliquo e astuto Talleyrand, che non può essere disgiunto dalla storia movimentatissima di quel periodo storico. Egli dice, nel secondo volume delle sue memorie : « La distruzione del potere temporale del Papa con l'assorbimento dello Stato romano nel grande Impero era, politicamente parlando, un errore gravissimo. Salta agli occhi che il capo di una religione universalmente diffusa come la cattolica, ha bisogno della più perfetta indipendenza per esercitare imparzialmente il suo potere e la sua influenza. Nello stato attuale del mondo, in mezzo alle divisioni territoriali, create dai tempi, e alle complicazioni politiche risultanti dalla civiltà, quest'indipendenza non può esistere senza le garanzie di una sovranità temporale. Era insensato da parte di Napoleone il pretendere di fare del Santo Padre un vescovo francese. Che cosa sarebbe diventato allora il cattolicismo di tutti i paesi che non facevano parte dell'Impero francese? ».

Del resto, lo stesso Napoleone, nelle istruzioni al re di Roma, così giudicava la sua politica: « Le idee religiose hanno ancora molto impero, più di quanto non si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grandi servizi all'umanità. Essendo d'accordo col Papa - egli diceva - si domina ancora oggi la coscienza di cento milioni di uomini ».

Caduta di Napoleone. Congresso della Santa Alleanza. Ristabilimento del potere temporale dei Papi. Ma questo potere aveva già del piombo nell'ala; esso era già condannato dalla rivoluzione italiana, che continua, che ha i suoi episodi gloriosi del '20, del '21, del '31. La repressione molto severa delle Romagne non basta a fermare il moto. E' nel '43 che Gioberti stampa, a Bruxelles, il suo famoso libro : "Del primato civile e morale degli italiani". Nel '44, i fratelli Bandiera hanno la sublime malinconia di andare a morire combattendo contro i Borboni nelle Calabrie. Nel '44 escono il libro di Balbo : "Le speranze d'Italia”; e quello di D'Azeglio: “Sugli ultimi casi di Romagna”. Nel '46, sale alla tiara Pio IX.
Voi tutti conoscete l'entusiasmo immenso che i primi atti di questo Pontefice suscitarono nel mondo italiano e cattolico e le delusioni che ne seguirono, quando il Papa, nell'inverno del 1848, dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi, se ne andò a Gaeta. Tutte le potenze di Europa gli offersero ospitalità : la Repubblica francese gli offerse asilo; il Consiglio generale di Vaucluse gli offerse Avignone; il re di Sardegna incaricò il vescovo di Savona, monsignor Ricci di Netro, e il marchese di Montezemolo di offrirgli Nizza; il ministro degli Esteri spagnolo, don Pedro y Pidal, mandò una nota alle potenze per la convocazione di un congresso per fissare la sede del Papa. Altri Stati, come il Brasile, il Messico, l'Australia, gli offersero ospitalità.
Nel 1870 nessuno Stato offerse ospitalità al Papa, come vi dirò tra poco. Ma, intanto, la Repubblica romana, dopo aver organizzato il Governo, si trovò ancora di fronte alle difficoltà della coesistenza di due poteri nella stessa sede.
Vediamo come fu fronteggiato questo problema. Alle ore una del 9 febbraio 1849, sotto la presidenza del generale Galletti (e vi erano, tra i segretari della Costituente, persone egregie, e, tra gli altri, Quirico Filopanti, il cui nome suscita ancora qualche eco nelle terre di Bologna), si decretava: «Il Papa è decaduto di diritto e di fatto dal governo temporale dello Stato romano ». Sta bene. Ma l'articolo 2 del decreto aggiungeva : « Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale ». Questo parve troppo ad un signor Gabussi, deputato di Civitavecchia alla Costituente, il quale così insorse : « Riconoscere e constatare nel Papa il diritto di sedere in Roma come Pontefice, fu un pessimo, rovinoso precedente ».

Singolare anche quanto appare nel progetto di costituzione della Repubblica romana, discussa nel giugno del 1849, quando i francesi erano già sotto le mura della città, e si combatteva eroicamente: in quelle sedute, la Commissione mista preparatoria aveva proposto un articolo, il 7, così concepito : « La religione cattolica è la religione dello Stato. Dalla credenza religiosa non dipende l'esercizio dei diritti civili e politici ».
Ci fu una lunga discussione. Il primo periodo dell'articolo fu respinto a maggioranza; passò invece l'articolo 8 della costituzione della Repubblica romana, che così diceva: «Il Capo della Chiesa cattolica avrà dalla Repubblica le guarentigie necessarie per l'esercizio indipendente del potere spirituale».
Voi vedete che Napoleone nel primo urto, e la Repubblica romana nel secondo, hanno sempre dinanzi questo problema : come far sì che il Papa non sia suddito di alcun potere, perché - come dice De Maistre - il Papa nasce sovrano. Anche i pochi mesi della Repubblica romana aggiunsero altro piombo nelle ali del principato civile dei Papi. Siamo all'anno grigio e angoscioso: il '49. La rivoluzione italiana ha un tempo di arresto; tuttavia, prima ancora della spedizione di Crimea, ci sono i moti di Milano, disgraziati, e le forche eroiche, e cristiane anche, di Belfiore. Cavour ha un lampo di genio, quando decide di mandare le sue truppe in Crimea. Chi tra i due aveva torto? Cavour, che diceva: «Mandate i piemontesi in Crimea, se volete contare qualche cosa nel mondo» (e in ciò era appoggiato dalla più potente apparizione della storia del Risorgimento italiano, parlo di Giuseppe Garibaldi), o Mazzini, così ostile alla spedizione in Crimea, che giunse sino a stampare un manifesto, nel quale si consigliavano i soldati piemontesi a disertare? Aveva ragione Cavour, aveva ragione Garibaldi. Se il Piemonte non fosse andato in Crimea non sarebbe andato a Parigi; e se non fosse andato a Parigi, non avrebbe avuto voce nel concerto delle potenze europee. Si può dire che, andando in Crimea, fu assicurato nel 1859 lo sviluppo ulteriore della rivoluzione italiana.

Siamo al decennio della storia italiana che si può chiamare fantastico e per la rapidità degli avvenimenti e per la loro importanza. Nel '60, la spedizione dei Mille; e i plebisciti. Perdute le Marche e l'Umbria, il potere temporale dei Papi è ormai ridotto al Lazio. Nell'ottobre del '60, si può dire che l'unità della nazione sia compiuta.
A proposito, bisogna aprire una parentesi. L'abbiamo compiuta molte volte questa unità! Nel 1870 si disse che l'avevamo compiuta ed era vero; ma poi ci siamo accorti che nel 1918 c'era ancora qualche cosa da fare.... (Applausi dai colleghi).

Appunto perché sul finire del '60 mancavano soltanto la Venezia e il Lazio all'unità della patria, il problema di Roma diventava sempre più spasimoso e urgente. I progetti fiorivano. I liberali toscani, per esempio, guidati dal Salvagnoli, se ne andarono a Parigi per proporre a Napoleone di lasciare Roma al Pontefice, più una striscia sino al mare. Nel febbraio-marzo 1860, Vittorio Emanuele II, a mezzo dell'abate Stellardi, elemosiniere di Corte, avendo come obiettivo il riordinamento dello Stato pontificio, proponeva che « il re di Sardegna esercitasse nella Romagna, nell'Umbria e nelle Marche il potere esecutivo sotto l'alto dominio del Pontefice, la cui suprema autorità avrebbe formalmente riconosciuta e rispettata ».
L' 11 ottobre 1860, Cavour pronunzia un discorso e dice: «Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città eterna, nella quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico. Affermai e ripeto che il problema di Roma non può, a mio avviso, essere sciolto con la sola spada ».

Gli avvenimenti precipitano. Nel dicembre 1860, si scioglie la Camera; il 27 gennaio 1861, ci sono i comizi elettorali in tutta la penisola, esclusi il Lazio e la Venezia Euganea; il 19 febbraio 1861, si apre l'ottava legislatura, la prima del Parlamento italiano; il 26 febbraio 1861, si approva, al Senato, con due voti contrari, un disegno di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia. Il 15 marzo 1861, lo stesso progetto di legge viene approvato ad unanimità dalla Camera. Il cardinale Antonelli in nome del Pontefice manda in data 15 aprile una protesta agli Stati. Ma intanto Cavour, come sarà più ampiamente documentato nei volumi che sono in corso di stampa, aveva veramente l'angoscia di giungere a una conclusione nelle trattative col Sommo Pontefice.
Tra il 2 e il 3 febbraio del 1861, Cavour proponeva al cardinale Antonelli, per mezzo di Omero Bozini di Vercelli, quanto segue
«a) che la Corte romana riconoscesse e consacrasse Vittorio Emanuele re d'Italia;
«b) che il Papa conservasse il diritto di alta sovranità sopra il patrimonio di San Pietro, il quale però sarebbe governato civilmente da Vittorio Emanuele e suoi successori quali vicari del Sommo Pontefice ».
Ad altre trattative più importanti parteciparono, come ognuno di voi sa, il padre Passaglia, Diomede Pantaleoni, Antonino Isaia. Queste trattative falliscono. Il 18 marzo 1861, Pio IX dichiara solennemente nel Concistoro di respingere qualsiasi conciliazione. Il moto si accelera ancora di più. Il 25 marzo 1861, Cavour si fa interpellare dal deputato Audinot e in quella e in una successiva seduta pronuncia due discorsi che lo pongono nell'empireo degli uomini politici di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Questo freddo piemontese trova accenti così solenni, così passionali, così ferrei per rivendicare il diritto dell'Italia su Roma che ancora oggi, a distanza di sessant'anni, non si possono leggere quelle pagine senza essere pervasi da una intima, intensa, profonda commozione. Tuttavia egli non disperava di concludere. Sino all'ultimo momento, quando stava per morire, egli diceva al frate che lo confessava: « Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato ».

La discussione si concluse con due ordini del giorno.
Quello presentato alla Camera dall'onorevole Boncompagni diceva «La Camera, udite le dichiarazioni del ministero, considerando che assicurata la dignità, il decoro e la indipendenza del Pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo, di concerto con la Francia, l'applicazione del principio del non intervento e che Roma, Capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia resa all'Italia, passa all'ordine del giorno ».

Quello presentato dall'onorevole Matteucci al Senato diceva : « Il Senato, confidando che le dichiarazioni del Governo del re per la piena e leale applicazione del principio della libertà religiosa faranno fede alla Francia ed all'intera società cattolica che l'unione all'Italia di Roma, sua naturale capitale, si compirà assicurando nel tempo stesso il decoro e l'indipendenza della Chiesa e del Pontefice, passa all'ordine del giorno ».
In entrambi si parla esplicitamente di garanzie per l'indipendenza del Papa.

Quale era la tesi di Cavour? Prima di tutto Cavour era un cattolico, credente e praticante. La sua tesi era questa: non si poteva andare a Roma con la violenza, la violenza doveva essere la extrema ratio, bisognava andarvi d'accordo con la Francia poiché è difficile scindere la politica cavourriana dalla alleanza con la Francia. Bisognava lasciare al Pontefice un tanto di territorio sul quale egli fosse sovrano, che la sua sovranità, cioè, fosse ancorata in un territorio, la Città leonina, per intenderci. Poi, finalmente, la formula: libera Chiesa in libero Stato.

Ho molto riflettuto su questa formula; ma io credo che lo stesso Cavour non si rendesse conto di che cosa, in realtà, questa formula potesse significare. Libera Chiesa in libero Stato! Ma è possibile? Nelle nazioni cattoliche, no. Le nazioni protestanti hanno risolto il problema, facendo in modo che il capo dello Stato sia anche il capo della loro religione, e hanno costituito la Chiesa nazionale. V'è un solo paese, fra quelli di razza bianca, dove la formula cavourriana sembra aver trovato la sua applicazione: gli Stati Uniti. Là veramente lo Stato è libero e sovrano, e le Chiese sono libere, ma perché? Perché, come ha detto uno studioso di questi problemi, negli Stati Uniti c'è un polverio di religioni per cui lo Stato non ne può scegliere nessuna, né proteggerne alcuna. Io credo invece che Cavour volesse intendere che lo Stato dovesse essere libero completamente e sovrano in quelle che sono le proprie attribuzioni, non soltanto però di ordine materiale e pratico, come si vorrebbe dare ad intendere - e su ciò torneremo tra poco - e che la Chiesa dovesse essere libera per il suo magistero e per la sua missione pastorale e spirituale.
Non si può pensare una separazione nettissima tra questi due enti, perché il cittadino è cattolico e il cattolico è cittadino. Bisogna dunque determinare i confini tra quelle che sono le materie miste. D'altra parte la lotta tra la Chiesa e lo Stato è millenaria: o è l'Imperatore che domina il Papa o è il Papa che domina l'Imperatore. Negli Stati moderni, negli Stati a solida organizzazione costituzionale moderna, dato lo sviluppo dei tempi, si preferisce vivere in regime di concordato. Io credo che Cavour volesse appunto pensare a una siffatta soluzione del problema dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.

Siamo all'ultimo decennio, quello che va dal 1860 al 1870. Tentativo disperato di Aspromonte. Due anni dopo le convenzioni di settembre e conseguente dissidio tra gli uomini che guidavano la rivoluzione italiana e che fu fortissimo.
Intanto che cosa erano le convenzioni di settembre? Un patto firmato a Saint Cloud il 15 settembre 1864 tra il Governo italiano e la Francia, che conteneva queste tre clausole
i. - L'Italia si impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al Papa e ad impedire, anche con la forza, ogni attacco esteriore a questo territorio.
2. - La Francia ritirava le sue truppe nel termine di tre anni, man mano che veniva riorganizzato l'esercito pontificio.
3. - Il Governo italiano consentiva la costituzione di questo esercito composto di stranieri.
Parve in quel momento che il Governo italiano, il quale stava per trasportare la sua capitale a Firenze, avesse rinunziato alla conquista di Roma. Garibaldi, da Caprera, insorse, e, in data 10 ottobre 1864, scriveva « che i colpevoli cerchino di trovare dei complici è naturale, ma che mi si voglia immergere nel fango da uomini che sporcano l'Italia con le convenzioni del 15 settembre, non me l'aspettavo. Con Bonaparte non v'è che una sola condizione possibile: purificare il nostro paese dalla sua presenza, non in due anni, ma in due ore ».

Naturalmente Mazzini, come sempre esagitato e profetico, rincarava la dose, e diceva: «Poche e chiare parole, la convenzione fra il Governo nazionale e Luigi Napoleone concernente Roma tradisce le dichiarazioni del Parlamento, tradisce le dichiarazioni governative ripetute successivamente dai ministri che tennero dietro a Cavour, tradisce le dichiarazioni contenute nei plebisciti che formarono il Regno d'Italia: plebisciti, Governo, Parlamento, hanno decretato che l'Italia sarebbe una e che Roma ne sarebbe la metropoli». E più oltre: « La scelta arbitraria di Firenze a metropoli, irrita giustamente Torino, la cui tradizione non deve cedere che alla tradizione storica italo-europea, immedesimata in Roma. Il Governo aveva pensato a Napoli, ma bisognava che il trionfo di Luigi Napoleone non avesse termine ».
Ancora una volta e a distanza di tempo chi aveva ragione? Aveva ragione la Destra, cioè il Governo italiano. Aveva ragione la Destra andando a Firenze, perché si avvicinava a Roma. Aveva ragione la Destra facendo il patto con la Francia, perché era importante che, nella eventualità di andare a Roma non si dovesse incontrare l'esercito francese, ma un esercito volontario, raccolto qua e là in tutti i paesi d'Europa. Questo facilitava naturalmente il compito della rivoluzione nazionale. Tuttavia, nel 1867, vi è il tentativo di Mentana, nel 1870 siamo alla conclusione, alla prima conclusione.
In che modo?
Il 2 agosto, la Francia ritira le sue truppe, quelle che aveva mandato prima e dopo Mentana. Roma è presidiata da un esercito di stranieri - pochissimi gli italiani - guidati da un generale straniero, il Kanzler. L'8 settembre, c'è là missione di Ponza di San Martino, che va a Roma per portare una lettera al Santo Padre. II Presidente del Consiglio, nella lettera accompagnatoria, affermava:
Il Governo del re e le sue forze si restringono assolutamente a un'azione conservatrice e a tutelare i diritti imprescrittibili dei romani e dell'interesse che ha il mondo cattolico all'intera indipendenza del Sommo Pontefice. Lasciando non pregiudicata ogni questione politica che possa essere sollevata dalle manifestazioni libere e pacifiche del popolo romano, il Governo del re è fermo nell'assicurare le garanzie necessarie alla indipendenza spirituale della Santa Sede. Il Capo della cattolicità troverà nella popolazione italiana una profonda devozione e conserverà sulle sponde del Tevere una sede gloriosa e indipendente da ogni umana sovranità ».

Questo era il Presidente del Consiglio Giovanni Lanza. Sua Maestà il re Vittorio Emanuele Il diceva le stesse cose. Nella sua lettera al Sommo Pontefice, parlava del « Capo della cattolicità, circondato dalla devozione del popolo italiano, che doveva conservare sulle sponde del Tevere una sede gloriosa e indipendente da ogni umana sovranità ».

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