ANNO 1937

ATTENTATO al maresciallo Graziani, viceré d'Etiopia durante una cerimonia:
Nella rappresaglia (approvata da Mussolini) furono sterminati migliaia di indigeni


CARNEFICINA
FASCISTA

IN ADDIS ABEBA


di MATTEO SOMMARUGA

Nei primi mesi del 1937 le spoglie dell'Impero etiope potevano ormai essere considerate interamente sotto il controllo delle truppe di occupazione italiane, ma la strenue volontà di resistenza della popolazione indigena non era stata ancora completamente domata. Né tantomeno si era attenuata la tensione esistente fra la popolazione indigena e i coloni, cui sarebbe stato sufficiente un singolo episodio per esplodere in una delle pagine più tragiche della storia dell'avventura italiana in Africa Orientale.
Le premesse per gli scontri che seguirono maturarono in gennaio, quando intorno ad Addis Abeba l'ordine era stato stabilito e il Maresciallo Rodolfo Graziani, cui, per i servigi resi durante la campagna militare, erano stati conferiti il titolo di marchese di Neghelli e la carica di Viceré d'Etiopia, lascia il giorno 7 la capitale per avventurarsi in un viaggio di quasi tremila chilometri attraverso le province da poco sottomesse. Alla sua scorta, composta da cinquanta carabinieri, si accompagna un altrettanto nutrito numero di giornalisti, convocati per riportare i successi dell'Italia fascista a un'opinione pubblica mondiale ancora ostile.

Graziani, era nato a Filettino, nell'Agro Romano, nel 1882 e, entrato in servizio effettivo nel 1906 con il grado di sottotenente, aveva guadagnato i propri gradi sul campo, in quasi trent'anni ininterrotti di campagne combattute sul suolo coloniale. Con cui se da una parte era stato in grado di conquistare la stima dei propri uomini e un indiscusso prestigio, in parte dovuto ai toni declamatori della propaganda, dall'altra si era circondato di una pessima reputazione a causa dei metodi sbrigativi adottati per domare le bande di ribelli che fino ai primi anni trenta avevano insanguinato la Libia.
Al punto che fra i guerriglieri etiopi circolava voce che usasse giustiziare gli insorti precipitandoli nel vuoto da un aeroplano. Una leggenda non avvalorata da prove concrete, ma che, come tante altre, non sfuggiva al marchese di Neghelli, il quale, non certo insensibile alle tentazioni della vanità cercò in un primo momento di smentire.

Contrariamente alle indicazioni di Lessona, promosso al ruolo di titolare del Ministero alle Colonie l'11 giugno del 1936, che aveva infatti cercato di favorire l'occupazione italiana avvalendosi dell'appoggio di quei notabili che, tramontato l'astro negussita, avevano scelto la strada della collaborazione.
Una linea invece condivisa da Pietro Badoglio, che aveva preceduto, pur per un breve periodo, Graziani nella carica di Viceré, e che stava effettivamente dando i propri frutti. Molte personalità del passato regime, fra cui lo stesso segretario particolare di Hailè Selassiè, Taddese Masciascià, stavano infatti tornando dall'esilio per salutare, con atto di sottomissione, il nuovo governo.

A mutare, e in maniera del tutto repentina, l'atteggiamento del Viceré fu il clima con cui venne accolto il suo rientro, avvenuto l'11 febbraio 1937, ad Addis Abeba.
Nella capitale si era sparsa la voce, probabilmente diffusa da alcuni nazionalisti amahra, la tribù dominante durante il periodo del regno negussita, che il Maresciallo fosse morto e che una colonna di armati al comando di Ras Destà, che in effetti aveva guidato gli ultimi tentativi di resistenza, ma le cui forze non contavano ormai che pochi effettivi, stesse marciando sulla città per porre fine al giogo italiano.
Graziani, estremamente emotivo quando le vicende della guerra lo coinvolgevano personalmente, reagì impulsivamente arrivando a imporre che al passaggio della propria vettura, nazionali, indigeni e cittadini stranieri, si fermassero e accogliessero il Viceré con il saluto.
Con un tono ancora più aspro si rivolse, tacciandoli di menzogna e di tradimento, il giorno 17, a un gruppo di 34 notabili etiopi convocati nella sala delle udienze del Piccolo Ghebì.

Graziani non sapeva che, proprio mentre pronunciava le proprie minacce contro la razza amahra, erano già stati tessuti i fili di un complotto di cui sarebbe stato la vittima designata. La data stabilita per l'azione era stata oltretutto fissata proprio per quello stesso giorno, ma la decisione, peraltro del tutto fortuita, di spostare la riunione in una sala dalle dimensioni relativamente ridotte del palazzo, mentre si sarebbe dovuta tenere in un luogo aperto, impedì agli attentatori, che non volevano che i propri compatrioti venissero coinvolti, di scagliare il micidiale attacco.
Il giorno precedente il generale Olivieri, l'avvocato militare ad Addis Abeba, aveva messo al corrente il marchese di Neghelli sulla presenza in città di alcuni elementi pericolosi. La sorveglianza nella capitale, che si era allentata notevolmente dal mese di gennaio, risentiva però del generale ottimismo condiviso all'interno dei vertici militari italiani, e il rapporto di Olivieri fu ignorato. Come del resto anche quello consegnato da Attilio Natali, un brigadiere dei carabinieri, la mattina del 18.

Il maggiore Quercia, che in quei giorni sostituiva il colonnello Hazon al comando dei carabinieri, mentre quest'ultimo era rientrato in Italia per un breve congedo, ignorò con straordinaria superficialità le parole del giovane sottufficiale. Il quale si riferiva espressamente a un complotto imminente organizzato dalla resistenza etiope. Un ipotesi che, anche senza il beneficio del senno del poi, era del tutto plausibile.
Era infatti del tutto nota alle autorità di polizia la presenza in città di alcuni sostenitori del deposto regime, fra cui i cadetti della scuola militare di Oletta e i Giovani etiopici di ras Immirù, fra gli ultimi ad accettare la resa, seppur in libertà vigilata.
Graziani era invece più probabilmente intento nei preparativi per la celebrazione che il giorno seguente avrebbe salutato la nascita del primogenito del principe Umberto, l'erede al trono di Casa Savoia e commemorato, secondo il calendario copto, la Purificazione della Vergine.

La tradizione voleva che il negus distribuisse, in quella data, una piastra a ciascun povero della città. Il Maresciallo, volendosi accattivare il favore della folla ora che stava rompendo la tregua con la classe dirigente locale, decise di destinare ben due talleri per ogni bisognoso. Una cifra non indifferente rispetto a quella elargita precedentemente, essendo il valore di una piastra pari a un sedicesimo di tallero.
Alla cerimonia, fissata per la mattina del 19 febbraio, sarebbero stati invitati tutti i notabili in quel momento presenti ad Addis Abeba, l'intera popolazione e più di 2.500 indigenti.
La folla era assiepata all'interno del recinto del Piccolo Ghebì, il parco della residenza del Viceré. Nei cieli della capitale volteggiava una squadriglia di aeroplani, mentre Graziani sedeva con il gruppo delle autorità italiane, in cima alla gradinata che conduceva all'interno del palazzo. Al suo fianco, quasi un segno premonitore del massacro che sarebbe seguito, l'abuna Cirillo, uno dei quattro vescovi della chiesa copta, succeduto all'abuna Petros, fucilato alcuni mesi prima. Intorno alle personalità e alla torma vociante degli indigeni e dei bisognosi, per garantire l'ordine sono schierati 93 soldati e tre ufficiali.

Mentre i poveri si inchinavano per baciare la terra e tendere la mano per ricevere da uno zaptiè le due monete d'argento, il marchese di Neghelli assiste non senza nascondere un qualche segno di insofferenza, alla cerimonia.
Sono le 12,20 e il Maresciallo inizia a mostrarsi spazientito per la lentezza con cui procede la distribuzione. Non potrà vederne la fine perché di lì a poco un numero imprecisato di bombe a mano viene lanciato da un gruppo di braccia anonime, mischiatesi all'interno della folla dei mendicanti. La prima detonazione non viene quasi percepita, alcuni la scambiano per il segnale del mezzogiorno, anche se nel rapporto di Giulio D'Alessandro, maggiore dei carabinieri, si legge che lo scoppio sarebbe avvenuto parecchi minuti più tardi.
Un secondo ordigno sfiora ancora le autorità italiane, ma una terza colpisce in pieno il Viceré, esplodendo alle sue spalle e riempiendo il suo corpo di ferite. Graziani cade a terra, riverso in una pozza di sangue, mentre tutto intorno a lui si scatena la strage. Vengono lanciate altre bombe, 7 o 8 secondo i primi rapporti, più tardi si parla di 18 bombe a mano Breda esplose o lanciate, più altre 12 sequestrate. Un numero che forse fu esagerato volutamente per esigenze politiche, ma che non accrebbe i toni di per se drammatici dell'episodio.

Si contarono sette morti e una cinquantina di feriti. Fra di essi il generale Liotta, cui fu amputata una gamba e che perse la vista da un occhio, ma anche alcuni notabili etiopi, fra cui l'abuna Cirillo, che con il proprio corpo coprì quello del Viceré, e due giornalisti. Quest'ultimo vide Danilo Birindelli, un operatore della Film-Luce, trasportare Graziani, ormai privo di conoscenza, all'interno della propria vettura e da lì, scortato dal capitano dei carabinieri Mossutti, fino all'ospedale dell'Italica Gens.
Nel frattempo ai soldati e ai carabinieri italiani, che si sono ripresi dal panico iniziale e hanno iniziato a chiudere le uscite del parco, probabili vie di fuga per gli attentatori, corrono in rinforzo alcuni spahis libici e gli avieri di una vicina caserma. All'interno del recinto si trova ancora l'orda dei mendicanti etiopi, cui si sono aggiunti gli altri indigeni, anche i nobili, presenti alla cerimonia.

I militi italiani aprono il fuoco, colpendo indiscriminatamente i presenti. I caduti sono decine, mentre i superstiti vengono ammassati nei saloni del Piccolo Ghibì. Non vengono risparmiati neppure i colpi di scudiscio.
Mentre Graziani, nelle cui carni si sono conficcate oltre 250 schegge, giace nel letto dell'ospedale, nella città il federale Guido Cortese spinge gli italiani alla rappresaglia. Nella quale confluisce tutta la tensione accumulata in quasi due anni di ostilità con la popolazione etiope. Gli stessi civili vi avrebbero partecipato, girando armati di manganelli e sbarre di ferro per le vie della capitale. Il terrore negli indigeni è tale che si rifugiano nelle proprie abitazioni per fuggire alla morte. E non è immotivato.

Lo stesso Poggiali, che dopo avere accompagnato all'ospedale il Viceré, torna in città, scrive di aver visto un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Neppure le mura domestiche servono a proteggere gli etiopi dalla furia delle squadre che agiscono sotto il diretto controllo della Casa del fascio.
Camicie nere e ascari libici, dopo essere penetrati nei quartieri indigeni, danno fuoco a decine, se non centinaia di tucul, finendo con le bombe a mano coloro che cercavano una via di scampo. Così come non vengono risparmiati i luoghi di culto della religione copta e la chiesa di S. Giorgio viene data alle fiamme alla presenza dello stesso Cortese.
I militari, neppure i carabinieri, non fecero nulla per impedire il massacro, perché essi stessi impegnati in un'operazione di rastrellamento di massa che avrebbe radunato oltre tremila etiopi, successivamente diretti ai campi di concentramento.

La rappresaglia , con i fermi della popolazione, prosegue per tutta la giornata del 20 e Mussolini, che da Roma segue con ansia l'evolversi degli avvenimenti, raccomanda a Graziani di passare per le armi tutti i civili e i religiosi sospetti. Solo il 21 febbraio verrà posto freno alla carneficina, ma nella città ormai giacciono centinaia e centinaia di cadaveri.

Al termine della seconda guerra mondiale il governo negussita tornato dall'esilio parlerà di oltre 30.000 morti, un numero sicuramente gonfiato, ma le testimonianze della stampa internazionale riporta il numero delle vittime da un minimo di 1.400 a un massimo di 6.000. Ma sono solo i caduti dei primi giorni della mattanza, perché altri, forse in misura ancora maggiore, perderanno la vita nei mesi successivi. Molti a causa delle privazioni dei campi di prigionia, dove il torrido clima equatoriale non contribuiva certamente a migliorare le condizioni di vita dei reclusi, altri ancora passati per le armi da una giustizia italiana divenuta ormai spietata. Un destino condiviso dai nobili amahra, in parte avviati sulla via dell'esilio, altri condannati alla pena capitale.

Graziani, pur riavutosi dalle ferite, non sarebbe stato infatti più in grado di dirigere le operazioni di pacificazione dell'Impero in maniera equilibrata. Dopo l'attentato viveva asserragliato nel proprio palazzo di Addis Abeba, circondato dal filo spinato, da un numero inusitato di mitragliatrici, perfino di carri armati. La sua guardia era composta da un intero battaglione. Lessona lo aveva intuito e si apprestava a preparare la sostituzione del Viceré, alla cui carica si sarebbe avvicendato il 20 novembre, il leggendario Duca d'Aosta.

Al Ministro alle Colonie, che si era recato in Africa Orientale per seguire più da vicino la situazione, ras Sejum si rivolse con le lacrime agli occhi chiedendo: "Di' a Mussolini che qui viviamo nel dolore e senza giustizia". Le indagini, condotte in maniera sommaria in soli quattro giorni, portarono a identificare all'origine dell'attentato un complotto di vaste dimensioni. Fra i principali sospettati compariva il nome del dottor Uorqneh Martin, ministro d'Etiopia a Londra, e dei figli Joseph e Banjamin, cui avrebbero partecipato in maniera attiva all'azione terroristica, un gruppo di Giovani etiopici e alcuni notabili rientrati dall'esilio.
Il rapporto del generale Olivieri, che condusse le operazioni investigative, parla anche del coinvolgimento della ditta indiana G. M. Mohamedally, le cui fortune erano strettamente legate a quelle dell'impero negussita. Nello stesso rapporto si parla della complicità di alcuni notabili rientrati dall'esilio, dei servizi britannici e dell'omertà del clero copto.
Quest'ultimo sarà vittima forse del più infame dei delitti che verranno perpetrati durante gli ultimi giorni del regno di Graziani, e forse troppo largamente tollerati nelle alte sfere dell'apparato fascista. A eseguire l'ordine sarebbe stato il generale Maletti che, partito il 6 maggio da Debrà Berhàn, nello Scioa, la regione dove la resistenza etiope è più indomita, si dirige verso il villaggio conventuale di Debrà Libanòs.
La marcia dura due settimane, durante le quali le sue truppe incendiano 115.422 tucul, tre chiese e un convento. Fra gli uomini al suo seguito figurano anche i 1.500 armati della banda di Mohamed Sultan, musulmani divorati dall'odio religioso verso le popolazioni copte, armati di pugnali, lance e vecchi fucili, ma agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati dal loro istinto infallibile.

Il 13 maggio viene distrutto il convento di Gulteniè Ghedem Micael, i monaci, rei di aver concesso asilo a un ras ribelle, vengono inviati di fronte a un plotone di esecuzione. Cinque giorni dopo è la volta di Debrà Libanòs, il più importante centro conventuale dell'intera Etiopia, dove oltre tremila tucul ospitano i monaci e i laici con cui convivono. Maletti, forse conscio dell'empietà del suo gesto, dispensa dall'azione i battaglioni eritrei, in gran parte composti da copti, e si affida alla furia dell'orda di Mohamed Sultan e del 45° battaglione musulmano.
La sera del 19 l'occupazione del villaggio può ormai considerarsi conclusa, quando il generale italiano riceve da Graziani un telegramma che lo invita a agire con la massima severità verso i religiosi del convento, a carico dei quali sembra esistano prove schiaccianti nella correità nell'attentato del 19 febbraio.

Il giorno dopo 297 monaci e 23 laici, sospetti di convivenza con la ribellione, vengono condotti in un vallone nei pressi di Ficcè. Il loro numero è tale che un plotone di esecuzione tradizionale risulterebbe inefficace. Per l'esecuzione, avvenuta all'una del pomeriggio, si risolse di impiegare le mitragliatrici pesanti. Furono risparmiati solo i giovani diaconi, i maestri e altro personale dell'ordine. Ma tre giorni dopo, il marchese di Neghelli inviò un ultimo e perentorio telegramma dove si accennava espressamente alla liquidazione completa degli indigeni posti in stato di fermo.
La mattina del 27 maggio davanti alle stesse mitragliatrici di una settimana prima sfilarono 129 diaconi. In realtà sembra che l'attentato di cui fu vittima Graziani fosse stato realizzato da due giovani eritrei, Abraham Debotch, di 25 anni, che aveva frequentato il liceo Tafari Maconnen di Addis Abeba e Mogus Asghedom, ventiseienne, anch'egli ex studente del liceo Tafari e alle dipendenze, sotto il regno di Hailè Selassiè, dell'ufficio tecnico del catasto.
Il monastero di Debrà Libanòs si limitò a concedere l'asilo a Teddesiè Istefanos, moglie di Asghedom. Il loro gesto, tuttora inspiegato, fu probabilmente legato a motivi di rancore personale, forse per dimostrare di essere buoni patrioti a chi muoveva loro accuse di collaborazionismo con il governo italiano.

L'infausta reazione di Graziani contribuì invece a rinsaldare lo spirito patriottico delle popolazioni sottomesse, che poi sarebbero di nuovo insorte, in massa, nel 1941, al momento della disfatta italiana a opera delle truppe inglesi.


MATTEO SOMMARUGA
Bibliografia
Gli italiani in Libia di Angelo Del Boca - Ed. Mondadori, Milano. 1988
Gli italiani in Africa Orientale vol. II e III di Angelo Del Boca - Ed. Mondadori, Milano. 1988
L'Italia dell'Asse di Indro Montanelli e Mario Cervi - Rizzoli, Milano 1980
Ho difeso la patria di Rodolfo Graziani - Ed- Mursia, Milano 1997
Questa pagina per Storiologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

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