ANNO 1929
< < < < 1876 LA FONDAZIONE DEL
"CORRIERE D. SERA"
MUSSOLINI AL POTERE
Il bavaglio alla stampa è una delle prime operazioni fatte dal dittatore
per chiudere occhi e orecchi agli italiani
"CORRIERE DELLA SERA"
DA MEGAFONO DEL FASCISMO
AL SILENZIO
di ILARIA TREMOLADA
Ottenere il consenso, ovvero organizzare il consenso, è uno dei più importanti imperativi che ogni dittatore deve porsi. Mussolini, che prima di diventare capo del governo e duce del fascismo, era un abile ed esperto giornalista capì che le radici del suo potere, la forza dello stato fascista risiedevano anche in una concreta limitazione della libertà di stampa. Suggerire i pensieri alle masse, fornire loro un'immagine studiata, patinata, filtrata e positivamente modellata della realtà diventa subito un compito primario affidato ai gerarchi fascisti e imposto ai direttori dei quotidiani.
Incuriosisce sapere che ogni notizia di cronaca nera viene tolta dalle colonne dei quotidiani. Una società nuova che si pone come obiettivo finale la rifondazione e purificazione di una realtà sociale considerata corrotta e decadente nonchè priva di valori, confeziona la sua immagine esteriore e costruisce con cura il suo volto ufficiale.
"Improntare il giornale a ottimismo, fiducia e sicurezza nell'avvenire" diventa la prima delle regole di un decalogo il cui fine era convincere gli italiani che la loro vita era migliorata e assumeva, solo adesso, un senso compiuto.
Merito esplicito di questa rinascita era unicamente attribuibile alla nuova stella guida: Mussolini.
Va da sé che proprio per diffondere e radicare questa credenza, una buonissima parte degli articoli pubblicati era dedicata alla descrizione e all'elogio mieloso e di sapore agiografico del duce.
Tutta l'attività delle redazioni era sottoposta a stretto controllo ed ogni settore della cronaca, della politica estera, di quella interna soggiaceva a regole precise che una volta seguite portavano alla realizzazione del perfetto quotidiano fascista.Sebbene il duce cominci fin da subito la sua campagna per il controllo dei quotidiani, e presto ne vedremo l'iter attraverso le tappe più importanti, una seria e codificata gestione dall'alto della stampa, così come anche della cultura più in generale, dovrà aspettare per essere realizzata. Fondamentale sarà l'esempio guida della Germania. Costruendo in pochi anni una dittatura fortissima, Hitler si pone con forza come la guida, il potere più forte in grado di dominare l'Europa scardinando ogni equilibrio preesistente. Mussolini, che al contrario, pur volendo comprendere tutto all'interno dello stato fascista aveva fatto l'errore, poi fatale, di lasciare che la corona e la chiesa continuassero ad avere degli spazi incontrollati, guarda al collega tedesco con ammirazione e ne mette in pratica alcune realizzazioni.
Il Ministero per la Cultura Popolare, creato nel 1937 e poi subito chiamato Minculpop, viene realizzato a imitazione di quello nazista per la propaganda e nasce come estensione del precedente dicastero per la Stampa e la Propaganda, proponendo una notevole valorizzazione del giornalismo, inteso da ora come mezzo per educare il popolo.
Questo nuovo compito di cui viene investita la stampa svela il tentativo di creare e codificare una cultura propria del fascismo che trova ispirazione nel popolo e ad esso si dedica e rivolge. Una tale pianificazione arriva al culmine della crescita del regime, durante il suo momento di maggiore espansione e di maggiore apprezzamento da parte dell'opinione pubblica (non si dimentichi che era appena avvenuta la conquista dell'Etiopia).Negli anni precedenti invece, manca un progetto preciso, anche se, come si è già detto, Mussolini segue con particolare interesse e apprensione le vicende legate alla gestione della stampa intervenendo addirittura nelle questioni di poco interesse.
Il periodo che va dalla Marcia su Roma, 28 ottobre 1922, fino al discorso del 3 gennaio 1925, con il quale gli storici decretano l'inizio della dittatura, è denso di avvenimenti importantissimi che coinvolgono e interessano direttamente la storia del giornalismo italiano.
Durante questo triennio, I giornali quotidiani più importanti definiscono la loro linea di condotta nei confronti del fascismo, che mostra chiaramente il volto della sua natura violenta e liberticida. Al termine di questo confronto chi avrà mostrato di sapersi adattare alle nuove regole sopravviverà mentre tutti gli altri saranno invece costretti a cedere il passo.L'atteggiamento tenuto dalla dirigenza del "Corriere della sera" è emblematico. Analizzandolo si scoprono e si comprendono a pieno i motivi delle scelte di una classe, quella liberale, che negli anni cruciali dell'ancoraggio del fascismo si lascia convincere che proprio il partito di Mussolini sia ciò che serve all'Italia.
Vediamo però brevemente, prima di parlare del "Corriere", i passaggi cruciali, gli interventi che Mussolini pone in essere per imbavagliare e alla fine azzittire la fondamentale voce della stampa.
L'intenzione di arrivare a una concreta limitazione della libertà di stampa appare con sufficiente chiarezza già nel novembre 1922. Ad un mese dalla conquista del potere, il "Popolo d'Italia", ora diretto dal fratello Arnaldo, pubblica tre articoli che affrontano il problema della gerenza dei giornali, quello del sequestro e in ultimo la questione della censura.
Nel corso del 1923, la violenza delle squadre fasciste si abbatte nuovamente sui giornali all'opposizione e oltre a chiarire una forte volontà di controllo sugli organi di informazione smentisce l'abbandono di certi metodi illegali e del ricorso alla forza, sistemi che Mussolini aveva promesso sarebbero stati abbandonati una volta conquistato il potere.Il 12 luglio di quello stesso anno un regio decreto, di cui Mussolini sospende l'entrata in vigore solo per usarlo come minaccia incombente, decreta che il gerente dei quotidiani sia il direttore o uno dei principali redattori e non più un uomo di paglia. La stessa legge attribuisce inoltre ai prefetti la facoltà di diffidare il gerente e di dichiararlo decaduto dal suo incarico. Un decreto molto forte dunque che avrebbe reso facile l'intervento repressivo soprattutto perchè i casi per i quali esso era contemplato erano numerosissimi.
Questo primo colpo di mano genera una vera reazione solamente da parte del "Corriere della sera" e de "La Stampa". I due maggiori quotidiani italiani denunciano la legge, ma la loro voce rimane isolata e la possibilità che una protesta corale possa smuovere le acque quanto meno per fare chiarezza sulle intenzioni di Mussolini, sfuma senza possibilità di appello.Nei mesi successivi, il duce continua la sua campagna di occupazione della stampa. Dopo avere messo, con il decreto legge del 12 luglio, una spada di Damocle sulla testa dei Direttori dei quotidiani, segue la strada dell'intervento diretto. Un'operazione orchestrata da Arnaldo Mussolini porta al passaggio delle consegne alla direzione del "Secolo", del "Giornale d'Italia" e della "Tribuna".
Oltre ad occupare i giornali che già godono di un credito presso l'opinione pubblica, il fascismo allunga i suoi tentacoli anche con la creazione di nuove testate. Nella capitale escono, sempre nel '23, due giornali oltranzisti: "L'Impero" diretto dallo squadrista e avventuriero Mario Carli, e "Il Tevere" fondato da un giornalista, Telesio Interlandi, che non aveva mai fatto misteri dei suoi sentimenti antisemiti.
(pubblicherà in seguito la rivista "La difesa della Razza" - Ndr.)
Anche la stampa cattolica deve piegarsi a subire le azioni repressive. Nell'aprile '23, don Sturzo fonda il quotidiano "Il Popolo" organo del partito, ma le scelte ormai chiare della dirigenza ecclesiastica lo obbligano a dimettersi dalla direzione del partito che ha fondato e a lasciare l'Italia.Nel panorama della stampa che si pone contro il fascismo, o per lo meno che assume un'atteggiamento critico, la novità più importante è la nascita de "L'Unità". Il quotidiano del partito comunista esce a Milano il 12 febbraio 1924 (il PCI nasce con il congresso di Livorno nel gennaio 1921).
4 mesi dopo, l'uccisione del leader socialista, Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti apre un panorama nuovissimmo. Tutti coloro che avevano sperato in una normalizzazione del fascismo, che avevano cioé creduto che ogni pratica violenta sarebbe presto finita con la conquista piena del potere, sono costretti a prendere atto che la tanto sperata aggregazione tra la nuova classe dirigente fascista e la vecchia classe liberale è pura utopia.
La stessa cosa accade nelle redazioni dei quotidiani: l'assassinio di Matteotti delinea una situazione molto chiara che non ha più niente a che vedere con l'atmosfera di attesa e sospensione che aveva caratterizzato il periodo precedente.
I giornali liberali ma anche la maggior parte delle altre testate reagisce al delitto chiedendo le dimissioni di Mussolini e del governo. L'opinione pubblica partecipa intensamente.
Lo dimostra il notevole incremento delle vendite dei quotidiani. Il "Corriere della sera" supera le 800.000 copie quando la vendita normale era di 450.000. Il duce non si lascia certo intimorire da questa levata e giudica che sia venuto il momento di rendere attivo il decreto legge del luglio '23, reso oltretutto più severo di quanto fosse nella sua prima versione attraverso l'estensione del potere dei prefetti. Viene infatti data loro la facoltà di sequestrare i giornali senza prima diffidarli.
Comincia da allora una battaglia caratterizzata dalla forte protesta dei giornali e dalla simbolica, ma poco efficace Secessione dell'Aventino. I partiti politici che partecipano a questa astensione dai lavori parlamentari ne fanno una questione morale che si affida ad un tanto sperato quanto improbabile intervento riparatore della corona.
Quest'ultimo assunto era però assolutamente sbagliato e provocò l'ira di Mussolini che si sentì sollecitato nelle sue mire dittatoriali proprio da questa insignificante forma di protesta scelta dai partiti all'opposizione. La rottura di ogni indugio che decretò la fine di questo stato di attesa, fu anticipato da un provvedimento del 31 dicembre '24 con il quale si ordinava il sequestro dei giornali all'opposizione e fu completato subito dopo il famoso discorso del 3 gennaio 1925.
Scocciato dalla situazione creatasi dopo l'assassinio del leader socialista, Mussolini disse: "Ebbene, dichiaro qui al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è la forza…"Era così che Mussolini annunciava l'instaurazione della ditatura. Nel corso del '25 una serie di misure liberticide avrebbero imbavagliato definitivamente la stampa fino all'emanazione della legge del 31 dicembre che istituisce la figura del direttore responsabile e l'albo dei giornalisti.
Nel '26 si arriva poi alla definitiva chiusura di tutti i giornali all'opposizione, allo scioglimento coatto dei partiti politici che decadono insieme ai deputati aventiniani.È il 5 novembre, comincia il regime mussoliniano e la dittatura.
Come si diceva sopra è interessante focalizzare questa parte della storia d'Italia attraverso l'esempio dell'atteggiamento tenuto dal quotidiano allora più venduto: il "Corriere della sera".
Perchè possa illuminare e diventare specchio per comprendere gli avvenimenti così complessi degli anni che dopo la prima Guerra mondiale portano il paese a cadere nella rete del fascismo tutta la situazione deve essere osservata a partire dai primissimi mesi del 1919. il punto di arrivo sarà il 1925, l'inizio della dittatura a viso aperto e la fine delle illusioni liberali.
Dal 1900 il Corriere è diretto da Luigi Albertini (nell'immagine). Quest'ultimo, insieme al fratello, acquista proprio in quegli anni, una quota della società che gestisce il giornale e diventa direttore responsabile della redazione di via Solferino. Di personalità imponente e spiccata, Luigi che ricopre la massima carica dall'età di 29 anni, fa del suo giornale una tribuna dalla quale affermare una precisa e concreta linea politica. Imposta in quegli anni, con il suo lavoro, la fama di autorevolezza che poi il giornale saprà conservare.
Oltre ad essere un sapiente direttore egli si qualifica fin da subito come un politico sopraffino, come una voce autorevole nel panorama così complesso dell'Italia postbellica.
Anna Kuliscioff lo indica come il vero capo di una certa opposizione che si era rivolta contro l'onnipotente Giolitti. Aveva un temperamento aristocratico, energico, un carattere difficile, intransigente, nettamente introverso, ma all'occorenza si animava e sapeva vibrare.Era un conservatore nel senso classico del termine e anche questo contribuiva a rendere ancora più evidenti le differenze tra lui e i suoi avversari: Mussolini e Giolitti. Del primo gli mancava la vena popolaresca, plebea, la capacità di stabilire un immediato contatto con le folle. "Del secondo gli era estranea invece "l'abilità manipolatrice" che egli, a detta del frattello Alberto, mai avrebbe potuto avere per via della sua rigidezza e intransigenza che mal si sarebbero sposate con la pratica di gorverno. Si dedicò invece a ciò che meglio sapeva fare: dirigire l'attività giornalistica.
Nella redazione del Corriere "cresceva il numero dei redattori, e la redazione vibrante e silenziosa, funzionava a gran velocità e con ricerca scrupolosa della precisione. Tutto era controllato: rapidità delle dettature, esattezza delle copie e delle revisioni. Il palazzo del Corriere in via Solferino si presentava come un efficientissimo e lucido ministero. Fu così che dunque nacque dentro e fuori l'Italia il "mito" del corriere e del suo prestigioso direttore."
Concause della nascita di questo mito furono anche le particolari abitudini di quest'uomo: non faceva mai pubblicità alla sua persona, pochissimi furono gli articoli con la sua firma, ebbe pochissimi incontri con i redattori anche perchè spesso entrava da una porta secondaria di via Moscova.
Agli occhi dei dipendenti del giornale era quindi una figura avvolta dal mistero, ma questo non sminuisce il ruolo importantissimo che ebbe. A quell'epoca essere alla direzione di un quotidiano come il Corriere significava piuttosto qualcosa di più che qualcosa di meno che essere a capo di una corrente politica e Albertini seppe far sentire tutto il valore di questo peso.
Fu il più significativo rappresentante dell'antigiolittismo. Osteggiò il grande statista in ogni modo e gli si oppose anche attraverso il suo impegno attivo per spingere l'Italia a partecipare ad una Guerra, la prima, che egli vedeva come il giusto correttivo, come il mezzo con il quale spazzare via ogni residuo di una corrotta quanto malata pratica di governo che aveva fiaccata, a sua detta, il morale dell'intero paese.
È quindi immaginabile la delusione che lo colse quando scoprì che l'avere eliminato Giolitti non poteva significare l'avere risolto tutti I problemi del paese. Infatti dopo l'abbandono del piemontese nessun altro uomo politico fu in grado di esprimere altrettanta capacità. I governi di Boselli, Orlando, Bonomi e Facta furono semplicemente inesistenti.
La politica italiana non aveva perso ancora quei caratteri di clientelismo e corruzione che aveva acquisito nell'epoca giolittiana e non avrebbe avuto modo di purificarsi se non dopo il fascismo. La delusione che Albertini provava nei confronti della politica italiana non potè che aumentare dopo le elezioni del 1919 quando la Camera risultò essere composta da una maggioranza di popolari e socialisti. A questo punto, il direttore del Corriere nemico tanto dei neri quanto dei bianchi, dei giolittiani e dei popolari si trovò in un isolamento che favorirà più tardi l'avvicinamento al fascismo. Nella costruzione di questa posizione così indipendente egli non fu però completamente solo.
La borghesia Milanese e lombarda che leggeva il Corriere fu l'unico gruppo, se così si può definire, con il quale Albertini cercò di stabilire un legame. Il quotidiano di via Solferino rappresentò i Crespi, che erano coproprietari del giornale i Pirelli e i De Angeli, proprietari, questi ultimi, di un vero impero tessile. È anche a questi intrecci che bisogna guardare per riuscire a capire come maturò l'atteggiamento del Corriere nei confronti del fascismo.Dopo le elezioni del 1919 che portarono il democratico Francesco Saverio Nitti alla guida del governo, Albertini condannò apertamente l'azione squadristica dei fasci di combattimento che erano nati a Milano pochi mesi prima ma avevano già mostrato la loro natura violenta.
Proprio questo giudizio aveva impedito al direttore del Corriere di sottoscrivere una lista che avrebbe compreso anche I fascisti.Mussolini e Albertini si conoscevano da tempo. Erano stati avversari fin dal 1914, quando il futuro duce guidava l"Avanti". Dopo la Guerra ciò che li divise fu da subito il diverso atteggiamento nei confronti delle riparazioni belliche. Mussolini assunse una posizione nazionalista mentre Albertini si schierò con coloro che dispregiativamente vennero chiamati "rinunciatari".
In seguito il punto di maggiore distanza tra i due uomini coincide con il momento di maggiore vicinanza tra lo stesso Albertini e il leader socialista Filippo Turati.
Tra 1919 e 1920, come in molti paesi europei, così anche in Italia la situazione di difficoltà legata alla Guerra fu causa di una forte agitazione sociale che vide protagoniste le classi operaie. Il malcontento era salito alle stelle sfociando nell'occupazione delle fabbriche, settembre 1920.La strategia di Giolitti, chiamato al governo per sostituire l'incapace Nitti, consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie dell'operaiato accogliendone le richieste di riforma e, sembra superfluo dirlo, non piacque ad Albertini che invece agì in modo indipendente.
Il direttore del Corriere andò direttamente da Turati e gli disse. "Prendete il Governo. Vi prometto che il mio giornale vi sosterrà. Noi abbiamo bisogno di uscire da questo marasma, di sentirre qualcuno al timone, sia anche il partito socialista. Prendete il Governo."
Al di là del suo reale valore legato alla scarsa possibilità di realizzazione, il proposito di Albertini delineava una fortissima sfiducia nei confronti delle forze politiche che tradizionalmente governavano l'Italia. Poco dopo però, una volta conclusosi l'episodio dell'occupazione delle fabbriche la situazione andò normalizzandosi e i partiti borghesi ripresero quota affermando con vigore le loro liste alle elezioni del novembre '20.
Fu però una vittoria che si era macchiata della presenza nelle stesse liste del partito fascista. In preda alla disperazione alimentata dalla paura che i socialisti prendessero il potere, che non era però meno forte della paura che l'Italia potesse essere soffocata ancora una volta dalle manovre giolittiane, paura che spingeva Albertini a correre da Turati.
Il direttore del Corriere accettava l'ingresso della compaggine fascista all'interno di una lista comune che avrebbe dovuto permettere la creazione di una forte coalizione pur non accettandone quei caratteri violenti che dall'autunno-inverno del '20 erano diventati i connotati del partito di Mussolini.
Albertini, sempre preoccupato del rispetto della legalità e sempre ancorato alla sua formazione liberale che gli imponeva il rifiuto di ogni violenza in politica, accettava di legittimare un movimento così irrazionale come il fascismo solo nella convinzione fatale che fosse un fenomeno incomposto ed immaturo, ricco di energie ma facilmente controllabile. Fino alla vigilia del discorso del 3 gennaio 1925 di cui si è parlato sopra, questa sarebbe stato l'assunto guida della maggior parte dei rappresentanti della classe liberale italiana che poi sarebbero stati travolti e perseguitati da Mussolini.Albertini si sarebbe accorto, prima di quella data, del grande errore che aveva fatto appoggiando, anche se con intento strumentale, il fascismo. All'inizio però il Corriere seguì la tendenza di giustificare le azioni delle squadre considerandole il frutto di una coscienza nazionale esasperata.
Soltanto a partire dalla primavera del '21 si cominciò a mostrare un disagio che venica dal fatto di non credere più così facile il controllo di questo movimento. In quei tempi però la paura di una conquista rossa era ancora molto forte e indirizzava le scelte tolleranti dei dirigenti della vecchia borghesia lombarda che spinti dal miraggio di intravvedere anche un'anima ragionevole sotto a quella fanatica e settaria che il fascismo aveva fino ad ora mostrato appoggiarono l'ingresso di Mussolini in una lista di coalizione.
Il Corriere supportò la lista di unità nazionale con uno slogan: "la lista non si commenta: si vota", lasciando trasparire con ciò un certo malcontento che animava anche lo stesso direttore Albertini.
Questa insoddisfazione venne fuori in tutto il suo spessore dopo lo scrutinio. Quando fu chiaro che Mussolini aveva stravinto ottenendo ben 28.240 voti contro i 18.191 del secondo eletto, il giornale di via Solferino non celò più il suo malcontento. I fascisti da parte loro capirono che Albertini non era un amico anche se la posizione del maggiore quotidiano era lungi dall'essere definita e univoca.Infatti, il giornale pur condannando le violenze squadriste si preoccupava di non mettere sullo stesso piano fascisti e socialisti e di precisare che gli ultimi era in ogni caso ritenuti più pericolosi e più minacciosi.
Si era lontani dalla totale giustificazione della violenza intesa come mezzo di restaurazione, ma non si era ancora alla condanna totale.
Nei mesi successivi e fino al giugno '22 la situazione fu di stallo. L'anno della Marcia su Roma si era aperto in sordina e solo i mesi centrali avrebbero svelato una certa tensione. A febbraio era avvenuto il cambio della guardia: Bonomi veniva sostituito da uno sbiadito Facta che avrebbe condotto l'ultimo atto dell'Italia liberale.
Le violenze squadriste erano numericamente aumentate e sebbene il Corriere ne condannasse ogni manifestazione ci teneva a precisare che il pericolo di queste azioni risiedeva nel fatto che esse costringevano lo stato ad un grande sforzo di controllo che lasciava i socialisti incustoditi e liberi di agire.
Tuttavia i moniti che furono lanciati dalle colonne del Corriere furono anche più duri che in passato. Tutto ciò creava un atteggiamento abbastanza complesso che forse è meglio precisare. Il quotidiano Milanese condannava la violenza in senso assoluto ma la giustificava come strumento per pacificare l'Italia e per dare ad essa un governo forte in grado di preservarla dal pericolo socialista.
L'episodio nel quale meglio si potè vedere l'ambiguità della linea del Corriere fu l'occupazione di Palazzo Marino avvenuta il 3 agosto 1922 ad opera delle forze fasciste. Il commento a quell'episodio segna la maggiore caduta di stile del quotidiano di via Solferino che non potè condannare un'azione portata ai danni di una giunta socialista, Caldara-Filippetti, da sempre osteggiata dalla borghesia Milanese e dal Corriere. Quindi ogni responsabilità venne attribuita ai socialisti, mentre ci si preparava a sostenere ancora più vivamente il partito di Mussolini, che proprio in quei mesi del '22 acquista anche presso l'opinione pubblica un grande credito.
La vecchia classe liberale si era ormai convinta della giustezza di un governo capeggiato da Mussolini e ne chiedeva a gran voce la realizzazione. Lo stesso Albertini fece un'esplicita richiesta in tale senso in un famoso discorso pronunciato alla Camera.
Tutti coloro che sostennero una tale azione agivano nella convinzione che una volta legalizzato il partito fascista non avrebbe avuto più motivo di usare i metodi violenti e avrebbe invece applicato la sua forza e la sua energia all'amministrazione dello stato. Questa convinzione non abbandonò via Solferino neanche nelle ore precedenti la Marcia su Roma.
La redazione non capì che Mussolini stava pensando ad un colpo di mano in grande stile che niente avrebbe conservato della precedente organizzazione statale. Del resto non si volle dare neppure ascolto alle dicerie che trapelavano in certi ambienti e che avvertivano dell'imminente azione fascista.
Il 29 ottobre I fascisti impedirono l'uscita del quotidiano Milanese che di fronte alla patente violazione della legalità preferì tenere un atteggiamento di attesa che lasciava, però ancora un piccolo spazio alle speranze di normalizzazione che continuarono ad animare Albertini.In definitiva il Corriere si comportò adesso così come si era comportato durante i mesi successivi alla fondazione del movimento. L'ostilità verso Mussolini e i gerarchi fascisti coesisteva con la critica ai loro metodi ma anche con la speranza di utilizzare ciò che di buono sembrava esserci in questo partito.
Una posizione più definita, meno ambigua avrebbe dovuto attendere l'emanazione del decreto legge del 17 luglio '23, di cui si è parlato sopra. Quel giorno Albertini protestò pubblicamente contro le nuove disposizioni sulla stampa annunciando che il suo giornale si sarebbe astenuto da qualsiasi commento "piuttosto che dipendere dall'incognita di controlli paralizzanti e sottostare all'ansia e al tormento di minacce umilianti e incostituzionali."
In questo modo il Corriere usciva in parte dalla scena e riusciva a frenare un'aperta polemica coi fascisti che da mesi era diventata insostenibile e aveva raggiunto livelli di forte pericolosità. Fino al luglio '24 il giornale di Albertini evitò qualsiasi commento e riaprì le sue colonne alla politica interna solo all'indomani dell'assassinio Matteotti.Le prime reazioni furono di sgomento e di angoscia. Il Corriere chiese apertamente la fine del regime mentre come era per tradizione continuava a sperare in una normalizzazione tanto improbabile quanto improvvisa.
Questa doppiezza lasciò il posto ad un atteggiamento di chiara contrarietà e di vivo disappunto solo nell'autunno del '24. In quei mesi Albertini rivisitò tutte le sue convinzioni politiche ripudiando alcuni dei suoi atteggiamenti maggiormente antiproletari e più conservatori. Stabilì rapporti sempre più stretti con I leader di democrazia liberale e di democrazia socialista, soprattutto Turati e Amendola.
Sebbene si possa veramente parlare di un avvicinamento di Albertini al socialismo non bisogna dimenticare che esso comportò solo la caduta di alcuni e di non di tutti i pregiudizi che il direttore del Corriere aveva nei confronti della classe operaia. Comunque a parte ciò dopo l'assassinio del leader socialista, Albertini cominciò a definire in modo più univoco il suo atteggiamento nei confronti del fascismo. La posizione complessa che era stata assunta negli anni passati adesso lasciava il posto alla condanna aperta.Il 31 dicembre 1924, tutti I quotidiani all'opposizione furono posti sotto sequestro, compreso il Corriere. Mancavano pochi giorni al discorso di Mussolini e sicuramente il sequestro intendeva preparare l'atmosfera. Da quegli ultimi giorni di dicembre il Corriere si assunse il silenzio come propria linea di condotta. Era un modo estremo di esprimere la propria linea di opposizione. Se non ci si poteva esprimere chiaramente allora tanto valeva fare silenzio. Dopo continui sequestri e ripetute azioni di diffida da parte dei prefetti locali, la proprietà del Corriere che era in buona parte della famiglia Crespi chiese ai fratelli Albertini di lasciare la società e la direzione del quotidiano. Era l'epilogo.
Il 28 novembre Luigi Albertini lasciava, insieme al fratello Alberto, il quotidiano che dirigeva dal 1900 e che aveva reso grande. Nell'articolo di commiato si legge:
"il momento per me è troppo solenne perchè sia tentato di turbarlo con note polemiche. Voglio cioè abbandonare queste colonne elevandomi sopra le vicende che me le sottraggono. Voglio dire che non ho mai odiato alcuno, ma ho sentito, ho amato intensamente la mia fede, e l'ho servita a costo di ogni maggior dolore. Quanti giorni d'impopolarità ho conosciuto! Infine quest'ultima battaglia, combattuta in nome delle stesse idealità, degli stessi principi liberali a cui ho sempre ispirato la mia azione così nella politica interna, come nella politica estera e nell'economica, convinto come sono che tutte le libertà sono solidali fra loro.
Essa mi costa oggi il maggior sacrificio, quello del "Corriere", a cui avevo consacrato intera la mia esistenza, che in venticinque anni, assieme a mio fratello e a tanti eminenti collaboratori - ai quail va un pensiero di gratitudine infinita, come va al personale tutto di redazione, di amministrazione e di tipografia - avevo portato a non commune altezza . A tale immenso sacrificio vado incontro col cuore gonfio d'amarezza, ma a testa alta. Perdo un bene che mi era supremamente caro, ma serbo intatto un patrimonio spirituale che mi é ancora più caro, e salvo la mia dignità e la mia coscienza."
Forse senza bisogno di ulteriore commento, queste righe esprimono da sole tutta la profonda partecipazione di un uomo che visse profondamente il suo complesso rapporto con l'Italia che transitava dall' epoca liberale alla dittatura mussoliniana.ILARIA TREMOLADA
BIBLIOGRAFIA
* Corriere della sera (1919-1943) di Piero Melograni, Cappelli editore
* Storia di cento anno di vita italiana visti attraverso il Corriere della sera, di Denis Mack Smith, Rizzoli, Milano, 1978
* Storia del giornalismo italiano, di Paolo Murialdi, Il Mulino, Bologna, 1996
* La stampa italiana nell'età fascista, di N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, Laterza, Bari, 1980
* Storia dell'Italia moderna, il fascismo e le sue guerre, di Giorgio Candeloro, Feltrinelli, Milano, 1998
* L'organizzazione dello stato totalitario, di Alberto Aquarone, Einaudi, Torino, 1995Questa pagina a Storiologia
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net
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