ANNO 1938

DALLA LIBERTA' DI CULTO ALLE LEGGI RAZZIALI

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"Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità"
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La legge delle guarentigie del 1871, nel tentativo di dare soluzione alla questione romana ed allineare la posizione della Chiesa cattolica a quella degli altri culti, poneva fine ad una serie di istituti e prerogative della stessa, abolendo il cosiddetto “braccio secolare” e disponendo che gli atti emessi dalle autorità ecclesiastiche non avrebbero più avuto efficacia diretta ed immediata nell’ordinamento statuale, essendo preciso compito dei giudici dello Stato la determinazione dei possibili effetti civili degli atti canonici; un principio fondamentale era poi stabilito dall’ultimo comma dell’articolo d’apertura, che affermava esplicitamente, per la prima volta, la piena libertà di discussione sulle materie religiose.

Fino ai primi decenni del Novecento lo Stato liberale, con il sistema separatista, attuato comunque con grande oculatezza e moderazione[18], riuscì a proteggere in modo soddisfacente i fondamentali diritti di libertà delle minoranze religiose, così che gli ebrei italiani, come del resto gli appartenenti alle altre confessioni di minoranza, si trovarono in grado di vivere ed operare nel Paese godendo di una certa libertà ed autonomia - che mai avevano avuto precedentemente -, grazie al pieno superamento della distinzione fra religione di Stato e culti tollerati ed al raggiungimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutti i culti di fronte alla legge[19].

2.2.    Il periodo del fascismo e la legislazione sui culti ammessi; il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731 e le leggi razziali: dalla disuguaglianza dei culti alla disuguaglianza dei cittadini.

Con l’avvento del fascismo al potere, l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale del periodo liberale trovò un punto d’arresto con una serie di provvedimenti volti a tornare indietro nel tempo, fino allo Statuto del 1848[20], ed alla disuguaglianza dei culti: in effetti, il fascismo attraversò a ritroso in meno di un ventennio l’itinerario che il regime liberale aveva percorso in più di ottant’anni[21].

L’art. 1 del Trattato del Laterano dell’11 febbraio 1929, riproponeva la distinzione tra la religione cattolica - denominata espressamente “religione di Stato” - e gli altri culti, riaffermando nella sua pienezza il confessionalismo di Stato; parallelamente, vedevano la luce la legge 24 giugno 1929, n. 1159[22] - la cosiddetta legge sui culti ammessi -, ed il relativo regolamento di attuazione, approvato con R.D. 28 febbraio 1930, n. 289[23]. Nel sistema precedente, non esisteva una normativa comune che regolasse la professione e le attività dei vari culti nel Paese, e tutto era lasciato alla semplice prassi amministrativa o a norme legislative particolari[24]. La legge del 1929 avrebbe dovuto colmare questa lacuna.

La formula “culti ammessi”, che fin dal codice penale Zanardelli aveva designato onnicomprensivamente tutti i culti, cattolico compreso, veniva ora riferita esclusivamente alle confessioni di minoranza[25], e nei lavori preparatori si legge che l’espressione, per il legislatore dell’epoca, era una mera variante terminologica della locuzione di “culti tollerati”, propria dello Statuto del 1848, ed in quanto tale ne conservava in toto il significato giuridico[26].

La legge sui culti ammessi fu, nel suo complesso, ben accolta dalle confessioni di minoranza - anche perché ribadiva alcuni princìpi di fondo già fatti propri dalla legge Sineo, come la pienezza dei diritti civili e politici a prescindere dal culto professato, e la libertà di discussione in materia religiosa già enunciata dalla legge delle guarentigie -, tanto che fu, da alcuni, definita come la magna charta delle libertà dei culti di minoranza[27].

Tuttavia, anche se, formalmente, la legge poteva apparire addirittura liberale, nella sostanza si tradusse, perlopiù - soprattutto in virtù del modo in cui fu ad essa data esecuzione a mezzo del relativo regolamento di attuazione, che veniva a prevedere, ancor più della stessa legge, un sistema idoneo a garantire un controllo politico ed una estesa ingerenza sui culti diversi dal cattolico -, in una serie di gravi restrizioni alla libertà dei culti[28], e con essa prese avvio un periodo di sempre crescente ostilità verso le minoranze religiose, forse a causa del timore di propaganda antifascista da parte dei rappresentanti dei culti diversi dal cattolico[29].

Innanzitutto, la libertà di discussione in materia religiosa veniva intesa essenzialmente come divieto di propaganda religiosa[30]; in secondo luogo, i culti venivano ammessi a condizione di non professare «princìpi contrari all’ordine pubblico o al buon costume», e la concreta verifica di ciò si traduceva necessariamente in un controllo di merito da parte statale sui princìpi religiosi professati, in contrasto con il principio della libertà di culto[31].

Coerentemente ad una impostazione siffatta, istituti come la necessità dell’approvazione governativa per la nomina dei ministri di culto, la vigilanza statale sugli istituti e il potere di ispezione, la possibilità, per i ministri di culto, di celebrare matrimoni con effetti civili solo dietro autorizzazione specifica dell’ufficiale di stato civile, importavano un’inammissibile violazione del diritto di libertà religiosa delle varie confessioni, e palesi discriminazioni di trattamento tra i cittadini cattolici e gli “altri”.

La parabola discendente continuava, poi, con l’emanazione del nuovo codice penale Rocco, che ripristinava il reato di vilipendio alla religione di Stato, e collocava gli altri culti in una posizione subordinata per quanto riguardava la tutela penale del sentimento religioso, differenziando le fattispecie criminose e le relative sanzioni. In questo quadro, inoltre, veniva ripristinato l’insegnamento confessionistico nelle scuole di Stato, con violazione della libertà di coscienza dei giovani appartenenti alle confessioni religiose di minoranza.

Per la confessione israelitica, in particolare, il giurisdizionalismo assunse una forma del tutto peculiare: infatti, l’art. 14 della legge sui culti ammessi delegava il Governo a rivedere le norme legislative particolari riguardanti le confessioni diverse da quella cattolica, ed a coordinarle con le leggi dello Stato. La sola regolamentazione in tal senso - che pure non era mai stata estesa a tutto il territorio nazionale - era la legge Rattazzi del 1857 sulle università israelitiche, alla quale subentrò così, con il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731[32] - seguito dal regolamento attuativo emanato con R.D. 19 novembre 1931, n. 1561[33] - la nuova normativa sulle comunità israelitiche e sull’Unione delle comunità.

Come ha osservato un attento studioso[34], con questi provvedimenti lo Stato non si limitava a prendere in considerazione i rapporti esterni tra una confessione e lo Stato stesso, ma arrivava addirittura a regolare lo statuto interno dell’ebraismo italiano, disciplinandone in modo preciso ed assai puntiglioso «l’appartenenza dei membri, l’organizzazione interna, i poteri degli organi e le forme di controllo da parte dell’autorità amministrativa»[35], dando vita ad una vera e propria «costituzione civile»[36] della confessione israelitica, e creando, affinché fosse più facile il controllo sul fenomeno associativo ebraico, un organo che rappresentasse unitariamente gli ebrei italiani: era l’Unione delle comunità - un unicum nella storia dell’ebraismo della diaspora, che da sempre ha conosciuto solamente una pluralità di comunità[37] -, alla quale appartenevano obbligatoriamente, ed a cui dovevano versare un tributo annuale, tutte le comunità israelitiche del Regno.

Nel complesso, la maggioranza delle comunità italiane accolse in modo favorevole la nuova legislazione [38] - alla cui realizzazione avevano collaborato anche esponenti di parte ebraica -, perché per la prima volta veniva a dare una regolamentazione certa, e soprattutto uniforme, a tutte le comunità del Paese che, oltretutto, potevano usufruire del “braccio secolare” dello Stato per la riscossione dei contributi annuali dovuti, da ogni ebreo, alla comunità di appartenenza. Gli stessi ebrei non si resero conto del fatto che, con una regolamentazione così puntuale dell’organizzazione di una minoranza religiosa, lo Stato aveva compiuto un passo veramente decisivo verso il ritorno alla disuguaglianza dei culti[39].

La stessa diversità di tutela del sentimento religioso degli appartenenti alle confessioni di minoranza, rispetto a quella degli appartenenti alla Chiesa cattolica - evidente con il ritorno al giurisdizionalismo per i primi, e con l’adozione del regime concordatario per i secondi -, era, poi, un segnale di avvertimento ed al tempo stesso prima manifestazione di quella spaccatura che, nel giro di pochi anni, si sarebbe prodotta nei diritti civili e politici dei cittadini: già con le leggi del 1929‑1932 ci si avviava, insomma - ignorando bellamente le conquiste del periodo liberale -, a ristabilire la disuguaglianza dei diritti civili e, conseguentemente, la disuguaglianza dei cittadini[40].

La disuguaglianza dei diritti individuali dei cittadini a seconda che professassero la fede cattolica o non, infatti, emergeva già dalla comparazione di alcune disposizioni del Concordato del 1929 con quelle omologhe della legge sui culti ammessi, dal momento che le prime, innovando rispetto al sistema precedente, reintroducevano in Italia il matrimonio religioso canonico: così, mentre la legislazione concordataria consentiva ai cattolici la libertà di scegliere quale tra le due leggi, civile o canonica, avrebbe retto il loro matrimonio - e le diversità in proposito non erano di poco momento, considerando che il diritto canonico conosceva ipotesi più ampie di invalidità del matrimonio -, la stessa possibilità non era prevista per gli appartenenti alle confessioni di minoranza, che dovevano sottostare alla sola legge civile, anche se il matrimonio era stato celebrato dal proprio ministro del culto, secondo le disposizioni della legge sui culti ammessi.

Dagli ebrei, questa differenziazione di trattamento quanto al regime matrimoniale era percepita come particolarmente discriminante, dal momento che «non può dirsi che l’obiezione fondata sulla solida tradizione giuridica della Chiesa cattolica in contrasto con l’assenza di tradizione giuridica degli altri culti, potesse reggere di fronte alla considerazione della altrettanto solida tradizione giuridica, dell’altrettanto solida costruzione normativa e giurisprudenziale talmudica e rabbinica, che già aveva trovato un riconoscimento nel diritto italiano prima del 1865»[41].

Intanto, nel 1932, il Ministero dell’Interno assumeva le competenze in materia di politica dei culti, che precedentemente erano state del Ministero della Giustizia: come ha notato la dottrina più attenta[42], il cambiamento era destinato ad avere molteplici ripercussioni nell’immediato futuro, dal momento che sarebbe prevalsa una «mentalità poliziesca»[43] nell’applicazione della legge sui culti ammessi, della quale venivano esaltate le parti più spiccatamente giurisdizionalistiche, con il moltiplicarsi di controlli e divieti e la soppressione invece delle affermazioni di libertà; inoltre, un anno prima era stato emanato il nuovo T.U. di pubblica sicurezza, il cui art. 18 prevedeva la possibilità di considerare come pubbliche anche le riunioni private indette in luoghi aperti al pubblico: tale articolo ebbe sempre più vasta applicazione, e, anche grazie ad una opportuna interpretazione dello stesso, le confessioni di minoranza videro sempre più ristretti i propri spazi, fino a che non si giunse all’esplicito divieto di alcuni tipi di culto[44].

Nel 1938, prendeva forma definita e concreta la politica discriminatoria dello Stato fascista nei confronti degli appartenenti alla confessione israelitica, con l’emanazione di una serie di provvedimenti volti ad emarginare ancora di più gli ebrei dalla società civile: erano le leggi razziali.

Questi provvedimenti erano diretti a colpire non la religione in sé, ma piuttosto l’appartenenza al gruppo etnico ebreo, anche se, come sottolinea la dottrina più autorevole in proposito[45], lo scopo pratico della normativa in esame, il considerare la razza e non la religione, era semplicemente quello di non sottrarre alla regolamentazione neppure gli ebrei che, per evitare di sottostarvi, si fossero convertiti, ed il risultato vedeva comunque un ulteriore peggioramento della condizione della confessione ebraica, anche rispetto alle altre minoranze religiose, già pur esse discriminate rispetto alla Chiesa cattolica.

Le leggi razziali vennero progressivamente ampliate grazie all’introduzione - anche al di fuori dell’ordinaria pratica legislativa, attraverso semplici circolari del Ministero dell’Interno - di una nutrita serie di provvedimenti, che ebbero il risultato di allargare lo spettro delle persecuzioni ben al di là del già ampio ambito previsto dalle leggi originali[46], così che tra le numerose e pesanti discriminazioni avviate nei confronti dei soli ebrei spiccavano il divieto di insegnamento nelle scuole pubbliche, unitamente al divieto di frequentarle, l’esclusione dalle cariche militari e civili, dalle amministrazioni locali, il divieto assoluto di matrimoni “misti”, l’esclusione dalle professioni e dai commerci più importanti, fino ad arrivare, addirittura, all’affievolimento dei diritti testamentari ed alla limitazione delle proprietà immobiliari. Fino al momento della liberazione nazionale, gli ebrei sarebbero stati in una condizione deteriore addirittura rispetto a quella dei cittadini di Paesi dichiaratamente in guerra con l’Italia, che erano protetti dalle norme internazionali, e per i quali la legge italiana di guerra prevedeva non la confisca, ma solamente il sequestro dei beni[47]: agli ebrei, invece, veniva negato «non solo il diritto di avere, ma anche il diritto di essere»[48].

Nel 1982 uno studioso ebbe a scrivere che «anche se più di quattro quinti degli ebrei italiani sopravvissero alla guerra, essi subirono un duro colpo dal quale difficilmente si riprenderanno in un prevedibile futuro. In migliaia avevano abbandonato la Comunità, e circa seimila erano emigrati; molti di coloro che rimasero erano fisicamente e spiritualmente distrutti. Le usanze di vita ebraiche erano state interrotte e in molti luoghi era scomparso lo stesso quadro ambientale in cui si erano sviluppate. Trentasette anni dopo la caduta del fascismo, gli ebrei italiani conservano ancora soltanto una pallida sembianza della loro antica identità»[49].

[18]              Conforme, C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 156.
[19]  Cfr. P. Gismondi, L’autonomia delle confessioni acattoliche, cit., p. 637.
[20]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 52.
[21]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 63.
[22]  In G.U., 16 luglio 1929, n. 164.
[23]  In G.U., 12 aprile 1930, n. 87.
[24]  Così G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 45.
[25]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 53.
[26]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 53.
[27]  Cfr. M. Petroncelli, Diritto ecclesiastico, Napoli, 1977, p. 281.
[28]  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 48.
[29]  In tal senso, cfr. ancora G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 50.
[30]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 54, il quale precisa che «tale interpretazione trovava conforto nella stessa relazione Vassallo alla Camera dei deputati e nella relazione Boselli al Senato, ed era stata suggerita dal Chirografo 30 maggio 1929 di Papa Pio XI, per il quale in Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica». In senso conforme, cfr. anche G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 48.
[31]  In tal senso, cfr. ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 54.
[32]  In G.U., 15 gennaio 1931, n. 11.
[33]  In G.U., 31 dicembre 1931, n. 301.
[34]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 55.
[35]  G. Rossi, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979, p. 192.
[36]  La definizione si trova in A. C. Jemolo, Alcune considerazioni sul R.D. 30 ottobre 1930 n. 1731 sulle Comunità israelitiche, in DE, 1931, I, p. 75. Nello stesso senso, cfr.. R. Botta, L’attuazione dei princìpi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, cit., p. 169. In senso contrario, cfr. M. Falco, La nuova legge sulle comunità israelitiche italiane, in Riv. dir. pubbl., 1931, I, p. 512 ss.
[37]  Cfr. M. F. Maternini Zotta, L’ente comunitario ebraico, cit., p. 198. V. anche, amplius, infra, § 4.9.
[38]  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., pp. 120 s.
[39]              Osserva, tra l’altro, M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Milano, 1982, pp. 392 s., che «sebbene non vi fosse alcuna intenzione di persecuzione razziale nella mente di coloro che elaborarono le leggi sulle Comunità israelitiche italiane nel 1930 e nel 1931, la rigida organizzazione degli ebrei italiani sotto il controllo dello Stato sarebbe stata particolarmente utile ai gerarchi fascisti per la politica di segregazione sociale ed economica che essi intrapresero pochi anni dopo».
[40]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 63.
[41]  G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 64. Cfr. anche Id., Considerazioni “de iure condendo” in tema di matrimonio e di culti acattolici, in FI, 1960, IV, c. 154.
[42]  Cfr., ad esempio, G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 27.
[43]  Così, G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 27.
[44]  Su questo punto, cfr. P. Barile, Appunti sulla condizione dei culti acattolici in Italia, in DE, 1952, I, specialmente p. 354.
[45]  Cfr., a questo proposito, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., pp. 64 s., secondo il quale «l’obiezione ha una rilevanza solo formale; riguarda una misera frangia di ebrei non israeliti o di israeliti non ebrei; non tiene conto che la considerazione della cosiddetta “razza” anziché del culto aveva per il legislatore del 1938 e degli anni successivi solo lo scopo di colpire con la legislazione antiebraica anche i convertiti di comodo, i nuovi possibili “marrani”; ignora il carattere complesso, composito, insuscettibile di una definizione globale, dell’Ebraismo: legge morale e tradizione religiosa, popolo e cultura». Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 28.
[46]  Cfr. S. Caviglia, Un aspetto sconosciuto della persecuzione: L’antisemitismo “amministrativo” del Ministero dell’Interno, in RMI, 1988/1‑2, p. 234. Secondo F. Levi, Riflessioni su istituzioni e società di fronte alle leggi antiebraiche, in RMI, 1993/1‑2, p. 87, l’insieme di tutti questi provvedimenti diede origine ad un corpus normativo disorganico e, non di rado, anche contraddittorio, ma tuttavia capace di coinvolgere, oltre ai più diversi momenti della vita degli ebrei in Italia, anche quella dell’intero Paese.
[47]  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 79.
[48]  Così, ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 79.
[49]  M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, cit., p. 395. Cfr. anche M. Toscano, Le comunità ebraiche, in Aa. Vv., Le minoranze religiose in Italia, a cura di S. Ferrari - G. B. Varnier, Cinisello Balsamo (Milano), 1997, p. 19.

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