1936

LA FINE DEL SANZIONISMO
(ma l'Italia rimarrà nell'autarchia fino al 1945)

" Noi tireremo diritto "
"Marceremo fino in fondo"
"L'Italia non si è piegata con le sanzioni, né si piegherà mai".
" L'autonomia politica non si può concepire senza un'autonomia economica"
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Per quasi dieci anni l'Italia si chiuse dentro il suo piccolo bozzolo.

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Mussolini è accusato dalla Francia di aver turbato con la sua guerra,
e le sue « ambizioni imperialistiche »,
l'equilibrio continentale a tutto vantaggio per la Germania.
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Si va verso un altra guerra, in Spagna, in Europa !!!

Mussolini e Hitler
questa volta
FANNO LE PROVE !!!


La rapida vittoriosa marcia della colonna Badoglio su Addis Abeba aveva sconvolto tutti i calcoli e le previsioni di quegli esperti, sul cui avviso il Governo inglese aveva fondato la sua politica sanzionista.
"Non siamo noi - ha detto il ministro Eden dalla tribuna della Camera dei Comuni, replicando alle invettive dell'opposizione laburista che si opponeva fosse riconosciuto l'insuccesso della politica repressiva tentata da Ginevra - non siamo noi ad avere sbagliato, sono stati i nostri esperti, i nostri consiglieri che avevano sottovalutato le possibilità di resistenza dell'Italia e l'effettiva efficienza del suo corpo di spedizione in Abissinia".

Questa dichiarazione del ministro inglese riesce significativa per intendere il rapido cambiamento subito dalla politica del Gabinetto di San Giacomo, non appena apparve manifesto l'inevitabile successo della impresa militare italiana in Africa orientale.
La stessa costituzione dell'Impero, subito intervenuta per sanzionare senza indugi e irrevocabilmente la piena vittoria politica e militare, trovò in Inghilterra un'accoglienza che potresti dire favorevole, se tutto ciò non avesse ad apparire paradossale nel fresco ricordo dell'accanimento con cui quel Governo e l'opinione pubblica avevano trascinato la Società delle Nazioni nella sua più pericolosa avventura; benché sia, in fondo, facile intendere che, nello spirito della politica inglese, questi aspetti, che pure sembrano paradossali, si compongono invece in una più profonda continuità, determinata sulla base del tradizionale empirismo britannico.

L'Italia era riuscita nella sua impresa militare perché si era effettivamente rivelata molto più forte e compatta di quanto non lo avesse fatto credere la campagna diffamatoria della propaganda antifascista: restava ora da far conto delle conseguenze politiche di questo suo successo, e per i circoli londinesi sarebbe stato un gravissimo errore, tra i tanti già commessi, considerare « ab irato » le diverse possibilità che potevano prospettarsi in questo momento conclusivo, forse il più critico di tutta la crisi.
Errore che invece è stato commesso dalla Francia: e tanto più grave per essa che a Ginevra, durante l'infuriare della campagna sanzionistica, aveva ancora tentato di salvare, almeno in apparenza, lo spirito dei già sfioriti Protocolli romani.
Gli è che in Francia, nel frattempo, la politica interna aveva celebrato la costituzione del Fronte Popolare, che univa, sul piano elettorale e su quello parlamentare, tutte le forze della « sinistra » francese dai radical-socialisti agli affiliati della Terza Internazionale.

Fin dal gennaio Laval era stato rovesciato da una manovra interna al suo Gabinetto orditagli da Herriot : il quale, come capo del partito radical-socialista, si era dimesso dal Governo con gli altri rappresentanti del suo gruppo parlamentare, che era ancora il maggioritario.
La mozione di censura alla politica di Lavai metteva in rilievo il dissenso dal punto di vista interno e da quello internazionale : dal punto di vista interno si trattava sopratutto di creare un Gabinetto di transizione la cui politica non compromettesse l'esito delle prossime elezioni legislative; dal punto di vista internazionale si rimproverava a Lavai di non aver coltivato a sufficienza gli interessi che potevano fiorire intorno al patto franco-sovietico di mutua assistenza, ma principalmente di non essere stato abbastanza risoluto nel condurre l'azione repressiva contro l'Italia.
Laval - occorre ricordare - era implicato nel famoso progetto per una soluzione di compromesso offerto all'Italia nel dicembre, durante una fase che era stata considerata difficile per le sue operazioni militari, al fine di distoglierla dalla sua impresa; il ministro degli esteri britannico sir Samuel Hoare, anch'esso implicato nella faccenda, aveva dovuto essere subito sacrificato alle ire dell'opinione pubblica britannica: ora era stata la volta di Laval.

Il nuovo Gabinetto Sarraut non aveva, dunque, altro compito che quello di provvedere agli affari di ordinaria amministrazione del Governo, in attesa dei risultati delle elezioni nelle quali doveva esordire la nuova combinazione del Fronte Popolare: tanto che, quando, il 7 marzo, si ebbe la sorpresa della rioccupazione della Renania da parte delle Forze Armate tedesche, dopo un minaccioso sfogo oratorio - che per la sua violenza aveva fatto supporre l'imminente mobilitazione generale - Sarraut non ebbe la forza di reagire al remissivo comportamento del Governo inglese; anche in ragione dell'atteggiamento riservato assunto dal Governo italiano, che considerava sospesi tutti i suoi impegni verso gli Stati sanzionisti.

Questo smacco bruciò molto ai francesi, i quali, per la buona pace della loro coscienza democratica e dei loro istituti parlamentari, finirono per riversare tutta la responsabilità sul Governo italiano: accusato di aver turbato, per le sue « ambizioni imperialistiche », l'equilibrio continentale a tutto vantaggio per la Germania, creando nuove preoccupazioni ai francesi occupatissimi nei giochi della loro politica interna.

Il Fronte Popolare aveva impostato tutta la sua campagna elettorale su di una formula, tanto fortunata quanto equivoca: « guerra al fascismo »; formula equivoca ed indefinita, soprattutto su quel terreno ideologico sul quale veniva propagandata, perché, in Francia specialmente si era soliti bollare col marchio «fascista» tutti i partiti e tutti gli indirizzi reazionari; ma il più bello si era che, nel furore della mischia elettorale, anche i partiti moderati cercavano di approfittare del simbolo antifascista accusando il Fronte Popolare di « fascismo », fascismo s'intende di sinistra.

La vittoria del Fronte Popolare riuscì incontestabilmente clamorosa, segnando in special modo il successo dei socialisti i quali acquistavano, insieme con la maggioranza dei voti, anche la responsabilità del Governo.
Quanto ai comunisti, che dovevano essere i veri beneficiari della politica del Fronte Popolare, essi declinarono l'invito di partecipare al Governo per poter riservarsi di ricattare dal di fuori i camerati socialisti e radicali - preoccupati gli uni di perdere quella magnifica piattaforma elettorale che si era rivelato per essi il Fronte Popolare, gli altri di non essere abbastanza a sinistra per riacquistare quel favore popolare che si erano visti sfuggire alle elezioni - sui quali veniva così a ricadere tutto l'onere della cosa pubblica.

Ricordando ora quanto si è detto a riguardo dell'atteggiamento che l'Unione Sovietica aveva assunto di fronte al conflitto tra l'Italia e la Società delle Nazioni, riesce più facile inquadrare sotto questa luce tutti gli ostili moventi della politica estera del Governo di Blum nei confronti dell'Italia, fino al ritiro dell'ambasciatore francese a Roma De Chambrun, la cui sostituzione venne a porre in termini di stridente attualità la questione diplomatica del riconoscimento ufficiale dell'Impero italiano.

Alla fine di maggio un foglio londinese, che era considerato come il portavoce del ministro Eden e con ciò uno degli esponenti del sanzionismo britannico (Daily Telegraph del 28 maggio), pubblicava una intervista del Capo del Governo italiano, commentando favorevolmente la possibilità di un riavvicinamento italo-britannico.

Fu questo il primo segno della resa sanzionista: il compito, poi, di sollevare formalmente la questione davanti alla Società delle Nazioni se l'assunse uno dei soliti membri sudamericani, sempre disposti a prestarsi, data l'eccentricità della loro sfera d'interessi, ai servizi societariamente più spinosi.
Il nuovo orientamento politico del Governo inglese è rivelato dal ritorno nel Gabinetto di Baldwin del ministro Hoare, che qualche mese prima era stato sacrificato per essersi assunta la responsabilità di proporre, insieme a Lavai,, un accomodamento della vertenza italo-etiopica.

Il 10 luglio Chamberlain, allora Consigliere dello Scacchiere, parla in una riunione del partito conservatore sull'opportunità di togliere le sanzioni: all'indomani, ai Comuni, Baldwin sarà costretto a schermirsi dalle vivaci interpellanze dell'opposizione; tuttavia la decisione matura rapidamente; una settimana dopo il Governo approverà l'iniziativa per l'abolizione delle sanzioni. Le violenti proteste sollevate dall'opposizione, specie dai laburisti, non attenuano in nulla la portata dell'accoglienza favorevole riscossa dalla decisione governativa. In una democrazia parlamentare, qual'era quella inglese, l'opposizione non ha soltanto una funzione costituzionale nella procedura parlamentare, ma addirittura una funzione moralistica nell'atteggiarsi dell'opinione pubblica.
Gli inglesi hanno tutti una sicura comprensione delle esigenze della politica nazionale, quando anche contrastino con la loro pur viva sensibilità morale, ma esigono - anche il più nazionalista -- il rispetto di questi loro scrupoli, che debbono anzitutto poter trovare un libero sfogo; e questo può anche bastare a renderli soddisfatti verso se stessi, verso la loro coscienza e verso le istituzioni del Paese.

Quando l'opposizione laburista accusava il Governo di condurre una politica contraria ai principi della morale ufficiale, se le sue proteste trovavano un'effettiva rispondenza nell'interesse nazionale, allora il Governo doveva temere le reazioni dell'uomo della strada; ma, se questa rispondenza mancava, le censure dei laburisti e della stampa di opposizione, pur anche trovando la comprensione dell'opinione pubblica, valevano solo a sgravarne gli scrupoli. La voce dell'opposizione era come la voce della coscienza popolare ma, se erano salvi gli interessi dell'Impero, la sua libera espressione aveva per il pio «man in street » gli stessi effetti liberatori di una confessione purificatrice.

Nel luglio del 1936 il Governo inglese doveva far accettare dalla sua opinione pubblica il « fatto compiuto » della conquista abissina urtando in tal modo i sentimenti della morale ufficiale; ma, una volta che l'opposizione laburista aveva confessato liberamente la offesa che colpiva la sua coscienza, l'uomo della strada poteva anche intendere ed approvare gli interessi che avevano determinato l'improvviso capovolgimento della politica del suo Governo.

Quali interessi, dunque, muovevano ora la politica inglese inducendo lo stesso Eden ad annunziare, dal suo scranno di capo del Foreign Office, la fine di quella politica sanzionista di cui era stato, come ministro degli Affari per la Società delle Nazioni, il più accanito fautore?
Come si è detto, l'Inghilterra era stata indotta a contrastare, e così tenacemente, l'impresa italiana in Etiopia non tanto per un conflitto diretto contro l'Italia, quanto piuttosto in ragione degli interessi d'ordine più generale, che guidavano in quel tempo la sua politica. I motivi di diretto contrasto non erano sufficienti per condurre il Governo inglese a compromettersi fino a tal punto in quella politica antitaliana, anche se la conquista dell'Abissinia da parte di una Potenza mediterranea poteva costituire una minaccia per la sicurezza delle vie imperiali: e non soltanto per il congiungimento delle due antiche colonie italiane in un più vasto retroterra, quanto piuttosto per l'ipoteca dell'avvenire che questa conquista poteva rappresentare su altri territori circostanti.

Altri può pensare che fossero atteggiamenti antidemocratici del Governo fascista a suscitare la diffidenza inglese: ma nulla sarebbe più errato perché, fin tanto che si risolvevano all'interno della vita politica italiana, quegli atteggiamenti non riuscivano a toccare le suscettibilità democratiche del Governo britannico (e sopra si è detto entro quali limiti l' azione del Governo italiano si presentava allora come rivoluzionaria sul piano internazionale).
Per vero, la concezione strumentale della politica britannica sugli altri Paesi era resa anzi ancor più soddisfatta dalla presenza in questi ultimi di un Governo totalitario: perché, nell'idea che se ne facevano in quel tempo i maggiorenti della democrazia britannica, un regime totalitario era da considerarsi come sostanzialmente più docile e meno stabile, pertanto assai meno pericoloso per la politica britannica di un regime democratico, la cui fedeltà era se non altro più costosa da mantenersi.

I duraturi rapporti di fedeltà, più ancora che di amicizia, che legano all'Inghilterra Stati a regime totalitario quali, per esempio, il Portogallo, la Grecia, la Turchia, stanno pure a dimostrare qualche cosa a questo riguardo. Quanto alla polemica antifascista, che allora fu scatenata anche in Inghilterra, era soprattutto un facile strumento di propaganda che giocava sull'equivoco già denunciato a riguardo della Francia e del
Front populaire : gli elementi ideologici hanno larga presa sulle folle e, per quella loro apparente duttilità se non addirittura evanescenza, è facile che un Governo creda impunemente di potersene servire con una certa facilità.

Le ragioni della politica sanzionistica, voluta dallo stesso Governo inglese, debbono essere ricercate sul piano più generale della sua politica di equilibrio continentale: ma, anche su questo piano, non tanto facendo riguardo al rafforzamento che l'Italia avrebbe tratto dalla conquista abissina.
Occorre invece riprendere quel che si disse a proposito dell'atteggiamento britannico di fronte al convegno di Stresa ricordare le preoccupazioni destate dalla ritrovata amicizia franco-italiana, e per le quali non sai se avesse influito maggiormente la diffidenza verso la politica francese che non verso la stessa irrequietezza italiana; e tenere principalmente presente la posizione dell'Inghilterra nei confronti della Germania, che non si risolveva soltanto in quell'atteggiamento di possibile comprensione verso certi problemi tedeschi - come potrebbe anche sembrare a primo intuito - ma era assai più complessa perché, se da un lato le esigenze dell'equilibrio continentale portavano necessariamente l' Inghilterra ad aiutare la ripresa tedesca, dall' altro lato essa non era meno preoccupata di altri Paesi per gli impensabili sviluppi che avrebbe potuto assumere questa ripresa.
Basti considerare al riguardo che, nei primi mesi del conflitto etiopico, non si voleva neppure pensare alla possibilità di una conquista così totalitaria, e si era piuttosto portati a credere che, per qualche tempo almeno, la posizione dell'Italia avrebbe anche potuto rimanere indebolita dal continuato sforzo di dominare le genti etiopiche.

Il principale obiettivo cui mirava allora la politica del Governo inglese era di restituire in Europa, prima che fosse troppo tardi, il rispetto di tutti verso la «pace britannica», usando dell'istituto ginevrino come del garante di essa: l'azione repressiva che veniva condotta contro l'Italia avrebbe avuto certamente, se fosse riuscita, dei salutari effetti preventivi anche nei riguardi di tutti gli altri Paesi e in particolar modo della Germania (ed appunto per questo la Germania superò, fin dal primo momento, ogni possibile motivo di rancore verso l'Italia per aiutarne la resistenza).

Con poca fatica, forse con il solo spostamento della
Home Fleet, l'Inghilterra aveva creduto di ottenere, a spese dell'incauto ribelle che era venuto ad offrirgliene l'occasione, un clamoroso rafforzamento del suo prestigio, capace di ristabilire solidamente l'equilibrio europeo.
Nonostante ogni contraria apparenza il giudizio di Baldwin, che aveva indicato le frontiere dell'Inghilterra lungo le linee del Reno, restava uno dei caposaldi della politica continentale del Governo inglese: il quale tuttavia voleva anche impedire che le preoccupazioni destategli dal Terzo Reich aiutassero il gioco dell'Italia e della Francia.

Si dirà che tutto questo è molto, è troppo complesso per la politica di un Governo britannico: ma, a parte il fatto che questa politica era forse sostanzialmente assai più semplice di quanto non possa apparire a prima vista, comunque è certo che sarà proprio la complessità di tutti questi interessi a sventare il successo della politica britannica, e finirà col prendere la mano al Governo inglese fino a portarlo alla guerra in condizioni non certo rispondenti alle tradizioni della sua politica continentale.

D'altra parte, se non si tengono presenti questi superiori obiettivi della politica britannica, e si vuole ridurre il sanzionismo inglese a dei soli scopi antitaliani e antifascisti (nel senso in cui noi usiamo questa parola), come effettivamente era per vaste cerchie politiche francesi, non sarebbe più possibile intendere le ragioni dell'improvviso cambiamento della politica britannica all'indomani della vittoria italiana in Etiopia, e tanto meno tutti i tentativi che sono stati fatti per restituire la « tradizionale amicizia ».

Il pronto abbandono della politica sanzionista - dovrebbe esser chiaro - mirava a reintegrare nel sistema della politica continentale inglese un'Italia che doveva considerarsi oramai « soddisfatta » e che era isolata nel bel mezzo dell'Europa, perché i rapporti con la Francia si erano guastati definitivamente.

Il turbamento europeo, provocato dalla crisi etiopica, aveva messo Mussolini nelle braccia di Hitler, aveva quindi avvantaggiato la Germania, ed aveva indebolita la Francia: manifeste esigenze di equilibrio facevano perciò apparire come un elemento di stabilizzazione anche la costituzione dell'Impero italiano, tanto più che quest'Impero non aveva ancora una vera espressione economica; l'Italia doveva, adesso, pensare a valorizzarlo; e questa - era giudicata a Londra - un'impresa ancor più difficile della conquista militare.

Gli esperti della City giudicavano che questa volta l'Italia non avrebbe potuto «fare da sé», che le sarebbero occorsi degli ingenti aiuti finanziari: sola, isolata in mezzo all'Europa, e gravata dal peso della sua conquista, a chi avrebbe potuto rivolgersi l'Italia se non all'Inghilterra?

Avrebbe trovato una buona accoglienza, perché il prezzo dell'usura era già fissato: rinunziare a tutte quelle velleità politiche che erano fermentate nei momenti critici del conflitto porsi al servizio dell'Inghilterra per restituire la «pace britannica» all'Europa.
Per chi, dunque, avrebbero combattuto contro la zagaglia abissina ed il piombo europeo i legionari italiani nelle assolate contrade etiopiche, se non per la gloria dell'Impero inglese?

Per vero, all'indomani della vittoriosa campagna etiopica e della costituzione dell'Impero, nonostante la pronta levata delle sanzioni, la posizione continentale dell'Italia, se considerata nei suoi riflessi immediati, non appariva delle più agevoli.
La politica italiana ritornava a riprendere nel quadro europeo le fila che da un anno aveva lasciato sospese; per un anno tutti i suoi interessi avevano fatto massa sui due fronti di battaglia su cui si era dovuta impegnare: su quello ginevrino su quello etiopico. La vittoria era giunta rapida a smobilitare l'uno l'altro fronte, ma nel frattempo le forze che reggevano l'equilibrio europeo avevano subito delle variazioni non indifferenti nelle loro reciproche reazioni. Non erano passati quindici mesi dal convegno di Stresa, tuttavia profondi erano i cambiamenti che l'Italia ritrovava al suo ritorno nel gioco della politica continentale.

Della Francia e dell' Inghilterra si è già detto : le relazioni italiane con la Francia erano come mai tese, quasi che i francesi si sentissero in certo qual modo responsabili di aver agevolato con Laval le aspirazioni espansionistiche italiane non volessero più perdonarla di averne approfittato.

Con l'Inghilterra, invece, c'era stata subito una schiarita per il diverso atteggiamento assunto nei confronti dell'Italia dal Governo inglese ma la diffidenza era rimasta, pur dietro i diplomatici sorrisi dei primi approcci!
«Timeo britannos et dona ferents'» sembrava dire l'Italia, spiando lontano le forche caudine che i banchieri e gli uomini politici della City si preparavano ad offrirle come arco per il suo imperiale trionfo.

La Germania aveva, con rapido intuito, afferrato fin dal primo momento la profonda coincidenza d'interessi che la legava all'Italia e, non solo aveva saputo cancellare tra i motivi della sua politica ogni ragione di rancore, ma aveva anche saputo evitare di creare nuovi motivi di attrito o di diffidenza tra i due Paesi.

La crisi etiopica le era servita per la realizzazione dell’“Anschluss”. A prima vista, questa sua rinunzia a cogliere l'occasione offertale dalla eccezionale situazione in cui si trovava l'Italia poteva essere stata giudicata un errore; la Germania non aveva certo rinunziato a riassorbire l'Austria nel grande Reich, ma sapeva di poter attendere di arrivarci d'accordo con l'Italia.
Nel Mein Kampf era scritto che i tedeschi dovevano sapersi accattivare due amicizie per poter realizzare le loro aspirazioni : quella italiana e quella inglese.

A riguardo di quest'ultima, né la visita a Berlino di Simon e di Eden, né la conclusione dell'accordo navale avevano potuto velare gli effettivi limiti che avrebbero ostacolato una cooperazione anglo-tedesca lungo la marcia trionfale del Terzo Reich: a Berlino, meno che altrove, non era sfuggito il vero significato di quella prova generale sanzionista che l'Inghilterra stava dirigendo contro l'Italia; un'intesa italo-tedesca, invece, aveva sempre maggiori possibilità di riuscita.

C'erano sì gli allettamenti inglesi per un ritorno alla tradizionale amicizia, ma era troppo manifesto il loro vero intento di frodare l'Italia del frutto più saporoso della sua vittoria, col volerle togliere quella aureola che illuminava il suo prestigio di giovane nazione dinamica ultima arrivata nell'arengo europeo, e che era il solo premio che immediatamente le avesse offerto la sua conquista.

L'Impero italiano, in quel momento, era ricco di molti significati politici, ma ancora privo di una vera consistenza economica e militare; ciò che impediva all'Italia di passare sotto le forche caudine di un aiuto finanziario inglese erano proprio i vistosi ornamenti imperiali che coprivano sul suo carro di trionfo, la mancanza di una ricca preda di guerra. Non erano sufficienti le "banane per tutti".

Ma il quadro europeo, ormai, non sarebbe più completo, se non si tenesse conto della Russia che, con la sua politica ginevrina e con il patto con la Francia, era riuscita ad aprirsi un largo varco nella politica continentale.

L'atteggiamento rigidamente societario, assunto dalla Russia nel conflitto tra la Lega delle Nazioni e l'Italia, aveva giovato alla politica sovietica non meno certo di quanto avesse contribuito a compromettere l'istituto ginevrino.
Questo ritorno della Russia in Europa era riuscito piuttosto fortunato, non soltanto per quei due patti con la Francia e con la Cecoslovacchia - che venivano ad inserire immediatamente l'Unione Sovietica nel bel mezzo del gioco delle forze che reggevano l'equilibrio europeo - ma anche per il successo che la delegazione russa era riuscita a riscuotere a Ginevra tra gli Stati minori, che si erano lasciati convincere di essere minacciati dalla prepotenza di quelle che la propaganda sovietica bollava come le Potenze « imperialistiche ».

In conclusione, la responsabilità per il fallimento sanzionista era venuta a ricadere sulla Francia e sull'Inghilterra, l'una perché accusata di aver voluto, in un primo momento, indulgere alle aspirazioni italiane, l'altra per non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo accettando il rischio di un conflitto armato con l'Italia: soltanto la Russia, tra le grandi Potenze sanzioniste, restava indenne da questa censura che essa stessa, d'altra parte, badava a coltivare per mettere in luce i vincoli di omertà che avrebbero legato indissolubilmente tutte le Potenze « imperialistiche ».

La Russia, del resto, sfruttava la campagna « antifascista » fino a coinvolgervi la stessa Inghilterra e vaste cerchie della politica francese: un segno manifesto del vivo favore, che era riuscita ad accattivarsi la politica sovietica, e non soltanto dei diplomatici, era il fenomeno dei « Fronti popolari », costituiti sotto l'insegna del più acceso antifascismo in Francia, in Spagna.
Perfino in Inghilterra, se non si arrivò ad una formale collaborazione con i comunisti, non mancarono delle manifestazioni a loro particolarmente favorevoli. Un segno caratteristico di questa politica dei «Fronti popolari» era la preoccupazione degli uomini e dei partiti, anche del centro, di non apparire abbastanza a sinistra per incontrare le simpatie popolari: nella sua manifestazione più immediata, il «Fronte popolare» appariva come un blocco elettorale per regolare la concorrenza verso l'estrema sinistra.

La propaganda comunista attecchiva negli ambienti più disparati. Negli Stati Uniti, per esempio, trovava anche il favore dei facili milionari del bel mondo americano: se su questo terreno in fondo aridissimo le radici non penetravano nel profondo, tuttavia la fioritura riusciva tra le più vistose; in Inghilterra, la severa disciplina sociale valeva ad arginare il fenomeno in manifestazioni affatto pericolose; ma in Francia finivano per esserne pervasi tutti i ceti sociali in conseguenza della facile adesione che era stata data dagli ambienti intellettuali parigini: la propaganda comunista trovava al suo servizio le migliori penne dei giovani e più intelligenti letterati francesi. Ma era sopratutto in Spagna che l'opera di questa propaganda aveva trovato facile presa nel profondo della vita politica del Paese.

Il decadere del partito radicale, che al centro aveva costituito un elemento di equilibrio tra le ali estreme della destra e della sinistra, favorì in Spagna la formazione di due blocchi opposti. Il
Frente popular, che raccoglieva tutti i partiti della sinistra - dai radicali democratici di Martinez Barrio agli anarchici sindacali ancora legati alle dottrine comuniste della prima internazionale - fu costituito subito dopo lo scioglimento delle Cortes - nel gennaio del 1936 - per impedire la vittoria del partito conservatore dell'Azione popolare di Gil Robles: quest'ultimo, pur avendo il gruppo parlamentare più numeroso, era stato impedito di prendere il potere perché il Presidente Alcalà Zamora aveva preferito indire le nuove elezioni temendo che un Governo reazionario potesse attentare alla costituzione repubblicana.

Le elezioni segnarono un vero trionfo per il blocco della sinistra che riuscì a mandare alle Cortes 263 rappresentanti, mentre la coalizione antirivoluzionaria della destra - raccolta intorno al partito di Gil Robles - ne portava soltanto 135.

La vittoria elettorale del
Frente popular, ben lungi dal placare, come in Francia, i contrasti tra i partiti opposti, valse ad invelenirli ancora di più, anche perché in realtà i risultati delle elezioni non rispondevano esattamente all'entità delle forze in contrasto. Il sistema elettorale aveva agevolato sensibilmente il blocco della sinistra, la somma totale dei voti da questa riportati -non avrebbe vinto su quella complessiva ottenuta dalla coalizione conservatoria : questo divario finiva per rimettere in discussione ogni giorno, nella catena delle violente rappresaglie, il verdetto elettorale mentre, in seno allo stesso blocco delle sinistre, i gruppi estremisti agivano sull'incontenuta forza popolare per esigere riforme sempre più radicali.

L'agitazione del paese si trasfondeva in parlamento: uno dei primi atti delle nuove Cortes fu la destituzione del Presidente Zamora che ora veniva a costituire un ostacolo ai programmi più estremisti delle sinistre.

Tutti questi elementi di disordine favorivano i movimenti autonomisti della Catalogna, della Castiglia, della Galizia.

La rivoluzione nazionale spagnola prende inizio con una rivolta militare, il 27 luglio 1936 a Melilla ed a Ceuta. Mentre il Marocco spagnolo cadeva nelle mani degli insorti, comandati dal Generale Francisco Franco della zona militare delle isole Canarie, altri focolai di rivolta si accendevano in diverse guarnigioni del territorio metropolitano: Siviglia, Cordova, Granata nella Spagna meridionale; Valladolid, Burgos, Saragozza, Pamplona nel nord; Toledo nella Nuova Castiglia furono i primi principali centri tenuti dall'insurrezione militare contro le forze governative, che allineavano le formazioni armate volontarie raccolte dai partiti dell'estrema sinistra al fianco delle truppe rimaste fedeli. Nei due centri più importanti di Madrid e di Barcellona la rivolta poteva essere soffocata dopo una breve resistenza: nel frattempo, dei veri e propri fronti di battaglia si venivano aprendo nei punti strategici del territorio spagnolo.

L'insurrezione militare si allargava così fino a diventare una guerra civile: una sanguinosa guerra civile che per circa tre anni porterà gli spagnoli a combattersi sotto opposte bandiere con le armi più micidiali della guerra moderna.

Ad aiutarli
- senza averlo chiesto questo aiuto -
con queste nuove armi micidiali moderne
sono Hitler e Mussolini

DOVE FANNO LE PROVE
(Dirà poi cinicamente Goering "perfettamente riuscite" )


L'INTERVENTO IN SPAGNA > > >

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accaparra materie prime

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