ANNO 1943

BOMBARDATE NAPOLI !!!
"NAPOLI COLPITA ! NAPOLI BRUCIA !"


Il Vesuvio (attivo) faticava a fare concorrenza agli incendi delle bombe;
ed era un vulcano !


Roosevelt:
" Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l'Italia ad un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo" (lettera di Roosevelt a Churchill, del 25 luglio 1941. - Doc. 67, pag. 151 - Loewenheim- Langley- Jonas, Roosevelt and Churchill). -
"...deve essere nostro irrinunciabile programma un sempre maggior carico di bombe da sganciare sopra la Germania e l'Italia"
(Ib. del 31 ottobre 1942 , doc. 180, pag. 325) - "....Bombardare, bombardare, bombardare ...io non credo che ai tedeschi piaccia tale medicina e agli italiani ancor meno ...la furia della popolazione italiana può ora volgersi contro intrusi tedeschi che hanno portato, come essi sentiranno, queste sofferenze sull'Italia e che sono venuti in suo aiuto così debolmente e malvolentieri.." (Ib. del 30 luglio 1943, doc. 246 . pag 358).


Del resto è quello che voleva fare Mussolini:

"La guerra dall'alto deve essere condotta in modo da scompaginare i dispositivi del nemico, dominare il cielo, fiaccare il morale delle sue popolazioni."
(Dal discorso pronunciato al Senato, il 30 marzo 1938. - Scr. e Disc. vol. XI, pag 247)

"Bisogna che l'Aviazione sia così numerosa e così potente che l'urlo dei suoi motori copra qualunque altro rumore nella Penisola e la superficie delle sue ali oscuri il sole". (vedi Napoli sopra
)
(Dal discorso al Parlamento il 26 maggio 1927 - Scr. e Disc. vol VI, pag. 72)

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LA GUERRA A NAPOLI

(Brano autorizzato da "Frammenti di Napoli" del Prof. Aldo De Gioia - Un testimone)


"Nel 1940 la città era impreparata ad ogni evento bellico, con pochi ricoveri pubblici efficienti, tenuto conto che molti di essi erano vecchie cantine trasformate e protette da muri paraschegge.

I primi aerei nemici che apparvero furono ricognitori inglesi i quali, non incutendo timore, furono indicati come " ’e fotografe" , così come Hitler, fürher del terzo Reich, fu soprannominato " ’o furiere".

La difesa della città venne affidata ai cannoni delle navi che si alternavano nel porto; scadente era l’aiuto della contraerea. Gli agenti dell’U. N. P. A. (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) con i capi-palazzo erano gli addetti al soccorso dei civili e allo spegnimento degli incendi in palazzi e rifugi. Le autovetture circolavano con parafanghi bianchi e fanali azzurri. Nelle ore serali vigeva l’oscuramento col divieto di accendere le luci.

Le prime bombe caddero nella notte del 1° novembre del 1940; alle 4,20, iniziarono i bombardamenti notturni inglesi che si protrassero fino al novembre del 1941.

Il 4 dicembre del 1942, con un’incursione che provocò novecento vittime, iniziarono i bombardamenti americani, sempre diurni e di forte intensità. In tal maniera si passò a quelli del 1943, con centinaia d’aeroplani i quali, in pochi minuti, seminarono morte e terrore con attacchi a tappeto, senza ricerca di obiettivi.

Nel primo anno di guerra i Bristol Blenheim inglesi crearono seri problemi lungo la zona portuale dei Granili e di S.Giovanni a Teduccio, devastando gli stabilimenti della società "Alecta", della "Precisa", della "Agip" e della fabbrica di legno "Feltrinelli"; proseguirono nella zona del corso Umberto, fino a Pozzuoli, aumentando sensibilmente il numero dei decessi che raddoppiò nel 1941.

La paura insegnò a conoscere il pre-allarme, il quale si segnalava quando la radio cessava le sue trasmissioni. La città si spopolava, si riempivano i ricoveri, mentre suonavano le sirene che annunciavano l’imminente pericolo.
In compenso la vita proseguiva regolarmente e, dopo le ore di lavoro, funzionavano ristoranti, ritrovi e cinema, malgrado il razionamento dei capi di vestiario, generi alimentari e carburante. Tuttavia, con l’incalzare delle incursioni, ciascuno avvertì la gravità del momento e, pertanto, aumentarono le richieste di rifugi sicuri.
Molti usavano tunnel cittadini, come la galleria del IX Maggio (intitolata alla festa dell’Impero, ed oggi alle Quattro Giornate), nonché quella del Chiatamone dove si trasferì l’Arsenale Marittimo.

La prima incursione del 1941 portò la data dell’8 gennaio e recò danni in via Stella Polare (Corso Arnaldo Lucci) e al Borgo Loreto. Si susseguirono altre, non meno cruente, tra le quali una fortissima il 10 luglio, con danni alla Raffineria di via delle Brecce, nonché ai Rioni Stella, Platania e Speranzella.
Altri bombardamenti del 9 ed 11 novembre , furono effettuati allo scopo di demolire la ferrovia, il porto e le fabbriche più importanti.

Spesso accadde che i palazzi colpiti crollassero sui ricoveri sottostanti, intrappolando centinaia di persone. Fortunatamente i vigili del fuoco furono solerti a prestare soccorso, anche a rischio della propria vita. Non sempre, tuttavia, riuscirono nel loro intento, come accadde il 18 novembre, quando un grappolo di bombe esplose sul ricovero di Piazza Concordia, uccidendo gran parte degli occupanti e seppellendo i superstiti sotto le macerie. Fu una strage!

Il 1942 segnalò complessivamente sei incursioni, apparentemente poche, ma calcolate per preparare il terribile 1943.
Dopo le bombe del e 27 novembre si giunse al 4 dicembre, giorno della prima incursione americana.
Nel pomeriggio, alle 16,45, arrivarono fulminei stormi di aerei "Liberators" i quali, eludendo gli avvisatori scaricarono valanghe di tritolo su Napoli.
Nessuno riuscì a capire cosa stesse succedendo. Furono colpiti, improvvisamente, uffici, case, negozi, chiese, ospedali. Senza poter trovare scampo la popolazione fu mitragliata per le strade che si riempirono rapidamente di morti e feriti.

Il Palazzo delle Poste fu il primo ad essere centrato insieme ad alcuni mezzi pubblici che stazionavano nella piazza adiacente. Tra questi il tram n. 9 che restò bloccato, sui binari contorti, zeppo di passeggeri. Testimoni raccontarono di aver visto tanti morti, seduti e composti, come fossero vivi, in attesa della partenza.
Furono devastate le vie Monteoliveto, Vittorio Colonna, Protopisani e la zona di Porta Nolana. Danni terribili si verificarono nel porto, dove furono affondati gli incrociatori Nunzio Attendolo, Eugenio di Savoia ed il Montecuccoli.
Restò da chiedersi perché mancò l’allarme e come gli aerei nemici fossero arrivati senza intercettazione. L’opinione comune ritenne che i bombardieri americani avessero raggiunto Napoli accodandosi ad alcuni caccia tedeschi di ritorno alla base.

L’ultima terribile incursione del’42 fu quella del 15 dicembre che distrusse l’ospedale Loreto, il Gasometro, i bacini della Navalmeccanica e l’incrociatore Arborea.

Giunse così il 1943, anno luttuoso e terrificante, che fece segnalare dall’inizio della guerra all’8 settembre, ben 181 bombardamenti sulla nostra città, ormai, allo stremo delle forze.
Eppure, in quelle condizioni, le sale cinematografiche funzionavano ancora: all’Alambra si proiettava "La maestrina", al Diana "Addio Kira", al Modernissimo "Malombra", al Bellini "Romanticismo". Arrivarono i primi profughi dalla Libia, da Rodi, dalla Dalmazia.
Le incursioni si susseguivano senza tregua. Nel cielo di Napoli si presentavano anche trecento fortezze volanti che scaricavano grappoli di bombe colmandoci di macerie, tingendoci di sangue. Fra le zone più colpite figurava via Salvator Rosa che inaugurò i primi cimiteri provvisori, dove i vigili del fuoco non riuscirono a portare soccorso. Un velo di calce e una bandiera testimoniarono la presenza di morti sotto le macerie in attesa dell’escavazione.

Furono tragici accadimenti che gettarono sconforto sulla popolazione destinata a resistere come poteva, mentre i militari assegnati alla difesa cittadina si coprirono di gloria, combattendo senza paura, abbattendo aerei nemici, morendo da eroi.
Napoli ritrovò i figli suoi, il sangue partenopeo cominciò a bollire di rabbia, indipendentemente dalle fazioni, di chi voleva o non la guerra, il momento era supremo, se la morte fosse arrivata l’avremmo affrontata con la dignità delle persone per bene.
Povera Napoli, non erano bastate le piaghe di tanti secoli, adesso arrivava un nuovo flagello con le bombe incendiarie, i mitragliamenti, la paura, la fame, la sete!

Nei ricoveri non c’era più scampo, guai a cadere per le scale che immettevano nel sottosuolo, la massa umana travolgeva, spazzava. La mamma che perdeva il figlio non lo ritrovava più, lo vedeva sparire nel buio del rifugio. Quando la luce mancava, come di consueto, ciascuno, investito da una massa nera, invocava i propri cari e tutti i Santi, tra gemiti di feriti e urla di disperazione. Testimonianza di tanto furono i ricoveri di Piazza S. Gaetano ai Tribunali, del Cavone, di Piazza Augusteo, dei Quartieri Spagnoli. Chi scrive ha vissuto queste vicende in prima persona , da bambino di otto anni, appartenuto a quella generazione del " ’43": "guagliune surdate".

La nostra infanzia fu molto triste, ci regalò il suono lugubre delle sirene, i fischi delle bombe e tanti morti!
In gennaio continuarono le incursioni pomeridiane, che servirono al nemico per mantenere la tensione sulla città, mitragliando la gente per le strade, bombardando civili abitazioni.
Furono colpite le zone di Battistello Caracciolo.....

...Piazza Canneto, via Girolamo Santacroce, e via Salvator Rosa, con altissimo numero di vittime, destinato ad aumentare pochi giorni dopo, quando altre massicce incursioni devastarono il Ponte della Maddalena, insieme ai Pontili Elena d’Aosta e Vittorio Emanuele, nonché la zona litoranea, dai Granili a via Benedetto Brin.


Il 21 febbraio un’altra incursione passò alla storia come la strage di via Duomo, per il gran numero di vittime e lo scempio nelle strade di Forcella, Duomo, Foria, Tribunali, nei vicoli adiacenti ai Mannesi, in piazza San Gaetano e via Atri.
Un triste episodio si verificò nel ricovero di Piazza San Gaetano, dove molte persone, prese dal panico, precipitarono per le scale restando schiacciate nella caduta.
Anche marzo iniziò con una tremenda incursione che, in un vasto raggio di azione colpì le zone del Carmine, S. Eligio, via Pignasecca, Piazza Cavour, via Cavaiole, Capodimonte e, come al solito, il porto, dove affondarono alcune navi.

La domenica del 28 marzo mentre si celebrava la festa dell’aviazione, si verificò uno degli episodi più terribili della guerra a Napoli. La nave Caterina Costa, adibita ai viaggi per il trasporto di viveri e munizioni, scoppiò nel porto prima di salpare per Biserta.
Sicuramente un sabotaggio provocò l’incendio, che diventò sempre più vasto, fino a coinvolgere il carico di benzina, di mille tonnellate, e quello esplosivo, di novecento. Si verificò una tremenda deflagrazione che mandò la nave in frantumi. La banchina sprofondò, altre unità navali ormeggiate presero fuoco e affondarono. Una pioggia di fuoco e ferro piovve sulla città. Lamiere di carri armati, contenute nella stiva, finirono in via Atri e piazza Carlo III. Schegge roventi portarono altri incendi nella stazione Centrale, in piazza del Mercato, nello stabilimento della Cisa-Viscosa, nell’Archivio di Stato. Migliaia tra morti e feriti, disseminarono le strade. Fu un grave disastro che sebbene minimizzato dalla nostra stampa, suscitò enorme sgomento.

Dopo tale incidente Napoli non ebbe scampo. Si susseguirono i bombardamenti di aprile che disastrarono le strade del Corso Garibaldi, via delle Zite a Forcella, San Giuseppe dei Ruffi, San Giovanni in Porta, via De Pretis, via Martucci, Piazza Amedeo, Parco Margherita, via Morghen, Santa Lucia, dove fu abbattuto l’albergo Russia, con grande strage di civili. Scomparvero il molo Pisacane con i piroscafi Sicilia, San Luigi e Lombardia che ad esso erano attraccati. Devastata fu anche via Medina dove, miracolosamente, restò illesa la chiesa di San Giuseppe, mentre fu raso al suolo l’attiguo albergo Isotta e de Genève.

A maggio e giugno i bombardamenti diradarono ma quelli che arrivarono furono sempre massicci e devastanti. È chiaro che il nemico preparava l’attacco finale per iniziare l’invasione della Sicilia. Il 13 luglio, in una ennesima incursione, se ne andò anche il caffè Vacca della Villa Comunale. Il vecchio ritrovo ottocentesco, a pochi passi dal chiostro della musica, composto da due piani, contornato di tavolini e sedie, aveva visto passare nei suoi locali i più bei nomi dell’arte e della cultura europea.
Napoli non oppose più resistenza, era una città distrutta che a stento sopravviveva. In tali circostanze un riconoscimento spettò ai Vigili del Fuoco che prestarono la loro opera con intrepido coraggio, salvando migliaia di persone da roghi e macerie.

I napoletani con gratitudine, li soprannominarono " ’e cape ’e fierro" per il caratteristico copricapo di metallo brunito. Il loro quartier generale fu nella città antica, nella zona dei tribunali, in via del Sole, da dove si spostavano le squadre di soccorso per raggiungere i presidi periferici appena avvistati gli apparecchi nemici.
Nel vederli partire il popolo, accorgendosi dell’imminente pericolo, si metteva in movimento urlando: "Fujte, s’o’ asciute ’e cape e fierro!…"e di lì a poco succedeva l’inferno, ormai consuetudine, sotto gli attacchi sempre crescenti e apocalittici che raggiunsero il culmine nel terribile 4 agosto, data fatidica della più grande incursione aerea subita dai napoletani.
Svoltando dietro il Vesuvio quattrocento aerei della Mediterraneam Bomber Command arrivarono sulla città seguendo una rotta diversa da quella usata in altre occasioni.
Sganciarono centinaia di bombe dirompenti e incendiarie, scendendo poi a bassa quota per mitragliare la popolazione inerme che fuggiva.

Erano le 13,35, il massacro durò fino alle 14,50, colpendo ogni dove, ospedali compresi. Una catastrofe immane che minacciò di bruciare secoli di storia, cultura e civiltà.
Mai Napoli, come quel giorno, fu tanto vicina alla distruzione.
Mentre cadevano i grappoli di bombe, tremavano i vecchi decumani, insieme alla città, satura di morte. Tremammo tutti di paura e di rabbia.

Fummo soffocati dalle macerie, specialmente nel Rione Santa Chiara, dove la meravigliosa chiesa, avvolta dalle fiamme, aprì una piaga ulteriore nella nostra anima. La distruzione del tempio si compì in pochi minuti sotto scariche micidiali di tritolo che la ridussero ad un ammasso di macerie fumanti.


ciò che restava dell'altare di Santa Chiara


C’è da chiedersi se fosse stato necessario privare il mondo di uno dei suoi monumenti più belli e quale utilità avesse avuto il nemico ad accanirsi contro Napoli, in una guerra ormai vinta.
Molti luoghi sacri furono colpiti, sensibilmente si assottigliò il loro numero. Tra l’abbattimento di zone rionali, dopo il colera del 1884, e i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, scomparvero più di cento chiese. Da 451 che erano, restarono 323.

Di fronte a tanto scempio migliaia di persone piansero, poi qualcuno trovò la forza di urlare : "Napule nun po’ murì!". Un grido che ridestò speranza. Apparve chiaro che le sorti della guerra erano segnate. Si auspicava la fine, seppure con la resa, che avrebbe dovuto portare un raggio di sole su tanto squallore. Invece il peggio doveva ancora venire e giunse puntualmente con l’armistizio e le Quattro Giornate, con altro sangue da spargere e bombardamenti, questa volta tedeschi.
Ma prima che tanto arrivasse bisognò constatare un’altra terribile incursione, quella del 6 settembre che durò circa 24 ore, risultando nelle statistiche la più lunga di tutte.
In tale accadimento furono distrutti parecchi caseggiati del Vomero, Corso Vittorio Emanuele e Parco Margherita. Scomparve il cinema Corona in via dei Mille, danni ingenti si verificarono nell’ospedale dei Pellegrini.

L’incursione più breve capitò il giorno dopo, durò pochi minuti, dopo mezzanotte. Ma l’ultima, americana, fu quella del giorno 8, anch’essa brevissima, e quando la popolazione uscì dai ricoveri si diffuse la notizia dell’armistizio. Contemporaneamente, a Maiori, iniziò la sbarco dei Rangers. Ma i tedeschi resistettero abilmente in tutta la Campania e gli alleati non riuscirono a respingerli. Napoli si venne a trovare con nuovi nemici; iniziò un periodo spaventoso che durò tutto il mese.

Le truppe italiane erano sbandate, i nostri soldati e i giovani napoletani si nascosero sulle colline dei Camaldoli e di Capodimonte, nei meandri della Sanità e del Mercato, nei vecchi ipogei delle Fontanelle e di S. Efremo vecchio, nelle campagne del Vomero, in attesa del da farsi, per guadagnare tempo e prendere una giusta decisione.
Intanto, la 5ª Armata del Generale Clark, fu quasi gettata in mare. Si salvò con l’arrivo dell’8ª (richiesta da Eisenhower) la quale, guidata dal Generale Montgomery, riportò la situazione verso gli iniziali orientamenti.
A questo punto i tedeschi, per non lasciare la martoriata Napoli nelle mani degli anglo-americani, per togliere loro l’uso di una grande base marittima, stabilirono di applicare il piano di sterminio che venne denominato "fango e cenere".

Di fronte a tale pericolo si scatenò una sanguinosa rivolta, forse dettata dalla disperazione, ma non si può escludere che fosse stata organizzata, visto che in agosto si era formato il Comitato dei Partiti Antifascisti con de Ritis, Palermo, Rodinò, Parente, Ferri e Ingangi. Benedetto Croce che riuscì a raggiungere Capri, già in mani alleate, iniziò la formazione del nuovo governo.

Intanto, i napoletani uscirono dai loro nascondigli e iniziarono la lotta invadendo le caserme e il Distretto Militare di Via Foria, per rifornirsi di armi.
I primi scontri furono coi fascisti dell’Avv. Domenico Tilena, (ultimo federale di Napoli) i quali si batterono dall’alto degli edifici come accadde sui tetti della Rinascente, in via Roma, o sui palazzi di Montecalvario, via Duomo, San Giovanni Carbonara, sulle torri aragonesi di Porta Capuana, o in vico Trone a Materdei, dove si mise in luce la popolana Maddalena Cerasuolo detta "Lenuccia" la quale rifornì gli insorti con cestini, colmi di bombe a mano.
Ma prima di esaminare lo scoppio della rivolta occorre considerare gli episodi che l’hanno preceduta e il peso che hanno avuto sul popolo.

Il giorno 9, appena dopo l’armistizio, i napoletani, per la prima volta, attaccarono i tedeschi davanti al Palazzo dei Telefoni e successivamente in via Campodisola, dove i nazisti avevano tentato di saccheggiare un negozio di alimentari.
Il 10 si verificò una vera battaglia in Piazza Plebiscito e nei giardini della sottostante Litoranea, col bilancio di tre morti per parte.
L’11 i germanici incendiarono una parte della Biblioteca Nazionale e uccisero il giovane Enzo Folliero sparando sulla folla che tentava di fermarli. Il misfatto venne evitato in parte, diversamente da quanto capitò pochi giorni dopo nel nolano, dove furono distrutte migliaia di opere e documenti storici, ritenuti in luogo sicuro nell’Archivio di Stato di San Paolo Belsito.
Il 12 il Colonnello Scholl (comandante a Napoli delle truppe tedesche) ordinò lo stato di assedio, minacciando feroci rappresaglie per gli inadempimenti alle regole del suo proclama e per coloro che avessero ascoltato radio Londra. Fece fucilare per diserzione un marinaio sulle scale dell’Università e, nel contempo ordinò che fosse distribuito olio e farina nei quartieri più affamati, alla presenza di macchine da presa che filmarono le relative scene a beneficio della propaganda nazista.

Furono poi fucilati altri sei militari italiani in piazza Bovio, davanti all’ingresso della Borsa. Successivamente Scholl mise in atto la distruzione preventiva, ordinando ai suoi soldati di far saltare gli ultimi depositi di benzina, le banchine portuali e lo stabilimento dell’Ilva scampato alle bombe americane.
Tale iniziativa intendeva estenderla nel cuore della città e i guastatori prepararono la strage, seminando il terrore tra la popolazione, con forti boati, dovuti a scoppi di mine e cannonate che piovevano da ogni parte.
Il 24, all’altezza di Capri, si notarono le prime navi americane. Scholl profittò per ordinare lo sgombero dalla fascia costiera e il conseguente abbandono delle abitazioni del litorale.
Dopo poche ore migliaia di persone, cariche di masserizie, si riversarono lungo via Caracciolo, Castel dell’Ovo, il Maschio Angioino, il Porto e il Mercato alla ricerca di un asilo mentre i tedeschi fecero razzia di giovani che avviarono verso il bosco di Capodimonte.

Il 27 si verificò l’episodio che può essere considerato l’inizio delle QUATTRO GIORNATE. Sul quadrivio, tra le strade Scarlatti e Cimarosa, si scontrarono violentemente studenti e tedeschi. I morti furono parecchi, d’ambo le parti.
A questo punto gli insorti si organizzarono nella maniera che segue:
Antonio Tarsia in Curia prese il comando del Vomero; Orbitello di Montecalvario; Tito Murolo del Vasto; Cibarelli, Manzo e Bilardo Francesco del Duomo; Stefano Fadda di Chiaja; Carmine Musella dell’Avvocata; Agresti di Caracciolo e Posillipo; Gennaro Zenga del Corso Garibaldi. Gruppi sparsi, comandati da Carlo Bianco, presero la zona di Capodimonte.

Dal 28 al 1° ottobre si combatté aspramente nelle strade, piazze, cortili, fondaci e campagne. Gli avvenimenti, stranamente, ripercorsero l’itinerario delle precedenti rivolte, da Masaniello, alle barricate del 1799 a quelle del 1848.
I punti nevralgici furono gli stessi: S. Ferdinando, Largo della Carità, Piazza Dante, via Pessina e Santa Teresa al Museo, ma scontri fortissimi si verificarono in via Foria, Capodimonte, Duomo, San Giovanni a Teduccio, Doganella, Porta San Gennaro, Capodichino e Largo del Reclusorio.
Eleonora de Fonseca Pimental aveva scritto nel suo periodico "Pure San Gennaro si è fatto giacobino", adesso qualcuno ripeté: "Pure San Gennaro si è fatto antitedesco". Masaniello ritornò, il suo nome fu scandito più volte a via Duomo, in uno dei tanti scontri a fuoco.

Al Vomero si organizzò il primo comando partigiano nella scuola Vanvitelli, mentre nel Campo Littorio, dopo accanita lotta, sconfitti i tedeschi, furono liberati molti giovani destinati alla deportazione in Germania.
L’azione fu guidata dal tenente Enzo stimolo, figura leggendaria, che, con la sua presenza, dette un grande apporto alle operazioni delle Quattro Giornate (in seguito trovò la morte combattendo con i partigiani della Romagna).
Caddero eroicamente il comandante della contraerea Camaldoli, Giuseppe Maenza e 14 carabinieri, catturati nella loro caserma sulle Rampe di S: Giovanni Maggiore n. 12, che furono fucilati a Teverola perché ritenuti responsabili dello scontro in via Campodisola. Morirono successivamente parecchi giovani offertisi volontariamente per liberare Napoli.
Il loro sacrificio precedette quello di Salvo D’Acquisto, il nostro ragazzo d’Antignano, che fu ucciso a Palidoro di Torreimpietra (Roma) per salvare ventidue innocenti.
Si combatté alla Pigna, nella Contrada Pagliarone, ai Camaldoli e, dall’altra parte della periferia, a Ponticelli, dove si registrò un grande eccidio compiuto dalle S. S..

L’azione poi si spostò in zona Ferrovia, ma i napoletani di Tito Murolo mantennero le posizioni e conquistarono il carcere di Poggioreale.
Nei giorni seguenti i tedeschi cercarono in tutti i modi di realizzare i loro piani, soprattutto per volontà del colonnello Scholl, il quale intendeva soddisfare ad ogni costo le richieste del Field Maresciallo Kesselring, che poi erano quelle del Fürher. Questi che erano pronti per sostenere l’urto anglo-americano, si trovarono a dover combattere contro gli insorti, dei quali avevano sottovalutato il coraggio.

A nulla servirono i loro sforzi, neanche coi carri-armati "tigre" impiegati, nella terza giornata, in una grande battaglia lungo le strade del Museo, piazza Dante e via Roma. In questa circostanza, il Prof. Amedeo Maiuri, evitò che il Museo Nazionale venisse distrutto, mentre i partigiani bloccarono i "panzer", rovesciando sulla loro strada i tram abbandonati sul quadrivio di Salvator Rosa. Niente da fare, anche i ragazzi combatterono e furono i più indomiti, i famosi "scugnizzi" si fecero onore combattendo a viso aperto, senza riparo, gettando sui carri armati benzine e bombe a mano.

Caddero da valorosi Filippo Illuminato, Pasquale Formisano, Mario Minichini. Ma su tutti si impose la figura del piccolo Gennaro Capuozzo, di dodici anni, falciato mentre correva all’assalto di un carro.
Di fronte a tanta decisione i nazisti ripiegarono nei loro alloggi, restando asserragliati nei Castelli S. Elmo e Maschio Angioino, negli alberghi requisiti, Toledo, Universo, Brisol, Parker, nelle Ville di via Tasso, nella Floridiana, dove era ubicato il quartier Generale.
Il nazista acconsentì e, nell’Hotel Parker, si raggiunse l’accordo di far uscire i tedeschi dalla nostra città senza spargimento di sangue, assicurando, nel contempo, l’incolumità di Napoli e dei suoi abitanti. Le Quattro Giornate erano finite!

NOTA - "Il giorno 30, nel loro ultimo giorno di resistenza, i tedeschi perpetrarono un vero delitto contro la civiltà, incredibile in soldati d'un popolo di così alta cultura, inaspettabile anche in quel momento di spaventosa violenza e di cieco furore, e persino in un piano di tabula rasa, come voleva fare Hitler dell'Italia dopo il "tradimento" dell'8 settembre.
In una villa di San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi distrussero con fuoco l'archivio storico di Napoli, nella villa messo in salvo, uno dei maggiori tesori del nostro patrimonio civile, ricco di oltre 50.000 pergamene, di 30.000 volumi di documenti e di raccolte preziosissime per la storia della città, per quella dell'Italia e per quella d'Europa.
E non fu un danno involontario, poichè avvertiti gli ufficiali tedeschi dell'inestimabile contenuto di quelle centinaia di casse raccolte nella villa, e scongiurati di non toccarle, essi tuttavia ordinarono l'incendio e lo vollero totale, per quell'infernale odio, che dall'8 settembre portavano alla nostra gente e che li avrebbero spinti a distruggere l'Italia".
(Attilio Tamaro, Due anni di storia, 1943-1945)


Partiti i tedeschi gli alleati giunsero alle 9,30 del 1° ottobre 1943. Entrati da S. Giovanni e da Capodimonte, si accamparono in Piazza Garibaldi.
Dalle alture dei Camaldoli i germanici cannoneggiarono la nostra città, provocando ulteriori vittime tra la popolazione affamata che, in cerca di aiuto, si spinse verso i nuovi occupanti.
Ingente fu il numero dei morti, specialmente a vico Giganti, vico Nocelle, Piazza Dante e via Carrozzieri alla Posta. Danni gravissimi si verificarono nei caseggiati, caserme, alberghi e ville che avevano ospitato le truppe naziste, per lo scoppio di mine in precedenza occultate.

Nella stessa data iniziarono i bombardamenti degli Stukas, prima ancora che gli americani organizzassero la loro contraerea. Essi infierirono, particolarmente, su quelle persone che erano stanche del ricovero; fortunatamente le loro incursioni non ebbero l’intensità delle precedenti, per l’indebolimento delle forze dell’ASSE.
La città si presentava in condizioni disperate, priva d’energia elettrica e di rete idrica, col gasometro distrutto, il porto divenuto cimitero di navi, gli ospedali privi di mezzi sanitari, le case abbattute, le strade cancellate, cadaveri, in ogni dove, in avanzato stato di putrefazione.
Dov’era possibile l’allacciamento idrico stazionavano centinaia di persone in attesa di attingere acqua.
L’Ufficio dei Telegrafi e il Palazzo delle Poste erano ancor più devastati dallo scoppio di altre mine, anch’esse predisposte dai tedeschi in partenza.

Ovunque si evidenziavano mucchi di rovine: dall’Arenella al Ponte di Chiaja, da San Ferdinando alla Riviera, dal Pallonetto alla Concordia, da via Duomo al Molosiglio, a Mergellina, al Vomero, ai Camaldoli. La zona industriale, dai Granili a S.Giovanni, era scomparsa.
L’Albergo dei Poveri e i tunnel della Metropolitana, Chiatamone, Mergellina e Piedigrotta erano gremiti di gente denutrita e ammalata. Molte persone portavano il segno di lutto, sul quale erano sovrapposte stellette metalliche, corrispondenti ai familiari scomparsi sotto le bombe.

A questo punto s’impose un riassetto generale e gli occupanti, prima ancora di attuarlo, aiutarono la popolazione distribuendo disinfettanti, medicinali, vestiario, coperte, scatolette di prodotti alimentari, chewing-gum e sigarette "Victory" (della vittoria). Contemporaneamente, stante la svalutazione della nostra moneta, furono messe in circolazione le am-lire, come denaro di occupazione.
I napoletani furono riconoscenti ma, prima di fraternizzare con i vincitori, si dimostrarono capaci di farsi rispettare, come capitò una sera in Piazza San Ferdinando, dove decine di popolani scesero dai Quartieri per dare una lezione ai nuovi venuti che volevano farla da padroni. Da tale episodio nacque un tacito accordo destinato a durare tutta l’occupazione.

In questo clima di distensione ogni straniero prese l’appellativo di "John" o di "Paisà!" essendo molti di essi figli di emigranti nostrani. Il 10 ottobre la 5ª Armata attraversò Napoli per inoltrarsi sulla via di Cassino. Fu uno spettacolo indimenticabile: una sfilata di uomini, carri, mezzi d’assalto, cannoni, jeeps, ospedali e cucine, che durò lunghe ore. (In seguito il generale Clark mantenne i contatti delle operazioni, tornando al Quartier Generale di Napoli, con un piccolo aereo col quale atterrava e ripartiva da via Caracciolo).
A Palazzo Reale s’insediò il comando NAAFI-EFI, requisendo tutti i locali, molti dei quali furono adibite a sale di intrattenimento per gli ufficiali americani.

Nel teatro di Corte si rappresentarono Show in continuazione. Il San Carlo funzionò per la truppa. Il Palazzo della UPIM diventò mercato militare, quello della Singer al Rettifilo stazione Radio. Nell’Intendenza di Finanza prese alloggio la Peninsulaer Base Section, la Banca del Lavoro divenne sede della RAF. Le caverne di San Rocco a Capodimonte furono riempite da migliaia di tonnellate di materiale bellico. Nel Palazzo delle Assicurazioni, in Piazza Carità, si installò la sede della Croce Rossa. Nella Facoltà di Economia e Commercio, in via Partenope, il Quartier Generale della Royal Navy, al Ponte di Tappia l’Ufficio di Reclutamento per le nuove leve italiane. Nel Palazzo della Prefettura il Gran Comando, nella Scuola Vanvitelli si acquartierarono le truppe di colore, mentre marocchini e neozelandesi vennero sistemati nei sobborghi della città. Accampamenti all’aperto furono disposti in Villa Comunale e in tutte le piazze più grandi. Cannoni contraerei in ogni dove, insieme a poderose mitragliatrici sistemate sui tetti delle case.
Malgrado attente perlustrazioni esplosero ancora molte mine nascoste nel sottosuolo di pubblici uffici. Pertanto, dovendo riattaccare l’energia elettrica, la popolazione fu costretta a sgomberare la città per qualche giornata, nella malaugurata ipotesi che potessero scoppiare ordigni nascosti.

Successivamente ripresero gli attacchi aerei e, il 21 ottobre furono devastati il Rione Miraglia, il Campo Sportivo, via Aniello Falcone, le zone dei Quartieri Spagnoli nelle strade di Montecalvario, Speranzella, Vico Lungo Gelso e Vico Tofa.
Il 2 novembre fu colpita via S. Sebastiano, il 6 via Fontanelle e lo Scudillo. Col periodo natalizio giunse la quiete, ma ciascuno mediava sul proprio dolore. Molti si scambiarono gli auguri per essere sopravvissuti. Qualche botto si sentì lontano, erano le ultime bombe a mano che i ragazzi facevano deflagrare, tra le macerie delle case abbattute per festeggiare la vita. Complessivamente erano state sganciate sulle nostra città 28.000 bombe.

La ripresa iniziò, col contrabbando avviato da italo-americani e gente di mala affare. I camion militari carichi d’immondizia, uscivano dai campi alleati, diretti agli inceneritori, ma, sotto la coltre di spazzatura, trasportavano ogni ben di Dio, destinato a sparire lungo le strade, nei punti convenuti coi correntisti (individui specializzati nell’alleggerimento dei veicoli in corsa). Erano affari colossali, improntati sul "vivi e lascia vivere…" atteggiamento del difficile momento.
In tal maniera proliferarono il "baito", lo "scartiloffio" e il "bidone", appellativi convenzionali, nel quadro di questa nuova attività truffaldina. Fortunatamente rimasero oneste tante persone: impiegati, laureati e operai, trasformati in scaricanti di porto dalla costrizione, con lavoro a tempo pieno. Altri si concessero al migliore offerente per traffici d’ogni genere, specialmente illeciti.

Dilagò il fenomeno delle "signorine", adescatrici di militari. Erano vedove che dovevano sfamare i propri figli, ragazze che avevano perduto la famiglia sotto le incursioni, donne stanche di lunghe privazioni. La necessità le spinse sui marciapiedi, il ricavato delle prestazioni risolse i loro problemi.


Ad esse seguirono gli "sciuscià". Figure altrettanto patetiche, bambini i quali, per qualche am-lire, pulivano le scarpe ai soldati, collaboravano al contrabbando e alla vendita di sigarette rubate. Spesso ricorrevano al furto di cappelli che sottraevano ai passanti con destrezza. Molti di loro erano figli di famiglie numerose e sbandate, senza dimora, che vivevano al limite di ogni sopportazione.
In questo periodo oscuro molti arrivisti si arricchirono sulla povera gente, altri più poveri ancora divennero delinquenti.
Molte persone morirono di fame. Alcuni di questi "sciuscià" di soli 8-10 anni e anche meno, con gli uomini al fronte, o morti, o allo sbando, diventarono loro in alcuni casi i "capofamiglia" che portava a casa ai fratelli più piccoli, qualcosa "...da magnà".

Arrivò anche il tifo petecchiale, fortunatamente, subito bloccato. Fu un momento terribile, non solo per Napoli ma per ogni città italiana in simili condizioni. "Chillo ‘o fatto è niro, niro!" sussurravano E. A. Mario e Nicolardi, mentre triste e meraviglioso saliva il motivo di "Munastero ‘e Santa Chiara", composto in lacrime da Galdieri e Barberis.
Così si chiuse il 1943, passando la mano all’anno nuovo che si affacciò con qualche speranza, col desiderio di vivere, di ricostruire. Malgrado la minaccio delle incursioni tedesche era opinione comune che fosse proprio finita. E così fu!

Si ritornò a cantare, pur con motivi stranieri. "Pistol Packin Mama" e "Serenata a Vallechiara" furono diffuse da dischi e pianini. "Angelina" e "io t’ho incontrata a Napoli" ebbero un particolare successo, ispirandosi al fenomeno delle "sposine di guerra", ragazze innamoratesi dei loro salvatori che le avevano sfamate (esse raggiunsero i propri mariti nell’immediato dopoguerra, lasciando ogni affetto, per abbracciare un nuovo destino iniziato nei tanti clubs di Napoli al ritmo del boogie-woogie).
Riprese il funzionamento di cinema, teatri, uffici e scuole. L’Università riaprì le sue porte gloriose. Si riascoltò Radio Napoli. Si placarono tanti rancori.
Cutolo e Cioffi con "Zazà!" misero tutti d’accordo, nostalgici, vincitori e vinti, in tempo per accogliere il grido di riscossa: "Simmo ‘e Napule paisà!", canzone di profondo contenuto che invitò alla rinascita. Tutti cantammo questa bella canzone di Peppino Fiorelli e Nicola Valente: "Basta ca ncè stà ‘o sole, ca ncè rimasto ‘o mare…chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato!…".

Improvvisamente il Vesuvio, dopo una tremenda eruzione, smise di fumare. "S’è levato ‘o cappiello!" si disse in giro. E la spiegazione risultò fondata, giacché aveva salutato un’epoca che era finita!


Prof. Aldo De Gioia
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LA RESISTENZA A NAPOLI

Le "Quattro giornate"

La situazione nell’Italia centrale
La resistenza della popolazione
Le "Quattro giornate di Napoli" (28-set.-1°ott. 1943)

di Giovanna Giannini

 

Mentre a Brindisi era sorto un Regno che non governava e che di fatto dipendeva dagli alleati, man mano che ci si sposta verso quelle zone che erano state occupate dai tedeschi, la situazione si fa più drammatica.

Dopo l’8 settembre Napoli era stata invasa dall’esercito tedesco che aveva sotto il proprio controllo l’esercito e i pochi negozi di generi alimentari. Questo comportò la diminuzione delle già magre razioni alimentari e l’immediato sviluppo di un vasto mercato nero. Molti furono gli arresti, le persecuzioni e i sequestri di merce.
La conseguenza diretta di tali avvenimenti fu l’assalto dei negozi da parte della popolazione.

Le " 4 giornate" furono quindi una reazione popolare e spontanea ai 20 giorni di durissima occupazione nazista ( 8 - 28 settembre). Questa ribellione influì profondamente su tutta la successiva campagna militare in Italia, perché consentì a molti di comprendere che la guerra partigiana avrebbe dovuto avere il suo sblocco logico in un’insurrezione generale armata che precedesse l’arrivo degli alleati.

La prima e l’ultima fucilata furono sparate dal Vomero e dalla masseria Pezzalonga. La mattina del 28 settembre 1943, alcuni giovani che si erano rifugiati nel cascinale Pagliarone per sfuggire alle retate tedesche, usciti all’aperto notarono che nel tratto di mare tra Sorrento e Capri si stavano delineando decine di navi alleate.
Convinti di un immediato sbarco americano, a frotte riaffiorarono giovani, militari ed ex prigionieri alleati nascosti dal popolo. La flotta alleata era davanti ai loro occhi ma era bloccata da banchi di mine, i napoletani non erano però al corrente di questo e si lanciarono subito nella caccia al nemico dando così inizio alle " 4 giornate".

Gli scontri iniziali avvennero dunque nella zona del Vomero vecchio. Una ventina di uomini male armati, guidati da un popolano noto come " o baccalaiuolo", incrociarono due motociclisti tedeschi e li uccisero. Tutte le pattuglie isolate di tedeschi vennero da quel momento attaccate e ad ogni scontro aumentava la disponibilità di armi e munizioni.

L’eco delle sparatorie giunse al distaccamento germanico presente nel campo sportivo del Littorio, poi ribattezzato " Della Liberazione". Il maggiore tedesco Sakau ordinò un rastrellamento punitivo che venne eseguito in due fasi. Nella prima i tedeschi spararono all’impazzata contro palazzi e persone, uccidendo 6 civili, mentre 2 patrioti furono fatti prigionieri. Nella seconda fase ci furono altre vittime tra cui un ragazzo rimasto sconosciuto e 47 persone vennero prese in ostaggio e rinchiuse nello stadio del Vomero sotto minaccia di morte.

Da questo momento per gli insorti il problema principale divenne la liberazione degli ostaggi. Si trattava di una operazione rischiosa, ma che andava affrontata per evitare un massacro. Il piano venne preparato con l’aiuto di un giovane ufficiale, Vincenzo Stimolo, di un anziano professore, Antonino Tarsia e di un pittore, Eduardo Pansini. Vene creato un Comitato Partigiano nel liceo Sannazzaro e Stimolo ne divenne il capo. Egli riuscì a raccogliere molti uomini e li dispose non solo intorno al campo sportivo ma anche sui tetti e alle finestre delle abitazioni vicine allo stadio. L’assedio dei patrioti venne completato in breve tempo, dopo poche ore infatti i tedeschi dovettero arrendersi e chiesero di poter negoziare la resa. Una delegazione di patrioti si recò presso il Comando Germanico per discutere con il temuto colonnello Hans Scholl.

Scholl aveva assunto tutti i poteri a Napoli sin dal 13 settembre del 1943; fu lui ad ordinare la consegna delle armi, il coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino, la distruzione di complessi industriali, le rappresaglie contro militari italiani, l’evacuazione della fascia costiera e soprattutto la chiamata al servizio obbligatorio di lavoro delle classi tra il 1910 e il 1925.


Il manifesto con l'avviso del colonnello Scholl
(il numero 3000 alla 7a riga è un errore di stampa; deve leggersi 30.000)


Ai tedeschi venne chiesto l’immediato rilascio dei prigionieri, in caso contrario lo stadio sarebbe stato immediatamente attaccato. Scholl ordinò alle proprie truppe il ripiegamento e di liberare i 47 ostaggi, in cambio i tedeschi ricevettero la garanzia di poter evacuare Napoli senza essere attaccati. Così al termine della prima giornata di lotta, la guarnigione tedesca aveva abbandonato il Vomero. Temendo però una spedizione punitiva, i partigiani organizzarono un posto di guardia sulla strada della Pigna, nei pressi di Soccavo. La previsione si rivelò esatta. La sera del 29 settembre un ronzio di motori mise in allarme i patrioti che erano di guardia, sistemati in una casetta rustica ad un piano. Diciotto autoblinde tedesche e un carro armato con in testa delle moto e un auto civile stavano avanzando lentamente e giunti all’altezza del posto di guardia lanciarono una bomba a mano e cominciarono a sparare. Iniziò un violento scontro che stupì i tedeschi per l’immediata reazione italiana.

Si combattè successivamente anche nei pressi dell’aeroporto Capodichino, dove una pattuglia tedesca uccise tre avieri italiani e costituì un posto di blocco presso Piazza Ottocalli. Da un palazzo vicino irruppero nella piazza una ventina di giovani che ingaggiarono un combattimento con i tedeschi. La sparatoria si concluse con la morte dei tedeschi. Più tardi i cadaveri dei tre avieri vennero caricati sul cassone di un camioncino e portati in processione per le strade della città. La vista dei morti e il racconto delle atrocità tedesche alimentò la rivolta. Combatterono uomini di ogni età e ceto sociale. Il patriota più giovane a perdere la vita in quei giorni fu Gennaro Capuozzo di soli 12 anni.
Ecco la motivazione della medaglia d'oro concessa alla memoria:
"In uno scontro con carri armati tedeschi, in piedi, sprezzante della morte, tra due insorti che facevano fuoco con indomito coraggio, lanciava bombe a mano fino a che lo scoppio di una granata non lo sfracellava sul posto di combattimento, insieme al mitragliere che era al suo fianco"

Nel frattempo i tedeschi con numerosi fascisti occuparono la masseria Pezzalonga da utilizzare come base per le incursioni- rappresaglia nei quartieri, e qui avvenne lo scontro finale con i patrioti vomeresi. Si combatté aspramente dalla prima mattina al tardo pomeriggio del 30 settembre. Una cinquantina di uomini si offrì per contrastare le iniziative tedesche. Alcuni giovani riuscirono ad aggirare lo schieramento nemico e a colpirlo alle spalle. A causa delle scarse munizioni i patrioti caddero uno dopo l’altro. Giunti nuovi e numerosi rinforzi, tedeschi e fascisti dovettero ritirarsi portando però con loro alcuni ostaggi, 12 dei quali vennero uccisi.

Ma la rivolta oramai aveva investito tutta la città. Si sparava a Capodimonte, Foria, Chiaia…A Materdei si distinse l’operaia Maddalena Cerasuolo nell’attacco contro un reparto germanico che stava svuotando una fabbrica di scarpe. Nonostante le azioni di guerriglia, venne assicurata sempre la distribuzione dei generi di prima necessità e la distribuzione dell’acqua e fu addirittura pubblicato un giornale " La barricata".

Tutto questo mentre gli Alleati erano oramai prossimi a Napoli, che raggiunsero il 1° ottobre 1943.

Questo il bollettino delle 4 giornate: 168 furono i patrioti caduti in combattimento, 162 i feriti, 140 le vittime tra i civili, 19 i morti non identificati, 162 i feriti, 75 gli invalidi permanenti. Oltre alla medaglia d’oro, Napoli ebbe altre 4 medaglie d’oro alla memoria, 6 d’argento e 3 di bronzo.

Giovanna Giannini
Collaboratrice del sito Internet sulla storia della resistenza in Italia:

www.romacivica.net/Anpiroma

 

Bibliografia

Storia Illustrata "Napoli: 4 giorni sulle barricate" n.311, Ottobre 1983
Diario della Seconda Guerra Mondiale De Agostini 1994
Arrigo Petacco La nostra guerra, Mondadori 1996
Giorgio Bocca Il Provinciale, Mondadori 1993
Montanelli - Cervi L'Italia della disfatta, RCS 1996

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