Camerati, cari camerati milanesi!
Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia
del mio discorso.
A sedici mesi di distanza dalla tremenda data della resa a discrezione
imposta ed accettata secondo la democratica e criminale formula di
Casablanca, la valutazione degli avvenimenti ci pone, ancora una volta,
queste domande: Chi ha tradito? Chi ha subito e subisce le conseguenze
del tradimento? Non si tratta, intendiamoci bene, di un giudizio in
sede di revisione storica, e, meno che mai, in qualsiasi guisa, giustificativa.
È stato tentato da qualche foglio neutrale, ma noi lo respingiamo
nella maniera più categorica e per la sostanza e in secondo
luogo per la stessa fonte dalla quale proviene. Dunque chi ha tradito?
La resa a discrezione annunciata l'8 settembre è stata voluta
dalla monarchia, dai circoli di corte, dalle correnti plutocratiche
della borghesia italiana, da talune forze clericali, congiunte per
l'occasione a quelle massoniche, dagli Stati Maggiori, che non credevano
più alla vittoria e facevano capo a Badoglio. Sino dal maggio,
e precisamente il 15 maggio, l'ex-re nota in un suo diario, venuto
recentemente in nostro possesso, che bisogna ormai «sganciarsi»
dall'alleanza con la Germania. Ordinatore della resa, senza l'ombra
di un dubbio, l'ex-re; esecutore Badoglio. Ma per arrivare all'8 settembre,
bisognava effettuare il 25 luglio, cioè realizzare il colpo
di Stato e il trapasso di regime.
La giustificazione della resa, e cioè la impossibilità
di più oltre continuare la guerra, veniva smentita quaranta
giorni dopo, il 13 ottobre, con la dichiarazione di guerra alla Germania,
dichiarazione non soltanto simbolica, perché da allora comincia
una collaborazione, sia pure di retrovie e di lavoro, fra l'Italia
badogliana e gli Alleati; mentre la flotta, costruita tutta dal fascismo,
passata al completo al nemico, operava immediatamente con le flotte
nemiche. Non pace, dunque, ma, attraverso la cosiddetta cobelligeranza,
prosecuzione della guerra; non pace, ma il territorio tutto della
nazione convertito in un immenso campo di battaglia, il che significa
in un immenso campo di rovine; non pace, ma prevista partecipazione
di navi e truppe italiane alla guerra contro il Giappone.
Ne
consegue che chi ha subito le conseguenze del tradimento è
soprattutto il popolo italiano. Si può affermare che nei confronti
dell'alleato germanico il popolo italiano non ha tradito. Salvo casi
sporadici, i reparti dell'Esercito si sciolsero senza fare alcuna
resistenza di fronte all'ordine di disarmo impartito dai comandi tedeschi.
Molti reparti dello stesso Esercito, dislocati fuori del territorio
metropolitano, e dell'Aviazione, si schierarono immediatamente a lato
delle forze tedesche, e si tratta di decine di migliaia di uomini;
tutte le formazioni della Milizia, meno un battaglione in Corsica,
passarono sino all'ultimo uomo coi tedeschi.
Il piano cosiddetto «P. 44», del quale si parlerà
nell'imminente processo dei generali e che prevedeva l'immediato rovesciamento
del fronte come il re e Badoglio avevano preordinato, non trovò
alcuna applicazione da parte dei comandanti e ciò è
provato dal processo che nell'Italia di Bonomi viene intentato a un
gruppo di generali che agli ordini contenuti in tale piano non obbedirono.
Lo stesso fecero i comandanti delle Armate schierate oltre frontiera.
Tuttavia,
se tali comandanti evitarono il peggio, cioè l'estrema infamia,
che sarebbe consistita nell'attaccare a tergo gli alleati di tre anni,
la loro condotta dal punto di vista nazionale è stata nefasta.
Essi dovevano, ascoltando la voce della coscienza e dell'onore, schierarsi
armi e bagaglio dalla parte dell'alleato: avrebbero mantenuto le nostre
posizioni territoriali e politiche; la nostra bandiera non sarebbe
stata ammainata in terre dove tanto sangue italiano era stato sparso;
le Armate avrebbero conservato la loro organica costituzione; si sarebbe
evitato l'internamento coatto di centinaia di migliaia di soldati
e le loro grandi sofferenze di natura soprattutto morale; non si sarebbe
imposto all'alleato un sovraccarico di nuovi, impreveduti compiti
militari, con conseguenze che influenzavano tutta la condotta strategica
della guerra. Queste sono responsabilità specifiche nei confronti,
soprattutto, del popolo italiano.
Si
deve tuttavia riconoscere che i tradimenti dell'estate 1944 ebbero
aspetti ancora più obbrobriosi, poiché romeni, bulgari
e finnici, dopo avere anch'essi ignominiosamente capitolato, e uno
di essi, il bulgaro, senza avere sparato un solo colpo di fucile,
hanno nelle ventiquattro ore rovesciato il fronte ed hanno attaccato
con tutte le forze mobilitate le unità tedesche, rendendone
difficile e sanguinosa la ritirata.
Qui
il tradimento è stato perfezionato nella più ripugnante
significazione del termine.
Il popolo italiano è, quindi, quello che, nel confronto, ha
tradito in misura minore e sofferto in misura che non esito a dire
sovrumana. Non basta. Bisogna aggiungere che mentre una parte del
popolo italiano ha accettato, per incoscienza o stanchezza, la resa,
un'altra parte si è immediatamente schierata a fianco della
Germania.
Sarà tempo di dire agli italiani, ai camerati tedeschi e ai
camerati giapponesi che l'apporto dato dall'Italia repubblicana alla
causa comune dal settembre del 1943 in poi, malgrado la temporanea
riduzione del territorio della Repubblica, è di gran lunga
superiore a quanto comunemente si crede.
Non
posso, per evidenti ragioni, scendere a dettagliare le cifre nelle
quali si compendia l'apporto complessivo, dal settore economico a
quello militare, dato dall'Italia. La nostra collaborazione col Reich
in soldati e operai è rappresentata da questo numero: si tratta,
alla data del 30 settembre, di ben settecentottantaseimila uomini.
Tale dato è incontrovertibile perché di fonte germanica.
Bisogna aggiungervi gli ex-internati militari: cioè parecchie
centinaia di migliaia di uomini immessi nel processo produttivo tedesco,
e molte altre decine di migliaia di italiani che già erano
nel Reich, ove andarono negli anni scorsi dall'Italia come liberi
lavoratori nelle officine e nei campi. Davanti a questa documentazione,
gli italiani che vivono nel territorio della Repubblica Sociale hanno
il diritto, finalmente, di alzare la fronte e di esigere che il loro
sforzo sia equamente e cameratescamente valutato da tutti i componenti
del Tripartito.
Sono
di ieri le dichiarazioni di Eden sulle perdite che la Gran Bretagna
ha subito per difendere la Grecia. Durante tre anni l'Italia ha inflitto
colpi severissimi agli inglesi ed ha, a sua volta, sopportato sacrifici
imponenti di beni e di sangue. Non basta. Nel 1945 la partecipazione
dell'Italia alla guerra avrà maggiori sviluppi, attraverso
il progressivo rafforzamento delle nostre organizzazioni militari,
affidate alla sicura fede e alla provata esperienza di quel prode
soldato che risponde al nome del maresciallo d'Italia Rodolfo Graziani.
Nel
periodo tumultuoso di transizione dell'autunno e inverno 1943 sorsero
complessi militari più o meno autonomi attorno a uomini che
seppero, col loro passato e il loro fascino di animatori, raccogliere
i primi nuclei di combattenti. Ci furono gli arruolamenti a carattere
individuale. Arruolamenti di battaglioni, di reggimenti, di specialità
Erano i vecchi comandanti che suonavano la diana. E fu ottima iniziativa,
soprattutto morale. Ma la guerra moderna impone l'unità. Verso
l'unità si cammina.
Oso credere che gli italiani di qualsiasi opinione saranno felici
il giorno in cui tutte le Forze Armate della Repubblica saranno raccolte
in un solo organismo e ci sarà una sola Polizia, l'uno e l'altra
con articolazioni secondo le funzioni, entrambi intimamente viventi
nel clima e nello spirito del fascismo e della Repubblica, poiché
in una guerra come l'attuale, che ha assunto un carattere di guerra
«politica», la politicità è una parola vuota
di senso ed in ogni caso superata.
Un
conto è la «politica», cioè l'adesione convinta
e fanatica all'idea per cui si scende in campo, e un conto è
un'attività politica, che il soldato ligio al suo dovere e
alla consegna non ha nemmeno il tempo di esplicare, poiché
la sua politica deve essere la preparazione al combattimento e l'esempio
ai suoi gregari in ogni evento di pace e di guerra.
Il giorno 15 settembre il Partito Nazionale Fascista diventava il
Partito Fascista Repubblicano. Non mancarono allora elementi malati
di opportunismo o forse in stato di confusione mentale, che si domandarono
se non sarebbe stato più furbesco eliminare la parola «fascismo»,
per mettere esclusivamente l'accento sulla parola «Repubblica».
Respinsi allora, come respingerei oggi, questo suggerimento inutile
e vile.
Sarebbe stato
errore e viltà ammainare la nostra bandiera, consacrata da
tanto sangue, e fare passare quasi di contrabbando quelle idee che
costituiscono oggi la parola d'ordine nella battaglia dei continenti.
Trattandosi di un espediente, ne avrebbe avuto i tratti e ci avrebbe
squalificato di fronte agli avversari e soprattutto di fronte a noi
stessi.
Chiamandoci ancora
e sempre fascisti, e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal
1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo anche domani a fare, abbiamo
dopo gli avvenimenti impresso un nuovo indirizzo all'azione e nel
campo particolarmente politico e in quello sociale. Veramente più
che di un nuovo indirizzo, bisognerebbe con maggiore esattezza dire:
ritorno alle posizioni originarie. È documentato nella storia
che il fascismo fu sino al 1927 tendenzialmente repubblicano e sono
stati illustrati i motivi per cui l'insurrezione del 1922 risparmiò
la monarchia.
Dal punto di
vista sociale, il programma del fascismo repubblicano non è
che la logica continuazione del programma del 1919: delle realizzazioni
degli anni splendidi che vanno dalla Carta del lavoro alla conquista
dell'impero. La natura non fa dei salti, e nemmeno l'economia.
Bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi
per compiere il passo, ulteriore della socializzazione. Sin dalla
prima seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre 1943 veniva
da me dichiarato che «la Repubblica sarebbe stata unitaria nel
campo politico e decentrata in quello amministrativo e che avrebbe
avuto un pronunciatissimo contenuto sociale, tale da risolvere la
questione sociale almeno nei suoi aspetti più stridenti, tale
cioè da stabilire il posto, la funzione, la responsabilità
del lavoro in una società nazionale veramente moderna».
In quella stessa
seduta, io compii il primo gesto teso a realizzare la più vasta
possibile concordia nazionale, annunciando che il Governo escludeva
misure di rigore contro gli elementi dell'antifascismo.
Nel mese di ottobre fu da me elaborato e riveduto quello che nella
storia politica italiana è il «manifesto di Verona»,
che fissava in alcuni punti abbastanza determinati il programma non
tanto del Partito, quanto della Repubblica. Ciò accadeva esattamente
il 15 novembre, due mesi dopo la ricostituzione del Partito Fascista
Repubblicano.
Il manifesto dell'assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano,
dopo un saluto ai caduti per la causa fascista e riaffermando come
esigenza suprema la continuazione della lotta a fianco delle potenze
del Tripartito e la ricostituzione delle Forze Armate, fissava i suoi
diciotto punti programmatici.
Vediamo ora ciò che è stato fatto, ciò che non
è stato fatto e soprattutto perché non è stato
fatto.
Il manifesto
cominciava con l'esigere la convocazione della Costituente e ne fissava
anche la composizione, in modo che, come si disse, «la Costituente
fosse la sintesi di tutti i valori della nazione».
Ora la Costituente non è stata convocata. Questo postulato
non è stato sin qui realizzato e si può dire che sarà
realizzato soltanto a guerra conclusa. Vi dico con la massima schiettezza
che ho trovato superfluo convocare una Costituente quando il territorio
della Repubblica, dato lo sviluppo delle operazioni militari, non
poteva in alcun modo considerarsi definitivo. Mi sembrava prematuro
creare un vero e proprio Stato di diritto nella pienezza di tutti
i suoi istituti, quando non c'erano Forze Armate che lo sostenessero.
Uno Stato che non dispone di Forze Armate è tutto, fuorché
uno Stato.
Fu detto nel
manifesto che nessun cittadino può essere trattenuto oltre
i sette giorni senza un ordine dell'Autorità giudiziaria. Ciò
non è sempre accaduto. Le ragioni sono da ricercarsi nella
pluralità degli organi di Polizia nostri e alleati e nell'azione
dei fuori legge, che hanno fatto scivolare questi problemi sul piano
della guerra civile a base di rappresaglie e contro-rappresaglie.
Su taluni episodi si è scatenata la speculazione dell'antifascismo,
calcando le tinte e facendo le solite generalizzazioni. Debbo dichiarare
nel modo più esplicito che taluni metodi mi ripugnano profondamente,
anche se episodici. Lo Stato, in quanto tale, non può adottare
metodi che lo degradano. Da secoli si parla della legge del taglione.
Ebbene, è una legge, non un arbitrio più o meno personale.
Mazzini, l'inflessibile
apostolo dell'idea repubblicana, mandò agli albori della Repubblica
romana nel 1849 un commissario ad Ancona per insegnare ai giacobini
che era lecito combattere i papalini, ma non ucciderli extra-legge,
o prelevare, come si direbbe oggi, le argenterie dalle loro case.
Chiunque lo faccia, specie se per avventura avesse la tessera del
Partito, merita doppia condanna.
Nessuna severità è in tal caso eccessiva, se si vuole
che il Partito, come si legge nel «manifesto di Verona»,
sia veramente «un ordine di combattenti e di credenti, un organismo
di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell'idea
rivoluzionaria».
Alta personificazione di questo tipo di fascista fu il camerata Resega,
che ricordo oggi e ricordiamo tutti con profonda emozione, nel primo
anniversario della sua fine, dovuta a mano nemica.
Poiché
attraverso la costituzione delle brigate nere il Partito sta diventando
un «ordine di combattenti», il postulato di Verona ha
il carattere di un impegno dogmatico e sacro. Nello stesso articolo
5, stabilendo che per nessun impiego o incarico viene richiesta la
tessera del Partito, si dava soluzione al problema che chiamerò
di collaborazione di altri elementi sul piano della Repubblica. Nel
mio telegramma in data 10 marzo XXII ai capi delle provincie, tale
formula veniva ripresa e meglio precisata. Con ciò ogni discussione
sul problema della pluralità dei partiti appare del tutto inattuale.
In sede storica, nelle varie forme in cui la Repubblica come istituto
politico trova presso i differenti popoli la sua estrinsecazione,
vi sono molte repubbliche di tipo totalitario, quindi con un solo
partito. Non citerò la più totalitaria di esse, quella
dei sovieti, ma ricorderò una che gode le simpatie dei sommi
bonzi del vangelo democratico: la Repubblica turca, che poggia su
un solo partito, quello del popolo, e su una sola organizzazione giovanile,
quella dei «focolari del popolo».
A un dato momento della evoluzione storica italiana può essere
feconda di risultati, accanto al Partito unico e cioè responsabile
della direzione globale dello Stato, la presenza di altri gruppi,
che, come dice all'articolo tre il «manifesto di Verona»,
esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli
atti della pubblica amministrazione. Gruppi che, partendo dall'accettazione
leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica,
socializzazione, abbiano la responsabilità di esaminare i provvedimenti
del Governo e degli enti locali, di controllare i metodi di applicazione
dei provvedimenti stessi e le persone che sono investite di cariche
pubbliche e che devono rispondere al cittadino, nella sua qualità
di soldato-lavoratore contribuente, del loro operato.
L'assemblea di Verona fissava al numero otto i suoi postulati di politica
estera. Veniva solennemente dichiarato che il fine essenziale della
politica estera della Repubblica è «l'unità, l'indipendenza,
l'integrità territoriale della patria nei termini marittimi
e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla storia».
Quanto all'unità
territoriale, io mi rifiuto, conoscendo la Sicilia e i fratelli siciliani,
di prendere sul serio i cosiddetti conati separatistici di spregevoli
mercenari del nemico. Può darsi che questo separatismo abbia
un altro motivo: che i fratelli siciliani vogliano separarsi dall'Italia
di Bonomi per ricongiungersi con l'Italia repubblicana.
È mia profonda convinzione che, al di là di tutte le
lotte e liquidato il criminoso fenomeno dei fuorilegge, l'unità
morale degli italiani di domani sarà infinitamente più
forte di quella di ieri, perché cementata da eccezionali sofferenze,
che non hanno risparmiato una sola famiglia. E quando attraverso l'unità
morale l'anima di un popolo è salva, è salva anche la
sua integrità territoriale e la sua indipendenza politica.
A questo punto
occorre dire una parola sull'Europa e relativo concetto. Non mi attardo
a domandarmi che cosa è questa Europa, dove comincia e dove
finisce dal punto di vista geografico, storico, morale, economico;
né mi chiedo se oggi un tentativo di unificazione abbia migliore
successo dei precedenti. Ciò mi porterebbe troppo lontano.
Mi limito a dire che la costituzione di una comunità europea
è auspicabile e forse anche possibile, ma tengo a dichiarare
in forma esplicita che noi non ci sentiamo italiani in quanto europei,
ma ci sentiamo europei in quanto italiani. La distinzione non è
sottile, ma fondamentale.
Come la nazione
è la risultante di milioni di famiglie che hanno una fisionomia
propria, anche se posseggono il comune denominatore nazionale, così
nella comunità europea ogni nazione dovrebbe entrare come un'entità
ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi
nell'internazionalismo di marca socialista o vegeti nel generico ed
equivoco cosmopolitismo di marca giudaica e massonica.
Mentre taluni punti del programma di Verona sono stati scavalcati
dalla successione degli eventi militari, realizzazioni più
concrete sono state attuate nel campo economico-sociale.
Qui la innovazione ha aspetti radicali. I punti undici, dodici e tredici
sono fondamentali. Precisati nella «premessa alla nuova struttura
economica della nazione», essi hanno trovato nella legge sulla
socializzazione la loro pratica applicazione. L'interesse suscitato
nel mondo è stato veramente grande e oggi, dovunque, anche
nell'Italia dominata e torturata dagli anglo-americani, ogni programma
politico contiene il postulato della socializzazione.
Gli operai, dapprima
alquanto scettici, ne hanno poi compreso l'importanza. La sua effettiva
realizzazione è in corso. Il ritmo di ciò sarebbe stato
più rapido in altri tempi. Ma il seme è gettato. Qualunque
cosa accada, questo seme è destinato a germogliare. È
il principio che inaugura quello che otto anni or sono, qui a Milano,
di fronte a cinquecentomila persone acclamanti, vaticinai «secolo
del lavoro», nel quale il lavoratore esce dalla condizione economico-morale
di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato
agli sviluppi dell'economia e al benessere della nazione.
La socializzazione fascista è la soluzione logica e razionale
che evita da un lato la burocratizzazione dell'economia attraverso
il totalitarismo di Stato e supera l'individualismo dell'economia
liberale, che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell'economia
capitalistica, ma oggi è da considerarsi non più in
fase con le nuove esigenze di carattere «sociale» delle
comunità nazionali.
Attraverso la
socializzazione i migliori elementi tratti dalle categorie lavoratrici
faranno le loro prove. Io sono deciso a proseguire in questa direzione.
Due settori ho
affidato alle categorie operaie: quello delle amministrazioni locali
e quello alimentare. Tali settori, importantissimi specie nelle circostanze
attuali, sono ormai completamente nelle mani degli operai. Essi devono
mostrare, e spero mostreranno, la loro preparazione specifica e la
loro coscienza civica.
Come vedete, qualche cosa si è fatto durante questi dodici
mesi, in mezzo a difficoltà incredibili e crescenti, dovute
alle circostanze obiettive della guerra e alla opposizione sorda degli
elementi venduti al nemico e all'abulia morale che gli avvenimenti
hanno provocato in molti strati del popolo.
In questi ultimissimi
tempi la situazione è migliorata. Gli attendisti, coloro cioè
che aspettavano gli anglo-americani, sono in diminuzione. Ciò
che accade nell'Italia di Bonomi li ha delusi. Tutto ciò che
gli anglo-americani promisero, si è appalesato un miserabile
espediente propagandistico.
Credo di essere
nel vero se affermo che le popolazioni della valle del Po non solo
non desiderano, ma deprecano l'arrivo degli anglosassoni, e non vogliono
saperne di un governo, che, pur avendo alla vicepresidenza un Togliatti,
riporterebbe a nord le forze reazionarie, plutocratiche e dinastiche,
queste ultime oramai palesemente protette dall'Inghilterra.
Quanto ridicoli quei repubblicani che non vogliono la Repubblica perché
proclamata da Mussolini e potrebbero soggiacere alla monarchia voluta
da Churchill. Il che dimostra in maniera irrefutabile che la monarchia
dei Savoia serve la politica della Gran Bretagna, non quella dell'Italia!
Non c'è dubbio che la caduta di Roma è una data culminante
nella storia della guerra. II generale Alexander stesso ha dichiarato
che era necessaria alla vigilia dello sbarco in Francia una vittoria
che fosse legata ad un grande nome, e non vi è nome più
grande e universale di Roma; che fosse creata, quindi, una incoraggiante
atmosfera.
Difatti, gli anglo-americani entrano in Roma il 5 giugno; all'indomani,
6, i primi reparti alleati sbarcano sulla costa di Normandia, tra
i fiumi Vire e Orne. I mesi successivi sono stati veramente duri,
su tutti i fronti dove i soldati del Reich erano e sono impegnati.
La Germania ha
chiamato in linea tutte le riserve umane, con la mobilitazione totale
affidata a Goebbels, e con la creazione della «Volkssturm».
Solo un popolo come il germanico, schierato unanime attorno al Führer,
poteva reggere a tale enorme pressione; solo un Esercito come quello
nazionalsocialista poteva rapidamente superare la crisi del 20 luglio
e continuare a battersi ai quattro punti cardinali con eccezionale
tenacia e valore, secondo le stesse testimonianze del nemico.
Vi è stato
un periodo in cui la conquista di Parigi e Bruxelles, la resa a discrezione
della Romania, della Finlandia, della Bulgaria hanno dato motivo a
un movimento euforico tale che, secondo corrispondenze giornalistiche,
si riteneva che il prossimo Natale la guerra sarebbe stata praticamente
finita, con l'entrata trionfale degli Alleati a Berlino.
Nel periodo di tale euforia venivano svalutate e dileggiate le nuove
armi tedesche, impropriamente chiamate «segrete». Molti
hanno creduto che grazie all'impiego di tali armi, a un certo punto,
premendo un bottone, la guerra sarebbe finita di colpo. Questo miracolismo
è ingenuo quando non sia doloso. Non si tratta di armi segrete,
ma di «armi nuove», che, è lapalissiano il dirlo,
sono segrete sino a quando non vengono impiegate in combattimento.
Che tali armi esistano, lo sanno per amara constatazione gli inglesi;
che le prime saranno seguite da altre, lo posso con cognizione di
causa affermare; che esse siano tali da ristabilire l'equilibrio e
successivamente la ripresa della iniziativa in mani germaniche, è
nel limite delle umane previsioni quasi sicuro e anche non lontano.
Niente di più
comprensibile delle impazienze, dopo cinque anni di guerra, ma si
tratta di ordigni nei quali scienza, tecnica, esperienza, addestramento
di singoli e di reparti devono procedere di conserva. Certo è
che la serie delle sorprese non è finita; e che migliaia di
scienziati germanici lavorano giorno e notte per aumentare il potenziale
bellico della Germania.
Nel frattempo
la resistenza tedesca diventa sempre più forte e molte illusioni
coltivate dalla propaganda nemica sono cadute. Nessuna incrinatura
nel morale del popolo tedesco, pienamente consapevole che è
in gioco la sua esistenza fisica e il suo futuro come razza; nessun
accenno di rivolta e nemmeno di agitazione fra i milioni e milioni
di lavoratori stranieri, malgrado gli insistenti appelli e proclami
del generalissimo americano. E indice eloquentissimo dello spirito
della nazione è la percentuale dei volontari dell'ultima leva,
che raggiunge la quasi totalità della classe. La Germania è
in grado di resistere e di determinare il fallimento dei piani nemici.
Minimizzare la
perdita di territori, conquistati e tenuti a prezzo di sangue, non
è una tattica intelligente, ma lo scopo della guerra non è
la conquista o la conservazione dei territori, bensì la distruzione
delle forze nemiche, cioè la resa e quindi la cessazione delle
ostilità.
Ora le Forze Armate tedesche non solo non sono distrutte, ma sono
in una fase di crescente sviluppo e potenza.
Se si prende in esame la situazione dal punto di vista politico, sono
maturati, in questo ultimo periodo del 1944, eventi e stati d'animo
interessanti.
Pur non esagerando, si può osservare che la situazione politica
non è oggi favorevole agli Alleati.
Prima di tutto
in America, come in Inghilterra, vi sono correnti contrarie alla richiesta
di resa a discrezione. La formula di Casablanca significa la morte
di milioni di giovani, poiché prolunga indefinitamente la guerra;
popoli come il tedesco e il giapponese non si consegneranno mai mani
e piedi legati al nemico, il quale non nasconde i suoi piani di totale
annientamento dei paesi del Tripartito.
Ecco perché Churchill ha dovuto sottoporre a doccia fredda
i suoi connazionali surriscaldati e prorogare la fine del conflitto
all'estate del 1945 per l'Europa e al 1947 per il Giappone.
Un giorno un ambasciatore sovietico a Roma, Potemkin, mi disse: «La
prima guerra mondiale bolscevizzò la Russia, la seconda bolscevizzerà
l'Europa». Questa profezia non si avvererà, ma se ciò
accadesse, anche questa responsabilità ricadrebbe in primo
luogo sulla Gran Bretagna.
Politicamente
Albione è già sconfitta. Gli eserciti russi sono sulla
Vistola e sul Danubio, cioè a metà dell'Europa. I partiti
comunisti, cioè i partiti che agiscono al soldo e secondo gli
ordini del maresciallo Stalin, sono parzialmente al potere nei paesi
dell'occidente.
Che cosa significhi
la «liberazione» nel Belgio, in Italia, in Grecia, lo
dicono le cronache odierne. Miseria, disperazione, guerra civile.
I «liberati»greci che sparano sui «liberatori»
inglesi non sono che i comunisti russi che sparano sui conservatori
britannici.
Davanti a questo panorama, la politica inglese è corsa ai ripari.
In primo luogo, liquidando in maniera drastica o sanguinosa, come
ad Atene, i movimenti partigiani, i quali sono l'ala marciante e combattente
delle sinistre estreme, cioè del bolscevismo; in secondo luogo,
appoggiando le forze democratiche, anche accentuate, ma rifuggenti
dal totalitarismo, che trova la sua eccelsa espressione nella Russia
dei sovieti.
Churchill ha
inalberato il vessillo anticomunista in termini categorici nel suo
ultimo discorso alla Camera dei Comuni, ma questo non può fare
piacere a Stalin. La Gran Bretagna vuole riservarsi come zone d'influenza
della democrazia l'Europa occidentale, che non dovrebbe essere contaminata,
in alcun caso, dal comunismo.
Ma questa «fronda» di Churchill non può andare
oltre ad un certo segno, altrimenti il grande maresciallo del Cremlino
potrebbe adombrarsi. Churchill voleva che la zona d'influenza riservata
alla democrazia nell'Occidente europeo fosse sussidiata da un patto
tra Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Norvegia, in funzione antitedesca
prima, eventualmente in funzione antirussa poi.
Gli accordi Stalin-De Gaulle hanno soffocato nel germe questa idea,
che era stata avanzata, su istruzioni di Londra, dal belga Spaak.
Il gioco è fallito e Churchill deve, per dirla all'inglese,
mangiarsi il cappello e, pensando all'entrata dei Russi nel Mediterraneo
e alla pressione russa nell'Iran, deve domandarsi se la politica di
Casablanca non sia stata veramente per la «vecchia povera Inghilterra»
una politica fallimentare.
Premuta dai due
colossi militari dell'Occidente e dell'Oriente, dagli insolenti insaziabili
cugini di oltre Oceano e dagli inesauribili euroasiatici, la Gran
Bretagna vede in gioco e in pericolo il suo avvenire imperiale; cioè
il suo destino. Che i rapporti «politici» tra gli Alleati
non siano dei migliori, lo dimostra la faticosa preparazione del nuovo
convegno a tre.
Parliamo ora del lontano e vicino Giappone. Più che certo,
è dogmatico che l'impero del Sole Levante non piegherà
mai e si batterà sino alla vittoria. In questi ultimi mesi
le armi nipponiche sono state coronate da grandi successi. Le unità
dello strombazzatissimo sbarco nell'isola di Leyte, una delle molte
centinaia di isole che formano l'arcipelago delle Filippine, sbarco
fatto a semplice scopo elettorale, sono, dopo due mesi, quasi al punto
di prima.
Che cosa sia
la volontà e l'anima del Giappone è dimostrato dai volontari
della morte. Non sono decine, sono decine di migliaia di giovani che
hanno come consegna questa: «Ogni apparecchio una nave nemica».
E lo provano. Davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si
comprende l'atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano
se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse
tenuto fede alla promessa da lui fatta alle madri americane che nessun
soldato sarebbe andato a combattere e a morire oltremare. Egli ha
mentito, come è nel costume di tutte le democrazie.
È per
noi, italiani della Repubblica, motivo di orgoglio avere a fianco
come camerati fedeli e comprensivi i soldati, i marinai, gli aviatori
del Tenno, che colle loro gesta s'impongono all'ammirazione del mondo.
Ora io vi domando: la buona semente degli italiani, degli italiani
sani, i migliori, che considerano la morte per la patria come l'eternità
della vita, sarebbe dunque spenta? . Ebbene, nella guerra scorsa non
vi fu un aviatore che non riuscendo ad abbattere con le armi l'aeroplano
nemico, vi si precipitò contro, cadendo insieme con lui? Non
ricordate voi questo nome? Era un umile sergente: Dall'Oro.
Nel 1935, quando l'Inghilterra voleva soffocarci nel nostro mare e
io raccolsi il suo guanto di sfida (la folla si leva in piedi con
un grido unanime di esaltazione: «Duce! Duce! Duce!»)
e feci passare ben quattrocentomila legionari sotto le navi di Sua
Maestà britannica, ancorate nei porti del Mediterraneo, allora
si costituirono in Italia, a Roma, le squadriglie della morte. Vi
devo dire, per la verità, che il primo della lista era il comandante
delle forze aeree. Ebbene, se domani fosse necessario ricostituire
queste squadriglie, se fosse necessario mostrare che nelle nostre
vene circola ancora il sangue dei legionari di Roma, il mio appello
alla nazione cadrebbe forse nel vuoto?
Noi vogliamo
difendere, con le unghie e coi denti, la valle del Po; noi vogliamo
che la valle del Po resti repubblicana in attesa che tutta l'Italia
sia repubblicana. (Grida entusiastiche: «Si! Tutta!»).
Il giorno in cui tutta la valle del Po fosse contaminata dal nemico,
il destino dell'intera nazione sarebbe compromesso; ma io sento, io
vedo, che domani sorgerebbe una forma di organizzazione irresistibile
ed armata, che renderebbe praticamente la vita impossibile agli invasori.
Faremmo una sola Atene di tutta la valle del Po.
Da quanto vi
ho detto, balza evidente che non solo la coalizione nemica non ha
vinto, ma che non vincerà. La mostruosa alleanza fra plutocrazia
e bolscevismo ha potuto perpetrare la sua guerra barbarica come la
esecuzione di un enorme delitto, che ha colpito folle di innocenti
e distrutto ciò che la civiltà europea aveva creato
in venti secoli. Ma non riuscirà ad annientare con la sua tenebra
lo spirito eterno che tali monumenti innalzò.
La nostra fede
assoluta nella vittoria non poggia su motivi di carattere soggettivo
o sentimentale, ma su elementi positivi e determinanti. Se dubitassimo
della nostra vittoria, dovremmo dubitare dell'esistenza di Colui che
regola, secondo giustizia, le sorti degli uomini.
Quando noi come soldati della Repubblica riprenderemo contatto con
gli italiani di oltre Appennino, avremo la grata sorpresa di trovare
più fascismo di quanto ne abbiamo lasciato. La delusione, la
miseria, l'abbiezione politica e morale esplode non solo nella vecchia
frase «si stava meglio», con quel che segue, ma nella
rivolta che da Palermo a Catania, a Otranto, a Roma stessa serpeggia
in ogni parte dell'Italia «liberata».
Il popolo italiano
al sud dell'Appennino ha l'animo pieno di cocenti nostalgie. L'oppressione
nemica da una parte e la persecuzione bestiale del Governo dall'altra
non fanno che dare alimento al movimento del fascismo. L'impresa di
cancellarne i simboli esteriori fu facile; quella di sopprimerne l'idea,
impossibile.
I sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo
è morto, perché lo sentono vivo. Milioni di italiani
confrontano ieri e oggi; ieri, quando la bandiera della patria sventolava
dalle Alpi all'equatore somalo e l'italiano era uno dei popoli più
rispettati della terra.
Non v'è
italiano che non senta balzare il cuore nel petto nell'udire un nome
africano, il suono di un inno che accompagnò le legioni dal
Mediterraneo al Mar Rosso, alla vista di un casco coloniale. Sono
milioni di italiani che dal 1919 al 1939 hanno vissuto quella che
si può definire l'epopea della patria. Questi italiani esistono
ancora, soffrono e credono ancora e sono disposti a serrare i ranghi
per riprendere a marciare, onde riconquistare quanto fu perduto ed
è oggi presidiato fra le dune libiche e le ambe etiopiche da
migliaia e migliaia di caduti, il fiore di innumerevoli famiglie italiane,
che non hanno dimenticato, né possono dimenticare.
Già si
notano i segni annunciatori della ripresa, qui, soprattutto in questa
Milano antesignana e condottiera, che il nemico ha selvaggiamente
colpito, ma non ha minimamente piegato.
Camerati, cari camerati milanesi!
È Milano che deve dare e darà gli uomini,
le armi, la volontà e il segnale della riscossa!
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