2ndo TRIUMVIRATO - LE TRAME - VIGILIA GUERRA CIVILE

POSIZIONE DEI TRIUMVIRI - POMPEO AL GOVERNO DELL'ANNONA - IL SENATO ALLA RISCOSSA - IL CONVEGNO DI LUCCA - CRASSO E POMPEO CONSOLI - ASSEGNAZIONE DELLE PROVINCIE AI TRIUNVIRI - PROROGA DEL GOVERNO DI CESARE - LA SPEDIZIONE DI CRASSO - LA BATTAGLIA DI CARRE - MORTE DI CRASSO - POLITICA DI POMPEO - UCCISIONE DI PUBLIO CLODIO - ROMA NELL'ANARCHIA - POMPEO CONSOLE UNICO - PROCESSO E CONDANNA DI ANNIO MILONE - POMPEO E IL SENATO CONTRO CESARE - POLITICA CONCILIANTE DI CESARE - MARC'ANTONIO - CESARE È DICHIARATO NEMICO DELLA REPUBBLICA
------------------------------------------------------------------------------
.
IL CONVEGNO DI LUCCA - CRASSO E POMPEO CONSOLI

Negli ultimi mesi dell'anno 57 a.C. e nei primi del successivo 56, il triunvirato attraversa una crisi gravissima per la rottura dei rapporti tra CRASSO e POMPEO. La lega fra i tre uomini esiste solo di nome. In realtà ciascuno agisce per conto proprio, secondo i suoi fini, non curandosi se la politica che adopera, contrasta quella dei suoi compagni.
CRASSO apparentemente si tiene in disparte, pago delle sue enormi ricchezze, ma mantiene stretti rapporti con CLODIO e forse segretamente lo spinge contro POMPEO. Questi continua la sua politica d'intesa con gli ottimati e si avvantaggia dell'amicizia di CICERONE, il quale, grato a Pompeo che tanto si è adoperato per farlo tornare dall'esilio, ora lo sostiene validamente.

Dei tre chi si trova in relativa migliore situazione è GIULIO CESARE. Lontano dagli intrighi e dai pettegolezzi quotidiani di Roma, lui prepara la sua fortuna. La guerra vittoriosa che sostiene nella Gallia, gli procurano ricchezze considerevoli oltre la devozione delle milizie; la fama delle sue imprese, accortamente da lui annunziate con solleciti emissari, fa giganteggiare la sua figura a Roma, accrescendogli la popolarità di cui già gode e procurandogli non poche simpatie -anche se non apertamente espresse- in seno ai senatori ed ai cavalieri.

Una mossa sbagliata di CLODIO intanto fa aumentare il prestigio di POMPEO. Una grave carestia affligge la città e non è possibile fare distribuzioni di grano al popolo secondo la legge frumentaria di Clodio. I prezzi del frumento sono così alti che una moltitudine di poveri soffre la fame. Clodio per scaricarsi dalle responsabilità, crede di potere sfruttare a favore suo e di CRASSO la difficile situazione e sparge nel popolo la voce, che la carestia è dovuta all'incetta di grano fatta dal Senato, allo scopo di affamare il popolo. La plebaglia tumultua e, accorsa al Campidoglio dov'è riunito il Senato, reclama minacciosamente dei solleciti provvedimenti. Dal tumulto chi trae vantaggi non è Crasso né Clodio, ma POMPEO.
CICERONE propone che sia affidata a Pompeo l'annona e i consoli dell'anno 56, LENTULO e METELLO presentano una rogazione con la quale propongono che a Pompeo siano dati la "potestas rei frumentariae" per cinque anni, il titolo e l'imperio di proconsole e la facoltà di eleggersi quindici luogotenenti.
La rogazione è accettata e approvata. POMPEO però chiede di più; vuole che gli sia dato il comando di un esercito e di una flotta e che sia messa a sua disposizione la cassa della Repubblica. Lo scopo di Pompeo è evidente: lui mira a riottenere l'illimitata autorità che alcuni anni prima la legge Manilia gli aveva accordato; ma questa volta non c' è la minaccia dei pirati né quella di un Mitridate che persuada il Senato; e il Senato rifiuta.

POMPEO allora, che per i suoi fini vuole un comando di forze armate, chiede che gli sia affidato 1' incarico di rimettere sul trono d'Egitto il re TOLOMEO AULETE, che una rivolta ha scacciato, sostituendogli la sorella BERENICE, ma anche a questa richiesta è dal Senato rifiutata.
Questi rifiuti del Senato fanno cessare i rapporti amichevoli tra Pompeo e gli ottimati e chi da questa rottura ci guadagna, è ora CLODIO, il quale, scagliandosi contro Pompeo, fa involontariamente il giuoco del Senato.

CLODIO è riuscito a farsi eleggere edile curule ed ha citato in giudizio davanti al popolo per violenze il suo implacabile nemico MILONE. Quest'ultimo è difeso da POMPEO ma la plebaglia sostenitrice di Clodio gli impedisce di parlare beffeggiandolo senza ritegno.
Gli ottimati gongolano. Il triumvirato non fa più loro paura perché non dimostra attività ed armonia di vedute e di sentimenti. CESARE è lontano, CRASSO è un uomo politico inetto, POMPEO ha perduto il favore del popolo.

Il Senato acquista dunque in forza e in ardire di giorno in giorno; CATONE è tornato da Cipro, portando all'erario gran quantità di denaro, settemila talenti, pari a quaranta milioni di lire, ricavati dai beni di Tolomeo, e (lui strenuo difensore del partito senatorio) ha ripreso la lotta. Ora le armi degli ottimati sono rivolte a distruggere l'opera di Cesare. Prima il tribuno RUTILIO LUPO e subito dopo CICERONE, propongono che la legge Giulia agraria sia revocata e il Senato fissa al 15 maggio il giorno della discussione.

Cosi il Senato inizia apertamente il movimento di riscossa.
Ma CESARE non dorme e i numerosi fautori che ha in Roma vigilano. Questi lo informano sollecitamente degli avvenimenti e Cesare, che non è ancora in grado di agire solo, fa sapere a Crasso e a Pompeo che è necessario un abboccamento e prendere accordi per non lasciarsi sopraffare dagli oligarchi.
Di riprendere insomma l'unità, perché da soli -e questo lo aveva già detto fin dall'inizio- si è sconfitti.

Il convegno è fissato a Lucca per l'aprile del 56 a.C. All'annuncio che Cesare è così vicino a Roma, molti amici e ammiratori del grande generale accorrono a fargli omaggio e fra questi vi sono gli opportunisti e tutti coloro che non seguono in politica una linea di condotta ben definita.

Il convegno di Lucca è la dimostrazione della forza e del prestigio di Cesare; duecento sono i senatori che sono andati a trovarlo, e così imponente il numero dei magistrati andati a fargli visita, che in un sol giorno centoventi littori si trovano riuniti nella città di Lucca.
Qui CESARE rimette in efficienza il triumvirato, riconcilia Crasso con Pompeo e stabilisce il piano d'azione che dovrà mettere e conservare nelle loro mani il potere.

L'accordo è presto raggiunto: CRASSO si impegna di far cessare la lotta che CLODIO conduce contro POMPEO, e questi promette di fare schierare CICERONE dalla parte di Cesare. Si stabilisce che Crasso e Pompeo chiedano per il prossimo anno il consolato e che per prender tempo allo scopo di assicurar la riuscita dell'elezione facciano prorogare i comizi. Cesare assicura che concederà ai suoi soldati numerose licenze perché possano recarsi a votare e per sé non chiede che una sola cosa; che gli sia lasciato per altri cinque anni il governo delle Gallie.

Dal convegno di Lucca la posizione di Cesare esce enormemente rafforzata: gli ottimati, impressionati dal numero dei suoi aderenti e dal prestigio che gode, desistono improvvisamente dalla lotta iniziata e il Senato tenta di farselo amico allo scopo di isolarlo dai suoi compagni. Infatti, mette nel dimenticatoio la domanda di revoca della legge agraria e, tacitamente accogliendo la tesi di Cicerone, il quale nella sua "oratio de provinciis consularibus" sostiene che a Cesare si debba prorogare il governo delle Gallie, dà al generale dieci luogotenenti e non designa nessuno per il prossimo anno al governo dell'Illiria, della Cisalpina e della Transalpina.

Ma anche CRASSO e POMPEO naturalmente ottengono vantaggi dal convegno di Lucca. Grazie alla sistematica opposizione di due tribuni della loro parte, riescono a non far convocare i comizi, e, terminato l'anno consolare, viene proclamato 1' interregno.
Avvicinandosi i comizi, Crasso e Pompeo pongono la loro candidatura e, poiché al consolato aspira uno degli ottimati, L. DOMIZIO ENOBARBO, lo fanno aggredire. Nell'imboscata gli schiavi di Domizio sono uccisi, Catone che l'accompagna è ferito, Domizio, spaventato, si rifugia in casa e rinunzia alla lotta.

Così l'anno 55 a.C. ha i suoi nuovi consoli in CRASSO e POMPEO e creature di costoro sono i pretori, i censori e gli edili.
A Roma ora non comandano che Pompeo e Crasso e, da lontano, Cesare.

I primi due non appena giunti al potere pensano di assicurarsi per l'anno seguente il governo delle più ricche province. Il tribuno C. TREBONIO, loro creatura e da loro consigliato, propone al popolo che il governo della Siria sia affidato a Crasso per cinque anni e che per altrettanti anni sia dato a Pompeo il governo della Spagna Ulteriore e Citeriore.

Invano si oppongono CATONE e M. FAVONIO; l'oro distribuito fa approvare la legge proposta da Trebonio e poco dopo anche la proposta fatta dai consoli di prolungare a Cesare il comando delle Gallie e dell' Illiria per un altro quinquennio è approvata.

Ora POMPEO rivolge la sua attività ad abbattere gli altri due triumviri e a rimaner solo padrone della Repubblica. Il suo vero rivale è CESARE, l'uomo di cui ha sposata la figlia. Occorre strappargli la popolarità di cui gode, abbagliando il popolo con la pompa dei giochi poiché lui ora non può, come Cesare, impressionarlo con la gloria delle imprese militari.

Costruisce un teatro capace di quarantamila persone e vi fa rappresentare grandiosi spettacoli. Né meno grandi sono quelli che offre al circo, dove con il sangue di leoni ed elefanti in lotta fra di loro, cerca di ingraziarsi il favore del popolo.
Ma solo questo non basta a dargli il primato. Gli ottimati costituiscono per lui una seria difficoltà, ed è necessario superare. Avvia perciò trattative con il Senato e non gli riesce difficile di riconciliarsi.

Gli effetti di questa conciliazione si hanno nelle elezioni per le magistrature dell'anno 54 a.C. Infatti, alle cariche più importanti della Repubblica sono assunti uomini notoriamente avversi a Cesare: al consolato L. DOMIZIO ENOBARBO e APPIO CLAUDIO PULCRO, e alla pretura, fra gli altri, CATONE e SERVILIO ISAURICO.

A rendere a POMPEO più agevole il conseguimento del primato contribuisce involontariamente CRASSO, il quale prima che termini il suo consolato, desideroso d'allori militari e bramoso di maggiori ricchezze, sconsidertamente parte per l'Asia lasciando padrone del campo l'ambizioso triumviro.

LA SPEDIZIONE DI CRASSO (anno fine 52- giugno 53 a.C.)

CRASSO parte con il consenso di Pompeo e di Cesare, fra le disapprovazioni però delle persone di buon senso che sanno come un simile capitano fino ad ieri vissuto di ozi e crapula, con le ricche comodità che la sua immensa ricchezza gli permette, non sia adatto a un'impresa così difficile qual è quella cui egli si accinge a fare.
Infatti, Crasso non va solo a prender possesso della sua provincia, ma va a guerreggiare contro i Parti, la bellicosa nazione che ha esteso i suoi domini nella Mesopotamia ed ora minaccia la Siria e l'Armenia, e sogna di penetrare come Alessandro nella Battriana e spingersi fino alle lontane Indie.
Ma più che dal desiderio di accrescer la potenza della Repubblica e di dare fama al suo nome, Crasso è mosso dalle mitiche ricchezze di Seleucia.
Parte senza ascoltare il monito di Catone e i consigli degli amici, nonostante l'ostilità della folla e le imprecazioni del tribuno ATEJO CAPITONE, che già consacra Crasso alle divinità infernali.

Gli è compagno nella spedizione il figlio PUBLIO che dalla Gallia, dove stava combattendo con Cesare, rientra per unirsi al padre e porta con sé un corpo di fanti e di cavalli scelti; ed ha come questore il prudente CASSIO.
Gli inizi della spedizione sono favorevoli per l'esercito romano che è forte di trentamila uomini. Sembra una passeggiata militare anziché una guerra, infatti, molte città della Mesopotamia, aprono spontaneamente le porte; soltanto una oppone una certa resistenza ma è presto vinta. Nelle città che si arrendono CRASSO lascia alcuni presidi poi va a mettere i quartieri d'inverno in Siria e lì inizia il primo lucro dell'impresa, taglieggiando avidamente le popolazioni.
In questi quartieri giungono a trovarlo gli ambasciatori di ORODE, re dei Parti. Con questi Crasso si mostra sprezzante, dicendo loro che lui darà la riposta al re quando giungerà a Seleucia.
Ma il capo degli ambasciatori, che ha nome VAGISO, mostrando il palmo della mano, risponde "Tu entrerai in Seleucia quando su questo palmo spunteranno i peli". (a Seleucia Crasso ci entrerà, ma vedremo più avanti come).

Ben presto Crasso si accorge che ha a che fare con un nemico fortissimo: molte delle città conquistate sono state assalite dai Parti e i presidi romani sgominati. Ma il triumviro che ha tanta incoscienza non si sgomenta, lui si affida alle armi, al numero di uomini, e alla potenza di Roma.
ARTABASE, re dell'Armenia, alleato di Roma, lo raggiunge e consiglia il generale di andar contro i Parti attraverso il suo regno promettendogli vettovaglie e un soccorso di trentamila fanti e diecimila cavalli. CRASSO invece decide di attraversare l'ostile -come luogo e come ambiente- Mesopotamia.

Sfavorevoli sono gli auguri e funesti presagi avvertono Crasso che la spedizione sarà disastrosa. Uscendo da un tempio, scivola e cade trascinando nella caduta il figlio Publio. Non importa; l'ordine della partenza è ormai dato e l'esercito si mette in marcia.
Sulla sponda destra dell'Eufrate un temporale improvviso arresta l'esercito; le folgori attirate dai ferri delle armi, cadono fra le truppe, le acque del fiume travolgono le zattere; tornata la quiete e dato il comando di ripartire, l'aquila di una legione infissa nel suolo si volge indietro come per consigliare il ritorno; ma si va avanti. Passato il fiume, Crasso compie i sacrifici di rito e le viscere della vittima, come per un ultimo avvenimento, gli cadono dalle mani. Ma l'esercito di Crasso prosegue la marcia verso il suo destino.

Ed ecco che un arabo, di nome ABGARO, si presenta e si offre di guidare Crasso attraverso le steppe desertiche della Mesopotamia fino al luogo dove -afferma lui- si trova l'esercito dei Parti. Il questore C. CASSIO consiglia il generale di non fidarsi di quell'uomo e di seguire semmai il corso dell'Eufrate; ma Crasso si affida stoltamente alla guida sconosciuta e l'esercito dei legionari, sempre di più allontanatosi dal fiume, e quindi dalla preziosa acqua, inizia a inoltrarsi nel deserto.
Il cammino ovviamente è faticoso; non s'incontra un essere vivente né un piccolo corso d'acqua; il sole - siamo in Giugno- è insopportabile e i soldati si trascinano, spossati dalle gravi armature, bruciati dalla calura ed arsi dalla sete. Camminano così per alcuni giorni, in cerca di quei Parti che non si trovano mai, in luoghi che nessuno conosce, enormemente affaticati dal cammino sulla sabbia; quando una mattina, al levare degli accampamenti, si accorgono che l'arabo Abgaro è scomparso.
I Romani di Crasso si trovano nell'arida pianura di Carre. E ad un tratto si profilano all'orizzonte alcuni cavalieri che avanzano rapidamente: sono le prime avvisaglie del nemico; a queste seguono nugoli infiniti di cavalieri; l'orizzonte ne è pieno; sollevano nuvole di sabbia che si avvicinano minacciose, e in mezzo a quella polvere iniziano a balenarsi le lucenti armi dei Parti.

Abgaro era un traditore, d'accordo con i Parti ha trascinato i Romani nel trabocchetto. Crasso ha appena il tempo di schierare le sue legioni per la battaglia quando il cielo si oscura come il sopraggiungere improvviso di una nube di un temporale, che però non riversa acqua, ma è una pioggia fittissima di frecce che si abbatte sulle schiere romane.
CRASSO ordina di assalire il nemico e le legioni si muovono dietro le insegne; ma i Parti scompaiono rapidi come sono venuti. Non è però una fuga, è il loro modo di combattere; assalgono da ogni parte con tiri micidiali di saette che non sbagliano il segno e tutto trapassano e subito dopo si ritirano velocissimi continuando a saettare durante la corsa.

Contro un simile nemico che non si lascia raggiungere, che fugge il corpo a corpo e da lontano semina la strage, il valore romano è impotente.
Crasso ordina all'esercito di fermarsi e lo dispone in quadrato; i veliti si ritirano dentro gli ordini, e gli scudi delle prime linee formano delle barriere. Così disposti i Romani si accingono alla resistenza. I Parti non offrono un istante di tregua, assalgono e si ritirano e le loro frecce non cessano di piovere sulle legioni di Roma, che resistono per la disperazione.
Così trascorre buona parte di quella prima giornata. La furia del nemico non ha soste e le perdite dei Romani sono enormi; il centro dell'immenso quadrato è pieno di morti e di feriti; le armi sono rotte, gli scudi forati, e vivi che ancora li brandiscono sono sfiniti.
Crasso capisce che se le cose continueranno così, dell'esercito romano non un solo uomo rimarrà vivo al termine della giornata; ordina al figlio PUBLIO con la sua cavalleria di assalire con impeto i Parti e di rompere il cerchio che stringe l'esercito.
Publio obbedisce e la sua cavalleria fa irruzione da un lato. I Parti non possono o non vogliono sostenere l'urto e abbandonano il campo; i cavalieri romani mandano grida di vittoria e nell'esaltazione inseguono i nemici, ma, quando sono lontani dal grosso, cadono nella trappola tesa; una turbe innumerevole di nemici li assalgono dai fianchi e alle spalle. Ritirarsi è impossibile; bisogna resistere nella speranza di soccorsi o morire sul posto; ma i soccorsi non giungono, non possono giungere, e la battaglia s'impegna furiosa tra questa eroica schiera di cavalieri romani e la turba infinita del nemico. Lotta degna di un poema ! Ma il numero ha ragione del valore e dei Romani; dopo un lungo ed aspro combattimento, solo alcuni dei sopravvissuti, piuttosto malconci, riescono a portare a Crasso la notizia della strage.

Anche Publio, è rimasto vivo tra i pochi, ma persa ogni speranza di salvezza, per non cadere nelle mani del nemico si è fatto trafiggere da un compagno.
Alla notizia della morte del figlio, Crasso tenta di vendicarlo ed ordina l'assalto; ma nelle condizioni in cui sono gli uomini, l'azione disperata fallisce e l'esercito, decimato, è costretto a tentare la sua ultima inutile e tragica difensiva.

Per fortuna cala la notte e con le tenebre termina il combattimento.
Il questore Cassio consiglia di non aspettare il mattino perché l'esercito del surenu (generale) dei Parti è accampato a poca distanza e un'altra battaglia da sostenere allo spuntare del nuovo giorno non è possibile farla, sarebbe più funesta della prima.
L'esercito romano, ridotto ad un terzo, lasciati sul campo i feriti, nella notte inizia silenziosamente la ritirata e dopo una lunghissima marcia, durante la quale molti soldati smarriscono il cammino e cadono prigionieri dei Parti, raggiunge la città di Orfa dove si trova un modesto presidio di Romani.
Orfa non rappresenta un rifugio sicuro; la cittadinanza è ostile e il surena è ricomparso; né vi è speranza di soccorsi, perché ARTABASE, assalito da ORODE, ha già per conto suo concluso la pace con i Parti.

Non resta che tentare di raggiungere la Siria. Crasso trova una guida e lascia Orfa. Ma pare che la maledizione di Atejo perseguiti i soldati della Repubblica. Anche questa volta la guida è un traditore. Il questore CASSIO che si è accorto in tempo, con cinquecento uomini, abbandona il generale prendendo un'altra strada (sarà l'unico a salvarsi); CRASSO invece, accortosi troppo tardi dell'infedeltà della guida, cerca con le minacce di farsi indicare la via giusta, ma non fa a tempo: i soldati del surena già gli sono addosso e non resta che difendersi che con le armi.
La battaglia ingaggiata è tremenda, in qualche modo Crasso, con migliaia di uomini riesce a svincolarsi a trovare un varco e a raggiungere la sommità di un'altura. Ed è la salvezza; impossibile alla terribile cavalleria dei Parti -salvo farlo con grosse perdite- andare all'assalto di una legione trincerata sopra la cima di una collina.
Il surena però non vuole abbandonare la sua preda e se le armi a nulla valgono può molto l'astuzia, nella quale nel proprio ambiente sono maestri insuperabili. Propone pertanto un abboccamento per trattare la pace; ma Crasso, oramai reso prudente dalla perfidia nemica, rifiuta. Perché - egli pensa - vogliono i Parti trattare la pace se nulla hanno da temere da uno sparuto numero di Romani? Purtroppo questi sono stanchi, desiderano che quella guerra disastrosa abbia termine e pregano il loro generale di andare al convegno.
CRASSO, a malincuore, con pochissimi uomini scende dall'altura e va incontro al surena. Già si trova lontano dai suoi, nella pianura, già il capo dei Parti gli si avvicina; ma, ecco, ad un tratto, un numeroso drappello di nemici messo in agguato lo circonda. È l'epilogo della tragedia. Il drappello romano tenta di difendersi e si stringe attorno a Crasso, ma i suoi sforzi sono vani; la lotta è brevissima e dopo qualche istante il corpo di Crasso, già decapitato, giace fra gli altri cadaveri dei suoi compagni.
La sua testa e le insegne romane sono portate come trofeo a Seleucia.
Nella capitale c'è dunque "entrato", e a VAGISO sul "palmo della mano non gli erano ancora spuntati peli"

La guerra è finita (giugno 53 a.C.); molti legionari, privi dei capi, si arrendono ma sono subito trucidati; altri fuggono, una buona parte di loro è inseguita e uccisa, il resto sfugge alla cattura ma moriranno tutti di stenti e di sete nell'ostile ambiente desertico.
Di un esercito, che contava oltre trentamila uomini, soltanto i cinquecento del questore Cassio possono portare a Roma la notizia della disastrosa spedizione.

VERSO LA GUERRA CIVILE

POMPEO, dopo il convegno di Lucca, ritornato Cesare in Gallia, finito l'anno del suo consolato (del 55 a.C.), passato a guidare l'annona nel successivo anno (il 54 a.C.) con consoli Enobarbo e Pulcro), inviò nella Spagna i suoi luogotenenti AFRANIO e PETEJO e adducendo il pretesto che il governo dell'annona (come detto, in crisi per la carestia) gli impediva di allontanarsi dall'Italia si stabilì con le sue milizie, nelle vicinanze di Roma.
Sua intenzione era di sorvegliare da vicino la città e le mosse degli uomini e dei partiti, d'impedire lo svolgimento dei comizi consolari, di provocare torbidi, per poi intervenire e così, per riportare la calma, farsi eleggere dittatore.
I comizi consolari furono abilmente impediti, ma le temute rivolte non avvennero, solo qualche insignificante lite, e a Pompeo non riuscì a raggiungere la sperata dittatura, anche perché, avendola il tribuno L. LUCCEIO proposta, il Senato ritenendo che non era il caso per qualche insulsa lite, si oppose e, convocate le tribù, nell'anno 53 a.C. furono eletti consoli CNEO DOMIZIO CALVINO e VALERIO MESSALLA.
Non era questa una vittoria di Pompeo ma non era neppure una sconfitta, perché se il secondo era un amico di Cesare il primo era un uomo devoto a Pompeo.
Ma il risultato di quest'elezione non poteva soddisfare l'ambizioso Pompeo che aveva ben altri progetti. Sua moglie Giulia era morta nell'agosto del 54 e nel giugno del 53 moriva - come abbiamo detto- Crasso. Con la tragica fine di quest'ultimo il triunvirato era spezzato, e con la morte di Giulia era rotto pure l'ultimo legame che univa Pompeo a Cesare.

Pompeo, risoluto più che mai a contrastare Cesare e a mettere la repubblica nelle proprie mani, per le successive elezioni del 52 a.C., appoggiò la candidatura di PLAUZIO IPSEO, suo questore nella guerra mitridatica e non combatté quella di Q. METELLO SCIPIONE, figlio del Pio, e di T. ANNIO MILONE, perché tutti e tre, più o meno con zelo, erano suoi sostenitori; ma i comizi consolari, questa volta a causa di violenti tumulti, non poterono aver luogo né, per lo stesso motivo, si riuscì nella prima metà del gennaio del 52, a nominare un interrè.
Un fatto di sangue, accaduto il 20 gennaio di quello stesso anno, andò ad accrescere i disordini di Roma e a favorire inaspettatamente - ma non sappiamo fino a che punto inaspettati e se provocati da lui- i piani diabolici di Pompeo.
Quel giorno PUBLIO CLODIO, mentre si recava a Lanuvio seguito da un drappello di gladiatori, sulla via Appia, a due miglia da Bovillae, si incontrava con ANNIO MILONE (del partito senatorio) che tornava a Roma scortato da numerosi schiavi.
Tra le bande dei due mortali nemici -non si sa per quale motivo- si accese una mischia e CLODIO fu gravemente ferito; trasportato dai suoi servi nella vicina locanda di Coponio, gli uomini di Milone vi entrarono, fu tratto il ferito a viva forza dagli schiavi, lo trascinarono fuori e barbaramente lo finirono abbandonando il suo corpo sulla via.

Il senatore SESTIO TEDIO, trovandosi per caso in quel luogo, riconosciuto di chi era quel cadavere, lo fece trasportare a Roma nella casa del defunto, dove la moglie Fulvia lo pianse tutta la notte.
Il giorno dopo la plebe, appresa la morte di Clodio, si levò a tumulto e, portata la salma dell'agitatore presso la Curia, la bruciò sopra un rogo innalzato con gli scanni dei senatori. L'incendio, propagatosi alla Curia ed all'attigua basilica Porcia, distrusse poi entrambe.
Per sedare i disordini il Senato si affrettò a nominare 1' interrè nella persona di M. EMILIO LEPIDO; ma non fu sufficiente per calmare la plebe, sobillata dai partigiani di Clodio, i quali assalirono e devastarono la casa di Lepido e tentarono di incendiare quella di Milone. Questi, tornato a Roma per giustificare con dei vaghi motivi l'assassinio, inasprì 1'ira dei clodiani e suscitò nuovi e più grandi disordini.
Occorreva salvare Roma dall'anarchia e, poiché non era possibile in quelle condizioni convocare i comizi consolari, s'imponevano dei provvedimenti eccezionali, come la dittatura. Ma questa faceva paura al Senato dopo Silla e fu perciò accolta all'unanimità la proposta di M. BIBULO, sostenuta da CATONE, di nominare POMPEO console unico, dandogli facoltà di scegliersi, non prima però di due mesi, un collega.
Il 27 febbraio del 52 a.C. Pompeo fu dall' interrè SERVIO SULPICIO RUFO dichiarato console "sine collega", ed entrò in Roma risoluto a ristabilire l'ordine (era quello che Pompeo aspettava da più di un anno).
Occorreva anzitutto punire i responsabili dell'assassinio di Clodio, delle violenze commesse in città e stringere i freni ai brogli elettorali. Per raggiungere tale scopo POMPEO presentò e fece approvare, nonostante l'opposizione di Catone (che ora frena), due disegni di legge ("de vi e de ambito") che fissavano a quattro giorni la durata dei processi per violenze e brogli. Alla prima legge fu data la retroattività di tre anni e, non appena promulgata, fu citato in giudizio ANNIO MILONE, di cui Pompeo e gli ottimati, dopo che se n'erano serviti, volevano ora sbarazzarsi come capo espiatorio.

Il processo ebbe il suo epilogo 1'8 aprile del 52 a.C.. Presiedeva il tribunale L. DOMIZIO ENOBARBO; il foro era gremito di folla, e moltissimi erano i partigiani di Clodio. Per mantenere l'ordine pubblico, Pompeo aveva fatto circondare la piazza dalle milizie e lui stesso assisteva al processo dalla scalinata del Tempio della Fortuna. Numerosi furono i testi d'accusa; fra questi uno dei più accaniti fu CRISPO SALLUSTIO, cesariano, autore della "storia della Guerra giugurtina" e della "Congiura di Catilina", nemico di Milone perché l'anno prima, sorpreso in adulterio con la moglie Fausta, era stato staffilato dai suoi servi.
MILONE era difeso da CICERONE, il quale aveva preparato una meravigliosa orazione, la più bella forse delle sue arringhe ("pro Milone"). Ma l'eloquenza del grande oratore non poté essere interamente esposta. Impressionato dal contegno ostile della folla, dalla presenza degli armati e dalle grida dei clodiani, non riuscì a tuonare con energia dall'alto della tribuna e parve fiacco e timido.
Milone ebbe tredici voti di assoluzione e trentotto di condanna; andò in esilio a Massilia. Qui si narra che, ricevendo copia dell'orazione del suo avvocato, esclamasse:
"Se Cicerone avesse parlato come ha scritto non mangerei qui triglie a Massilia".

Dopo i processi che stabilirono condanne a molti seguaci miloniani e a Plauzio Ipseo, POMPEO propose una legge ("de provinciis"), che stabiliva che i consoli e i pretori non potevano assumere il governo delle province se prima non erano trascorsi cinque anni dalla loro ultima magistratura; ma lui intanto dava il cattivo esempio, facendosi prorogare il governo della Spagna per altri cinque anni e farsi assegnare dal pubblico erario per le truppe ai suoi ordini, mille talenti l'anno.
In questo terzo consolato la sua ostilità a Cesare fu resa manifesta da due fatti. Poco dopo che Pompeo entrò in carica, Cesare mostrò il desiderio di stringere con lui nuovi legami di parentela offrendogli in sposa la propria nipote OTTAVIA, ma Pompeo rifiutò il parentado e sposò invece CORNELIA, vedova di Publio Crasso e figlia di Q. Metello Scipione.
Allo scopo poi d'impedire che Cesare ottenesse il consolato prima che deponesse l'imperio delle Gallie (1° marzo 49) richiamò in vigore una legge che proibiva la candidatura di chi non fosse presente a Roma; ma siccome gli amici di Cesare protestarono, dicendo che per una legge precedente, al proconsole delle Gallie non poteva essere applicata quella disposizione, Pompeo modificò a favore di Cesare la legge stessa; poi si scelse (a metà anno 52) come collega il suocero METELLO SCIPIONE.

Per l'anno 51 a.C. furono eletti consoli M. CLAUDIO MARCELLO e SERVIO SULPICIO RUFO. L'elezione di quest'ultimo, noto cesariano, mostra come Cesare -anche se lontano- vigilasse la politica romana attraverso i suoi amici, riuscendo a far pendere dalla sua parte un piatto della bilancia. L'altro piatto pendeva in favore di Pompeo e del Senato, che si servirono di CLAUDIO MARCELLO per iniziare più apertamente di prima le ostilità contro Cesare.
Marcello, infatti, nell'aprile di quello stesso anno, convocato il Senato, propose, fra le altre cose, di richiamare in anticipo Cesare dalle Gallie; ma la sua proposta cadde per l'opposizione di SULPICIO RUFO e dei tribuni.
Marcello tornò alla carica il 30 settembre, proponendo che Cesare al 1° marzo del 49 lasciasse il comando e che gli si proibisse di presentare in sua assenza la candidatura al consolato. Ma neppure questa volta la proposta ebbe fortuna, perché Pompeo per coerenza non riuscì a sostenere la modifica apposta alla legge richiamata in vigore durante l'ultimo suo consolato. In quella seduta, su proposta di Pompeo, si stabilì la data del 1° marzo del 50 per decidere sul governo delle Gallie.
Con questa proposta Pompeo voleva mostrare di non essere mosso da animosità nei riguardi di Cesare, ma in realtà per il trionfo dei suoi desideri e del Senato circa la deposizione del suo rivale lui faceva assegnamento sui nuovi consoli che sperava contrari a Cesare.
E contrari ad inizio anno 50, riuscirono veramente i nuovi eletti, C. CLAUDIO MARCELLO e L. EMILIO PAOLO; ma Cesare riuscì a comprare l'amicizia del secondo e quella del tribuno C. CURIONE e ottenere che i suoi interessi fossero validamente tutelati. Curione, infatti, per ben due volte si oppose alle deliberazioni che il Senato voleva prendere a danno di Cesare sostenendo animosamente che se Cesare doveva lasciare il comando anche Pompeo doveva rassegnarlo.
Di fronte alla fiera opposizione di CURIONE, il Senato tentò allora di togliere a Cesare parte di quelle milizie che costituivano la forza del conquistatore delle Gallie e, con il pretesto che si doveva muovere guerra contro i Parti, ordinò che Cesare e Pompeo, cedessero una legione ciascuno.
Chi da quell' ordine ebbe una diminuzione di forze fu soltanto Cesare che, oltre dover cedere una sua legione, dovette cedere per Pompeo quella che questi dopo il convegno di Lucca gli aveva prestato.
Cesare però, allo scopo di guadagnarsi la devozione e la simpatia delle truppe (sue e di Pompeo) che era costretto a mandare al Senato, regalò a ciascun soldato duecentocinquanta dramme.
Profondo conoscitore degli uomini del suo secolo, Cesare se ne accaparrava l'amicizia con il denaro, sempre pronto ad uscire in questi casi dalla sua borsa. Così aveva fatto qualche tempo prima con CURIONE, al quale aveva pagato i numerosi debiti, e così con EMILIO PAOLO, il quale grazie ai dodici milioni ricevuti, aveva potuto edificare la basilica che da lui prese il nome.

Nonostante gli scacchi subiti, prima che l'anno 50 terminasse, il console MARCELLO presentò due rogazioni al Senato, proponendo con la prima il richiamo di Cesare e con la seconda, le dimissioni di Pompeo. Messe ai voti, la prima fu approvata, la seconda respinta; però il tribuno cesariano CURIONE, che si era accorto del gioco, chiese che delle due rogazioni di Marcello si dovesse farne una sola ed anche questa volta il colpo fallì.
MARCELLO era uomo di risorse e non si diede per vinto. Poiché non poteva infrangere l'opposizione di Curione dentro la cerchia delle mura in cui questi, come tribuno, poteva esercitare la sua potestà, cercò di superarla operando oltre le mura.
Messa in giro la voce che CESARE marciava su Roma alla testa di quattro legioni, andò poi a trovare POMPEO fuori della città e, consegnandogli una spada, gli ordinò di assumere il comando delle due legioni destinate alla guerra contro i Parti, di arruolare soldati in tutta 1'Italia e di far tutto quello che credeva necessario per il bene della Repubblica.
Lo scaltro POMPEO, che certo non era estraneo a quella manovra, chiese il consenso di C. CORNELIO LENTULO e C. CLAUDIO MARCELLO, ostili a Cesare e consoli designati per il 49 a.C., ed accettò.

L'ostinazione di Curione era stata vinta dall'astuzia. Non potendo fare altro in favore di Cesare, Curione consigliò il popolo di non accorrere sotto le armi all'appello di Pompeo, poi, temendo per sé, lasciò segretamente Roma e, raggiunto Cesare che intanto era giunto già a Ravenna, lo informò degli avvenimenti e l'esortò a marciare alla testa delle truppe verso la metropoli.

L'anno 50, volgeva alla fine e CICERONE ritornava dalla Cilicia. Vi era stato mandato l'anno prima con l'incarico di proconsole, vi aveva governato con giustizia, onestà e clemenza ed in una facile spedizione contro i Pindenissiti era stato insignito del titolo di "imperator".
Sbarcato il 16 novembre del 50 a Brindisi, era stato messo al corrente della situazione ed aveva sperato di potere scongiurare un conflitto armato tra i due rivali, convinto che la guerra civile avrebbe avuto per conseguenza spargimento di tanto sangue e 1'inaugurazione della tirannide. Con questa speranza Cicerone giungeva a Roma, dove era accolto con onori e si faceva mediatore di pace.
L'atteggiamento conciliante di Cesare gliene porgeva l'occasione. Questi infatti, respingendo i consigli di Curione, faceva conoscere di esser pronto a lasciare al 1° marzo del 49 il governo della Gallia Transalpina e a congedare otto legioni; ma poneva come condizione che fino alla sua designazione al secondo consolato gli fossero lasciate due legioni e il comando della Cisalpina o dell' Illiria.
Le offerte di Cesare e la mediazione di Cicerone e d'altri a nulla valsero però e forse, se accettate, non avrebbero ritardato che di poco lo scoppio della guerra. Forse lo stesso desiderio di conciliazione che Cesare mostrava non era del tutto sincero; infatti, mentre lui mandava proposte concilianti, a Roma i suoi amici, non certo di propria iniziativa, incitavano il popolo a non correre sotto le insegne di Pompeo, e si adoperavano affinché le due legioni destinate contro i Parti fossero subito inviate in Siria e addossavano la responsabilità dei futuri, inevitabili torbidi, all'ambizione e alla prepotenza di Pompeo.

Fra questi amici di Cesare uno dei più attivi era il tribuno MARCO ANTONIO (MARC'ANTONIO); era figlio del pretore dello stesso nome che aveva combattuto con esito infelice contro i pirati e sconfitto a Cidonia, ed era morto nel 71 lontano dalla patria. Sua madre era stata Giulia, la zia di Cesare, passata in seconde nozze con quel Cornelio Lentulo, compagno di Catilina, che Cicerone aveva processato e fatto giustiziare. Bello come persona, pieno d'ingegno, carico di debiti sebbene giovanissimo, temendo per sé perché amico di Clodio, era andato in Grecia a studiare eloquenza; invitato poi da Gabinio, governatore della Siria, si era recato in quella provincia a comandarvi la cavalleria romana e quando Gabinio, comperato dall'oro di Tolomeo Aulete e favorito da Pompeo, aveva accettato di rimettere con la forza sul trono d'Egitto il re spodestato, Antonio aveva preso parte a quest'impresa, vi si era distinto, aveva acquistata grande popolarità fra le truppe e si era guadagnate le simpatie degli Egiziani.
Lui, infatti, essendo comandante dell'avanguardia, aveva con la presa di Pelusio aperta la via dell' Egitto all'esercito di Gabinio ed opponendosi a Tolomeo, che voleva sfogare le sue vendette sugli abitanti ribelli, si era procurato la stima e l'affetto delle popolazioni.

Rientrato a Roma ed aiutato da Cesare con generose offerte di danaro, si era decisamente schierato in favore del potente congiunto e, nominato tribuno, ora si batteva accanitamente per lui.
Dopo il rifiuto del Senato alle sue proposte, Cesare ne avanzò delle altre in una lettera che consegnò a Curione perché la recapitasse. In questa missiva il governatore delle Gallie, dopo avere accennato alle sue importanti conquiste e ribattute infondate le accuse mossegli dagli avversari, diceva che avrebbe lasciato il comando delle legioni e delle province se Pompeo avesse fatto lo stesso e… terminava… dicendo che, "se il Senato avesse rifiutato queste proposte, egli avrebbe vendicato se stesso e la patria".

Questa lettera, portata al Senato il giorno stesso in cui i nuovi consoli all'inizio del 49 a.C., prendevano possesso del loro ufficio, suscitò grande indignazione per le minacce contenute nell'ultima frase. E a questa soltanto i senatori diedero peso, trascurando le giuste considerazioni che Cesare faceva nel resto della lettera. Il console CORNELLO LENTULO disse che se ne avesse ricevuto 1' incarico dalla Curia avrebbe provveduto "lui" a fare rispettare "le leggi "e le decisioni del Senato; METELLO SCIPIONE dichiarò pure lui minaccioso, che Pompeo aspettava solo una parola del Senato per mettere a disposizione le sue milizie e il suo esercito; poi propose che Cesare fosse dichiarato nemico della Repubblica se entro un termine stabilito non avesse deposto il comando.
Era insomma un vero e proprio ultimatum che si dava a Cesare.
Altrimenti? Altrimenti "guerra"!

Il Senato approvò la proposta di METELLO SCIPIONE, ma i tribuni MARC'ANTONIO e Q. CASSIO LONGINO misero il veto all'emanazione del decreto.
Allora accadde quello che CESARE desiderava per intervenire. I partigiani di Pompeo tumultuarono e scagliarono atroci ingiurie contro i tribuni, ed i consoli ordinarono che fossero scacciati dalla Curia.
Era quello il "casus belli". MARC'ANTONIO e CASSIO informarono il popolo dell'onta subita e insieme con CURIONE e il tribuno M. CELIO 1' 8 gennaio del 49 lasciarono Roma e partirono per il campo di Cesare.

Il giorno dopo, il Senato si riunì fuori le mura al cospetto di POMPEO dichiarando la Repubblica in pericolo. A Pompeo fu affidato il comando supremo delle truppe, oltre che mettere a sua disposizione il tesoro dello stato; in tutte le parti d'Italia furono inviati commissari affinché arruolassero milizie; e fu conferito il governo delle varie province a persone che godevano la fiducia degli ottimati e di Pompeo, escludendo i cesariani.

Iniziava così la guerra civile, che doveva segnare la fine della gloriosa Repubblica, resistita oltre quattro secoli e mezzo, e mettere -dopo una guerra civile -nelle mani di un solo uomo quasi tutto il mondo fino allora conosciuto.

Ma prima di narrare le vicende della guerra tra CESARE e POMPEO è necessario tornare indietro e raccontare quelle, gloriose e drammatiche, di un'altra guerra, senza la quale GIULIO CESARE non avrebbe acquistato quel prestigio e quella forza che dovevano farlo diventare padrone della Repubblica.

Torniamo dunque all'inizio della Guerra nella Gallia Transalpina
e alle conquiste di Cesare…

…il periodo dall'anno 58 al 50 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

PROSEGUI CON I VARI PERIODI