ANNI 1034 - 1045

ARIBERTO - LA MOTTA - IL CARROCCIO - MILANO COMUNE

CONSEGUENZE DELLA SPEDIZIONE IN BORGOGNA - ARIBERTO DA INTIMIANO - SOLLEVAZIONE DEI VALVASSORI - LA MOTTA - SECONDA SPEDIZIONE DI CORRADO II IN ITALIA - SUA LOTTA CONTRO L'ARCIVESCOVO DI MILANO - LA COSTITUZIONE DEI FEUDI - BENEDETTO IX - CORRADO NEL MEZZOGIORNO D'ITALIA - ORGANIZZAZIONE MILITARE DI MILANO - IL CARROCCIO - MORTE DI CORRADO II - ENRICO III - IL POPOLO MILANESE SI SOLLEVA CONTRO ARIBERTO - LANZONE - DISCESA DI CORRADO II IL SALICO IN ITALIA
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CONSEGUENZE DELLA SPEDIZIONE IN BORGOGNA
ARIBERTO DA INTIMIANO

Altra conseguenza non meno importante della vittoriosa spedizione di Umberto Biancamano in Borgogna sotto la bandiera dell'imperatore tedesco, fu quella di far crescere in Lombardia a dismisura la prepotenza degli imperiali "capitanei" e dei "valvassores majores" (appartenenti all'alta nobiltà cittadina) e l'ambizione e l'ingordigia dell'arcivescovo ARIBERTO.
Arroganza di pochi potenti che fece divampare a Milano un aspro conflitto, finito, dopo varie vicende, con la trasformazione della città feudale in comune.

L'arcivescovo Ariberto era un uomo di grandi appetiti ed era un vassallo non certo affezionato dell'imperatore. A chiamare Corrado egli era stato mosso solo dalla necessità di difendere le signorie ecclesiastiche, specie quella lombarda, che era poi la sua, dalle minacce dei grandi laici; ma egli aveva ben altro in animo e non certo quello di essere uno dei tanti vassalli dell'impero. Ariberto aspirava al primato sulla chiesa dell'Italia settentrionale, all'elevazione della sede arcivescovile milanese a patriarcato e ad un potere temporale altrettanto vasto dell'ecclesiastico simile a quello del papa, e che a quel tempo ognuno mirava a diventarlo nel suo territorio, a Ravenna, come a Milano, ad Aquileia come a Grado; e più tardi anche dentro casa Savoia.

Della sua smoderata ambizione, del suo desiderio di non esser secondo a nessuno e della sua prepotenza ARIBERTO aveva dato prova l'anno stesso in cui Corrado era appena ripartito dall'Italia. Abbiamo detto sopra, che Corrado gli aveva concesso il privilegio d'investire dei suoi feudi il vescovo di Lodi. L'occasione di esercitare questo privilegio si era presentata all'arcivescovo milanese per la prima volta nel 1027. Essendo rimasta vacante la sede vescovile di Lodi, Ariberto, esorbitando dai diritti, che gli provenivano dal privilegio, aveva voluto egli stesso eleggere il nuovo vescovo, la cui nomina spettava invece al clero e al popolo della città. I Lodigiani sdegnati, si erano opposti a tale abuso; ma Ariberto con un grosso corpo di milizie era comparso davanti a Lodi, aveva iniziato a devastare le campagne intorno, infine costretta la città ad arrendersi, aveva imposto il vescovo Ambrogio, che era ovviamente una sua creatura.

Con altrettanta simile violenza il prepotente arcivescovo aveva alcuni anni dopo trattato Cremona. Essendo sorta discordia tra i Cremonesi e il loro vescovo, cui era stato dai cittadini distrutto il palazzo, Ariberto aveva con un suo nipote invaso il territorio di Cremona, impadronendosi del luogo che era di proprietà dell'episcopato. Invitato dall'imperatore a restituirlo, aveva promesso di farlo, ma poi non aveva mantenuto la promessa.
La prepotenza di Ariberto e quella dei capitanei e valvassori maggiori, cresciuta - come si è detto - dopo la vittoriosa spedizione in Borgogna, era però destinata a suscitare una reazione violentissima in seno ad una categoria di vassalli, che da qualche tempo lottavano per migliorare le loro condizioni. Erano questi i valvassori minori e i valvassini, che formavano la bassa nobiltà e desideravano che i loro feudi, ricevuti a titolo di beneficio e non trasmissibili per eredità, divenissero ereditari.
La lotta iniziata dai valvassori minori e dai valvassini fin dagli ultimi decenni del secolo X divenne più intensa dopo la vittoria su Oddone di Champagne, provocando da parte di Ariberto e dell'alta nobiltà un provvedimento gravissimo che sapeva di rappresaglia: la revoca dei benefici goduti. La spoliazione di un valvassore del proprio feudo (1035), fatta arbitrariamente da Ariberto, fu la scintilla che provocò l'incendio.

I valvassori minori insorsero contro l'arcivescovo, il quale, spalleggiato dai capitanei, cercò in un primo tempo di riportare con la persuasione i ribelli all'obbedienza, poi, riusciti inutili i suoi tentativi, non si fece più nessun scrupolo e iniziando ad usare la forza, ben presto all'obbedienza li costrinse sguainando le spade.
Ma la disfatta subita non pose fine alla rivolta. In maggior misura, esasperati, i ribelli uscirono da Milano per tentare la riscossa. Numerosi malcontenti dalla Martesana e dal Seprio accorsero ad ingrossare le file milanesi, così quelle di Lodi, che in quella rivolta vedeva una buona occasione per vendicarsi dell'arcivescovo, e mandò un buon numero di ausiliari.

LA GUERRA DI MOTTA (dei "ribelli")

La guerra che ne seguì ebbe il nome di "Motta" dalla parola longobarda "gemot" che vuol dire un gruppo, un'associazione di ribelli: detti anche gli "ammottinati" e deriva da questa parola la voce italiana "ammutinarsi".
La Motta costituiva un gravissimo pericolo per l'arcivescovo, che vedeva estendersi il movimento in tutta la Lombardia. Ariberto pertanto fece uno sforzo poderoso per metter su più armati che potesse e alla testa dei capitanai e degli uomini del popolo mosse contro i ribelli. Una sanguinosa battaglia fu combattuta in una località detti Campomalo, fra Pavia ed Abbiategrasso. Gravissime furono le perdite dall'una e dall'altra parte, ma alla fine l'esito fu per entrambi incerto; questo anche perché caduto durante il combattimento Olderico vescovo di Asti, che militava nell'esercito di Ariberto, nacque una tale confusione che tutti, ribelli e milizie arcivescovili, rientrarono nelle proprie città.

Il dissidio però non era per nulla finito, anzi minacciava di prendere proporzioni più vaste perché da ogni parte della Lombardia giungevano rinforzi alla Motta, le cui file s'ingrossarono così tanto che Ariberto, temendo di essere sopraffatto, si vide costretto ad invocar l'aiuto dell'imperatore contro i ribelli, e contemporaneamente e paradossalmente, sollecitato ad intervenire dagli stessi ribelli.
CORRADO era al corrente della situazione e conosceva benissimo le cause che avevano provocato la sedizione; sapeva anche che il torto stava dalla parte dell'arcivescovo ed era convinto che prendendo provvedimenti in favore della bassa nobiltà egli avrebbe agito nel suo proprio interesse, perché la potenza e la prepotenza di Ariberto minacciava di fare della Lombardia un personale forte stato ecclesiastico indipendente.

Persuaso che la sua presenza in Italia era indispensabile, l'imperatore passò le Alpi sul finire del 1036. Fra i molti grandi che lo accompagnavano c'era il marchese BONIFACIO di Toscana, la cui autorità era cresciuta per il matrimonio che aveva contratta con Beatrice, figlia del duca Federico di Lorena e nipote dell'imperatrice Gisella.
Passato il Natale del '36 a Verona, Corrado proseguì per Milano, dove, il giorno dopo del suo arrivo, scoppiò un tumulto popolare, provocato a quanto sembra ad arte, dallo stesso Ariberto il quale sperava così di influire sulle decisioni dell'imperatore, incutendogli timore o facendogli credere che l'agitazione era stata provocata dai valsassori minori. Corrado invece si confermò maggiormente nel proposito di abbassare la potenza dell'arcivescovo e dei capitanai, ma stimando non essere prudente agire a Milano, si trasferì a Pavia e qui convocò una dieta generale, invitando i signori a presentare le loro lagnanze.

ARIBERTO, o sicuro che lui non sarebbe stato toccato o non volendo mostrarsi pauroso, si presentò alla dieta. Con la sua presenza egli credeva anche di far tacere tutti coloro che avevano motivo di lagnarsi di lui. Invece s'ingannò: piovvero da ogni parte le accuse contro gli abusi e le prepotenze dell'arcivescovo, il quale, invitato a scolparsi, si rifiutò.
Citato una seconda volta, dopo essersi consigliato con i suoi partigiani, rispose sprezzante di "essere deciso a difendere contro chiunque, finché avesse fiato e sangue, ciò che aveva trovato in possesso di S. Ambrogio quand'era salito al seggio arcivescovile di Milano e tutto quello che egli aveva saputo aggiungere al santo patrimonio".

La risposta era troppo temeraria oltre che offensiva: era una sfida all'imperatore che, se raccolta, avrebbe senza dubbio prodotto molte conseguenze e un grave danno a Milano. Non mancarono tuttavia persone amanti del quieto vivere, che cercarono d'indurre Ariberto a dichiarare che con le sue parole non aveva voluto offendere Corrado. Ma i loro tentativi riuscirono vani: l'audace arcivescovo non volle piegarsi, anzi ripeté le stesse parole che aveva pronunciate.
L'imperatore a quel punto, comprese che, se non voleva pregiudicare la sua autorità in Italia, doveva con prontezza ed energia punire l'orgoglioso vassallo e, senza perder tempo, riunita una corte di giudizio, il prelato fu condannato per alto tradimento, e subito arrestato insieme con i vescovi di Cremona e Piacenza, tutti furono dati in custodia al patriarca Poppone di Aquileia e al marchese Corrado di Coringia.

Ridotto così Ariberto all'impotenza, l'imperatore credeva di avere spezzato la
resistenza dei capitanei e di essersi assicurati la simpatia dei vassalli minori; i suoi provvedimenti però non produssero gli effetti che Corrado sperava. La notizia che Ariberto era stato condannato e imprigionato addolorò e indignò grandemente una parte di Milano. Non è che era molto spontaneo, perché i sostenitori del terribile prelato, ad arte asserivano che il trattamento fatto ad Ariberto bisognava considerarlo come un'offesa alla città, e che Ariberto più che un uomo era un simbolo, una bandiera. Quindi non la sorte toccata ad Ariberto commosse i milanesi, ma la sorte toccata al loro arcivescovo, cioè al successore di S. Ambrogio.
Per due mesi - narrano i cronisti Arnolfo e Landolfo - le donne, senza distinzione di ceto, versarono lacrime, elargirono elemosine, innalzarono preghiere, andarono per le vie in processione; gli odi e i rancori che dividevano prima la cittadinanza -sempre con arte sopraffina- furono fatti dimenticare, invocando l'"unità nazionale"; e così tutti i milanesi, capitanei, valvassori e popolo alla fine fecero esplodere l'odio contro l'imperatore.

Milano era da due mesi in aperta rivolta quando improvvisamente fece ritorno Ariberto. Nonostante la rigorosissima sorveglianza esercitata dai suoi custodi l'arcivescovo era riuscito a fuggire: un frate che gli faceva visita, un certo ALBIZZONE, aveva preso il posto di Ariberto e questi uscito travestito con il suo saio, era riuscito ad evadere, e attraversato il Po sopra una barca, giunse a Milano.

Vi fu accolto con grandi manifestazioni di gioia e, siccome si prevedeva prossima la marcia dell'imperatore sulla città, un gran numero di abitanti accorse a schierarsi sotto le insegne dell'arcivescovo e s'iniziarono febbrilmente i lavori di difesa. Furono rafforzate le mura che un secolo e mezzo prima sulla cinta costruita da Massimiano e demolita dai Goti poi riedificata da Ansperto di Biassonno con le trecento torri, furono tutte fornite di armi e di difensori e furono messe milizie alle porte della città.

CORRADO II comparve davanti a Milano nel maggio del 1037 alla testa del suo esercito, e il 19 di quello stesso mese tentò di prendere d'assalto la città. Ne fu respinto. Imbaldanzito dal successo, Ariberto uscì con le sue milizie cittadine contro gli imperiali e una battaglia sanguinosa fu ingaggiata oltre le mura; vi furono travolti molti nobili dell'una e dell'altra parte. Belle prove di valore fecero i nobili milanesi: fra questi va ricordato un visconte dell'arcivescovo che atterrò un barone di Baviera. Era ERIPRANDO VISCONTI il cui figlio Ottone, più tardi, mutò il titolo in cognome.

L'imperatore sconfitto, si vendicò dello scacco subito devastando il territorio, poi, visto che non era facile impresa avere ragione della tenace resistenza dei milanesi, stabilì di togliere il campo. Prima però di allontanarsi volle prendere un provvedimento che a suo avviso doveva trarre dalla sua parte i vassalli minori e seminare la discordia nella città.

Il 28 maggio 1037 CORRADO emanò l'"edicotum de beneficiis" con il quale, accogliendo le richieste della bassa nobiltà, proclamava ereditari i feudi dei valvassori, stabiliva che solo un tribunale composto di giudici scelti tra i valvassori medesimi poteva spogliarli dei feudi e, infine, dava facoltà agli spogliati di ricorrere in appello all'imperatore, il quale prometteva inoltre di non esigere dai feudi per il servizio militare altre prestazioni fuorché quelle usate fino allora.
Questo editto era un colpo gravissimo che l'imperatore dava ad Ariberto perché ne limitava la potenza, e ne ostacolava gli ambiziosi disegni; rappresentava inoltre un provvedimento indispensabile a tutela dell'integrità territoriale del regno perché impediva efficacemente il costituirsi di una potente signoria che potesse riuscire di danno alla sovranità germanica.
Corrado II però non riuscì a raccogliere il frutto del suo astuto provvedimento perché l'"edictum de benefceiis" trovò gli animi caldi dell'odio contro il sovrano e non riuscì subito a mitigare la discordia; trovò inoltre un ostacolo fortissimo nell' accortezza dell'arcivescovo, il quale seppe prontamente parare il colpo chiamando e educando alle armi il popolo, cui l'educazione militare e l'onore ricevuto di essere impiegato nella difesa della città dovevano dare una nuova coscienza e ridare le antiche virtù civili che dovevano costituire l'anima e la forza della libertà comunale.

L'"edictum de beneficiis non fu il solo provvedimento preso contro Ariberto dall'imperatore. Questi, arrogandosi diritti che non aveva, destituì Ariberto delle cariche spirituali e temporali e gli diede come successore nel seggio arcivescovile il prete AMBROGIO, canonico della Chiesa milanese. Occorreva però che l'atto dell'imperatore fosse ratificato dal Pontefice.
Era allora sul soglio di S. Pietro TEOFILATTO, figlio del conte tusculano Alberico, il quale nel 1033, venuto a morte Giovanni XII, alla sola età di dodici anni, per mezzo delle illecite arti paterne, era stato nominato papa con il nome di BENEDETTO IX. Venuto presto in odio ai capitani di Roma, a stento il Pontefice aveva potuto salvarsi da una congiura con la fuga.
Un tale Papa -ora di anni ne aveva 16- che andava ad implorare contro i suoi nemici il soccorso dell'imperatore non poteva essere che un docile strumento nelle mani di Corrado.

Papa e imperatore s'incontrarono a Cremona, e qui Corrado promise a Benedetto IX di rimetterlo nella sede pontificia. Il Papa, in cambio, ratificò la destituzione di Ariberto. Questi però continuò ad occupare il suo seggio, rimanendo in armi contro l'imperatore.
Tuttavia la sua era una situazione difficilissima, poiché non poteva egli sperare di resistere a lungo a Corrado con le sole forze di cui disponeva.
Ma lui aveva altre diaboliche risorse, e pensò di togliere il regno italico all'imperatore suscitandogli contro un rivale d'accordo con molti vescovi. L'avversario presto trovato fu proprio quell' ODDONE di CHAMPAGNE che aveva combattuto Corrado per la successione di Borgogna e che ora, ripresa la lotta, aveva invaso la Lorena.
Fra ARIBERTO ed ODDONE si stabilì che questi continuasse la guerra nella Lorena; poi conquistato il ducato, sarebbe disceso in Italia per cacciarne l'imperatore. Il piano però non fu possibile metterlo in esecuzione, perché Oddone il 15 novembre del 1038, combattendo con il duca Gozzelone fu poi sconfitto e ucciso.

CORRADO si era vendicato già nel '37 di questa congiura appena avviata, scacciando i vescovi di Cremona, Vercelli e Piacenza, poi nel corso di quello stesso anno '37, mosse verso l'Italia centrale per rimettere sul trono pontificio il sedicenne BENEDETTO IX.
Nel Natale era a Parma, la quale, essendosi ribellata, fu punita e distrutta. Lasciando dietro di sé la misera città ridotta ad un cumulo di rovine, si recò all'inizio del successivo anno a Perugia e di là a Spello, presso Foligno, dove con il Papa celebrò la Pasqua del 1038. Da Spello fece accompagnare il Pontefice a Roma da un gruppo di milizie, poi si avviò verso l'Italia meridionale, dove qui PANDOLFO IV di Capua aveva saccheggiato prima il monastero di Montecassino, poi si era messo a minacciare la campagna romana con chissà quale successive intenzioni.
Prima di entrare nel territorio di Benevento l'imperatore intimò a Pandolfo di rimettere il monastero nello stato in cui era prima, e di restituire tutto ciò che aveva rapinato; ma il principe longobardo non obbedì e allora Corrado iniziò a marciare con il suo esercito su Capua e il 13 maggio se ne impadronì. A Pandolfo non gli rimase altro da fare che trovare scampo nella rocca di S. Agata e, volendo ingraziarsi l'animo dell'imperatore, iniziò trattative, mandandogli ostaggi e ricchi doni; ma le trattative fallirono e il principe capuano fu dichiarato decaduto.

A quest'atto doveva seguire il riassetto degli stati longobardi, ma dei principi invitati a Capua soltanto GUAIMARO IV di Salerno si presentò e riuscì abilmente a guadagnarsi prima la simpatia poi il favore del sovrano che fu perfino adottato come figlio e investito del principato captano; e dietro sua preghiera Corrado costituì in contea il feudo di Aversa e ne diede l'investitura al normanno RAINOLFO DRENGOT; nello stesso tempo, eccettuati alcuni castelli dati ai Normanni, restituì a Montecassino i beni asportati da Pandolfo e nominò abate del monastero il bavaro RICHERIO.
Una brutta pestilenza scoppiata all'interno del suo esercito gli impedì di occuparsi degli altri stati del mezzogiorno e lo costrinse a ritornare nell'Italia settentrionale.
Il 29 luglio del 1038 lo troviamo a Viadana, addolorato dalla perdita della nuora Gunilda, triste per la morte del figliastro Ermanno di Svevia, ma tuttavia sempre con l'animo pieno dal desiderio di vendicare la sconfitta subita ricevuta da Ariberto e dai Milanesi.
Non riuscendo a tradurre sollecitamente in atto questa sua brama, radunò i principi vassalli dell'alta Italia e fece loro giurare che avrebbero costantemente ogni anno devastato il territorio di Milano fino a costringere prima o poi alla resa la ribelle città lombarda.
I principi giurarono e nella primavera del 1039 mantenendo fede alla parola data comparvero nel territorio milanese iniziando a devastarlo….

IL "CARROCCIO" DI ARIBERTO

…questo fatto però, anziché sbigottire Ariberto, lo stimolò a intensificare e perfezionare gli armamenti non solo nella città, ma anche nel contado, e in breve tempo fu portata a compimento l'organizzazione della città, in cui le corporazioni delle arti diventarono nel contempo pure compagnie di armati, pronti ad un segnale a scendere in campo; adottando un'insegna molto originale tuttavia simbolica e che li chiamava a questo nuovo "dovere".

"Quel carro pesante tirato da buoi, munito di una campana; due strumenti che erano serviti fino a quel momento ai monaci e agli abati per raccogliere le rendite quando giravano nei loro numerosi poderi; carro che prima lo si usava per richiamare i sottoposti a tasse, a gabelle varie o beni in natura, poi da ARIBERTO trasformato in un arnese da guerra per richiamare gli uomini alle armi.
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"Sul carro, Ariberto eresse un altare, e in cima a un'altissima antenna tinta a vermiglio, pose un globo dorato fra due bianchi vessilli, e nel mezzo dell'antenna un crocifisso: c'erano pure due piattaforme: una sul davanti per i soldati scelti; l'altra di fronte per gli otto trombettieri: ogni combattente doveva trovare in quel singolare un punto di riunione e di ricognizione. Questo era il famoso CARROCCIO, concepito dall'arcivescovo Ariberto, e usato la prima volta, con gran successo, nella difesa di Milano del 1037 contro le milizie imperiali di Corrado II.
Avrebbe dovuto essere il sacro simbolo della patria, insegna nazionale della libera Italia; ma le città, adottandolo, vollero introdurvi ciascuna qualche novità, ponendovi ad esempio, il gonfalone proprio e l'immagine del santo patrono; procedendo così il Carroccio in breve tempo diventò un'insegna municipale, rimanendo però sempre il simbolo della libertà" (Bertolini).
(Il "Carroccio" lo riesumò più tardi, 140 anni dopo -nel 1176- Alberto da Giussano nella Lega Lombarda, contro un altro imperatore tedesco: Federico Barbarossa)

Con l'armamento del popolo si pongono le basi del comune di Milano. Ariberto arma il popolo -ovviamente- non per dare alla patria la libertà ma per difendere i suoi interessi contro l'imperatore; il popolo però, scomparsa la minaccia imperiale e accortosi di essere stato sfruttato non come strumento della difesa della libertà ma dell'ambizione e dell'egoismo dell'arcivescovo, userà le medesime armi contro lo stesso Ariberto e valorosamente le userà per difendere le nuove istituzioni e la sua dignità.

Di queste lotte CORRADO II non fu spettatore; cessò di vivere il 4 giugno del 1039 ad Utrecht, lasciando il trono, saldissimo, al figlio ENRICO III, ancora in lutto per la morte della moglie Gunilda, figlia del re Canuto, che aveva sposata tre anni prima.
Nella Lombardia la notizia dell'avvento di Enrico III fece nascere la speranza di un accomodamento tra il nuovo re e l'arcivescovo milanese perché si sapeva che il successore di Corrado II non aveva per nulla approvato la condotta paterna nei riguardi di Ariberto.

La speranza si mutò in certezza quando, nel gennaio del 1040, ai grandi italiani recatisi ad Augusta, Enrico III fece capire che volentieri sarebbe venuto ad un accordo con l'arcivescovo. La lite non tardò ad esser composta: nella Pasqua di quello stesso anno Ariberto si recò ad Ingelheim, chiese ed ottenne perdono e, prestato omaggio al re, riebbe ufficialmente il suo arcivescovado.

Tornato a Milano, Ariberto sperava di soffocare la libertà che negli anni precedenti vi era germogliata e di poter di nuovo governare dispoticamente come una volta. Il popolo (che possiamo già fin d'ora chiamare a diritto col nome di "cittadini") però non era più quello di un tempo; due anni di lotta gli avevano data la coscienza della sua forza, l'esercizio delle armi aveva rialzato la sua dignità, la difesa della città fatta insieme con alcuni piccoli nobili contro l'imperatore lo aveva persuaso di aver guadagnato il diritto d'eguaglianza con i grandi nobili; non poteva quindi tollerare il dispotismo di Ariberto e il contegno altezzoso di quello sparuto gruppo che componeva l'alta aristocrazia e l'alto clero.
Del profondo mutamento che si era prodotto nella coscienza popolare si ebbe una prova nel 1041. Essendo stato, in seguito ad una contesa, un popolano ferito da un valvassore, il popolo corse alle armi e iniziò quella lotta accanita e sanguinosa che doveva durare tre anni e finire con il suo trionfo.
Era dall'epoca dei Romani che questo fatto non accadeva!

"La guerra civile non era mai apparsa a Milano così feroce, con il suo sinistro accompagnamento di stragi, di vendette, di devastazioni. Fin dai primi giorni il furore fu tale, e così diffuso che non risparmiò nessun quartiere. I popolani dovevano essere certamente dieci volte più numerosi dei nobili: ma questi avevano le armature complete, i cavalli in assetto di guerra; le feritoie dei loro palazzi di pietra, la più profonda cognizione degli ordini militari. Sicché nonostante la proporzione numerica, i primi combattimenti non riuscirono favorevoli all'insurrezione, la quale probabilmente sarebbe stata repressa e domata se un uomo, uscito da tutt'altra schiera, non le avesse dato il potente aiuto del suo valore (Bonfadini)".

"Quest'uomo si chiamava LANZONE DELLA CORTE, apparteneva ad alta ed antica nobiltà ed era giudice e notaio del sacro palazzo. Novello "Spurio Cassio", spinto da vivissima simpatia per il popolo e dalla legittima e sacrosanta causa popolare o mosso da ambiziosi disegni, Lanzone si schierò con gran parte dei suoi valvassori in favore della insurrezione non disdegnando di andare contro il proprio ceto -lui che era di estrazione nobiliare- e fu subito eletto "capitano del popolo" del "populos" milanese.
L intervento di Lanzone rialzò subito le sorti dei ribelli, che seppe guidarli con tale energia e suscitare un tale entusiasmo e tale fiducia nella loro forza che i nobili furono costretti ad abbandonare con le loro famiglie la città. Uscirono però con il fiero proposito di non desistere dalla lotta e di tornare alla riscossa.
Aiutati dai conti della MARTESANA e del SEPRIO, i nobili si distribuirono in sei forti castelli della campagna circostante e da queste postazioni in certo qual modo strategiche per i rifornimenti, tennero quasi assediata Milano, il cui popolo, sebbene tormentato dalla carestia e rotto dalle fatiche, seppe con determinazione resistere per tre anni (1042-1044).

Nel terzo anno giunsero in Lombardia i legati di ENRICO III a pubblicare l'editto di Treviri con il quale si bandiva la pace in tutto il regno. Con questo editto il re di Germania, animato da un nobile ideale e assecondato dalla buona, pia e gentile AGNESE di POITOU che aveva sposato in seconde nozze nell'ottobre del 1043, dietro l'esempio della tregua di Dio stabilita nella Borgogna per opera dei vescovi e dell'abate di Cluny, sperava di far cessare tutte le contese esistenti nelle varie province del regno.

L'editto e i legati di Enrico non riuscirono però a porre fine alla guerra milanese. Allora LANZONE, persuaso che senza un aiuto esterno non avrebbe mai potuto vincere la tenacia dei nobili, si recò in Germania (1044) e chiese soccorso ad Enrico III, che lo promise a patto che i Milanesi gli giurassero fedeltà e dovevano essere disposti a ricevere nella città una guarnigione di quattromila soldati tedeschi fino al suo arrivo.
L'aiuto del sovrano germanico avrebbe senza dubbio determinato il tracollo della potenza dei nobili, ma avrebbe anche soffocato la nascente libertà comunale e Lanzone, che comprese questa specie di cappio al collo, ritornato a Milano, si adoperò attivamente a metter d'accordo il popolo e la nobiltà. L'accordo non poteva avvenire che sulla base dell'eguaglianza dei diritti, sulla deposizione degli odi e sull'equa partecipazione delle varie classi sociali al governo della città.

Profondi erano questi odi che dividevano il popolo dalla nobiltà e che negli ultimi critici anni di sofferta carestia da loro fatta subire, erano giorno su giorno aumentati; ma l'interesse che tutti, indistintamente i cittadini avevano di impedire l'intervento tedesco, era così grande che l'accordo -sia pur precario- fu raggiunto, e così i nobili ritornarono dentro le mura e nelle loro case di Milano e, riunitosi un consiglio dei rappresentanti dei vari ceti, si discusse sul nuovo ordinamento da dare alla città.

Mentre sorgeva il Comune di Milano -come a voler chiudere un epoca- la morte su un altro carro, raggiungeva Monza il 16 gennaio del 1045, portandosi via l'arcivescovo ARIBERTO da INTIMIANO. Il tramonto della sua politica era già avvenuto, ma mancava l'ora, il giorno e il mese, che giunsero puntuali all'appuntamento.

Noi non possediamo documenti scritti, che c'illuminino quelle le trattative poi positivamente concluse tra nobili e popolo e che ci diano precise notizie intorno alle condizioni in cui venne a trovarsi Milano dopo l'accordo e la fine di Ariberto.
Tuttavia - come giustamente scrive il LANZONE nella sua Storia dei Comuni italiani dalle origini al 1313 :
"Quel poco che ci dicono i cronisti intorno al popolo milanese durante l'assedio, nel tempo appunto in cui si trovava separato, in una distinta ed avversa comunità - popolo e dominatori- ci mostra abbastanza chiara la restaurazione delle forme fondamentali della costituzione comunale, consistente in un'assemblea popolare, in un consiglio minore, ed in un'autorità esecutiva, la quale, se fu in seguito rappresentata dai consoli, poi dai podestà e infine dal capitano del popolo, che in quel primo periodo del "risorgimento municipale" non poteva essere che dittatoriale, nelle mani del grande patriota che con il suo valore e con il suo senno aveva fatto trionfare la rivoluzione popolare".

Qualcosa del genere accadde poi, all'inizio del "risorgimento" del Rinascimento; e otto secoli dopo… nel "risorgimento" per l'Unità d'Italia.
Quel passo di GREGOROVIUS che abbiamo appena letto sopra, sembra proprio uno dei tanti proclami di Vittorio Emanuele, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini, che messi da parte i contrasti politici, il grido era poi uno solo. "L'Italia farà da sé".

FINE

Lasciamo per il momento il Settentrione, che riprenderemo più avanti,
e portiamoci nel Sud Italia, dove anche qui ci sono avvenimenti storici epocali:
termina la dominazione araba e iniziano le conquiste dei Normanni

ed è il periodo dal 1045 al 1056 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

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