ANNI 1040 - 1062

SICILIA - I NORMANNI - LE CONQUISTE DI ROBERTO E RUGGERO
( dal 1040 al 1062 - IL PRIMO PERIODO)

LE SIGNORIE DELLA SICILIA DOPO IL 1040 - IBN-THIMNA: SUE LOTTE CON IBN-HUÀSCI - ROBERTO IL GUISCARDO E RUGGERO CONTRO I BIZANTINI DELLA PUGLIA E DELLA CALABRIA - RICOGNIZIONE DI RUGGERO IN SICILIA - RIBELLIONE DEI CONTI NORMANNI - IBN-THIMNA CHIEDE L'AIUTO DEI FRATELLI D'ALTAVILLA - SPEDIZIONE DI RUGGERO IN SICILIA - NUOVA SPEDIZIONE NORMANNA CON LA PARTECIPAZIONE DI ROBERTO IL GUISCARDO - PRESA DI MESSINA E DI RAMETTA - BATTAGLIA E ASSEDIO DI CASTROGIOVANNI - MATRIMONIO DI RUGGERO D'ALTAVILLA - PRESA DI TRAINA E PETRALIA - FINE DI IBN-THIMNA - DISCORDIE TRA ROBERTO E RUGGERO - SOLLEVAZIONE DI TRAINA-
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IBN-THIMNA E I NORMANNI

Dopo la sconfitta di Traina e la presa di Siracusa, l'emiro ABDALLAH IBN-MOEZZ vide rapidamente tramontare il prestigio che con la vittoria su AKHAL si era guadagnato in tutta la Sicilia. Palermo, dove si era rifugiato l'emiro con una schiera di fedeli, ribellatasi con armi contro di lui, e dopo avergli massacrato mezzo migliaio circa di uomini, lo costrinsero a riparar sulla flotta e a fuggirsene in Africa; poi acclamò emiro HASAU, soprannominato "SIMSÀN", fratello di Akhal (1040).

A quest'acclamazione, che certo fu opera di una fazione e che, date le condizioni del paese, non poteva riscuotere il consenso generale, seguirono nell'isola dodici anni di anarchia, originata dalla lotta civile, dalla guerra contro i Bizantini, dai dissidi tra nobili e popolani, arabi e berberi, siciliani ed africani, dalla debolezza del nuovo emiro e dalle condizioni imposte dai vari kaid, che -con i loro contrasti interni- causarono poi la divisione della Sicilia in varie signorie dipendenti: quella di IBN-MENKÚT comprendeva la parte occidentale con Trapani, Marsala, Mazzara e Sciacca, quella di IBN-HUÀSCI abbracciava i distretti di Girgenti, Castrogiovanni e Castronovo, e quella dell'emiro ABDALLAH nelle costiere settentrionale ed orientale.
"Come in natura - scrive l'Amari - ogni più strano disordine è ordinato in se stesso secondo le eterne leggi della materia, cosi in quel ribollir di tutte le genti che altre vicende avevano messo insieme in Sicilia, nacquero vari grumi: e ciascuno fece uno stato; e in ciascuno si scopre l'affinità degli elementi che gli davano principio. Lo stato del centro, di cui fu capitale Castrogiovanni, erano territori agricoli fatti da lunghissimo tempo musulmani; ed era accaduto che l'antica nobiltà militare non esisteva più; si erano dileguati i vassalli cristiani; e gli unici a crescere (a parte gli arabi) erano stati i popolani dell'antica schiatta siciliana come era chiamata all'inizio della guerra civile.
Cioè prevalsero quelli che le cronache chiamano uomini di "vil condizione", finché non se ne fece signore IBN-HAUÀSCI, "il Demagogo", un ex schiavo, o un ex liberto plebeo. Ma popolo e sovrano della stessa condizione erano.
Questo stato del centro (ovviamente più numeroso) vinceva di potenza su ogni altro dell'isola; come si vedrà negli avvenimenti che seguono per quarant'anni.

IBN-MENKÚT, invece, messo negli annali a capolista degli uomini ignobili che vengono su nella rivoluzione, comanda nella punta occidentale, paese marittimo, sede di antiche colonie arabiche con molta cittadinanza d'origine musulmana. Qui la popolazione sta, o tentenna, tra le due fazioni africana e siciliana, o meglio dire nobile e plebea: poco divario con la cittadinanza palermitana; tuttavia questo stato d'Ibn-Menkut sparisce, perché lui è attirato da Palermo e da Castrogiovanni.

Palermo faceva storia a sé. La costiera orientale, abitata la più parte da vassalli cristiani, obbedisce a SIMSÀN ma anche al capo della nobiltà locale, e vediamo una parte di questi prevalere nella più illustre città. Mentre nella seconda che era Catania, la vediamo prima tenersi legata al condottiero berbero IBN MEKLÀTI, poi sottomettersi al signore di tutta la regione orientale, in altre parole a Simsan.

In effetti Ibn Meklàti, con quei suoi titoli di "Base dell'Impero" o "Ciambellan del Sultano", per Simsàn era un semplice governatore militare di una provincia.
Guerriero di ventura, sia delle colonie berbere, sia disertore dell'esercito moezziano, cacciatosi tra le turbolenze della Sicilia, era poi salito in favor della corte, dopo un naufragio dove si salvò afferrando una tavola.
Le divisioni tornarono dunque a tre: nobiltà militare, popolo delle province, e cittadinanza della capitale".

Verso la fine del 1052 o il principio del 1053 Simsàn, non si sa perché, fu deposto dalla nobiltà araba di Palermo e qualche anno dopo, gran parte dell'isola cadde in potere di un IBN-THIMNA.
Costui era un nobile, siracusano forse di nascita, e s'ignora come, e quando si era fatto signore di Siracusa.
Desideroso d'ingrandire i suoi domini, IBN-THIMNA aveva mosso guerra ad IBN-MEKLÀTI; kaid di Catania, lo aveva ucciso in battaglia e ne aveva sposato la vedova Meimuna, sorella di IBN-HAUÁSCI, rafforzando con questo parentado la sua posizione in Sicilia.
Ma proprio tale parentado doveva causare la rovina del potente emiro e la fine della dominazione musulmana nell'isola.

Non regnava l'accordo tra IBN-THIMNA e la moglie; le liti tra i due coniugi erano anzi frequenti, provocate il più delle volte dal troppo vino che l'emiro era abituato a bere. In una di queste liti Ibn-Thimna ordinò che a Meimuna fossero tagliate le vene delle braccia, e l'infelice sposa sarebbe morta dissanguata se non l'avesse soccorsa il figliastro IBRAHIM.
Il giorno dopo, dissipatisi i fumi del vino, l'emiro si mostrò pentito della sua violenza e la moglie finse di accettarne le scuse e di perdonarlo; trascorso però qualche tempo, chiese al marito che le concedesse di rivedere i parenti e, ottenuta licenza, fu inviata con numerosa scorta e ricchi doni a Castrogiovanni. Qui giunta, Meimuna raccontò ogni cosa al fratello, e IBN-HAUÀSCI giurò che non l'avrebbe rimandata più al cognato, e poiché questi informato della decisione dell'altro, invano reclamò la moglie, iniziarono a parlare le armi.
Allestito un esercito Ibn-Thimna marciò su Castrogiovanni; ma la fortuna gli fu contraria, perché, sconfitto da Ibn-Hauàsci, fu inseguito seminando nelle sue file una grande strage fin sotto le mura di Catania, e perdendo con la battaglia la maggior parte dei suoi domini che passarono all'emiro vincitore.

La vittoria di IBN-HAUÀSCI doveva però essere fatale ai Musulmani della Sicilia, dove, a distanza di tanti anni, si ripete il caso di Eufemio da Messina.
Il nuovo Eufemio è il vinto Ibn-Thimna, il quale mosso dall'odio di parte e spronato dal desiderio della vendetta e da quello più forte di riconquistare i territori perduti, non potendo con i suoi soli mezzi tornare alla riscossa, non disdegnò di ricorrere all'aiuto dei nemici della sua religione, provocando inconsciamente una guerra che doveva, dopo tante vicende, segnare la fine della dominazione musulmana nell'isola.

I Normanni erano i guerrieri che Ibn-Thimna doveva chiamò in Sicilia come suoi alleati. Il capo più autorevole dei Normanni e il vero costruttore della loro fortuna era, come abbiamo visto, ROBERTO il GUISCARDO. Questi creato Duca di Puglia dal pontefice Niccolò II, aveva ricominciato a guerreggiare con maggior lena contro i Bizantini dell'Italia meridionale, al superiore numero dei quali contrapponeva l'audacia dei suoi e gli ausiliari tratti dalla popolazione indigena del mezzogiorno della penisola.
Nel 1056, Roberto, si era spinto, ma invano, fino a Reggio; l'anno seguente aveva ritentato l'impresa, servendosi del fratello RUGGERO, da pochi mesi giunto in Italia, giovane di circa venticinque anni, "grande, ben fatto, di bell'aspetto, di facile parola, coraggio a tutta prova, animo vago di lode, ambizioso per tanti esempi; orgoglioso della sua casa e nazione, turbolento, ma aperto e liberale, privo dei vizi capitali di Roberto, suo pari forse in guerra, saggio sulle cose di stato, senza gli alti voli che sapeva spiccare il Guiscardo" (Amari)".

Con sessanta cavalli il giovane Ruggero era andato all'impresa nell'estrema punta d'Italia, e con una guerriglia abilmente condotta era riuscito a fare un ricco bottino e a sottomettere all'autorità del fratello tutta la valle di Saline, presso capo dell'Armi. Reso baldanzoso da questo successo, Ruggero aveva consigliato Roberto di scendere su Reggio e nel 1057, con notevoli forze, i due fratelli normanni avevano posto l'assedio alla città. Ma anche questa volta l'impresa era fallita. Sopraggiunto l'inverno e resistendo accanitamente gli abitanti della piazza, l'assedio era stato tolto.
Gli anni 1058 e 59 erano stati impiegati a soffocare le rivolte, a insistere alcuni assalti ma anche a preparare una nuova spedizione contro Reggio. Doveva esser l'ultima.
Nel 1060, con numerose truppe, Roberto e Ruggero erano comparsi in vista dello Stretto e nel mese di luglio di quell'anno, dopo vari combattimenti in campo aperto, avevano costretto i nemici a chiudersi entro le mura della città. Aperte queste con alcuni brecce con le macchine da guerra, gli abitanti avevano patteggiato la resa; il presidio si era ritirato a Squillace e Roberto il Guiscardo, entrato a Reggio, vi aveva con solennità assunto il titolo di duca di Calabria, mentre Ruggero in breve tempo sottometteva i castelli vicini.

"Così, in venti anni dalla ribellione d'Ardoino - scrive Michele Amari - le compagnie dei Normanni con alcuni Italiani si erano impadronite della vasta provincia bizantina. Salerno, che fu la prima città a chiamare i Normanni li aveva poi sempre favoriti, era divenuta, infatti, la loro tributaria, anche perché i principi locali si erano per tanti motivi opportunistici, e anche per forza, imparentati con casa Hauteville.
Non vanno contati i piccoli stati: Napoli mezza libera; Benevento portata via al Papa; Montecassino badia o feudo, non si sapeva di chi era ma vi dominavano i normanni; Amalfi presa e lasciata da Salerno. La casa di Aversa, congiunta per matrimoni con Hauteville e con i principi di Salerno, stava per annettersi il principato di Capua ed a Gaeta.
Della dominazione longobarda rimaneva a Salerno appena il nome e scomparve ben presto anche questo (1077).
Per questi tanti motivi, la compagnia, a poco a poco mutando ordine, da federazione che era d'avventurieri si trasformava in una nobiltà territoriale, vassalla la maggior parte di ROBERTO di HAUTEVILLE, e il rimanente di RICCARDO D'AVERSA. Le due novelle dinastie, le precedenti sovranità feudali, prima di Salerno, poi degli imperatori germanici, i Normanni le avevano annullate entrambe, anche se si erano avvicinate a quelle del papa.

Faccenda intricata era il diritto pubblico, se barlumi di diritto vogliamo cercare in questo periodo, tra questi fermenti di vari elementi e che solo nel tempo si unirono per creare un vero reame, non conquistato da un popolo sopra un altro, non riformato per movimento nazionale, né religioso, né sociale, ma per una rivoluzione mista, fatta con tutti questi modi. I soldati mercenari, che fecero trionfare dopo mezzo secolo la ribellione di Melo, longobarda, latina ed aristocratica, usurparono la dominazione con i suoi frutti sopra i Bizantini e nello stesso tempo sopra gli abitanti.
Nella lunga e multiforme guerra, gli avventurieri furono costretti a mutare molte volte i loro stessi iniziali progetti, con le popolazioni soggiogate o confederate e con i principi vicini; e il duca di Puglia che s'innalzò tra quelle vicende, non pensò minimamente di allargarsi in Calabria e quindi in Sicilia, senza la spada di un altro condottiero; onde nacquero nuovi patti, fatti e disfatti, finché ROBERTO il GUISCARDO, inseguendo altre ambizioni, morì in Grecia (1085), ed ebbe il primato in casa di Hauteville il conte RUGGERO signore della Sicilia.
Ma fino a quel giorno non vi fu diritto pubblico propriamente detto nell'Italia dal Garigliano a Trapani, salvo alcune situazioni... temporanee. Eppure i Normanni con la loro vita e indole che era quella di masnadieri, mostrarono splendidamente le virtù che occorrevano per fondare degli stati.
Virtù di guerra, e lo dimostra che molti Italiani entrarono nelle loro compagnie attratti dal carisma dei loro capi; poiché la potenza non sta solo nella forza e nel coraggio, come pensa la maggior parte degli uomini, ma sta nelle capacità del capo nel dare ordini, nell'imporre la disciplina, nell'esercitare il comando al singolo o al collettivo, che dà importanza al valor militare e sa trasformare una vittoria in un evento eroico di una comunità, poi in una tradizione, e l'una e l'altra poi creano una "coscienza nazionale".

Poi prudenza civile adattata a quegli umili principi per attirar sotto le loro bandiere non i deboli ma i più forti Italiani; e accomunarli all'interesse dei Normanni; poi essere capaci di trovare partigiani nelle città; vezzeggiare ed arricchire il clero; divider opportunamente i bottini senza sperperarli, ma accumularli e con il capitale attrarre nuovi uomini o acquistando nuove armi; tosare i sudditi ma senza lasciargli nudi del tutto per non far nascere pericolosi rancori; azzuffarsi con loro fino alla conquista ma poi messe da parte le armi concedere amnistie e tornare alla fratellanza come se nulla fosse accaduto, diversamente i popoli s'incoraggiano alla discordia e poi a sollevarsi.
Infine allevare e poi educare gli uomini non come bestie, perché quando si ha bisogno di uomini, si hanno poi solo a disposizione delle bestie.

Tali erano i condottieri normanni. Disponibili alle usanze del paese, dove avevano fissato la loro nuova dimora. Del resto erano pochi di numero, e comportandosi così, e amando il paese che li ospitava, quella ai locali non sembrava una dominazione straniera. L'Italia meridionale godeva insomma sotto di loro un'indipendenza e un governo che non molestava e quindi non si attirava né l'odio e tanto meno il disprezzo.

Giunti allo Stretto, era naturale che i Normanni rivolgessero lo sguardo e le brame alla vicina Sicilia e che i cristiani dell'isola, conoscendo la fama e le virtù guerresche dei due fratelli d'Altavilla, segretamente li invitassero a liberare la loro patria dal giogo secolare dei saraceni. Anche se qui dobbiamo distinguere "alcuni saraceni"; perché nella storia della Sicilia araba, ci sono alcuni periodi, e alcuni personaggi che hanno fatto della Sicilia un "paradiso", senza distinzione se di Allah o Cristiano.
Lo prova anche il fatto che nella dominazione normanna, gran parte degli uffici pubblici, nella corte palermitana, erano diretti da arabi, il ministro delle finanze era arabo, la stessa guardia del re era composta da arcieri saraceni; e di stirpe araba era un intero corpo dell'esercito normanno.

Sollecitati dai Messinesi, qualche mese dopo l'occupazione di Reggio, i Normanni, nel settembre del 1060, avevano fatto un'audace ricognizione nella parte orientale dell'isola. Alla testa di duecento uomini, RUGGERO era sbarcato nelle vicinanze di Messina; assalito da un numeroso esercito di Musulmani, aveva, per disorientare i nemici, simulato una fuga, poi, ad un tratto, si rivolse e buttandosi con impeto contro di loro, li aveva non solo sbaragliati ma inseguiti fino alle porte di Messina e, procuratosi un ricco bottino aveva ripreso il mare e fatto ritorno a Reggio.

L'incursione era felicemente riuscita, ma non aveva - come intendeva- potuto ripeterla con una spedizione più consistente per la conquista dell'isola a causa di gravissimi avvenimenti che avevano messo in serio pericolo la signoria dei due fratelli d'Altavilla in Puglia, dove alcuni ambiziosi capi normanni, tra cui BALALARDO, AMI, GOFFREDO e GAZOLIN de la BLACE, si erano ribellati a Roberto, aiutati dall'imperatore bizantino COSTANTINO DUCA (successo ad Isacco Comneno), che aveva mandato in Italia un contingente di truppe al comando di ABULCARE.
Sospesa la spedizione in Sicilia, ROBERTO il Guiscardo e il fratello MALGERO erano corsi subito in Puglia, ma, avuta la peggio dai Greci, avevano perso Taranto, Oria, Brindisi ed altri territori, e sarebbero stati costretti ad abbandonare pure Melfi se Ruggero, scacciato da Squillace il presidio greco, e liberata dai Bizantini tutta la Calabria, non fosse andato in Puglia in soccorso dei fratelli.
Occupata da Ruggero Manduria nel gennaio del 1061 e presa Acerenza da Roberto, i Bizantini dovettero desistere dall'impresa di Melfi e ritirarsi nelle piazzeforti marittime. Le città della Puglia erano ritornate, a patti o con la forza delle armi, all'obbedienza del Guiscardo e tra queste località ribelli la forte Troia, la quale assediata, si era arresa promettendo un considerevole tributo e permettendo al vincitore di costruire un castello dentro le mura.
Domata in brevissimo tempo la sollevazione pugliese, Roberto e Ruggero avevano rivolto nuovamente il pensiero all'impresa di Sicilia, stabilendo di iniziarla all'inizio della primavera.
Non di certo speravano in un appoggio musulmano; ma la fortuna gioca questi scherzi; e alla fortuna, spesso i Normanni si affidavano.

Si trovava Ruggero a Mileto quando andò a trovarlo IBN-THIMNA. Il vinto emiro chiedeva l'aiuto dei Normanni contro IBN-HAUÀSCI ed offriva in cambio il possesso di parte dell'isola. Un secondo convegno avvenne, di lì a poco, a Reggio tra Ibn-Thimna, Ruggero e il Guiscardo e fu decisivo per la sorte della Sicilia.
Alle obiezioni dei due fratelli i quali dicevano di non aver forze sufficienti per intraprendere con probabilità di successo un'impresa così difficile, l'emiro rispondeva che i Musulmani dell'isola erano divisi dalle discordie intestine, che lui aveva nella Sicilia numerosi partigiani e possedeva ancora castelli e milizie e, infine, che la vera nobiltà araba, avversa ad Ibn-Hauásci, si sarebbe schierata dalla parte dei Normanni pur di abbattere la signoria dell'emiro di Castrogiovanni.

Persuasi dalle parole di Ibn-Thimna, Roberto e Ruggero gli promisero gli aiuti richiesti. L'emiro giurò i patti stabiliti e per dare maggior forza al giuramento consegnò in ostaggio al Guiscardo uno dei suoi figli. Era il gennaio del 1061: l'inizio dell'impresa, che sarebbe durato oltre un ventennio, doveva aver luogo circa un mese dopo.

PRIME GUERRE DEI NORMANNI IN SICILIA

Il corpo di spedizione che negli ultimi del febbraio del 1061 partiva da Reggio era costituito da mezzo migliaio circa di uomini, forze davvero irrisorie per un'impresa così grande e contro nemici così numerosi e prodi quali erano i Musulmani di Sicilia. Ma i Normanni non avevano mai contato il numero degli avversari; erano uomini avventurosi, si affidavano alla buona fortuna, alla loro audacia, al valore, agli aiuti dei cristiani dell'isola e ai partigiani di Ibn-Thimna.

Comandavano l'esigua schiera RUGGERO D'ALTAVILLA e GOFFREDO RIDELLE, che approdarono verso il tramonto, con il loro minuscolo esercito sulla punta del Faro guidati da IBN-THIMNA.
Anziché dare l'assalto a Messina, consigliati forse dall'emiro, i Normanni lasciate le navi alla fonda, mossero con il favore della notte attraverso i monti verso Rametta; speravano d'impadronirsene con la sorpresa. Ma questa mancò: sorpresi dal nemico e persa l'occasione di un colpo di mano, si diedero a saccheggiare i territori di Rametta e Milazzo e all'inizio del giorno fecero ritorno alle navi con molto bottino, con il proposito di salpare e rifugiarsi a Reggio; ma levatasi però improvvisamente una tempesta, i Normanni furono costretti non solo a non prendere il mare ma per non far naufragio contro le scogliere, scesero a terra.
Disperata era la loro situazione: alle spalle la via della ritirata sbarrata dalle onde burrascose, davanti il nemico, che, in gran forze, si preparava da Messina a giungere sul posto a combatterli. Ruggero non si perse d'animo; mandò in agguato nelle vicinanze il più agguerrito manipolo di cavalieri comandati dal nipote SERLONE; poi schierò in battaglia il rimanente dei suoi uomini ed aspettò impavido i Musulmani, i quali giunti diedero l'assalto proprio a questi uomini; v'incontrarono una fiera resistenza, ma poi, di sorpresa colti di fianco dagli uomini di Serlone, presi da panico anche perché non sapevano quanti erano, prima si disorganizzarono poi precipitosamente si misero in fuga verso la città, con i Normanni che li inseguirono a briglia sciolta fin sotto le mura, che resi baldanzosi da questo primo clamoroso successo, tentarono pure di prendere a viva forza Messina, ma ogni sforzo riuscì vano di fronte alla solidità delle fortificazioni e alla tenace difesa, cui parteciparono perfino le donne, racconta un cronista dell'epoca.

Calata la notte, i Musulmani, usciti con fiaccole dalla città, assalirono i Normanni, riuscendo a respingerli fino ai fianchi delle vicine montagne, da dove il giorno successivo con un disperato sforzo riuscirono aprirsi il passo nella pianura e tornare alla riva. La tempesta infuriava ancora e i Normanni rimasero per tre giorni su quella lingua di terra, esposti alle intemperie e aspettandosi di essere nuovamente assaliti e buttati a mare dal nemico. Narrano le leggende che fecero il voto, che se scampavano da quel pericolo, avrebbero con il bottino che stava rischiando di andare in fondo al mare restaurato a Reggio la chiesa di Santo Andronico.

Cessata la tempesta, IBN-THIMNA, salito su un suo naviglio prese il largo e se ne fuggì a Catania; mentre i Normanni, scannato il bestiame che avevano razziato, appena caricato questo sulle navi, spiegarono le vele e, inseguiti dai nemici che causò qualche perdita, riuscirono a raggiungere a Reggio.
L'esito di questa spedizione mostrò chiaramente a Roberto il Guiscardo che per conquistare la Sicilia occorrevano forze maggiori. Recatosi all'inizio della primavera nella Puglia, mise insieme due gruppi di mille cavalieri ciascuno ed altrettanti fanti e con questi ritornò in Calabria mettendo il campo presso la Catona, detto di Santa Maria del Faro, dove si mise a radunar più navi possibili per traghettare il grosso esercito che stava allestendo; ma anche i musulmani da Palermo non rimasero inattivi, e fecero giungere a Messina un migliaio di uomini di rinforzo, molte vettovaglie, ma soprattutto inviò una flotta navale, che doveva impedire al nemico lo strategico passaggio dello stretto.

A questo punto, ingaggiare una battaglia contro le navi nemiche ed effettuare lo sbarco nell'isola di viva forza era per i Normanni un'impresa impossibile. Di modo che il Guiscardo pensò di traghettare le sue truppe usando l'astuzia. Poche decine di uomini dovevano sbarcare a sud di Messina, attirare là tutte le forze navali e terrestri dei Musulmani che difendevano la città in modo da rendere a nord la via libera al grosso dell'esercito normanno. Concepito questo piano, Roberto e Ruggero su due velocissime galee esplorarono la costa siciliana per scegliere un luogo adatto allo sbarco; scoperti, furono inseguiti dai navigli nemici; ma riuscirono a salvarsi sgusciando via velocemente.

Tuttavia l'esperienza era servita e tornati in Calabria, con più determinazione fecero ulteriori preparativi per l'impresa. Furono scelti duecentosettanta uomini per l'azione dimostrativa e di questi ne volle il comando RUGGERO.
Alla vigilia dell'impresa un'impressionante cerimonia avvenne al campo normanno: ogni guerriero si confessò e comunicò, fu implorato l'aiuto divino e i due fratelli d'Altavilla fecero voto di condurre vita esemplare se riuscivano ad impadronirsi dell'isola.
RUGGERO e la sua piccola schiera - racconta l'Amari - "su tredici navigli passarono a Reggio: nella notte poi nella massima quiete traghettarono lo Stretto e sbarcati sulla costa, si tennero nascosti in un luogo detto le Calcare, a sei miglia a mezzogiorno da Messina (dove poi sorse la Badia di Santa Maria di Roccamadore e la terra di Tremestieri).
"Ruggero rimandò indietro le barche per troncare ogni speranza di ritirata ai suoi uomini e a se stesso", scrive il Malaterra con quella retorica eroica posteriore.
Forse il vero il motivo era di far tornare indietro i navigli per imbarcare nuove forze, anche correndo il rischio che nel rimandarle indietro i nemici avrebbero scoperto le navi vuote e quindi da dove provenivano, il luogo dell'agguato.
All'alba RUGGERO montato con i suoi a cavallo si avviava verso Messina quand'ecco un "kaid" che andava come poi si seppe, ad assumere il comando della città, con la scorta di trenta uomini armati e un lungo convoglio di muli carichi di vettovaglie e anche di danaro.
Uccisi tutti e svaligiato "ogni cosa", i Normanni poco dopo avvistarono le proprie barche di ritorno da Reggio, le quali misero a terra altri centosettanta cavalieri.
Fu un abbracciarsi a vicenda, un augurarsi certa la vittoria; e montati anche questi sui cavalli, sicuri di sé, li spronarono e si avviarono verso Messina con uno stratagemma che la "fortuna" aveva loro offerto.

Messina la conquistarono quasi senza combattere. Questo perché dalle navi, e dalle mura i difensori avevano scorto le armature musulmane e il convoglio dei muli del káid che aspettavano. I normanni cosa avevano fatto? Avevano messo davanti a loro la fila dei muli, e una parte di loro, davanti, e subito dietro il convoglio, avevano indossato i vestiti e le armi della scorta del kaid.

Quando si accorsero del tranello, era ormai già passato tutto l'esercito normanno; quelli di guardia alla città che facevano affidamento proprio sul naviglio, questo non entrando in azione, si sentirono perduti; tanto più che i messinesi della città, scoperto con gioia anche loro l'inganno, sentendosi più arditi, si sollevarono e si misero minacciosamente a disarmare le guardie.

Presi subito dal terrore, i Musulmani d'ogni ordine, sesso ed età si diedero a fuggire chi qua chi là, chi in barca, o correndo sulla spiaggia, o sui monti, o nella selva, narra l'Amato; i Normanni sopraggiunti non ebbero altro da fare che uccidere gli ultimi rimasti, a spartirsi le donne, i bambini, gli schiavi, e tutta la roba. Tra gli altri fuggiva e correva su per l'erta della montagna un gentiluomo arabo portandosi dietro l'unica sua sorella, bella, giovinetta, educata tra gli agi nelle stanze della madre. I Cristiani incalzavano. Le mancava la lena; la paura gli paralizzava le gambe: e il fratello a sorreggerla, a scongiurarla con le lagrime di farsi animo. Ma sfinita stramazzò a terra e i nemici gli stavano per saltargli già quasi addosso, quando l'uomo piuttosto di lasciarla all'ignominia o alla schiavitù, di propria mano la uccise.

Ormai convinti che ogni difesa era vana, l'assalto dei Normanni, fece cadere le braccia anche ai più forti. Pure la flotta salpò quasi subito, mettendo le vele verso Palermo, non osando fare né un assalto alla città, né a voler rimanere in mezzo alle due rive correndo il rischio di cadere in trappola dei navigli normanni.

Ruggero intanto inviò al fratello Roberto le chiavi di Messina, invitandolo a scendervi e a prendere possesso della città. Il Guiscardo radunò a Reggio quanti navigli, barche e barchette era possibile; e chiamò alle armi per imbarcarsi, cavalieri e fanti, e ogni genere di uomini, comunicando la vittoria e ringraziando con gran fervore Dio.

"Poi salpato si avviò per compiere l'approdo e l'ingresso trionfale a Messina. Tutti corsero sul porto con gioia e impazienza a dare il benvenuto, di modo che allo sbarco il vassallo non si ritenne di passar davanti al suo signore, il signore non aspettò che lo seguissero i vassalli, mentre il mare sorrideva lieto e tranquillo". Cosi ci descrive l'Amato lo sbarco.

Primo pensiero di ROBERTO IL GUISCARDO fu quello di consolidare la conquista. Lasciata in città una guarnigione, dopo una settimana, alla testa di duemila uomini, tra cavalieri e fanti, e in compagnia del fratello e di IBN-THIMNA, che lo, aveva raggiunto da Catania, marciò alla volta di Rametta. Ma quando vi giunse, non ci fu bisogno di combattere perché il
"kaid" locale gli andò incontro e gli giurò obbedienza.
Da Rametta il Guiscardo proseguì lungo la catena costiera, occupò Tripi e Frazzanò e, volgendosi a mezzogiorno, scese nella pianura di Maniaco, dove gli abitanti dei paesi vicini si recarono a rendergli omaggio e gli portarono doni e vettovaglie; quindi, trascorsi alcuni giorni nella zona, riprese la marcia verso la valle del Simeto.

Ma a Centorbi, fortemente difesa, i Normanni ebbero un'accoglienza ostile. Non volendo perder tempo e forze ad assediare una territorio munito di buone difese, ed essendosi sparsa la voce del prossimo arrivo di IBN-HAUÀSCI, ROBERTO si lasciò dietro le spalle la rocca; passato il Simeto con l'esercito ingrossato dalle milizie dal fratello di Ibn-Thimna puntò verso la pianura di Paternò e di là espugnate le grotte di San Felice, si spinse fin sotto, i mulini di Castrogiovanni in riva al Dittaino, dove mise gli accampamenti.
A Castrogiovanni si erano radunati tutti i Musulmani, che erano fuggiti dai paesi invasi dai Normanni, quindi IBN-HAUÀSCI disponeva di ragguardevoli forze, con le quali era convinto di schiacciare finalmente il nemico. Divisi in due schiere, i guerrieri del Guiscardo e di Ibn-Thimna, infiammati dalle parole del loro capo, alcuni giorni dopo, sostennero con valore l'urto degli avversari; passati poi all'offensiva con così tanta determinazione, che nella battaglia che seguì le milizie di Ibn-Hauàsci furono respinte, rotte, sgominate, inseguite fino alle porte di Castrogiovanni, lasciando numerosi prigionieri nelle mani dei normanni.
Inorgoglito dalla vittoria, ROBERTO il GUISCARDO credeva che fosse pure possibile espugnare Castrogiovanni e, costruendo castelli attorno, bloccò la città, poi corse e devastò il territorio circostante e mandò Ruggero con trecento cavalieri a depredare la campagna fin sotto Girgenti.
Castrogiovanni però oppose al nemico una resistenza accanita, nonostante i paesi vicini chiesero e ottennero dai Normanni una tregua. La stessa cosa fece Palermo, i cui ambasciatori si recarono al campo di Roberto portando splendidi doni di vesti, di tele, di vasellami preziosi, di muli riccamente bardati e un sacco pieno di ottantamila tari, corrispondenti a circa un milione di lire italiane.

A quel punto il Guiscardo stabilì di fare ritorno sul continente, ma prima di partire fondò, a difesa della Val di Demona liberata, un castello cui diede il nome di S. Marco e lo affidò con un presidio a GUGLIELMO di Malo; rinforzò le mura di Messina dove lasciò una guarnigione e una gran quantità di vettovaglie, poi ripassò lo stretto e se ne tornò in Puglia, mentre anche il fratello Ruggero passava a Mileto in Calabria, lasciando Ibn-Thimna a Catania con il compito di molestare la parte centrale e meridionale dell'isola, le sole che non avevano stretto accordi di pace o di tregua con i Normanni.

Ben presto però Ruggero dovette ritornare in Sicilia, perché i nemici di Ibn-Thimna avevano rialzato il capo, e MOEZZ, dall'Africa dando ascolto alle richieste di non pochi fuorusciti palermitani filo-arabi, che lo sollecitavano ad intervenire, aveva -cogliendo quest'occasione- mostrato l'intenzione di sbarcarci ed insignorirsi dell'isola, inviando una flotta, la quale, per fortuna dei Normanni, fece poi naufragio nelle acque di Pantelleria.

Nel dicembre del 1061, RUGGERO ripassò lo stretto con duecentocinquanta cavalieri, fece una rapida scorreria fino a Girgenti, poi devastando e depredando i dintorni, entrò a Traina, festosamente accolto dalla popolazione, con cui strinse un accordo, e vi passò il Natale, poi ritornò in fretta nella terraferma, chiamatovi da una gradita notizia. Era giunta in Calabria "una bella donzella che schiudeva in terra il paradiso dell'ambizioso giovane di trent'anni"; la "donzella" era GIUDITTA, figlia del conte di EVREUX, discendente dei duchi di Normandia. Pare che Ruggero, pochi anni prima, lasciando la casa paterna senza alcun patrimonio o futura eredità, salvo il cuore e la spada, si fosse invaghito della giovinetta reclusa nel Monastero di Saint Evrault. Ma era uno spiantato, quindi nessuna speranza di toglierla dal monastero e impalmarla. Queste cose se le potevano permettere solo i ricchi.
Non gli rimase altro da fare, a 25 anni, che partire e raggiungere nel '57 il fratello Roberto che in Puglia era impegnato da alcuni anni a crearsi una sua fortuna.

Nel frattempo, assieme alle fortune dei due fratelli, anche il fratello materno di Giuditta, ROBERTO di GRANTEMESNIL, priore de' Benedettini a Saint-Evrault, era sceso pure lui nel sud d'Italia, e lo troviamo a Santa Eufemia in Calabria. Qui, rammentando la passione del giovane Ruggero, trovò conveniente caldeggiare e quindi poi trattare il matrimonio della sorella Giuditta con l'ex spasimante Ruggero, ormai capitano assunto a fama nazionale, già signore di Mileto, e con la speranza -ma era ormai quasi una certezza- di ottenere in futuro qualcosa di più. Mandò insomma a chiamare la sorella, anzi le sorelle.

Giuditta, infatti, giunse in Calabria con la sorella Emma. Lasciarono entrambe il chiostro, e si dice pure il velo di monaca, per impalmare mariti normanni in Italia.
RUGGERO sposava GIUDITTA a San Martino in Val di Saline, e celebrava solennemente le nozze nella sua signoria, Mileto, facendo dimenticare la sua povertà di un tempo, con lo sfarzo di vesti e di cavalli, con grandi feste e balli e con il frastuono di una miriade di strumenti musicale.
Le feste e le dolcezze dell'amore ritrovato non gli fecero però dimenticare le speranze di future conquiste, anzi ora aveva famiglia. Pochi giorni dopo il matrimonio, caricò la sposa sulla nave (mentre lei piangeva e voleva trattenerlo) e sbarcò in Sicilia dove IBN-THIMNA lavorava per lui pur pensando di fare per se stesso (Amari)".

Giunto a Messina con quanti armati riuscì a mettere insieme ed unitosi a Ibn-Thimna, Ruggero avanzò su Petralia, i cui abitanti, musulmani e cristiani, consegnarono la rocca, e fecero subito atto d'obbedienza; poi, munita la fortezza di cavalieri e mercenari, andò a Traina, poi fece ritorno ritornò in Calabria (1062).
Rimase in Sicilia Ibn-Thimna, che aveva l'incarico di non dar pace, molestare con varie incursioni i nemici e di ridurre all'obbedienza tramite intrighi con i suoi antichi partigiani più terre che poteva.

Ma all'emiro, alleato degli "infedeli", era riservata la sorte di Eufemio da Messina: stava per muovere contro Entella, fortissima rocca a ponente di Corleone, quando ricevette un segreto messaggio di NIKEL, autorevole uomo di quella terra, il quale lo informava che i notabili del paese erano disposti a cedergli la fortezza e lo invitava a recarsi presso la rocca per trattare la resa. IBN-THIMNA, non sospettando un agguato, nell'ora stabilita si recò nel luogo indicato con un piccolo drappello di suoi uomini e vi trovò i terrazzani di Entella; ma non si erano ancora iniziate le trattative quando uno di loro gli uccise con un colpo di lancia il cavallo e gli altri, lo circondarono, gli saltarono addosso e lo trucidarono (marzo del 1062).

La morte di IBN-THIMNA infuse tanto coraggio ai suoi nemici e causò un tale spavento ai partigiani dei Normanni in Sicilia che i presidi di Traina e Petralia si ritirarono frettolosamente a Messina. La situazione dei Normanni in Sicilia, in quel momento grave di per se stessa, lo fu ancora di più per le discordie che scoppiarono tra i due fratelli, Roberto e Ruggero. Si lagnava quest'ultimo con il fratello che non gli fosse stata data, secondo i patti, metà della Calabria, e poiché l'altro si ostinava a negargliela, si ritirò a nella sua signoria a Mileto e si preparò a dichiarargli guerra.
Prima che si muovesse, ROBERTO corse ad assediare RUGGERO a Mileto, e l'assedio andava per le lunghe, quando a forzarli ad un accordo ci fu un episodio che ricordava loro di non potersi sfogare in guerre civili se volevano soggiogare l'intera Italia meridionale.
I terrazzani di Gerace in Calabria avevano fatto in precedenza sottomissione a Roberto giurandogli fedeltà, però senza consegnargli la città, e mentre lui aveva iniziato a fabbricare un castello per poi costringerli a cedere la città, quelli (o meglio una parte della città) prima ancora dell'assedio di Mileto avevano iniziato a trattare di passare dalla parte di Ruggero; il quale avutone il sentore, eludendo i guardiani assedianti, uscì una notte con cento cavalli e andò a Gerace, per accordarsi e procurarsi gente, per poi piombare alle spalle degli uomini di Roberto che lo assediavano in casa.
Roberto, lasciata guardia nei suoi uomini che assediavano Mileto, corse con alcuni di loro a Gerace; ma prima di impegnarsi in un secondo assedio volle tentare una delle sue arti. Travestito riuscì ad entrare in qualche modo nella città, andando poi a trovare un suo partigiano di nome BASILIO per tentare in segreto qualche intrigo con la fazione a lui alleata.
Sedeva alla mensa a casa di costui con la moglie, quando un familiare di partito opposto, dopo averlo riconosciuto avvisò la popolazione filo-ruggeriana di Gerace, che subito circondò la casa minacciandolo di fare a pezzi Roberto, il partigiano e la moglie. Intervennero anche i cittadini più moderati e saggi per trattenerli nel compiere un linciaggio, ma non riuscirono a calmare il furore e i cattivi propositi.

A salvarsi la pelle ci pensò Roberto stesso, con il solito coraggio.
Senza tremare e con impavida faccia tosta, si rivolse agli scellerati che già lo circondavano con cento spade pronte a farlo a pezzi; e disse loro che avrebbero pagato caro il suo sangue; se non lo lasciavano andare via -subito- sano e salvo, sia i suoi guerrieri sia quelli di Ruggero -che era pur sempre suo fratello- sarebbero accorsi non solo a fare strage di tutta la popolazione ma avevano l'ordine di spianare la città fino all'ultima pietra. Quindi di lasciarlo subito libero per potergli andare incontro, fermarlo, e farsi interprete delle loro richieste per far tornare la pace e la serenità a Gerace.

Un po' titubanti gli scellerati trattennero le spade ma lo condussero ugualmente in carcere. Sperando che Roberto avesse solo bluffato.
E, infatti, Ruggero, non stava proprio per nulla marciando verso Gerace, anzi dopo aver appreso dai cavalieri del fratello che lui era penetrato a Gerace vi si precipitò e chiamati i notabili fuori le mura, li pregò e li minacciò di consegnargli il fratello e che voleva vendicarsi con le sue stesse mani. Mi avete giurato fedeltà, -disse loro- quindi ubbiditemi o saprò forzarvi; ormai le genti di Roberto pendono da un mio cenno; e se non me lo portate subito qui davanti a me legato, io comincio a far tagliare le viti, gli olivi e a distruggere ogni cosa nei vostri campi.

I Geracesi gli portarono Roberto legato, ma gli fecero prima giurare che non avrebbe in avvenire mai edificato il castello per costringere Gerace a capitolare.
Ma dopo averlo condotto davanti al fratello, i due si abbracciarono, scrissero Malaterra, Giusto e Beniamino, e davanti a quella scena piansero di tenerezza tutti i guerrieri normanni di una parte e dell'altra, compresi loro due.
Poi Roberto asciugate le lagrime, si accomiatò da Ruggero, anche se poi trovò altre recriminazioni per giungere a un accordo; ci volle il biasimo universale dei suoi ma anche perché si stava tornando nuovamente alle ostilità; alla fine si decise di andare in Val di Crati a stipulare la spartizione della Calabria, incontrandosi con il fratello su quel ponte che da allora si chiamò "Ponte Guiscardo".
Dopo l'accordo Ruggero toglieva il suo tributo nei nuovi domini ricevuti dal fratello, ma per fornire i suoi uomini di armi, vestiti e cavalli, premette la mano su Gerace e quando questi iniziarono a ribellarsi si mise questa volta lui -minacciandoli- ad innalzare un castello fuori le mura; e ai cittadini che gli ricordavano la promessa fatta da Roberto lui rispondeva: "Lui giurò non io" (Amari).
Le cose si misero in seguito a posto da sole con qualche mugugno geracese.

Tra l'agosto e il settembre del 1062, armati trecento cavalieri, RUGGERO ritornò in Sicilia portandosi dietro la moglie Giuditta, mettendo il suo quartier generale su un colle appena fuori Traina, accolto questa volta piuttosto tiepidamente dagli abitanti che rimpiangevano gli arabi. Non sopportando il nuovo giogo, incitati da PLOTINO, uno dei notabili del paese, approfittando un giorno dell'assenza di Ruggero, recatosi con il grosso dell'esercito a scorazzare nel territorio di Nicosia, i Trainesi presero le armi ed assalirono la collina dove sorgeva la casa del Normanno con il suo piccolo presidio, che resistette valorosamente agli assalti fin quasi all'alba del giorno dopo.

Temendo l'arrivo di Ruggero i Trainesi si barricarono dentro la città e fu una saggia scelta, perché Ruggero, informato della ribellione, accorse in fretta a porgere aiuto ai suoi, e avrebbe in poco tempo avuto ragione dei cittadini se questi non fossero stati soccorsi da cinquemila Musulmani delle terre vicine che i Trainesi avevano chiamato.

Circondati sulla collina da ogni parte, ben presto i Normanni si trovarono per più giorni in una situazione piuttosto critica, tormentati dal freddo e dalla fame, fiaccati dalle veglie, dalla lotta e dalle disperate sortite, in una delle quali poco mancò che Ruggero non cadesse nelle mani del nemico. Nonostante l'infelice situazione, resistevano impavidi; tuttavia la loro tenacia sarebbe stata vinta con il tempo se la vanagloriosa sicurezza che avevano i nemici di vincere e la loro leggerezza non fossero venute in soccorso degli assediati.

Certi di prenderli per fame, i Trainesi e i Musulmani, alla base della collina, ingannavano il tempo gozzovigliando giorno e notte e si davano più al vino che alla guardia. Ne approfittò Ruggero, il quale, una notte, cogliendo l'attimo migliore, piombò improvvisamente sulle sentinelle nemiche ubriache ed assonnate, le fece a pezzi, occupò la città, costrinse alla fuga i Musulmani accampati nei dintorni e, impiccato Plotino, si fortificò questa volta lui in città, che trovò piena di vettovaglie; poi, lasciati i suoi uomini sotto il comando di Giuditta, si precipitò in Calabria per rifornirsi dei cavalli perduti nell'assedio, prima di poter ricominciare con maggior determinazione la conquista del resto della Sicilia.

Non fu possibile però iniziarla così presto come Ruggero sperava, perché l'uccisione di IBN-THIMNA, che aveva dominato più che il territorio le genti con il suo carisma, aveva alienato gli animi dei nuovi sudditi dei Normanni, e aveva privato questi di alcuni potenti alleati.
Le trame dei ribelli conti normanni della Puglia e l'intervento dei Bizantini da un lato e quello degli Arabi d'Africa dall'altro dovevano, nonostante le vittorie, ostacolare ed arrestare per un tempo non breve i progressi delle armi normanne sull'isola.
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QUI
l'intervento del Principe Oreste Palamara dei D'Altavilla di Sicilia
(discendente dei D'Altavilla)

ANNO 1060 - La prima sollecitazione divina del Gran Conte Ruggero:
"….Dunque il giovane nobilissimo Ruggero, conte di Calabría, dimorava insieme con il fratello (Roberto il Guiscardo) a Reggio dopo aver debellato tutta la Calabria. Da li vedeva l'Isola (la Sicilia) a portata di mano, appena separata da un breve braccio di mare, e in mano agli infedeli. Avido com'era sempre di potere, fu preso dall'ambizione di conquistarla. Riteneva che avrebbe procurato benefici all'anima e al corpo, se avesse riportato al culto di Dio una terra devota agli idoli, e se ne fosse divenuto signore, avrebbe potuto dispensare al servizio di Dio quei frutti e quei redditi che un popolo non gradito a Dio aveva usurpato." (Goffredo Malaterra: Libro II - I)
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ANNO 1061 - Lo sbarco in Sicilia
Quando il Gran Conte Ruggero sognava di conquistare la Sicilia, dalla spiaggia di Reggio Calabria guardava quel tratto di costa sicula che oggi è la sede del Sovrano Ordine Dinastico dei Cavalieri Normanni. Quando, nel Maggio del 1061, mandò Roberto il Guiscardo a Messina, Egli, con trecento uomini, venne a sbarcare su questa spiaggia. Qui fu successivamente sepolto il figlio Giordano; da qui parte il "Quartiere Normanno" verso Messina.

"Davanti a questa spiaggia passava la via romana Consolare Valeria, che entrava a Messina, divenendo via Porta Imperiale, ed uscendo da Messina verso Palermo come via Consolare Pompea. Questo era il percorso obbligato del Gran Conte, che incontrava un solo insediamento: un fortilizio saraceno su una stupenda collina, degradante verso il mare e ricca di palme, che si chiamava "Palmara" (oggi è il Gran Camposanto Monumentale). Da qui usciva un drappello di Saraceni, che portava vettovaglie a Messina. Questi furono sgominati da Ruggero che occupò la Palmara e distrusse il fortilizio. Poi, preso un cammello scese a Messina sulla sua groppa, calorosamente accolto dai messinesi. La Palmara fu sempre la Signoria prediletta dai d'Altavilla. Quando Costanza richiamò i Normanni, pare che il ramo reale si rifuggiasse proprio alla Palmara".

ANNO 1063
"Presagi e prodigi confermano il sostegno divino alla Cavalleria Normanna
Presagi e prodigi confermano al Gran Conte il sostegno divino della sua impresa provvidenziale. Basti l' esempio della vittoria campale di Cerami (1063), conquistata dai Cavalieri Cristiani, sempre pochi, guidati da Ruggero I contro una terrificante massa di nemici.
"Mentre il conte seguiva con i suoi cento soldati, appreso che i nemici erano stati vinti dal nipote, comandò di proseguire perché la vittoria fosse completa; ma alcuni pavidi del seguito lo sconsigliavano, dicendogli che era sufficiente la vittoria voluta da Dio tramite il nipote e che, se avessero proseguito, forse la volubile fortuna si sarebbe volta al peggio…..
Allora questi e Orsello di Baglione, vedendo i nostri impauriti dal gran numero di nemici, cercarono di rinfrancarli con queste esortazioni:
"Animatevi, o fortissimi soldati dell'esercito di Cristo! Fregiamoci tutti del nome di Cristo: ognuno lasci il vessillo solo se è ferito. Il nostro Dio, il Dio degli dei, è onnipotente: senza di lui mancherebbe la fede e ognuno confiderebbe solo nel potere umano e crederebbe che il braccio di Dio sia il braccio del proprio corpo. -Ogni regno di questa terra sarà nostro e Dio lo concede a chi vuole. Questa gente è ribelle a Dio, e le forze che non sono sorrette da Dio, presto si esauriscono. Essi si gloriano del loro valore, noi invece siamo sicuri perché Dio ci difende. E' empio credere che Dio che ci guida non possa essere davanti a noi. Gedeone, che non ha dubitato dell'aiuto di Dio, abbatte, con pochi uomini, migliaia di nemici".
Mentre proclamava tale discorso avviandosi al combattimento, apparve un cavaliere vestito di armi splendenti, su un cavallo bianco; portava un vessillo bianco innalzato sulla lancia con sopra una croce luminosa: lo si vide uscire dalle nostre schiere e, incitando i nostri alla battaglia, irrompere là dove i nemici erano più numerosi. A vedere ciò, i nostri, rianimati, si misero a pregare Dio e San Giorgio, e penetrati dalla gioia di tanta visione, piangendo, si misero al suo seguito risolutamente. Molti videro anche sulla sommità della lancia del conte un vessillo con una croce che nessuno, se non Dio, vi aveva apposta." (G.Malaterra: Libro II - XXXIII)

Questo può essere considerato il momento storico preciso in cui la Cavalleria Normanna diviene Cavalleria Cristiana.

By: Principe don Oreste Palamara dei d'Altavilla di Sicilia (agosto 2002)
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Il prossimo capitolo sono le conquiste normanne,
fino alla definitiva conquista della Sicilia
il periodo dal 1063 al 1091 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

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