ANNI 1073 - 1076

GREGORIO VII-ENRICO IV - SISTEMA POLITICO - LOTTA - WORMS

IL SISTEMA POLITICO DI GREGORIO VII - RAPPORTI DEL PONTEFLCE CON I PRINCIPI DELL' ITALIA MERIDIONALE - ENRICO IV CHIEDE L'AIUTO DI GREGORIO - SCOMUNICA DEL GUISCARDO - LEGAZIONE PAPALE IN GERMANIA E OPPOSIZIONE DEI VESCOVI TEDESCHI - FALLITO DISEGNO D'UNA CROCIATA - GREGORIO CONDANNA LA SIMONIA E IL MATRIMONIO DEI PRETI E VIETA AGLI ECCLESIASTICI DI RICEVERE INVESTITURE DAI LAICI - BATTAGLIA SULL' UNSTRUTT - MISSIONE DI EBERARDO DI NELLENBURG - PACE TRA IL GUISCARDO E RICCARDO DI CAPUA - ENERGICO MONITO DI GREGORIO AD ENRICO - IL NATALE ROMANO DEL 1075 - IL CONCILIO DI WORMS; DEPOSIZIONE DI GREGORIO - SCOMUNICA DI ENRICO IV E SUOI EFFETTI - ASSEMBLEA DI TRIBUR
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SISTEMA POLITICO DI GREGORIO VII

In uno dei precedenti capitoli, abbiamo narrato come, morto Alessandro II, era stato eletto pontefice ILDEBRANDO, il quale, con il nome di papa GREGORIO VII, era stato, il 29 giugno del 1073, consacrato a Roma (a furor di popolo) con gran solennità.

Molti storici si sono domandati se l'elezione del Papa abbia avuto o no la conferma del 22 enne Re di Germania ENRICO IV. Secondo i contemporanei, Bonizone di Sutri e Lamberto di Hersfeld, la conferma ci fu.
Quest'ultimo, scrive ad Eberardo - mandato dal sovrano tedesco a Roma ad inquisire sul modo in cui l'elezione del Papa era avvenuta - avendo risposto Gregorio di essere stato innalzato suo malgrado al soglio pontificio e promesso di non farsi consacrare se non dopo la sanzione regia, Enrico IV confermò la sua elezione.

Le asserzioni dei due storici trovano però una smentita in una lettera inviata dal Papa il 6 maggio del 1073 al duca GOFFREDO, con la quale Ildebrando annunciava al duca, il proposito di mandare al re una legazione per palesargli i suoi consigli tanto nell'interesse della Chiesa quanto per l'onore della dignità regia. Chi mandava consigli al sovrano non poteva certamente subordinare l'avvenire del Papato alla volontà del re, dalla dipendenza del quale tutta la politica ildebrandina era stata rivolta a liberare la Santa Sede.

Forse Gregorio notificò con lettere o con legati al re germanico la propria esaltazione; forse anche nell'elezione del Papa cercarono di provocare l'intervento regio i vescovi tedeschi e i vescovi lombardi capitanati dal vescovo di Vercelli cancelliere del regno. Se questo tentativo ci fu, come si ha ragione di credere, esso era destinato a fallire, data la difficile situazione in cui si trovava Enrico, il quale, travagliato dall'insurrezione dei Sassoni e dal malcontento dei suoi sudditi, non aveva certo interesse di crearsi nuove difficoltà a Roma.
Così ancora una volta l'elezione pontificia avveniva senza il diretto intervento dell'autorità regia e per giunta era innalzato al soglio di S. Pietro proprio colui che per vent'anni aveva diretto la politica papale, che era il campione più indomito e più illuminato della riforma ecclesiastica e che ora, armato della spada dell'Apostolo, dal soglio pontificio, si preparava a tradurre in atto, coordinandola, la sua politica.

Qual'era questa politica? Riferiamo, una sintesi dall' EMILIANI-GIUDICI, l'esposizione che ne fece il VOIGT nella sua "Storia di Gregorio VII", desumendola dalle massime sparse nelle lettere del pontefice:
"La chiesa di Dio deve essere indipendente da ogni terrena potestà: la spada del principe è soggetta a San Pietro e al suo successore come quella che è simbolo di cosa umana, mentre l'altare, simbolo di cosa divina, è istituito da Dio e viene da lui solo. La chiesa è corrotta, gli unti del Signore giacciono nel peccato; la religione versa in gravissimo pericolo, la fede minaccia di spegnersi, la cristianità ha mestieri di riforma. Per conseguirla, è necessario che la Chiesa sia fatta libera per opera del suo capo, che è il papa. Il papa fa le veci di Dio, poiché governa sulla terra il regno di Dio.
" Senza papa non vi è regno, e senza di lui la sovranità crolla e si disfa come una nave fessa e sconquassata. Come le cose mondane sono soggette all'imperatore, così quelle di Dio rimangono sotto l'impero del papa. È necessario quindi che egli svincoli i ministri dell'altare da ogni legame che li congiunge alla potestà temporale. Altro è la Chiesa, altro è lo Stato; e poiché la fede è Una, Una la chiesa, Uno il suo capo, e un corpo-solo tutti i fedeli.
Nel modo medesimo che una cosa spirituale non è visibile se non per mezzo di una forma terrestre, che l'anima non può agire senza un corpo, che queste due sostanze non possono durare congiunte senza un mezzo di conservazione, così la religione non può esistere senza la chiesa, e la chiesa non sussiste senza i beni terrestri che assicurano l'esistenza. Come lo spirito nel corpo si nutre delle cose terrestri, così la chiesa si mantiene per mezzo dei possessi temporali. È debito dell'imperatore, che ha in mano il potere supremo, di fare in modo che la chiesa procacci e conservi il possesso di siffatti beni, e per tale ragione gli imperatori e i principi sono necessari alla chiesa. Il mondo è rischiarato da due lumi; l'uno maggiore e si chiama sole, minore l'altro e dicesi luna. L'autorità apostolica somiglia al sole, la potestà regia alla luna. E siccome la luna non fa luce se non per virtù del sole, parimenti gl'imperatori, i re, i principi non esistono se non per virtù del papa, che viene da Dio. Però la potenza della sedia romana è ben superiore a quella dei principi, e il re è sottoposto al papa e gli deve obbedienza.

" E perché il papa rappresenta Dio, ogni cosa quaggiù è a lui soggetta: i negozi spirituali e i temporali devono essere recati innanzi al suo tribunale; spetta a lui d'insegnare, esortare, punire, correggere, e giudicare; come quello che essendo vicario di Cristo è superiore a tutte le creature. La chiesa si compone di tutti coloro che professano la fede di Cristo e si chiamano cristiani; per la qual cosa tutte le chiese sono membri della chiesa di Pietro cioè della romana, la quale, come madre di tutte, le dirige tutte, le governa, e comanda del pari a tutti i membri che le compongono, cioè agli imperatori, re, principi, arcivescovi, vescovi, abati, ed agli altri fedeli. Per la potestà suprema ch'essa possiede, può istituirli o deporli; essa conferisce loro i poteri dell'ufficio non per gloria loro ma per la salvezza universale. Essi dunque devono mostrarsi umilmente ubbidienti alla chiesa; e sempre che calcano il cammino della colpa questa santissima madre deve fermarli e rimetterli nel sentiero della giustizia, se no si mostrerebbe complice dei loro misfatti. Ma chi si fida a questa tenera madre e l'ama, segue i suoi consigli e la protegge, riceve protezione e munificenza.
Contro ogni resistenza che il rappresentante di Cristo sulla terra sperimenti, è in debito di combattere, mostrarsi fermo e soffrire ad esempio di Cristo. Il mondo è pieno di scandali, il secolo è di ferro, su tutta la terra, la chiesa geme in grandissima miseria; i suoi servitori sono lordi di colpe, ed è il momento che si correggano e siano rigenerati. Siffatta universale rigenerazione deve iniziarsi dal capo dei credenti; spetta a lui dichiarare la guerra al vizio, estirparlo, e porre le fondamenta alla pace del mondo; spetta a lui sostenere tutti coloro che sono perseguitati per la causa santa della giustizia e della virtù. La persecuzione e la ferocia dei tristi non devono svolgere la bell'opera; perché colui che minaccia, che contrista, che percuote la chiesa non è suo figlio, ma del demonio, ed è degno, come membro putrido, di essere troncato dalla società umana. È necessario quindi che la chiesa sia indipendente, che tutti i suoi ministri siano puri e irreprensibili. La libertà della chiesa è impresa grandissima che il papa deve ad ogni costo compiere".

Questi erano i principi del sistema di GREGORIO VII:
"Erano i principi - scrive il Langani - che avevano ispirato i padri e i dottori della Chiesa; Gregorio VII resuscitava le naturali tradizioni del papato. L'originalità della sua opera sta in questo, che egli tentò l'attuazione di tali principi, immediatamente applicandoli alle condizioni sociali e politiche in cui si trovava ai suoi tempi il mondo occidentale.
"Un diritto eguale governava allora il laicato e la società ecclesiastica, poiché questa formava parte delle classi privilegiate. Il papato, come politica potestà, vale a dire, in quanto disponeva di terre e di vassalli costituenti la sua proprietà, era questo pure parte di quel regno d'Italia e di quell'impero occidentale, a capo del quale stava il principe eletto dalle diete tedesche; era per un patto feudale che i Cesari tedeschi intervenivano come arbitri e giudici nelle cose della Santa Sede. I grandi dignitari della chiesa, per i domini onde erano sovrani di vassalli e potenti fra i principi di tutto l'occidente, si trovavano soggetti ai re che li avevano investiti. La società ecclesiastica, nelle sue successive trasformazioni, era entrata come il laicato in quel sistema di dipendenze che contraddistingue il feudalismo".
"Gregorio VII, per tradurre nell'ordine dei fatti l'universale supremazia della chiesa, volle approfittare appunto di quelle forme di graduale sudditanza con la quale sembrava potessero allora essere regolati i rapporti politici delle popolazioni occidentali; non credeva necessario di rovesciare quel diritto che la forza dei fatti e la costanza delle consuetudini avevano universalmente stabilito: solo pensò di mettere il papato al di sopra di quegli ordinamenti politici e sociali, come corona di tutto l'edificio feudale, come fonte d'ogni diritto e fondamento d'ogni autorità".
" E, pertanto, mentre l'istituzione del celibato era destinata a provvedere al rinnovamento morale del sacerdozio, indispensabile perché le tradizioni della chiesa avessero a risorgere in tutta la loro pienezza e con tutta la loro efficacia, la restaurazione della gerarchia ecclesiastica, indispensabile per l'unità e la continuità del primato della potestà sacerdotale, doveva ottenersi con il sottrarre al laicato il diritto d'investitura dei benefici ecclesiastici. Anche qui non furono alterate le distribuzioni della proprietà ecclesiastica, quale era uscita dalle trasformazioni della proprietà barbarica. Se non che, stabilitosi nel papato il diritto d'assoluta supremazia su tutti gli ordini sociali e su tutte quante le altre autorità, era naturale che il papato a se stesso aggiudicasse ancora un diritto inferiore che era compreso in un diritto superiore, un diritto particolare che era elemento di un diritto generale: era naturale che il papa credesse di poter riprendersi, disponendone a suo piacimento, ciò che credeva nelle sue origini esser proprio. Dunque il possesso dei benefici ecclesiastici doveva esser l'effetto di una concessione del pontefice: il loro conferimento doveva cessare di essere una prerogativa delle potestà laiche.
Considerata in se stessa una tale sottrazione dei feudi ecclesiastici alla sovranità laica era una vera usurpazione. Il diritto d'investitura e gli obblighi che ne derivavano al beneficato erano gli ultimi interessi che gli antichi proprietari si erano riservati di un capitale, del quale avevano concesso alla chiesa il retto possesso. Ma quali erano le origini prime di quel capitale? Non aveva presieduto anche a queste origini un'usurpazione? E quest'usurpazione era stata giustificata da un bisogno morale, da un principio razionale, o non si era piuttosto effettuata per la violenza dei più forti?".

Prima di tentare l'attuazione dei suoi disegni politici, Gregorio VII volle sapere "di quali forze poteva disporre". Sua amica e sua sostenitrice era la contessa MATILDE di TOSCANA; partigiano dell'autocrazia papale era ERLEMBALDO COTTA, capo della "pataria", milanese, ma gli erano ostili l'alto clero e i nobili lombardi. Si trattava ora di vedere quale assegnamento poteva avere dall'aiuto di ROBERTO il GUISCARDO e dagli altri principi dell'Italia meridionale.
Non appena consacrato, GREGORIO VII si recò subito nel mezzogiorno. Si proponeva, partendo, di dimorare breve tempo nelle province meridionali e invece dalla politica di Roberto il Guiscardo fu costretto a rimanervi sei mesi, dal luglio al dicembre del 1073.
Il fiero normanno, inorgoglito delle conquiste fatte e dalla potenza che si era procacciato, da vassallo della Santa Sede qual era, pretendeva il patriziato romano. Risorgeva il pericolo che si era delineato quando Riccardo di Capua aveva chiesto per sé il medesimo titolo, ma pericolo maggiore era quello normanno, in quanto più grande era la forza del Guiscardo.

Il Pontefice invitò Roberto perché si recasse da Lui a San Germano a ricevere l'investitura dei nuovi domini, ma il normanno non vi andò e quando Gregorio, poco dopo, lo chiamò a Benevento, il Guiscardo per tutta risposta, mise un accampamento di suoi vassalli alle porte della città e a sua volta invitò il Papa a recarvisi se voleva incontrarsi con lui.
Non potendo intendersi col Guiscardo, Gregorio VII cercò di accordarsi con gli altri principi dell'Italia meridionale. E vi riuscì.
II 12 agosto del 1073 LANDOLFO, principe di Benevento, firmava un atto ("constitutio") con il quale metteva il suo principato sotto la dipendenza della Santa Sede e in cui era detto che avrebbe perduto la sua dignità se avesse tradito la causa della Chiesa Romana, del Pontefice e dei suoi successori o se avesse tentato di apportare mutamenti al governo senza il consenso papale. Un mese dopo, il principe RICCARDO di Capua si costituiva tributario della Santa Sede promettendo di non giurare fedeltà al re Enrico contro la volontà del Pontefice.

Si trovava Gregorio VII ancora a Capua quando gli giunse una lettera di ENRICO IV, in cui il sovrano, scusandosi di non avere reso all'autorità ecclesiastica il dovuto ossequio e la dovuta giustizia, chiedeva il consiglio e l'aiuto del Pontefice, prometteva di impegnarsi il più possibile, affinché gli ordini suoi fossero sempre eseguiti e lo pregava di riformare canonicamente la chiesa milanese, che versava in grave disordine.
Per spiegare quest'umilissimo passo del sovrano germanico è necessario accennare alle condizioni in cui allora si trovava ENRICO IV.
Seguendo la politica paterna, il re voleva abbattere i principati e l'autonomia delle schiatte germaniche per rendere più forte la potestà regia. Era morto il 28 marzo del 1072 ADOLFO duca di Sassonia. Spettava il trono al figlio MAGNO, ma, avendo questi partecipato alla ribellione di ottobre a Nordheim, cui Enrico aveva tolto il ducato concessogli dall'imperatrice Agnese, il sovrano aveva negato che succedesse al padre.
Una terribile insurrezione era scoppiata in Sassonia nell'agosto del 1073 e molti castelli, da cui i vassalli fedeli al re tiranneggiavano il popolo, erano stati assaltati, occupati o distrutti. Enrico IV, trovandosi a Goslarm era stato assediato dagli insorti e si era a stento salvato con la fuga, mentre il movimento rivoluzionario minacciava di estendersi in tutta la Germania.

La lettera di Enrico produsse gran gioia nell'animo del Pontefice, il quale si prefiggeva di trarre vantaggi dalla situazione del sovrano; ma quella gioia fu amareggiata dagli avvenimenti dell'Italia meridionale. ROBERTO il Guiscardo scatenò la guerra al normanno RICCARDO di Capua, che ostentava la sua amicizia al Pontefice, ed invadeva il territorio beneventano sconfiggendo a Montesarchio, le truppe di LANDOLFO VI, che il 7 febbraio 1074 in battaglia vi perdeva il figlio Pandolfo IV.
GREGORIO VII lanciava la scomunica su Roberto, sollecitava invano contro il Normanno la contessa Matilde e Gisulfo di Salerno e si decideva infine ad intimare ancora al Guiscardo di presentarsi davanti a lui a Benevento.
Roberto cui la scomunica pesava, andò sotto le mura di Benevento, accompagnato dalla moglie, dai figli e da un corteggio di cavalieri, ed aspettò per tre giorni il Pontefice, il quale però, cambiato idea, non si fece vivo; anzi, nel concilio del 1075 (dove espose il suo "dictatus papae"), riconfermò la scomunica.
Allora il GUISCARDO, alleatosi con il duca SERGIO di Napoli, marciò contro RICCARDO di Capua; ma la guerra fu scongiurata dall'abate DESIDERIO di Monte Cassino, il quale combinò fra i due rivali un convegno nel castello di Apice nella speranza che i due si mettessero d'accordo. Ma l'accordo mancò essendosi Riccardo ostinato nel voler mantenere la sua fede al Pontefice.

Intanto Gregorio VII si dedicava a coltivare i rapporti amichevoli sollecitati da ENRICO IV. A quella lettera (vista sopra) con la quale lui invocava l'appoggio del Papa, Gregorio rispose mandando una legazione in Germania con l'incarico di riconciliare il re con i suoi sudditi. Davanti ai legati il re germanico riconfermò la confessione contenuta nella lettera e così la pace tra il sovrano e la Santa Sede fu fatta.

Per renderla più efficace i legati pontifici chiesero ad Enrico che consentisse alla convocazione di un concilio, il quale sotto la loro presidenza, ordinasse che fosse data esecuzione ai decreti dell'ultimo sinodo contro la simonia e il matrimonio dei preti. Il re acconsentì, ma l'episcopato germanico si dichiarò contrario alla proposta dei legati dichiarando che se il Pontefice non fosse venuto personalmente a presiedere il concilio la presidenza sarebbe toccata all'arcivescovo di Magonza in qualità di primate di Germania.

Pacificata la Santa Sede con la corona tedesca, l'occasione di un'altra pacificazione si presentava a Gregorio VII: quella tra Roma e Costantinopoli. MICHELE VII, imperatore d'Oriente invitava il Pontefice a soccorrerlo per cacciare dalla Siria i Selgiucidi.
L'invito inaspettato fece nascere davanti gli occhi del Papa un miraggio pieno di seduzioni. Egli pensò di giovare alla fede scuotendo il mondo cattolico con una "guerra santa"; di giovare al Papato fiaccando la potenza dell'Italia meridionale e la resistenza musulmana nella Sicilia e con le forze da riunirsi per l'impresa d'Asia; pensò alla chiesa greca tornata in grembo alla romana; alla Siria liberata dagli infedeli; al vessillo con la Croce di Cristo sventolante su Gerusalemme; a tutto il mondo cristiano raccolto sotto la teocrazia papale.

Vagheggiando tutto questo, accolse l'invito e inviò a Costantinopoli il patriarca di Venezia, che comunicò all'imperatore la proposta del Pontefice di riunir la chiesa bizantina alla latina. MICHELE VII rispose che stimava necessario procedere prima alla liberazione dell'Asia: dopo avrebbe trovato i suoi sudditi meglio disposti ad assecondare il desiderio del Papa.
Allora Gregorio non visse che per la crociata. Ne parlò alla contessa MATILDE di Toscana, scrisse al conte GUGLIELMO di Borgogna pregandolo di mettersi al servizio della religione e di indurre alla grande impresa il conte di S. EGIDIO, AMEDEO figlio di Adelaide (di "Savoia") e tutti coloro che egli sapeva fedeli alla Santa Sede.
"Non per spargere il sangue dei Cristiani - scriveva - noi vogliamo radunare un numeroso esercito, ma perché i nemici, temendo di affrontarlo, cedano più facilmente. E nutriamo speranza che possa derivarne qualche altra utilità, che cioè, pacificati i Normanni, possiamo noi recarci a Costantinopoli a soccorrere i fedeli di Cristo, i quali, dilaniati dai morsi ferocissimi dei Musulmani, ci chiedono con ansia di aiutarli".

Scriveva inoltre ad ENRICO IV, il 7 dicembre del 1074, che volendo egli capitanare la santa spedizione, difendesse lui in sua assenza la Chiesa Romana.
Osserva il Gregorovius: "Fantastico disegno, e in quali tempi! Gregorio audacemente pose al principio del suo pontificato ciò che sarebbe dovuto accadere alla fine, come se, prevedendo le grandi lotte che doveva affrontare in Italia, pensasse di evitarle trascinandosi dietro, in Oriente, la cristianità infiammata. Forse sperava con una vigorosa spedizione, favorita dall'entusiasmo del mondo cristiano di attuare con minori difficoltà i suoi disegni di egemonia in Europa? O voleva mascherare il suo vero proposito di assoggettare a sé l'Italia meridionale? Perché egli doveva capire che non era possibile condurre a fondo la guerra santa in Oriente se prima la Chiesa non avesse conseguito l'indipendenza in occidente. In tal caso Gregorio VII avrebbe capitanato i crociati e disputato l'immortale fama a GOFFREDO di BUGLIONE che in quel tempo era ancora adolescente (13 anni). Ma nella storia universale rimase bianca una pagina che avrebbe descritto il più grande Pontefice marciare alla testa di migliaia di guerrieri fanatici, simile ad un Alessandro Magno entusiasta o ad un Traiano coronato dalla tiara!".

Ma quelli in cui Gregorio VII viveva non erano ancora tempi per tale impresa. Molti, è vero, risposero al suo appello; e riuscì perfino a radunare cinquantamila uomini che passò in rassegna presso il monte Cimino, nel viterbese; ma qualche mese dopo quell'esercito si sciolse e si dileguarono tutte le speranze del Pontefice, che, duramente colpito dal disinganno, si ammalò gravemente.
A far fallire l'impresa papale forse contribuì ROBERTO il GUISCARDO, che, più positivo del Papa, cercò di trarre profitto dai disegni di Gregorio VII - e vi riuscì - facendone suo qualcuno. A lui, infatti, si rivolse per aiuto l'imperatore d'Oriente, vedendo indugiare il Pontefice, e Roberto accolse l'invito, ma da quell'uomo astuto qual era mise a caro prezzo il suo aiuto, e MICHELE se lo volle, dovette pagargli considerevoli somme di denaro e fidanzare il suo figliuolo adolescente con una delle figlie del Guiscardo.

DAL CONCILIO ROMANO DEL 1075 AL CONCILIO DI WORMS
DEPOSIZIONE DI GREGORIO VII
E SCOMUNICA DI ENRICO IV

L'abbattimento fisico e morale di Gregorio VII durò brevissimo tempo. Rimessosi in forma, tornò con maggiore energia ad operare per tradurre in atto i suoi disegni politici, e prima d'ogni altro volle piegare alla sua volontà i vescovi germanici per opera dei quali non aveva potuto aver luogo il concilio da lui proposto e dal re approvato.
Già nel dicembre del 1074 aveva intimato a SIGIFREDO di Magonza e ai vescovi di Costanza, Strasburgo, Spira, Bamberga, Augusta e Vurzburg di recarsi a Roma per giustificarsi del loro contegno. I prelati non ubbidirono all'intimazione; allora il Pontefice invitò i duchi tedeschi a proibire, anche con la violenza, che i preti simoniaci e gli ammogliati dicessero messa, ed ordinò ai sacerdoti e ai laici del regno di non prestare obbedienza a quei vescovi che nelle loro diocesi tolleravano il matrimonio dei preti, dei diaconi e dei suddiaconi.

ENRICO IV, tutto preso dalla lotta contro i ribelli della Sassonia e della Turingia e bisognoso dell'aiuto del Pontefice, della cui politica forse non vedeva lo scopo, non si opponeva ai decreti di Gregorio e non si ergeva a difesa del clero germanico, prometteva anzi al Papa di sostenerlo nella grande opera di riforme che aveva intrapreso e lasciava che fossero destituiti quattro prelati e fossero esclusi dalla chiesa cinque consiglieri della sua corte.
L'atteggiamento docile del sovrano accresceva l'ardire del Pontefice, che, nel concilio tenuto a Roma dal 14 al 18 febbraio del 1075, non soltanto condannava nuovamente la simonia e proclamava il celibato obbligatorio per tutti i sacerdoti, ma scomunicava i consiglieri del sovrano, e proibiva agli ecclesiastici di ogni grado di ricevere investiture di feudi dai laici.
Questi decreti sinodali avevano una portata politica grandissima. L'obbligo del celibato pareva in un primo momento che tendesse solamente a purificare la società ecclesiastica eliminandone i disordini e gli abusi che derivavano dal matrimonio ed invece rappresentava un provvedimento squisitamente politico che mirava a far del sacerdozio una milizia potente agli ordini della Chiesa e del suo Capo, una milizia che, strappata alla famiglia e alla patria, allontanata dagli interessi e dagli affetti che potessero far leva sul cuore e sulla mente, doveva dedicare la sua attività e far conseguire alla Chiesa il dominio sulle nazioni.
Maggiore importanza aveva il divieto alle investiture conferite dai laici agli ecclesiastici, perché colpiva fortemente il sistema feudale e minacciava l'esistenza stessa del regno italo-germanico.

"Questo decreto - nota il Bertolini - sconvolgeva tutto l'ordinamento politico-sociale del mondo cristiano di allora. Già fin dal tempo dei Longobardi, il sacerdozio cristiano era stato introdotto nella società civile nella qualità di ricco proprietario. Sotto i Carolingi, e più ancora sotto gli Ottoni, le proprietà ecclesiastiche si trasformarono in signorie feudali; e come i grandi vassalli le conferivano alle autorità ecclesiastiche inferiori, così se ne dava l'investitura per mezzo dell'anello pastorale, ai vescovi e agli abati. Da ciò seguì che i vescovi e tutto quanto il clero, fossero introdotti nella sudditanza civile dell'impero. Ora è questo vincolo di sudditanza che Gregorio VII volle sciogliere. Se si fosse voluto ristabilire davvero la purezza della Chiesa, lo scioglimento del vincolo si sarebbe dovuto effettuare in un altro modo: restituendo, cioè, a coloro dai quali si erano avute quelle signorie, e rimettendo la Chiesa nella sua primitiva povertà. Ma questo non era sperabile allora. Tanto meno poi ci si poteva aspettare tutto questo da un riformatore, il cui fine era politico più che religioso; la sua guerra contro il matrimonio e la simonia, più che alla purificazione della Chiesa, mirava ad emanciparla dal poter civile, per poterla poi sovrapporre ad esso.
"Come nel fissare le relazioni fra Chiesa e Stato, così nella costituzione propria della Chiesa stessa, il disegno di Gregorio era del tutto politico. Per lui, libertà della Chiesa voleva dire assolutismo papale. Senza riserbo, egli affermava il diritto del Pontefice, di deporre vescovi, o restituire scomunicati in seno alla Chiesa senza bisogno d'alcun concorso sinodale; di dettare leggi canoniche senza sindacato, e approvare o disapprovare canoni sinodali. Senza il suo consenso, nessun sinodo poteva essere qualificato ecumenico, e senza la sua approvazione, nessun canone poteva avere forza di legge".

Questo è un passo del "Dictatus papae":
"La Chiesa Romana è stata fondata solo da Dio. Solo il pontefice romano può essere chiamato universale e il suo nome è unico al mondo. Egli può deporre o assolvere i vescovi, trasferirli da un seggio all'altro, formare nuove diocesi, dividere le già esistenti; può ordinare i chierici di qualsiasi chiesa. Lui solo può convocare un concilio generale. Non esiste alcun testo canonico all'infuori della sua autorità. Egli può stabilire nuove leggi; le sue sentenze non possono essere né condannate né riformate".

L'ardire del Pontefice era indubbiamente promosso dalla critica situazione in cui Enrico IV si trovava nella Sassonia. Ma da questa situazione il sovrano uscì sul finire della primavera del 1075 con le sue stesse armi anziché con gli aiuti del Papa. Il 9 giugno di quell'anno, in una micidiale battaglia sull'Unstrutt, Entico vinse i ribelli, conquistò il campo nemico e fece una strage dei vinti. I capi si salvarono a stento con la fuga. Entrato in Sassonia e giunto presso Nordhausen, i principi ribelli si arresero (26 ottobre 1075) e furono imprigionati. Uno solo fu rimandato libero poco dopo, OTTONE di NORDHEIM, il maggior nemico, che dal re fu creato vicario della Sassonia con l'incarico di ricostruire il castello reale dell'Harzburg e le altre fortezze distrutte dagli insorti.
Divenuto da solo padrone della situazione in Germania, ENRICO IV mutò repentinamente il suo contegno nei riguardi del Pontefice. Fra i principi che teneva prigionieri vi erano l'arcivescovo di Magdeburgo e il vescovo di Halberstadt. GREGORIO VII chiese al sovrano la liberazione dei due prelati. Per tutta risposta Enrico mandò con altri plenipotenziari in Italia il suo consigliere segreto EBERARDO di NELLENBURG allo scopo di abbattere i Patarini della Lombardia, che, pur dopo la morte di Erlembaldo avvenuta il 1° maggio del 1075, dominavano ancora; e di indurre ROBERTO il Guiscardo a ricevere dal re l'investitura dei suoi domini.

Questa missione però fallì. Nonostante gli sforzi dei legati regi e dei vescovi lombardi (filo-tedeschi) contrari al Pontefice, la fazione dei Patarini tutti favorevoli alle riforme di Gregorio mantenne il sopravvento; e così Roberto che non solo rifiutò di essere investito dal sovrano germanico, ma dichiarò di volere rimanere fedele al Pontefice al quale aveva prestato giuramento di sudditanza.
La legazione di Enrico otteneva così l'effetto contrario. Infatti, anziché fare del Guiscardo un suddito del monarca germanico, lo riavvicinava al Papa; inoltre faceva sì che Roberto si pacificasse con Riccardo di Capua, per poter così uniti far fronte meglio al re. E poiché il primo mirava a rendersi padrone di Salerno e il secondo di Napoli, la loro alleanza aveva anche lo scopo di sopprimere i principati indipendenti dell'Italia meridionale ed introdurli nei due organismi normanni della penisola.

L'improvvisa ostilità di Enrico e l'insuccesso della sua legazione, spinsero Gregorio VII decisamente contro di lui. L'8 dicembre del 1075, ai tre legati tedeschi che si trovavano a Roma il Pontefice consegnò una lettera per il loro sovrano, la quale fu l'ultima che il Papa scrivesse al monarca germanico. In essa Gregorio rimproverava Enrico IV di non aver tenuto conto delle scomuniche inflitte ai suoi consiglieri mantenendoli a corte, di essersi immischiato negli affari ecclesiastici di Milano, Fermo e Spoleto eleggendo di sua autorità nella prima diocesi l'arcivescovo Teodaldo e i vescovi nelle altre due contro i decreti sinodali; lo esortava a non volere più infrangere il divieto papale conferendo investiture ecclesiastiche e terminava invitandolo a promuovere, - anziché ostacolare, l'affermazione della Chiesa e a ricordarsi della fine toccata a Saul (letteralmente "In mente habeas, quid Sauli post adeptam victoriam de suo triumpho glorianti, et eiusdem prophetae monita non exequenti acciderit, et qualiter a Domino reprobatus sit"). A voce poi i tre legati dovevano ammonire il sovrano di far penitenza dei suoi peccati se non voleva correre il rischio di essere nel primo concilio quaresimale, scomunicato e deposto dal trono.

La lettera papale e in più le parole riferite dai legati al re, che si trovava a Goslar, fecero nascere nell'animo del sovrano una terribile ira e un incontenibile sdegno.
Reso superbo dalla vittoria riportata sui Sassoni, reso sicuro dal successo della lotta che i vescovi lombardi conducevano contro il Papa e dai torbidi che la politica riformatrice del Pontefice aveva fatto nascere a Roma tra la nobiltà, il re fu proprio convinto di potere facilmente abbattere la nascente teocrazia, punire la superbia di Gregorio e ricondurre il Papato sotto l'obbedienza della corona germanica, dalla quale credeva di essersi emancipato.
Senza perder tempo, sotto l'impulso dell'ira, a Goslar, dal re e dai suoi cortigiani si pensò subito alla vendetta e fu convocato un concilio nazionale di vescovi da tenersi a Worms.

Per un momento sembrò che la sorte di Gregorio dovesse essere decisa nella stessa Roma senza il concorso di Enrico IV e fu quando il Pontefice poco mancò che non restasse vittima di un audacissimo colpo della nobiltà capitanata da un certo CENCIO. Era costui figlio di Stefano, già prefetto della città. Alla morte del padre aspirava a succedergli nella carica, ma non aveva potuto conseguirla per aver palesato avversione alla riforma. Si era allora dato alla violenza ed aveva sparso tale terrore nella città che, processato per volere del Papa e condannato a morte, la sentenza, per timore di qualche agitazioni a suo favore ed anche per l'intercessione della contessa Matilde, non era stata eseguita.
Colmo di odio e di rancore CENCIO cercò di sbarazzarsi del Pontefice con la forza. Era la notte del Natale del 1075: pioveva a dirotto e pochi fedeli si trovavano nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove Gregorio VII celebrava la messa presso l'altare del Presepio. A un tratto il tempio fu invaso da una turba di sediziosi di Cencio, i quali, circondato il Pontefice, lo presero, lo spogliarono delle sue vesti pontificali, lo malmenarono e, contuso e sanguinante, lo portarono in una torre del quartiere del Parione.
La notizia del sacrilego attentato, subito sparsasi nella stessa notte nella città, provocò l'immediata reazione del popolo, che, riversatosi nelle vie, ancora prima dell'alba, cominciò a rumoreggiare, fin quando salita la tensione si organizzarono cacce ai sovversivi e ben presto ci fu la mischia tra popolani e partigiani di Cencio, che furono ben presto sopraffatti dalla folla inferocita e il loro violento capo, salvatosi con la fuga, si rifugiò in Germania presso Enrico IV.
Gregorio, liberato dalla prigione, fu portato in trionfo dal popolo nella basilica di Santa Maria Maggiore, dove riuscì a continuare la celebrazione interrotta, ma questa volta con il tempio straboccante di folla accorsa da tutta Roma.

Così quel fallito attentato, che doveva in un colpo sopprimere il formidabile monaco che era salito sul soglio, contribuì invece ad accrescere la sua potenza e la sua audacia. "E in questo momento, in cui egli usciva dal buio di quella pericolosa notte alla torre, con l'aureola di scampato martire, scoppiava fra lui e il re di Germania il gran conflitto".(Bertolini).
Al concilio germanico di Worms parteciparono ventisei vescovi e parecchi principi. Fra i porporati era il cardinale lorenese UGO BIANCO, prima amico e sostenitore del Pontefice, ora suo acerrimo nemico, forse perché credeva di non essere stato sufficientemente ricompensato per l'appoggio che gli aveva dato al tempo della sua elezione.
Apertosi il congresso, UGO iniziò a parlare contro Gregorio accusandolo calunniosamente come eretico, adultero, sanguinario e simoniaco. I vescovi tedeschi, rimasti impressionati dalle accuse del cardinale, dichiararono deposto dal trono di San Pietro GREGORIO VII e fu steso un atto che fu firmato dal ENRICO IV e da tutti i membri del concilio, poi inviato a Piacenza e sottoscritto dai vescovi lombardi in quella città appositamente radunati.
L'atto che conteneva le deliberazioni fu mandato al Pontefice insieme con la seguente (terribile) lettera di Enrico IV:

"Enrico, Re non per usurpazione, ma per volontà di Dio, ad Ildebrando, falso monaco e non papa. Tu hai meritato questo saluto per la tua condotta poiché non vi è ordine nella chiesa che tu non abbia colmato non d'onore ma di confusione, non di benedizioni ma di maledizioni. Per non accennare che alle cose più importanti, tu non hai disdegnato di infierire contro i capi della Chiesa, contro gli Unti del Signore, quali gli Arcivescovi, i Vescovi e i preti; li hai calpestati come schiavi per non far sapere quello che fa il loro padrone. Con questa tua condotta verso di loro ti sei procacciato il favore della moltitudine e da allora hai creduto che tu sapessi tutto e che gli altri nulla sapessero. Tu hai cercato d'impiegare questa pretesa scienza non per edificare ma per distruggere; per questo noi possiamo pensare che S. Gregorio di cui usurpasti il nome - profetasse di te quando disse: Spesso il numero di quelli che sono sottomessi riempie d'orgoglio l'animo di chi comanda; egli crede di sapere più di tutti vedendo che può più di tutti" .
Noi abbiamo sopportato tutto ciò perché ci preme di serbare intatta la Santa Sede; ma tu hai scambiata per paura la nostra umiltà e perciò non hai temuto di erigerti contro la potestà regia che Dio ci ha commesso ed hai osato minacciare di togliercela come se avessimo ricevuto da te la corona, come se in tuo potere e non in potere di Dio fossero il regno o l'impero.
Pertanto Nostro Signore Gesù Cristo ha chiamato noi al trono e non ha chiamato te al sacerdozio. Con l'astuzia, con la frode, con tutti i mezzi che la religione condanna, tu sei giunto al sommo pontificato; con l'oro hai guadagnato il favore del popolo e per questo favore hai acquistato una potenza di ferro, per questa potenza sei salito al seggio della pace e da questo seggio hai turbata la pace, armando i soggetti contro i loro capi ed insegnando che i nostri vescovi, da Dio chiamati al sacerdozio, dovevano essere disprezzati, come se Dio non li avesse chiamati; eccitando i laici ad usurpar l'autorità dei vescovi sui preti, per far deporre o disprezzare coloro che essi avevano ricevuto, dalla mano di Dio, come pastori per l'imposizione delle mani.
Io che, sebbene indegno sono consacrato re e come tale, seguendo la tradizione dei Padri, non posso essere giudicato che da Dio e non posso esser deposto se non per l'abbandono della fede, poiché i Santi Padri hanno consegnato Giuliano l'Apostato al medesimo giudizio di Dio, io sono stato attaccato da te. Un vero papa, S. Leone, scrive
"Temete Dio! Onorate il re!". Ma siccome tu non temi Dio così non onori me, che Egli ha voluto re.
Poiché tu sei colpito da anatema e condannato per sentenza di tutti i nostri vescovi e della nostra, discendi! Lascia il trono che hai usurpato! Cha la sedia di S Pietro sia occupata da un altro che non cerchi di coprire la violenza con il manto della religione e insegni la santa dottrina dell'Apostolo. Io, Enrico, re per grazia di Dio, con tutti i nostri vescovi ti dico: Discendi ! Discendi !".


Il decreto sinodale di Worms e la lettera regia furono consegnati ad un prete scismatico parmigiano di nome ROLANDO e ad un ufficiale del re perché li recapitassero al Pontefice. Ad essi fu anche consegnata una lettera indirizzata ai Romani in cui Enrico, nella qualità di patrizio, dava loro facoltà, occorrendo, di fare eseguire il decreto di destituzione anche con le rami.
I messi giunsero a Roma il 20 febbraio del 1076. Il giorno dopo si radunò il concilio lateranense convocato per giudicare il sovrano germanico. Erano presenti centodieci vescovi e l'imperatrice Agnese, scesa a Roma forse con il proposito di giovare al marito re attenuando la collera dei prelati.
Appena i messi di Enrico avanzarono e consegnarono le lettere, il vescovo di Porto si levò e diede il segno del tumulto. Fu tale l'ira dell'assemblea che Rolando e l'ufficiale sarebbero stati uccisi se Gregorio medesimo non li avesse protetti con la sua persona.

Calmatisi gli animi, il Pontefice lesse con voce chiara e pacata la lettera oltraggiosa di Enrico. Quella lettura provocò un altro e più fiero scoppio di sdegno, ma il Pontefice riuscì anche questa volta a quietarlo. Gli umori e i rumori dell'assemblea lasciavano già prevedere a quali risultati sarebbe giunto il concilio; che furono gravissimi per il sovrano e per i suoi sostenitori.
I decreti di Worms furono dichiarati nulli; tutti i prelati che avevano preso parte a quel concilio furono citati a comparire davanti al tribunale della Santa Sede; furono scomunicati l'arcivescovo di Magonza, i vescovi di Ratisbona, di Losanna di Costanza e molti altri prelati e principi tedeschi; furono scomunicati e sospesi, eccettuati quelli di Aquileia e di Venezia, tutti i vescovi lombardi; infine il Pontefice scagliò l'anatema contro Enrico IV e lo dichiarò decaduto dal trono.

Rivolgendosi all'Apostolo Pietro e chiamandolo ad attestare con la Vergine e S. Paolo di essere stato chiamato suo malgrado a Governare la Chiesa Romana, disse:

"O Pietro, in qualità di tuo rappresentante ho ricevuto da Dio la potestà di legare e sciogliere nel cielo e sulla terra. Investito di tal potere, per l'onore e per la difesa della tua Chiesa, nel nome del Dio Onnipotente, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, con il tuo potere e la tua autorità, io dichiaro deposto dal trono, e tolgo di mano il governo dell'Italia e della Germania a Enrico IV, che con inaudita superbia si levò contro la tua Chiesa; io sciolgo tutti i sudditi dal vincolo di giuramento di fedeltà che gli hanno prestato o gli presteranno; vieto ad ogni uomo di servirlo come re perché chi si è eretto contro l'autorità della Chiesa non è più degno di rivestire autorità alcuna.
E' conveniente che perda il suo il suo onore colui che si sforza di sminuire quello della Chiesa. Io in tuo nome Pietro lo avvinco con il laccio dell'anatema e, fiducioso in te, lo avvinco in modo che tutti i popoli conoscano e tocchino con mano che tu sei Pietro, se sopra questa pietra il figlio di Dio vivo edificò la sua Chiesa e le porte dell'inferno non prevarranno sopra di essa".

Ricordiamo che chi era colpito da anatema (che significa "maledizione") diventava un respinto dalla società, una specie di demone incarnato. Nessuno poteva abitare, mangiare, incontrarsi, discutere con lui. Era privato oltre che di ogni carica pubblica, di ogni conforto religioso, i matrimoni, l'estrema unzione, la sepoltura nei cimiteri consacrati. Ed è facile supporre quale effetto avesse questa punizione su popolazioni profondamente legate all'idea di un Dio giudice presente nelle vicende della vita quotidiana. Ma sul sovrano, come in questo caso, acquistava un'importanza e un rilievo determinanti, perché i sudditi si basavano sui vincoli della fiducia e sul sentimento dell'onore del proprio Re. Ed era questo un vincolo universale dalla notte dei tempi.

S' iniziava così con quest'atto la grande lotta tra GREGORIO VII ed ENRICO IV, ed era lotta non di persone, ma di principi, lotta ingaggiata per il trionfo della teocrazia papale sull'autocrazia regia, dalla quale ebbe origine quel dualismo che doveva dar forma -sotto tutti gli aspetti, dal politico al culturale- a tutto il medioevo italiano.


Siamo all'inizio del 1077, e siamo a quella scena che ha
così tanto colpito la fantasia popolare:
(ovviamente alimentata dal Papato - leggi Chiesa)
la "discesa a Canossa" di Enrico IV
ed è il prossimo riassunto dall'anno 1077 al 1081 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

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