ANNI dal 1198 al 1201 

INNOCENZO III - 4a CROCIATA - IL PICCOLO FEDERICO II

vedi anche in "Storia di civiltà"

I NORMANNI IN ITALIA
Il meridione d’Italia dai Normanni-Svevi agli Angioini
Sullo sfondo della lotta di Federico II di Svevia con il Papato > > >


MORTE DI CELESTINO III ED ELEZIONE DI INNOCENZO III - DIFFICILI CONDIZIONI DELLA CHIESA E DEL PAPATO - RESTAURAZIONE DELLA SOVRANITÀ TEMPORALE IN ROMA E NELLO STATO PONTIFICIO - FEDERICO II RE DI SICILIA - DIFFICOLTÀ DEL REGNO DI FEDERICO II DURANTE LA SUA MINORITÀ - INNOCENZO III E L' ITALIA MERIDIONALE - LA QUARTA CROCIATA: PRESA DI ZARA E DI COSTANTINOPOLI; CADUTA DELL'IMPERO BIZANTINO E FONDAZIONE DELL'IMPERO LATINO - LA CROCIATA CONTRO GLI ALBIGESI
----------------------------------------------------------------------------------

I PRIMI ANNI DEL PONTIFICATO DI INNOCENZO III
E DEL REGNO DI FEDERICO II
Poco tempo dopo la miserevole morte di Enrico VI (28-29 settembre del 1197), l'8 gennaio del 1198, cessava di vivere papa CELESTINO III.
Come successore fu eletto il giorno stesso l'energico cardinale LOTARIO CONTI dei conti di SEGNI, consacrato il 23 febbraio col nome di INNOCENZO III, fautore del pieno riconoscimento della supremazia del Papa su ogni autorità laica.
Ed infatti, i cardinali che lo elessero (scartando Giovanni di San Paolo, che Roger Howden riferisce, già indicato da Celestino come suo successore; anzi afferma che poco prima voleva abdicare a favore di questo monaco che aveva gettato le basi della Penitenzieria apostolica) erano alla ricerca di un uomo di stato più che di uno spirito autenticamente religioso, capace d'intraprendere l'opera di restaurazione del potere papale in Italia e oltralpe, a difendere gli ordini religiosi dalle usurpazioni del potere secolare e a ingaggiare battaglie contro le eresie.

Dunque, il nuovo papa la nuova linea politica che avrebbe dovuto seguire la trovò già predeterminata; sapevano i cardinali elettori, che Lotario era pieno d'energia e di ambizione, conoscevano la sua personalità, la sua forza di volontà, l'eccezionale predisposizione all'ordine, al metodo, alla lucidità d'espressione. Fu una buona scelta, che andò oltre ogni previsione; il risultato finale fu quello che la vita religiosa dell'Europa occidentale fu organizzata e diretta come mai prima; dinuovo "tutte le strade conducevano a Roma"; e mai come prima fu vera quella frase che ogni fedele recitava "Adbveniat regnum tuum", Stato e Chiesa sotto la teocrazia di Innocenzo militò per quasi vent'anni.

Del resto salendo sul soglio scelse un'omelia sul passo di Geremia, 1,10 " Vedi, io ti costituisco oggi sui popoli e sui regni, per sradicare e distruggere, per rovinare e abbattere, per edificare e piantare".
Gregorio VII quando aveva assunto il suo ruolo fra lacrime e conflitti spirituali disse che aveva sentito "amara angoscia e grande ansietà", Innocenzo parlò invece subito che il papato era "la più gloriosa posizione sulla terra", e che il "rappresentante di Cristo e la Santa Sede è "posta a metà tra Dio e l'uomo, al di sotto di Dio, ma al di sopra dell'uomo"

II nuovo Pontefice, che sostituiva un novantunenne, era giovanissimo, aveva solo trentasette anni, era figlio di Conti Trasimondo di Segni, di antica e nobile famiglia del Lazio, aveva studiato teologia nell'università di Parigi e diritto in quella di Bologna e doveva la rapidità della sua carriera, oltre all'ingegno, alla prudenza, alla cultura che possedeva, al favore di Clemente III di cui per parte di madre era nipote.
Avversato da Celestino III, si era ritirato nelle sue terre e nella solitudine aveva cercato conforto vergando le pagine di quel famoso libro, intitolato "De contemptu mundi", in cui il futuro Pontefice si scagliava atrocemente contro le vanità del mondo.
INNOCENZO III saliva al trono in tempi difficili per il Papato e per la Chiesa: il regno di Sicilia, sottratto al vassallaggio della S. Sede ed unito all'impero; invasi i domini pontifici e dati in feudo ai grandi germanici; ridotta a nulla la sovranità temporale su Roma; quasi scomparso il prestigio della Curia in Germania; sconfitti gli eserciti crociati; sotto il giogo degli infedeli era Gerusalemme; scossa la fede e diffusa, al di qua e al di là delle Alpi, l'eresia dei Valdesi e degli Albigesi, contro di cui sterili erano rimasti tutti i provvedimenti di Alessandro III.Innocenzo saliva al pontificato con il proposito di innalzare la fortuna del Papato e della Chiesa, e per conseguire il suo scopo egli non disponeva di altre armi che della sua fermissima volontà, della sua salda tenacia, del suo spirito equilibrato ma nello stesso tempo battagliero e della fiducia senza limiti che aveva nella santità della sua missione.

Fece sue le concezioni teocratiche di Gregorio VII, secondo cui "la dignità regale non è che un riflesso della dignità pontificia" e tentò di metterle in pratica con un'energia senza precedenti. Con lui la Santa Sede si orientò decisamente verso "l'imperium mundi", interferendo nella maggior parte degli stati cristiani, nelle vicende matrimoniali dei sovrani, usando la forza contro le eresie, imponendo rigide regole agli ordini dei mendicanti, che dominò per quasi vent'anni, ma temendo le loro iniziative non seppe promuovere una profonda riforma.
Primo pensiero del Pontefice fu subito di restaurare la sovranità temporale in Roma annullando quei poteri che a questa sovranità si opponevano. Questi erano impersonati da due magistrati: uno era il prefetto che rappresentava i diritti dell'impero, l'altro il senatore che rappresentava quelli del popolo. Era prefetto di Roma un certo PIETRO, approfittando che l'Impero aveva la sovranità vacante dopo la morte improvvisa di Enrico VI, Innocenzo lo persuase a sottomettersi a lui e il 22 febbraio del 1198, lo indusse a prestare giuramento di fedeltà e lo investì dell'ufficio dandogli come simbolo, anziché la spada, il mantello purpureo.

Stessa persuasione e sorte toccò al senatore.
"Vigeva sempre a Roma la costituzione del 1144; ma mancando questa di un ordinamento che poggiasse sulle forze del popolo, ne seguì che restringendosi assunse nella sua autorità esecutiva una forma monarchica. Infatti, il Senato di un tempo aveva finito con il concentrarsi in un senatore unico (Bertolini)".

Copriva allora questa carica SCOTTO PAPARONE. Innocenzo III lo convinse a dare le dimissioni e, ingraziatosi con dei donativi il popolo, creò per mezzo di un "medianus", un tipo nuovo di senatore, che giurò di esser fedele al Pontefice, e di difendere la sua persona e la sua libertà, difendere S. Pietro, la città di Roma, la Leonina, il Trastevere, l'Isola, il Castello di Crescenzio, S. Maria Rotonda, il Senato, la Zecca, gli onori e gli uffici della città, il porto di Ostia, i domini di Tusculo e tutte le giurisdizioni del Papa entro e fuori di Roma."Tuttavia - osserva il Gregorovius - sarebbe errore se si credesse che il Papa da allora in poi esercitasse su Roma un'autorità diretta e regia. La forma di governo monarchico, secondo la concezione dei tempi nostri, era così ignoto al medio evo, che neppure una sola volta venne in mente ad Innocenzo III di porre in dubbio l'autonomia del Comune romano. Tutti i Pontefici di quell'età tennero la città di Roma non soltanto in conto di potenza civica, ma pure quella come potenza politica e sovrana. Cercarono di usare sopra di questa il loro ascendente, se ne assicurarono la signoria in via di principio fondamentale, nominarono, o per lo meno confermarono i senatori, ma non decretarono mai cosa alcuna che sarebbe stato contro il volere e la podestà del popolo.

La loro signoria era semplicemente un titolo di autorità; niente di più. Infatti, i Romani continuavano a riunire le assemblee sul Campidoglio in un libero parlamento, ad avere loro proprie finanze, un proprio esercito, a decidere della guerra e della pace senza mai interpellare il Papa; muovevano perfino guerra a città dello stato ecclesiastico, e con loro concludevano trattati di diritto pubblico.
E' anche vero che queste città erano per la maggior parte comuni liberi, e altre nel distretto romano pagavano, per patti convenuti, dei canoni feudali alla Camera del Campidoglio, e ricevevano dal senatore il loro podestà.
A dimostrare l'indole energica della nobiltà, romana di quel tempo e l'onorevole pregio in che era tenuto il Comune civico, basta il fatto, che sulla prima metà del secolo XIII si trovano molti Romani eletti podestà in città "straniere". Queste (la maggior parte avevano stretta un'alleanza difensiva con Roma) chiedevano spesso, con solenni ambascerie, al popolo romano, di assegnare loro come rettore un nobile romano".Riaffermata nel modo descritto sopra, la propria autorità su Roma, Innocenzo si volse a riconquistare i territori di cui Enrico VI aveva spogliato la Chiesa e cioè la marca d'Ancona e di Romagna che erano state date con il Molise a MARCOVALDO D'ANWEILER, e quella di Spoleto data a CORRADO di URSLINGEN. Il Pontefice, abilmente sfruttando in suo favore il malcontento delle popolazioni verso i due feudatari tedeschi, costrinse Marcovaldo con le minacce, con la scomunica e con le armi, ad andarsene nel regno normanno e così Ancona, Sinigaglia, Fermo, Fano, Pesaro e le altre terre delle Marche e della Romagna si offrirono alla Santa Sede, tranne Ascoli e Forlì, contro di cui Bologna e Ravenna rivolsero le armi.
Anche a Corrado fu intimato di abbandonare i territori ricevuti: e come il suo collega, pure lui sottomessosi a Narni se ne andò poi nella Svevia, e Spoleto, Rieti, Assisi, Foligno, Gubbio, Nocera, Perugia, Radicofani, Acquapendente e Montefiascone giurarono obbedienza al Papa.Formata in questo modo nell'Italia centrale una forte signoria ecclesiastica, Innocenzo III volse il pensiero all'Italia meridionale e alla Sicilia che Enrico VI aveva con la forza sottratte al vassallaggio della Santa Sede. Era rimasta a Palermo l'imperatrice Costanza, amata dai Siciliani, affezionati alla casa degli Altavilla, e odiata dai Tedeschi.

Richiamato alla capitale il figlioletto FEDERICO, che fino allora era stato affidato alla duchessa di Spoleto, nella primavera del 1198 gli aveva fatto mettere sulla piccola testa la corona regia; ma questa era malferma sul capo del fanciullo di 4 anni, e la madre chiese l'appoggio di Innocenzo, il quale non lo negò di certo e non aspettava altro, ma volle che Costanza rinunciasse alle antiche immunità ecclesiastiche dei re normanni e che si versasse alla Santa Sede un tributo annuo di mille marchi d'oro.

A tali condizioni FEDERICO II nel novembre del 1198 riceveva l'investitura papale. Ma alla fine di quello stesso mese l'imperatrice Costanza moriva, lasciando così il Pontefice virtualmente padrone del campo: si ritrovava tutore del figlio e reggente di Sicilia con uno stipendio annuo di trentamila tari e l'assistenza degli arcivescovi di Palermo, di Monreale e di Capua e del vescovo di Troia.
"Ora - scrive il Bertolini - si apre un nuovo periodo triste sulla misera Italia meridionale: da tutte le parti si levano pretendenti; mentre il Papa approfitta della tutela del re fanciullo per ristabilirvi la signoria feudale della Chiesa" educa e forma Federico come un devoto vassallo della Chiesa, e altra scelta il "bambinello" non poteva di certo fare, attorniato com'era da accorti ecclesiastici da mattina a sera.

A quel punto, contro il Papa insorgono i conti tedeschi, investiti da Enrico VI di feudi nel reame, e con le loro scorrerie nella Puglia e nella Campania vi spargono il terrore. Non è di meno MARCOVALDO, che espulso da Ancona, va nella sua contea del Molise, e fattosi padrone di San Germano, si atteggia lui come protettore del tedesco Svevo Federico, contro il Pontefice. In mezzo a questi disordini, compariva nel reame ad accrescerli, un nobile francese, GUALTIERO DI BRIENNE, il quale, avendo preso in moglie ALBINA figlia del re Tancredi, pretendeva il retaggio paterno della sposa, in pratica Lecce e Taranto.
Il Papa, impotente a tener testa ai suoi nemici tedeschi, atteggiandosi come assoluto padrone, concede al Brienne i feudi reclamati, purché lui a sua volta si eriga campione dei diritti della Chiesa nel reame (1200).
Ma nessuno pensava ai diritti dei Siciliani, nessuno a quelli del re Federico! La morte improvvisa di Marcovaldo giunse, per fortuna, a liberare il Papa da un temuto avversario, e Federico da un molesto e pericoloso protettore (1202).
Con Marcovaldo scompare la fortuna dal campo dei conti tedeschi; e Innocenzo liberatosi da tali nemici, con il pretesto di voler purificare per sempre il reame, investì il fratello RICCARDO di un grande principato sul Liri (ducato di Sora); e il giovane re Federico, trovandosi tuttora sotto la tutela del Papa, approvò (a 8 anni !!) quell'investitura per salvare almeno di nome le sue prerogative sovrane (non vediamo proprio come avrebbe potuto opporsi).
Tuttavia, ancora nel 1215 (quando ormai aveva già 21 anni) confermò a RICCARDO il ducato di Sora, che dichiarò formalmente feudo della Chiesa. Ma appena Federico fu libero, e recuperò il trono di Germania volle vendicarsi della coercizione allora patita, togliendo a Riccardo il suo feudo e cacciandolo persino in prigione (1227).
LA QUARTA CROCIATA
e LA CROCIATA CONTRO GLI ALBIGESI
Una parte del programma di INNOCENZO III era la ripresa della lotta contro gli infedeli; non appena salì al trono pontificio (era il '98), bandì la quarta crociata. Ma non erano più i tempi di Urbano II; diminuito era l'entusiasmo per le imprese d'Oriente ed occorsero quasi cinque anni per metter su un esercito, che fu quasi tutto messo insieme in Francia per opera della passionale ed eloquente parola dell'abate FOLCO di NEUILLY.

Nessun sovrano offrì il suo braccio per la causa della fede, ma non pochi furono i principi, anche di sangue reale, che si arruolarono fra i crociati; tra cui TEOBALDO di Champagne, LUIGI di BLOIS, il conte BALDOVINO di Fiandra, e GOFFREDO di VILLEHARDOUIN. Come capo della spedizione era stato designato Teobaldo; ma prima ancora che i preparativi fossero terminati, morì (1200) e al suo posto fu messo il marchese BONIFACIO di MONFERRATO, cognato di Sibilla, che in seconde nozze aveva sposato GUIDO di LUSIGNANO, ultimo re di Gerusalemme.I capi della spedizione stabilirono di prender la via del mare, che era la più breve, la più sicura e la meno dispendiosa e, mentre l'esercito si radunava, inviarono un'ambasceria a Venezia per chiedere alla potente repubblica i mezzi di trasporto. Doge allora l'ottantenne ENRICO DANDOLO, il quale non si lasciò sfuggire quell'occasione di procurare alla sua città un gran guadagno, ma volle prima, che il popolo offrisse la sua approvazione e, radunatolo nella chiesa di S. Marco, alla presenza dei legati francesi e dei patrizi veneziani, espose e fece esporre le richieste dei Crociati.Della santità e della bellezza dell'impresa parlò GOFFREDO di VILLEHARDOUIN e il suo discorso fu così trascinante che, quando lo terminò, un grido potente proruppe da migliaia di petti acclamante alla crociata che il doge e gli ambasciatori giurarono sulle spade di condurre a termine.I patti che tra i legati e la repubblica furono stipulati erano i seguenti:
Venezia s'impegnò ad allestire una flotta per trasportare in Oriente i crociati e di fornir loro le vettovaglie per un anno; dal canto loro i crociati si obbligarono di pagare prima della partenza 85.000 marchi d'argento e dare a Venezia metà delle future conquiste.

Ma quando i crociati si trovarono riuniti a Venezia, pronta con le sue navi per la partenza, non furono in grado di pagare l'ultima rata dalla somma pattuita, che ammontava a 34.000 marchi. Allora il doge, forse per scongiurare i pericoli cui la repubblica sarebbe rimasta esposta di fronte all'esercito crociato, o forse per non perdere il denaro impiegato nei preparativi già messi in atto, propose ai crociati, in cambio dell'ultima rata, di aiutare Venezia a sottomettere i territori ribelli dell'Istria e della Dalmazia.

Accettata la proposta, la spedizione si mise in mare nell'ottobre del 1202. Trieste, Muggia, l'Istria e la Dalmazia al comparire della flotta, giurarono obbedienza e fedeltà e promisero di pagare il tributo; Zara invece che volle resistere, fu poi presa e saccheggiata e nel suo porto la flotta buttò le ancore per svernare nonostante le proteste e la scomunica di Innocenzo III, indignato perché le armi dei crociati erano state impiegate in altre imprese."Ma era proprio fatale - scrive uno storico della repubblica di Venezia, il Battistella - che quest'armata non doveva neppure toccare il sacro lido siriaco. Prima ancora che i baroni si fossero tutti riuniti a Venezia, ALESSIO, figlio dello spodestato imperatore bizantino ISACCO ANGELO, sbarcato ad Ancona, su consiglio di alcuni pellegrini pisani si era rivolto ai capi della spedizione affinché l'aiutassero a ricuperare il trono; e costoro, prevedendo i vantaggi che ne sarebbero derivati alla crociata, avevano raccolto la preghiera, ma gli avevano chiesto di dar loro delle maggiori garanzie oltre le sue parole.

A procurarsele queste garanzie, Alessio si era recato allora in Germania presso l'imperatore FILIPPO di Svevia, suo cognato. Ma se la domanda del principe era stata accettata volentieri, fu ancora più gradita ai Veneziani, gli era offerta l'occasione per regolare i vecchi conti con l'impero bizantino.

La cosa non doveva neppure sembrar difficile per le misere condizioni in cui l'Impero di Bisanzio si trovava. Dopo tre anni di lotte interne ed esterne era salito al trono nel 1185 ISACCO II ANGELO, il quale aveva potuto a forza di concessioni, giungere ad accordi con il re di Sicilia e con Venezia e ristabilire la quiete e le buone relazioni. Ma poco era durata questa quiete: ormai la plebe di Costantinopoli, una plebe miserabile, infingarda, corrotta, mutabile in tutto fuorché nell'odio contro i Latini, specialmente verso i Veneziani, ritenuti responsabili della pubblica miseria, era divenuta, come ai tempi di Giustiniano, l'arbitra del governo. Dopo dieci anni di triste regno Isacco II era stato deposto, accecato e incarcerato dal fratello Alessio, che dopo il misfatto aveva occupato il trono e con subdole promesse aveva rinnovato con la repubblica le antiche convenzioni.

Ma quale mai fede era lecito avere che si sarebbe poi osservata. L'esperienza del passato doveva certamente aver messo negli animi la convinzione che nulla poteva più essere sicuro se non si cercava con le armi di assodare stabilmente la propria supremazia sullo sconvolto impero.
Ecco, pertanto, spiegata la premura con la quale Venezia accolse e appoggiò le suppliche del giovine principe bizantino. Il quale, forte dell'aiuto morale di Filippo di Svevia, accompagnato dagli ambasciatori imperiali, si ripresentò di nuovo davanti ai crociati mentre stavano ancorati a Zara nell'attesa della successiva primavera.
Fu allora che tra i crociati e Alessio- stipulato il famoso patto di Zara, per il quale quelli s'impegnavano a rimettere sul trono lui e suo padre Isacco II, e lui a pagare 300.000 marchi d'argento; a mandare un esercito in Oriente e a riconoscere l'autorità della Chiesa cattolica su tutto l'Impero d'Oriente. Innocenzo III, lusingato da quest'ultima condizione; quantunque prima avesse sconsigliato la cosa, finì con l'approvarla, parendogli essa il più sicuro passo verso la liberazione del Santo Sepolcro e, finalmente, più che l'unione, l'estinzione della Chiesa Bizantina.
Nell'aprile del 1203 la flotta salpò da Zara e, dopo una breve fermata a Corfù, gettò l'ancora all'imboccatura del Bosforo".Erano i primi di luglio del 1203 quando i crociati iniziarono lo sbarco sulla spiaggia di Pera. I Bizantini, che erano sulla riva, sebbene assai superiori di numero, si diedero alla fuga e i Latini riuscirono a prendere terra senza incontrare alcun ostacolo.
Una catena di ferro chiudeva il porto ed una delle sue estremità era difesa dalla Torre di Galata. I crociati la presero d'assalto il giorno dopo e, messi in fuga i difensori se ne impadronirono. Rotta poi la catena, la flotta veneziana entrò nel porto, catturando così tutte le navi bizantine che vi si trovavano.

"All'estremità del porto - scrive il Sismondi - erano due fiumi che, uniti in un solo letto passano sotto un ponte, detto Pietra Forata, che poteva essere per molto tempo difeso; i Greci lo smantellarono, ma non lasciarono sull'opposta riva nessuna guardia. Per accostarsi dal lato di terra alle mura della città l'esercito crociato doveva fare il giro del golfo e varcare il fiume. I crociati lavorarono un giorno ed una notte per rifare il ponte; e grande fu il loro stupore nel vedere che nessuno impediva il lavoro; ben sapendo i crociati che ad ognuno di loro la città poteva opporre venti uomini abili alle armi. "Rifatto il ponte, i crociati lo attraversarono e andarono ad accamparsi davanti al palazzo di Blacherna. Strana maniera d'assedio era di attaccare una sola porta; ma il contingente crociato non era abbastanza numeroso da andare all'assalto in un'altra parte della città, tranne quella edificata sulla spiaggia.
"I Veneziani desideravano che si tentasse l'assalto della città dal lato del mare per mezzo di scale e ponti levatoi posti sopra le navi: ma i Francesi si opposero dicendo, che era superfluo darsi da fare in mare, mentre avevano i loro cavalli e le loro armi. Alla fine fu convenuto che si sarebbe assalita la città dalla parte di terra e di mare contemporaneamente, combattendo ognuna nell'elemento più confacente per mostrare il proprio valore. "Ma la posizione dei Francesi era molto più esposta, quindi pericolosa; infatti, non passava notte che non fossero cinque o sei volte obbligati a prendere le armi; e quantunque respingessero ogni volta gli attacchi dei Bizantini, non osavano allontanarsi a quattro tiri d'arco dal loro campo per procurarsi le vettovaglie, che incominciavano a mancare; avevano farine e carni salate per tre settimane, poi potevano contare solo sui cavalli che ammazzavano"."In queste condizioni era pericoloso per i Francesi indugiare, si prepararono così per l'assalto decisivo, che fu sferrato il decimo giorno.

"Diviso l'esercito in sei schiere, due le lasciarono a custodire il campo, le altre quattro furono lanciate all'attacco delle mura, che da una parte furono abbattute con gli arieti, da un'altra furono scalate. L'assalto, condotto con grand'audacia e impeto, pareva riuscito; però giunti alle mura i rinforzi bizantini, l'offensiva fu sanguinosamente respinta; e mentre i Francesi erano impegnati dalla parte di terra, i Veneziani assalivano la città dal mare. "Dalla flotta, schierata nel porto di fronte alle mura, i balestrieri appostati sugli alberi scagliavano nugoli di frecce e le petriere dai ponti delle navi lanciavano nutrite scariche di sassi contro i difensori. Questi però non cedevano e i Veneziani già disperavano di stancare il nemico e volevano anche loro accostando tentare la scalata delle mura. Colto al volo l'umore, il vecchio doge ENRICO DANDOLO comparve sulla prora della sua nave e fattosi portare il gonfalone di San Marco, gridò alla ciurma che accostassero il naviglio alla riva.
"Si ubbidì all'istante all'autorevole comando e, non appena la sua nave toccò la costa, il Dandolo saltò a terra e, seguito dai suoi uomini, infiammati dall'audacia dell'ottantenne Doge, lo imitarono, e assalirono Costantinopoli con tale impeto che in brevissimo tempo venticinque torri caddero in potere dei Veneziani e il glorioso vessillo della repubblica fu piantato sulle mura."La città sembrava ormai presa, e il Doge aveva già mandato ad avvisare l'esercito francese d'essere padrone di un gran numero di torri da cui non poteva essere più sloggiato. Ma quando tentò d'avanzare nel quartiere, un vasto incendio, che i Latini attribuiscono ai Greci, i Greci ai Latini, lo fermò, obbligandolo a rinchiudersi in quella parte delle fortificazioni di cui si era prima impadronito.
Intanto l'imperatore ALESSIO, incalzato dai rimproveri del popolo, che lo accusava di avere aspettato il nemico presso le mura, fece uscire da tre porte le sue truppe e le condusse fuori alla distanza di un miglio dalla porta di Blacherna; poi avanzò alla loro testa contro l'armata francese mirando ad accerchiarla.

"I Francesi posero in ordine le sei schiere davanti alle fortificazioni del loro campo; i sergenti e gli scudieri a piedi si appostarono dietro le groppe dei cavalli, gli arcieri e balestrieri sul davanti. Vi era una schiera composta di più di duecento cavalieri, che, avendo perduto i loro cavalli, erano costretti a combattere a piedi. L'esercito francese era collocato in modo che non poteva essere assalito se non di fronte; ed ebbe pure la prudenza di non muoversi, perché se avanzava sul piano, correva il serio rischio di essere circondato dall'alto numero di nemici contro di cui doveva combattere.

"Avevano i Bizantini circa sessanta schiere, ognuna delle quali era più numerosa che quelle francesi che erano solo sei, e avanzarono lentamente, in ordine ben disposte, fino a tiro di freccia. Quando il doge Dandolo fu avvertito che i suoi alleati erano impegnati in una così sproporzionata impari battaglia, ordinò alla sua gente di ritirarsi e di abbandonare le torri che avevano conquistato, dichiarando di voler vivere o morire con i crociati. "Fece dunque avvicinare le sue galee all'esercito francese e scese lui stesso, per primo alla testa di tutti i Veneziani non necessari al servizio dei vascelli. Nonostante questo rinforzo, se l'indeciso Alessio avrebbe dato subito il via all'assalto dei Francesi o almeno permesso di lasciarlo fare a LASCARI, suo genero, che voleva compierlo, senza dubbio avrebbe sbaragliato i primi e reso inutile il soccorso dei Veneziani; ma appena i suoi arcieri scaramucciarono un po' di tempo, Alessio fece suonare la ritirata e tornò a rinchiudersi nella città senza combattere, convinto che Costantinopoli era inespugnabile. (Sismondi)".Ma in verità non lo pensava, infatti, al calar della notte Alessio III, con parte del tesoro della corona e in compagnia della figlia Irene, attraverso passaggi segreti, abbandonò Costantinopoli. Il giorno dopo la plebe quando venne a conoscenza della disonorevole fuga, indignata e tumultuante, corse a liberare dalla prigione il cieco ISACCO II e lo rimetteva sul trono.
"Il vecchio imperatore a quel punto, non è che poteva fare molto, ed allora iniziò delle trattative con i crociati; confermò il trattato stipulato dal figlio (che richiamò e associò pure al trono) ed assegnò ai Latini gli alloggiamenti nei sobborghi di Pera e Galata."Ma l'impossibilità di sborsare tutta la somma che il figlio aveva fissato, la poca voglia di eseguire condizioni che l'avrebbero messo in piena balia dei Latini detestati dai suoi sudditi, lo persuasero ad entrare in trattative con i crociati per differire di un anno l'adempimento degli obblighi.
Accettarono, ma non si accontentò la plebaglia, la quale, oppressa dalla miseria e spinta dal fanatismo religioso, si sollevò e, deposti e uccisi i due imperatori, acclamò invece come sovrano chi aveva incoraggiato il popolo alla ribellione: l'ambizioso ALESSIO DUCA MURZULFO.
Con lui saliva al trono il partito che aveva solo in mente la lotta e lo sterminio dei Latini, ai quali pertanto, altro non restava che o conquistare Costantinopoli o perire (Battistella)".Correva l'aprile del 1204. Il mattino del 12 di quel mese, dati ordini severissimi di rispettar le persone e i beni degli abitanti, i principi crociati sferrarono l'assalto contro la città dalla parte di terra e dalla parte di mare. Nel pomeriggio di quello stesso giorno due navi veneziane riuscirono ad avvicinarsi ad una torre e appoggiate a quella, le scale, la fortezza fu assalita, e in breve tempo conquistata.
Quasi contemporaneamente un cavaliere dalle forme erculee, certo PIETRO D'AMIENS, sfondò una porta della città e tutto l'esercito crociato penetrò dentro la città. L'esercito bizantino non oppose che una debolissima resistenza e cedette il passo agli invasori disperdendosi. Invano l'imperatore ALESSIO DUCA tentò di fermare i fuggitivi, di riunirli e affrontare il nemico: nessuno dei suoi ascoltò le esortazioni del capo e questi, per non cadere nelle mani dei vincitori, fu costretto a fuggire sul mare mentre le prime case dei quartieri meridionali erano già divorate dall'incendio.
L'avvicinarsi della sera consigliò i crociati di non avventurarsi dentro la città, e questa avrebbe potuto forse salvarsi dall'invasione, se l'esercito bizantino fosse stato meno indisciplinato e più risoluto a contendere il passo al nemico. I cittadini più autorevoli, riunitisi nella chiesa di Santa Sofia, deliberarono di eleggere un nuovo imperatore e scelsero TEODORO LASCARI, valoroso guerriero; ma questi, passando in rassegna le truppe si accorse che con quei soldati, privi di disciplina e non animati da spirito combattivo, non avrebbe potuto sostenersi e, rifiutata la corona, fuggì in Asia Minore.Costantinopoli poteva considerarsi perduta. La mattina del 13 aprile i crociati occuparono la parte meridionale della città.
"Schiere di vinti, - scrive il Kugler nella sua Storia delle Crociate - uscendo dalla chiesa di S. Sofia, si fanno loro incontro, supplicando misericordia. I principi dei Crociati cercano di proteggere quegli infelici, in conformità dell'ordine rigoroso, già dato prima di assalire la, città, che, cioè, una volta entrati in Costantinopoli, si guardassero bene dal commettere qualsiasi atto di violenza. Ma la loro parola si disperde non ascoltata: troppo acceso è negli assedianti il desiderio dei godimenti di cui sono stati privati, per mesi e mesi, nel campo di Pera, troppo violento è il loro furore contro i perfidi ed eretici greci da loro odiati fin dalla più tenera infanzia. Più ferocemente di tutti si contengono quelli che prima vivevano, come coloni, a Costantinopoli e che hanno potuto conoscere meglio degli altri tanto le ricchezze greche quanto la greca perfidia.
Uccisioni, incendi e rapine imperversano per le strade. Donne e fanciulle sono strappate dalle braccia dei loro mariti, dei loro padri. Ciò che non consuma il fuoco, è rovinato nella rabbia della bramosia di distruggere. I vincitori ammassano rapacemente l'oro e l'argento, le armi e le stoffe, ma i tesori artistici, accumulati da un millennio e mezzo in quella città incomparabile, vanno in gran parte dispersi nelle orrende nefandezza di quei giorni.
Gli ecclesiastici intanto vanno in cerca delle famose reliquie esistenti in gran numero a Costantinopoli e con devoto furto se n'appropriano più che possono. In così raccapricciante maniera si compì il destino che minacciava da tanti anni l'impero d'Oriente. Era passato da poco un secolo da quando ALESSIO I aveva invocato, a sostegno della sua potenza, le armi dell'Occidente. Ma lui stesso aveva contribuito a far sì che si cambiassero in odio mortale i sentimenti amichevoli che gli occidentali inizialmente provavano. I suoi successori seguitarono a tener la via sulla quale egli si era messo. Infinitamente più di quel che permettesse la loro potenza, essi avevano preteso di servirsi dei Francesi come uno strumento della loro politica tendente alla dominazione universale. Si era giunti ora all'effetto inevitabile di così assurde tendenze; il superbo impero, il quale per il corso di cinque secoli aveva impedito che le barbare popolazioni asiatiche si riversassero sull'Europa, era caduto, e sulle sue rovine sventolavano le bandiere di una schiera di cavalieri francesi".
Immenso fu il bottino ricavato dal saccheggio: non contando i tesori trafugati, la quarta parte serbata per il futuro imperatore e il noleggio ai Veneziani, ammontò a cinquecentomila marchi che furono distribuiti ai crociati. Tra le prede vanno annoverate parecchie opere d'arte, quali i famosi cavalli di Lisippo che furono trasportati a Venezia nella Basilica di San Marco di cui ancora oggi adornano il pronao.Il sacco di Costantinopoli è una delle più grandi vergogne della storia delle crociate. La cieca devozione, povero alibi della violenza dei conquistatori di Gerusalemme, qui era del tutto assente. Il saccheggio dei latini fu un atto criminale nella violenza e nella rapina, pura follia distruttiva nella sacrilega distruzione di tesori d'arte e cultura. Così descrive Villarduoin, un crociato francese, l'incendio che divorò parte della capitale greca: "Era un fuoco così grande ed orribile che nessuno riusciva a controllarlo o a spegnerlo; e quando i baroni dell'armata videro ciò (...) provarono gran pietà poiché videro le alte chiese e le grandi vie commerciali avvolte dalle fiamme (...) Il fuoco durò otto giorni poiché non poteva essere estinto da nessuno."
"La cronaca di Novgorod ricorda invece che a Santa Sofia i crociati: "distrussero il coro dove erano i sacerdoti, ornato d'argento e di dodici colonne pure queste d'argento; infransero sui muri quattro tavole decorate con icone e la Tavola santa e dodici croci che erano sull'altare, fra le quali dominavano le croci scolpite come alberi, alte più di un uomo(...) Poi s'impadronirono di quaranta calici che erano sull'altare e di candelabri d'argento, dei quali vi era un sì gran numero che era impossibile contarli". Intanto una prostituta si sedeva sul trono del patriarca e cantava ai saccheggiatori ubriachi un'oscena canzone francese".Dopo il saccheggio si nominò una commissione di sei crociati e di sei Veneziani, che doveva scegliere un imperatore di sangue latino e innalzò sul trono di Costantinopoli BALDOVINO di Fiandra; poi furono divise fra i principi crociati le province dell'impero, delle quali la Macedonia, la Tessaglia ed altri territori toccarono al Marchese di Monferrato, l'Acaia a Goffredo di Villehardouin, quelle d'Asia al conte di Blois.

Atene, Sparta, Tebe, Corinto, Nasso e Cefalonia diventarono baronie vassalle del Pontefice; i Veneziani ebbero il Peloponneso, Negroponte, la costa orientale dell'Adriatico, le. coste del Bosforo e della Propontide, moltissime isole dell'Arcipelago, Candia che fu a loro ceduta dal marchese di Monferrato, e tre degli otto quartieri di Costantinopoli.
Per questi nuovi acquisti il doge aggiunse ai suoi titoli quello di "dominus quartae partis et dimidiae totius imperii Romani".
Venezia dopo questa spedizione assume una posizione d'assoluto predominio, diventa signora della "quarta parte e mezzo" dell'impero bizantino, si assicura il possesso nel Mediterraneo orientale, e tutta una serie di scali commerciali; vere e proprie colonie, fra le quali le isole di Creta e Negroponte. Il nuovo stato di prosperità acquisito da Venezia, è sottolineato dalla coniazione del grosso d'argento, seguito più tardi dal ducato, che diventa rapidamente la moneta di riferimento privilegiata dei traffici del Mediterraneo.Questo dramma permise con il crollo dell'impero bizantino e a sue spese, la nascita di due grandi potenze, il regno dei Serbi e quello d'Ungheria. L'impero latino inizierà poi a crollare del tutto nel 1261, sotto l'urto dei Bulgari e degli Slavi oltre che degli stessi ultimi incapaci governanti bizantini pur aiutati dai genovesi e dagli stessi turchi che prima combattevano. Il fatto più strano fu che i nuovi re dei primi due paesi, che stavano (nella decadenza bizantina) ognuno costruendo il proprio regno (Bulgaria e Serbia), furono appoggiati dal Papa. Temeva Roma prima o poi con la presenza veneziana sugli interi Balcani (l'intera costa dalmata e greca, era già della Serenissima) che stringessero un'alleanza o con i tedeschi o con i normanni. In un caso o nell'altro lo Stato della Chiesa veniva a trovarsi in mezzo stritolato da tre parti.
Bisanzio in seguito si libererà dei latini, e sopravviverà per altri 200 anni, ma ormai era finita. I Turchi oltre che conquistarla nel 1453, ne faranno la capitale del loro Stato, cambiandogli anche nome, allo Stato (Turchia) e alla capitale: "Islam-bol" (Istambul) vale a dire "abbondanza dell'Islam".
Papa Innocenzo III, come si è detto, aveva scomunicato i crociati per la presa di Zara ed aveva confermato la scomunica quando la spedizione, invece di dirigersi a Gerusalemme, si era rivolta a Costantinopoli. Però, riuscita l'impresa ed abbattuto l'impero bizantino, il Pontefice capì che dalla nuova istituzione la Santa Sede avrebbe potuto ricevere grandi vantaggi ed essere risolto il secolare scisma d'Oriente e tolse la scomunica: allora il culto latino fu imposto ai Greci e fu creato un nuovo patriarca di Costantinopoli, il quale ricevette il pallio a Roma.
Non era la soluzione definitiva dello scisma orientale, sogno di tanti Pontefici, perché il culto latino in Oriente doveva durare solo pochi decenni, fino alla restaurazione cioè dell'impero bizantino; eppure il nuovo stato di cose veniva ad accrescere enormemente il prestigio del Papato, che, grazie all'attività e la sagacia (ma anche con i dietrofront) di Innocenzo III, era diventato l'arbitro dell'Europa intera.
CROCIATE CONTRO LE SETTE (CATARI ecc.)
Mai, come allora, la Santa Sede era stata così potente: tanto potente da potere rivolgere le armi dei principi contro gli eretici che minacciavano di disgregare la compagine del mondo cattolico. Di questi eretici i più terribili erano i CATARI o Albigesi, (da Albi, perché particolarmente presenti in questa città e in tutta la Linguadoca e Provenza) contro i quali invano avevano decretato misure di rigore Alessandro III nel terzo concilio lateranense del 1179 e Lucio III nel concilio di Verona del 1184.
Gli Albigesi, numerosi nel mezzogiorno della Francia, erano pericolosi non solo per le loro dottrine manichee che minacciavano la distruzione del cristianesimo e la dissoluzione della società, ma anche politicamente per la protezione che accordavano loro i signori del mezzodì, tra cui degni di esser citati il conte di Tolosa RAIMONDO XI e RAIMONDO RUGGERO, visconte di Bèziers. Papa Innocenzo III iniziò una vera e propria crociata contro di loro, che si concluse nel 1229 con uno sterminio di massa)Innocenzo III fin dalla sua assunzione al pontificato s'era preoccupato anche di questo problema: della diffusione delle dottrine degli Albigesi e poiché a poco erano valsi i tribunali dell'Inquisizione istituiti dal suo predecessore aveva incaricato due monaci cistercensi di procedere alla conversione degli eretici con il sistema della predicazione. Ma l'opera dei predicatori procedeva lentamente e dava scarsi risultati, e il Pontefice cominciò a pensare di dover ricorrere alla forza per sradicare la pericolosa eresia.

Per cominciare non esita a dare maggior vigore alla repressione; reclama contro gli eretici sanzioni temporali nei luoghi in cui la loro propaganda ha preso maggior ampiezza.
Importante è quella lettera agli abitanti di Viterbo del 25 marzo 1199 " Poiché in virtù di sanzioni legittime i colpevoli di lesa maestà subiscono la confisca dei beni e sono puniti con la morte mentre ai loro figli si concede la vita per misericordia, tanto più coloro che allontanandosi dalla fede offendono Dio nella persona di Cristo, figlio di Dio, devono essere, dalla censura ecclesiastica, separati dal capo che è il Cristo e privati dei loro beni; poiché è molto più grave offendere la Maestà eterna che quella temporale".
Un paragone pericoloso che porterà alla pena di morte pura e semplice degli eretici.

Quando accadde un fatto di sangue ad Arles, INNOCENZO III, pur riluttante si farà convincere da alcuni monaci francesi complici dei signori del nord a indurlo con informazioni parziali e con insidiosa insistenza, ad aderire al loro punto di vista, inquietante sotto molti aspetti, ed inaugurò contro gli eretici un'azione sistematica di violenza.
Nel gennaio del 1208, a Saint-Gilles, presso Arles, il cardinale Pietro di Castelnau, legato pontificio, fu assassinato da un cavaliere del conte RAIMONDO di Tolosa, che si era rifiutato di restituire alle chiese ciò che aveva sottratto. Fu questo il segnale della crociata che Innocenzo III bandì contro gli Albigesi e i loro protettori, fra i quali era il sunnominato conte di Tolosa che fu scomunicato.
All'appello del Pontefice si rifiutò di aderire re FILIPPO AUGUSTO, ma come scrive uno storico - "rispose l'odio di razza che divideva le province settentrionali dalle meridionali della Francia, rispose il fanatismo popolare, la, cupidigia dei Signori, la speranza di preda; e ben presto tre eserciti furono
scatenati su quelle infelici contrade. Erano capitanati dal DUCA di BORGOGNA, dai CONTI di NOVERA, di AUXERRE, di Ginevra, dai vescovi di Rheims, Sens, Rouen, Autun; ed alla testa di tutti si trovava un crudele e fanatico castellano dei dintorni di Parigi, SIMONE di MONFORT. Il primo olocausto fatto all'ortodossia fu la città di Bèziers. I Crociati se ne impadronirono, ma non sapevano discernere gli eretici dai fedeli. "Uccidete tutti, gridò il ferace legato pontificio, ARNALDO di CITEAUX, Dio conoscerà i suoi".
Affermano alcune fonti storiche, che trentamila perirono in quella carneficina, primo atto dell'inquisizione. Quando Raimondo, non atterrito da quel primo "assaggio" della vendetta papale, si rifiutò di distruggere i suoi castelli, di imporre il lutto ai suoi sudditi, di ridurre a villani i suoi nobili vassalli, la guerra di sterminio ricominciò; e il conte di Tolosa vide il suo territorio invaso da una turpe accozzaglia di fanatici, d'avventurieri, di banditi, vide occupati i suoi feudi, divisi tra i vincitori, gli opulenti suoi vescovadi. Invano PIETRO II D'ARAGONA corse in suo soccorso con i nobili dei Pirenei; la battaglia di Muret (1213), in cui cadde il generoso alleato, segnò la fine dell'indipendenza della Francia, meridionale.
Ciò che non aveva fatto il ferro dei laici, fu compiuto dal "fuoco purificatore dell'inquisizione". Alla fine di quest'orribile tragedia, più di duecentomila furono le vittime immolate alla supremazia sacerdotale.
I "santi" vincitori diventarono i padroni delle ricche baronie della Provenza, e della Linguadoca; alle vedove degli eretici, possessori di nobili feudi, fu imposto di non sposare che francesi.
Sulle cruente rovine dell'indipendenza occitanica trionfò il dogma cattolico, ammutolì la scienza gaia, e la lieta famiglia dei trovatori fu per tutto il mondo disseminata e perseguitata"
L'eresia medievale è erroneamente associata alla mancanza di fede, in realtà l'eresia non nasce dal non credere, ma da un bisogno di credere e di vivere diversamente la propria religione. E' quindi grande la distinzione tra coloro che erano da considerare veramente eretici e gli ortodossi.
Era l'aspirazione di numerosi laici e monaci che volevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli. E questi movimenti evangelici si caratterizzarono per un radicale anticlericalismo che rimetteva in discussione l'esistenza delle strutture e del personale ecclesiastico. E questo diverso modo di vivere la religione, era visto come eresia, cioè come disobbedienza alla Chiesa.
Quindi l'eresia nasceva in coloro che peccavano non contro la "verità" quanto contro l'"autorità", cioè i laici che si arrogavano il diritto di giudicare i chierici.
Tale disobbedienza fu da INNOCENZO III classificata come delitto di natura pubblica con la bolla "Vergentis in senium" del 1199 (l'anno dopo la sua elezione) la quale equiparò l'eresia al delitto di lesa maestà.
Innocenzo assunse un atteggiamento estremamente duro nei confronti delle correnti evangeliche, come i _
VALDESI (o "Poveri di Lione", movimento sorto in Francia alla fine del secolo XII. Promotore fu un mercante di Lione, Pietro Valdo. Poiché rifiutavano di riconoscere la gerarchia ecclesiastica i Valdesi furono condannati come eretici già nel 1180. Le loro idee si diffusero nelle regioni Alpine, nel Delfinato, nella Provenza ed anche in Piemonte e in Lombardia);
i BOGOMIL (che alcuni storici ritengono sia poi originata l'eresia catara. È probabile che il catarismo sia una derivazione di questa setta che fece la sua comparsa nel X secolo in Bulgaria e si diffuse a Costantinopoli alla fine dell'XI secolo);
la PATARIA (movimento politico-religioso soprattutto milanese, di cui abbiamo già accennato in altre pagine milanesi, e che condannava la ricchezza ed il possesso dei beni materiali da parte del clero e predicava il ritorno della chiesa alla sua missione puramente spirituale, non contaminata da interessi);
gli UMILIATI (diffuso soprattutto nella Lombardia, di ispirazione evangelica e pauperistica, che trovava largo ascolto tra gli artigiani Milanesi - Ma si contavano solo a Milano altre 17 sette).

Tutti movimenti che sul piano della dottrina non erano in alcun modo separati dall'ortodossia cattolica. Al contrario Innocenzo III, sarà per molto tempo incapace di replicare e manterrà una posizione relativamente passiva di fronte al Catarismo, che rappresentava invece una reale minaccia sul piano dottrinale.
Il fascino esercitato dalla chiesa catara fu molto forte, e questo fu dovuto al rigore morale che la distingueva dal clero cattolico che era sovente mediocre e corrotto.
Con il canone "Excommunicavimus" del quarto Concilio Lateranense del 1215 (poco prima che Innocenzo III morisse) si pongono le basi per la lotta all'eresia. Argomento principale del Concilio fu, infatti, la riforma della Chiesa minacciata dall'eresia. Considerando le disposizioni che furono formulate dal Concilio ci si rende conto che non ci fu nessuna reale innovazione rispetto alle risoluzioni precedenti. Il risultato fu la fusione di vecchie disposizioni in materia di eresia. Anche i metodi per fronteggiare l'eresia restano immutati, simili in tutto a quelli precedenti il 1200. D'importanza fondamentale è l'atteggiamento del Concilio per stabilire la discriminante che induceva a condannare una persona come eretico. Nelle disposizioni precedenti erano stati elencati come caratteri distintivi dell'eresia la predicazione non autorizzata e la diffusione di false dottrine sui sacramenti, pur restando valido il libero arbitrio dei vescovi nel giudicare i vari casi. Il Concilio permise una confessione di fede e giudicò eresie "tutte quelle" che la contraddicevano. Fu il dogma il criterio usato per la distinzione tra ortodossia ed eresia. Il Concilio condannò inoltre la predicazione non autorizzata e l'istituzione di (fastidiosi) nuovi ordini e movimenti.
Alcuni di questi movimenti "I Servi di Maria ", che erano aggregazioni di laici molto vicine agli "Ordini mendicanti" e i "Fraticelli", che era un ramo dissidente dei "Francescani". Anche le donne iniziarono a aderire alla protesta religiosa, formando il gruppo delle "Beghine"; né laiche né religiose, esse suscitarono sospetto e subirono, tra 1290 e 1310, accuse di eresia.
(BIBLIOGRAFIA: ERETICI ED ERESIE MEDIEVALI di G.G. Merlo - CONTRO GLI ERETICI di G.G. Merlo - MOVIMENTI RELIGIOSI NEL MEDIOEVO di H. Grundmann)
Lasciamo gli eretici, e torniamo invece alla (mai stata così) potente TEOCRAZIA PAPALE
mentre in Germania c'è la lotta per il potere fra Corrado, Filippo e il piccolo Federico II;
a ingerirsi è INNOCENZO III, con qualche delusione e infine il successo personale.
Un po' meno successo nella riforma della Chiesa; e sui fastidiosi seguaci di
San Domenico e San Francesco.
Dalla TEOCRAZIA PAPALE alla MORTE DI INNOCENZO III

é il periodo dall'anno 1201 al 1216 > > >
vedi anche in "Storia di civiltà"
I NORMANNI IN ITALIA
Il meridione d’Italia dai Normanni-Svevi agli Angioini
Sullo sfondo della lotta di Federico II di Svevia con il Papato > > >