VERSO LA GALLIA TRANSALPINA - I TEUTONI E I CIMBRI - CAMPI RAUDII

CONQUISTA DELLA GALLIA NARBONESE - I CIMBRI E I TEUTONI - BATTAGLIA DI NORCIA - MARCO GIUNIO SFILANO NELLA GALLIA TRANSALPINA - GUERRA CONTRO I TIGURINI - RIVOLTA DEI TETTOSAGI - QUINTO SERVILIO CEPIONE ESPUGNA TOLOSA - BATTAGLIA DI ARAUSIO - PUNIZIONE DI CEPIONE - MARIO NELLA PROVINCIA NARBONESE - I TEUTONI E GLI AMBRONI SCONFITTI AD AQUAE SEXTIAE - CATULO SULLE ALPI - MARIO SCONFIGGE I CIMBRI AI CAMPI RAUDII - TRIONFO DI MARIO
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CONQUISTA DELLA PROVINCIA NARBONESE

Abbiamo visto come nell'anno 125 i Massilioti (dell'antichissima Massalia - od. Marsiglia), assaliti dai Salluvi, chiamassero in proprio soccorso i Romani. Colse quell'occasione per accorrere in loro aiuto il console MARCO FULVIO FLACCO, lieto di potersi allontanare da Roma dopo lo scacco subito dalle sue rogazioni in favore dei Latini e degli Italici.

Massalia era antica e fedele alleata dei Romani ed a questi interessava mantenersela amica perché rappresentava una sentinella che vigilava le mosse delle popolazioni celtiche che aveva alle spalle, e costituiva un punto d'appoggio e di rifornimento delle armate veleggianti tra 1' Italia e la Spagna.
FULVIO FLACCO combatté felicemente contro i Salluvi, li sconfisse e, ritornato a Roma, trionfò su di loro. Successe a lui al comando dell'esercito in quella guerra CAJO SESTIO, il quale riportò segnalate vittorie sui Salluvi, li sottomise e a nord-ovest di Massalia costruì una fortezza, che da lui prese il nome "Aquae Sextiae" (anno 123 a.C.)

Ma con la sottomissione dei Salluvi la guerra nella Gallia Transalpina non ebbe proprio termine, anzi era l'inizio di tante e tante altre guerre contro altre tribù galliche, ligure e alpine (Allobrogi, Arverni, Salii, Voconzi ecc.).

I Romani volevano aprirsi una comunicazione terrestre con le loro province spagnole lungo il litorale del "Sinus Gallicus" o attraverso la valle del Rodano. In quest'ultima regione Annibale aveva tracciato la via quando dalla Spagna si era recato in Italia, attraverso le Api.
Il territorio era abitato da fierissime popolazioni galliche fra le quali erano potenti gli Allobrogi. Presso di questi si era rifugiato TUTOMOTULO, re dei Salluvi, e Roma approfittò del rifiuto opposto di consegnare, l'ospite per dichiarare la guerra agli Allobrogi.
La guerra però non fu soltanto combattuta dalle armi degli Allobrogi e quelle della repubblica.
Roma sapendo che gli Allobrogi erano nemici degli Edui, che abitavano fra 1'Arar e il Liger, si procurò accortamente il loro aiuto. A loro volta gli Allobrogi riuscirono a procurarsi l'alleanza di una fortissima popolazione celtica, quella degli Arverni, che erano stanziati a sud degli Edui e che non vedevano di buon occhio la comparsa dei Romani nella Gallia Transalpina.

BITUITO, re degli Arverni, mandò a dire a Roma di non occuparsi di Tutomotulo, che era una questione interna del popolo che abitava al di là delle Alpi. Ma avendo ottenuta una risposta negativa allora armò un poderoso esercito di duecentomila uomini e marciò nel 119 contro le legioni del console CNEO DOMIZIO ENOBARBO.
Si narra che Bituito, vedendo le poche truppe romane, esclamò che quelle non erano sufficienti nemmeno a sfamare una sola volta i suoi cani.

La battaglia tra gli Arverni e i Romani avvenne nelle vicinanze del villaggio di Vindalio (oggi Aigues) e ai barbari che combattevano ancora come i barbari, nonostante la grande superiorità numerica gli toccò una sanguinosa sconfitta e messi in fuga.

Rimanevano gli Allobrogi. Contro di questi, che erano stati rinforzati dagli Arverni comandati personalmente da Bituito, dopo la battaglia di Vindalio, andò il console LUCIO FABIO MASSIMO EMILIANO, che incontrò ed attaccò il nemico sulle rive dell'Isara (Isère) (anno 120 a.C.)
Allobrogi ed Arverni furono completamente disfatti e subirono perdite gravissime: centomila barbari trovarono la morte sul campo di battaglia e nelle acque del fiume.
Il fiero re BITUITO, invitato dal console ad un convegno, fu fatto prigioniero e inviato a Roma. Il Senato Romano - e questo va a suo onore - biasimò la condotta di Domizio, ma invece di rimandare libero il prigioniero che il tradimento aveva fatto cadere in potere dei Romani, lo fece chiudere nella rocca di Alba, dove il re di un territorio immenso, nell'angusta prigione non tardò a morire.
Dopo queste due strepitose vittorie romane, gli Allobrogi, persero la loro libertà e gli Arverni buona parte del loro territorio.
La regione conquistata dai legionari, compresa tra il mare e le Cevenne, la foce del Rodano e il lago Lemano, fu dichiarata provincia romana con il nome di Gallia Braccata, dalle brache che i Galli erano soliti vestire, o Gallia Narbonese dalla città di Narbona, che divenne capitale della nuova provincia e che nel 118 fu costituita in colonia romana col nome di Narbo Martius.

I CIMBRI E I TEUTONI

Conquistata la Provincia Narbonese, nel 115, dal Rodano ai Pirenei fu costruita una via che in onore del vincitore degli Arverni prese il nome di Domizia.
Due anni dopo i Romani facevano la conoscenza di due popoli barbari che tante preoccupazioni e sconfitte dovevano causare alla repubblica: i Cimbri e i Teutoni.
Alcuni, fino a pochi anni fa, credevano che fossero popolazioni di stirpe celtica, ma oggi, è fuori di dubbio che si tratti di popoli di razza germanica.
I Cimbri erano popolazioni germaniche che negli anni precedenti avevano abbandonato la regione baltica del Chersoneso Cimbrico (od. Jutland sett.) ed avevano invaso con altre tribù celtiche e germaniche (amboni, taurini, e in particolare i Teutoni, stanziati nella Germania settentrionale) la regione danubiana occidentale.

Erano di statura gigantesca; avevano facce angolose, aspetto truce e capelli biondastri; portavano armature di ferro, lunghe lance a duplice punta, elmi adorni di lunghi cimieri e spade pesanti; la loro ferocia era terribile e strani i costumi; erano soliti andare alla guerra accompagnati dalle loro donne che spesso prendevano parte alle battaglie e si mostravano non meno valorose e crudeli degli uomini.
Sospinti forse da altri popoli o dal bisogno di trovare terre più fertili e più ricche, i Cimbri e i Teutoni cercarono prima di invadere il territorio dei Belgi, ma, avendo questi difeso valorosamente i propri confini, si riversarono (correva l'anno 113 a.C.), a mezzogiorno nelle terre dei Boi Germanici. Tendevano verso i territori dove già qualche anno prima erano giunti i Romani. Infatti, nel 116, un esercito della repubblica, capitanato dal console MARCO EMILIO SCAURO, era penetrato nella Carnia (o Norico, od. Austria centrale) e aveva ottenuto delle vittorie che al console avevano fruttato il trionfo a Roma nel 115 a.C.
Non ebbe invece la stessa fortuna l'anno dopo, nel 114, il console C. PORCIO CATONE, quando invase le terre degli Scordisci, popolazione di stirpe celtica, comprendenti anche elementi Traci ed Illiri, che abitavano l'odierna Serbia settentrionale, stanziati tra i corsi inferiori della Moravia e della Sava cioè nelle attuali regioni limitrofe della Bosnia e dell' Ungheria.
Catone subì una cocente sconfitta.

Nel 113 i Taurisci, che abitavano nel nord della Carnia e che due anni prima, tramite di EMILIO SCAURO, avevano stretto amicizia con Roma, assaliti dai Cimbri e dai Teutoni, invocarono l'aiuto del console CNEO PAPIRIO CARBONE che si trovava con le sue truppe nei pressi di quella regione.
Carbone corse in loro aiuto, ma la sorte delle armi gli fu nettamente contraria; ingaggiata la battaglia con i Cimbri, presso Noreia, nel Norico, fu sconfitto; dovette ringraziare una pioggia torrenziale che improvvisamente si era scatenata durante la battaglia, se la sconfitta non si mutò in completo disastro.
I Cimbri e i Teutoni potevano senza difficoltà penetrare in Italia per i valichi delle Alpi Carniche e Giulie, ma osarono poche volte, tanta era la fama della potenza di Roma e dei suoi eserciti che incuteva rispetto agli stessi vinti.
Tuttavia, i Cimbri, diventati più pacifici, chiesero ripetutamente ai romani, terre del Norico, su cui insediarsi stabilmente e dedicarsi all'agricoltura (dimostrando così il loro mutato carattere non più nomade).

I Barbari si rivolsero ad occidente e per tre anni consecutivi le regioni della Gallia furono percorse dai Cimbri e dai Teutoni, imitati poi dagli Elvezi.
Ed ecco che i barbari, che avevano avuto a che fare già con i Romani di là dalle Alpi orientali, si vennero a trovare nuovamente a contatto delle legioni della repubblica oltre le Alpi settentrionali ed occidentali. Questi barbari ora non chiedevano più, ma pretendevano nientemeno che Roma cedesse loro dei territori, ma in compenso offrivano aiuto all'esercito romano.

Nel 109 essi comunicarono le loro pretese al console MARCO GIUNIO SILVANO, ma questi anziché trattare con i barbari, marciò contro di loro. Disgraziatamente le sue legioni sopraffatte dal numero furono sconfitte.
I Cimbri allora si rivolsero direttamente al Senato, al quale spedirono ambasciatori; ma neppure questo accettò le loro proposte.
Si deve credere che i Cimbri e i Teutoni non si sentissero abbastanza forti o temessero di esser battuti se, pur avendo avuto ragione, con le armi, di SILANO, non osarono invadere la Provincia Narbonese.

Più audaci di loro furono gli Elvetici Tigurini che diedero molestie al territorio della provincia provocando nel 647 1' intervento del console C. CASSIO LONGINO; il quale, nei primi scontri con gli Elvetici, che erano comandati dal loro re DIVICONE, ebbe lui il sopravvento, ma, lasciatosi imprudentemente attirare in un'insidia mentre li inseguiva, fu sconfitto ed ucciso.
I superstiti del suo esercito per aver libera la ritirata dovettero sottostare a patti vergognosi..
Alla sconfitta di Longino si aggiunse la rivolta dei TETTOSAGI che erano popoli della Provincia Nabornese, il cui presidio romano fu fatto prigioniero.
A prendere il posto del defunto Longino e a domare la rivolta che prendeva proporzioni maggiori, il Senato spedì nel 106 a.C. il console QUINTO SERVILIO CEPIONE, il nobile che aveva abolita la legge giudiziaria di Gracco.
Cepione marciò su Tolosa, capitale dei Tettosagi, la conquistò per tradimento, con particolare durezza trattò poi gli abitanti, seguito da un furioso saccheggio della città; il tempio di questa fu spogliato e gli ingenti tesori contenuti furono inviati a Massaia con una carovana. Ma lungo la via, la scorta fu assalita da una banda di ladroni, la carovana fu sterminata e i tesori finirono nelle loro mani.

Erano ricomparsi nel frattempo i Cimbri e i Teutoni, e il Senato, non credendo sufficienti le truppe della Narbonese ad arrestare l'avanzata dei barbari, inviò sul Rodano un altro esercito al comando del console del 105 a.C.,CNEO MANLIO MASSIMO.
Ma il provvedimento preso per custodire con maggiore probabilità di successo le frontiere della provincia non ottenne i risultati che il Senato sperava.
Si rinnovò nella Gallia Transalpina, per colpa dei capi militari, il malumore che, alcuni secoli prima -sotto le mura di Vejo- la gelosia dei tribuni aveva causato alle armi romane.
Non correvano buoni rapporti tra CEPIONE e MANLIO; il primo non aveva visto di buon occhio l'arrivo del secondo. Invece di unire le loro forze ed agire d'accordo contro i minacciosi nemici della loro patria i due consoli, mirando al proprio interesse, erano gelosi l'uno dell'altro e ciascuno tentava di conseguire prima dell'altro la vittoria.
La vittoria però non poteva arridere alle armi romane guidate da simili uomini in lotta tra loro. La sconfitta fu gravissima. Il primo ad essere sorpreso e battuto dai barbari fu il legato MARCO AURELIO SCAURO che fu fatto prigioniero ed ucciso, poi fu la volta di CEPIONE e di MANLIO. Il primo si era accampato sul Rodano presso Arausio (Orange) e assalito da forze nemiche superiori alle sue, gli toccò una drammatica disfatta; seguita da quella del collega non meno disastrosa.

Ottantamila soldati Romani lasciarono la vita in quella duplice sconfitta e pochissimi furono i superstiti, ma i due consoli si salvarono.
La notizia del grave rovescio più che dolore provocò in Roma immenso sdegno, essendosi facilmente saputa la causa della sconfitta, dovuta principalmente al proconsole CEPIONE. I senatori cercarono di calmare l'ira del popolo, ma furono impotenti. Il popolo vedeva in SERVILIO CEPIONE, oltre che il responsabile del massacro, l'uomo politico ostinatamente avverso alla plebe, l' iniquo magistrato che aveva ridato al Senato l'autorità giudiziaria. Fu perciò inesorabile contro di lui. I tribuni proposero che a Cepione fosse tolto l'imperio e di confiscargli i beni e l'assemblea popolare approvò unanimemente la proposta dei suoi rappresentanti.

Né la punizione si limitò a questo; dietro proposta del tribuno L. APPULEIO SATURNINO, fu decretato che Cepione fosse scacciato dal Senato.
Condannato alla pena capitale, era riuscito a salvarsi fuggendo da Roma.

Per la seconda volta dopo la morte dei Gracchi erano esemplarmente punite le inique colpe dei grandi e per la seconda in seno al popolo rinascevano le virtù dell'antica Roma e si ergeva minacciosa e tonante la voce della dignità romana ignominiosamente offesa dall'oligarchia imbelle (il curioso è che a fomentare la plebe (cioè a strumentalizzarla) era proprio l'oligarchia.
(queste manovre, le leggeremo nel prossimo capitolo).

MARIO NELLA PROVINCIA NARBONESE

Placato lo sdegno del popolo, si pensò a evitare il pericolo di un'invasione barbarica dalla parte delle Alpi.
Non mancavano a Roma valenti generali. C'era CECILIO METELLO, che godeva gran fama di condottiero, e tutti sapevano come aveva bene operato nella guerra di Giugurta. Ma Cecilio Metello era un nobile e non spirava buon vento per i nobili in quel tempo a Roma. Il popolo aveva ripreso animo; era stato il primo ad alzare la voce contro i responsabili delle sconfitte nella Transalpina; aveva invocata ed ottenuta la punizione di Cepione; e voleva decidere il popolo la direzione della guerra.

Né al Senato e ai grandi, del resto, dispiaceva che la responsabilità di avvenimenti che si prevedevano di estrema importanza pesasse tutta sulle spalle del popolo. Fu per questo, senza dubbio, che non protestò quando si pensò di affidare a MARIO la direzione della guerra nella Provincia Narbonese con l'incarico di console. E motivi di protesta in verità non ne mancavano: per legge, infatti, non poteva esser rieletto console un cittadino se non dopo dieci anni del suo precedente consolato; inoltre il candidato non era eleggibile se non si presentava all'assemblea dei comizi. Quindi Mario non si trovava ad avere i requisiti richiesti dalle leggi; nel periodo delle elezioni egli era in Africa a dare assetto -come abbiamo già visto in altre pagine- alla Numidia, e non erano trascorsi tre anni dal suo precedente consolato.
Il Senato lasciò tuttavia violare le leggi e CAJO MARIO, durante la sua assenza da Roma, fu dai comizi eletto console per l'anno 103 e scelto al governo della guerra.

Doppio compito aveva Mario: ricondurre all'obbedienza i Tettosagi e fronteggiare Teutoni e Cimbri. Quando però lui giunse nella Provincia Narbonese questi ultimi nemici si erano allontanati. Ancora una volta rifiutavano di approfittare della loro vittoria, non spingendosi oltre né tanto meno si mettevano sulla via d'Italia. I Teutoni si erano inoltrati verso la Gallia belgica, e i Cimbri si erano diretti verso la Spagna, dove però dovevano incontrare un ostacolo insormontabile nella decisa ed efficace resistenza dei Celtiberi e delle milizie di FULVIO FIACCO.
Rimaneva soltanto da domare la ribellione dei Tettosagi che erano sorti di nuovo in armi dopo il disastro di Arausio.
Ai Tettosagi pensò LUCIO CORNELLO SILLA che era nell'esercito di Mario con il grado di luogotenente e che in brevissimo tempo sottomise i ribelli catturando il loro capo Copillo.
Giungendo nella Gallia Transalpina, CAJO MARIO si era accampato sul Rodano alla confluenza dell'Isara. Approfittando della lontananza dei Cimbri e dei Teutoni, per rendere più facile e rapido il trasporto delle vettovaglie, che sulla, via fluviale presentava molte difficoltà a causa della sabbia depositata sulla foce del Rodano, fece scavare un canale che fu chiamato fossa mariana; poi, domata la rivolta dei Tettosagi, per far sì che le truppe non s'infiacchissero nell'ozio, le mantenne in continuo esercizio, abituandole a marce faticose e a duri lavori.
In previsione di un ritorno dei barbari, apportò all'esercito delle importantissime riforme, rese necessarie dalla maniera di combattere dei Cimbri e dei Teutoni.
Siccome gli assalti di questi barbari erano impetuosi, ma di breve durata, lo schieramento in "manipoli" disposti con larghi intervalli per dar campo ai "veliti" di manovrarvi era dannoso non presentando un fronte saldo e compatto. Ad ovviare agli inconvenienti dello schieramento, Mario divise la legione in dieci coorti di seicento uomini ciascuna, formate di "astati, principi, trari, veliti". Ogni coorte pertanto veniva ad essere una piccola legione e come per consacrarne l'unità Mario la dotò di un'aquila d'argento.

Portò inoltre miglioramenti nel modo di portare il bagaglio, fornì le truppe di speciali giavellotti e diede a ciascun soldato uno scudo rotondo e più leggiero.

Nel 103, essendo morto il console L. Aurelio Oreste, Mario, poiché la frontiera era sicura per l'assenza dei barbari, andò a Roma a presiedere i comizi consolare e fu riconfermato console per la terza volta.
Durante il terzo consolato di Mario, Cimbri e Teutoni ricomparvero alle frontiere risoluti questa volta di passare le Alpi e calare in Italia.
I Cimbri, provenienti dalla Spagna, si diressero prima nella regione degli Elvezi, poi nella Rezia e infine su quel territorio che già conoscevano bene, cioè nel Norico allo scopo di passare nella Gallia Cisalpina per la valle dell'Adige; i Teutoni, che scendevano invece dal paese dei Belgi, puntarono invece sulla Provincia Narbonese per penetrare in Italia dai valichi delle Alpi Marittime. A questi ultimi si erano uniti gli Ambroni.

Le orde degli Ambroni e dei Teutoni procedevano separatamente a breve distanza l'una dall'altra e andavano stuzzicando a battaglia i Romani.
Mario però evitava sempre il grande scontro. Nell'intento di abituare le sue truppe al contatto di quei fierissimi barbari, egli prendeva tempo e rimaneva saldamente chiuso nel suo campo. Tre volte questo fu impetuosamente attaccato dal nemico, ma tutte le volte i suoi assalti furono spezzati dalla risoluta difesa dei legionari.
Allora i barbari si convinsero che i Romani non osavano misurarsi in campo aperto e decisero di proseguire nella loro avanzata.
Passando davanti all'accampamento di Mario, beffeggiavano i Romani chiamandoli vili e per schernirli maggiormente chiedevano, che se volevano inviare notizie alle loro mogli che si sarebbero presa cura dì portarle loro stessi a Roma.
Mario lasciò che Ambroni e Teutoni passassero, poi levò il campo e li seguì cautamente fino ad Aquae Sextiae (odierna Aix en Provence) e qui si fermò sopra un'altura che dominava gli accampamenti degli Ambroni, aspettando il momento opportuno per assalirli.
Gli Ambroni non si prendevano nessuna cura dei Romani, considerandoli ormai codardi ed incapaci di un'azione risoluta.
Quando Mario vide che si erano sparsi nel piano, ordinò alle sue legioni di assalirli. I Romani calarono nella pianura ed il loro attacco fu così fulmineo ed impetuoso, che gli Ambroni colti così di sorpresa non ebbero nemmeno il tempo di disporsi secondo un criterio e più che una battaglia fu un macello.

Quelli che erano scampati alla strage si asserragliarono nell'accampamento e qui opposero una fiera resistenza. Anche le donne presero parte al combattimento e contesero a palmo a palmo il terreno, insieme con i loro uomini, lottando con una ferocia di belve.
Alla fine il campo fu assalito con pari violenza e fu completato lo sterminio di questi primi nemici; ma rimanevano i Teutoni che si trovavano a non molta distanza. Per non farsi sorprendere da questi ultimi, il console ritirò le sue truppe nell'altura dalla quale era disceso, e lì passò la notte.

Durante questa, si sentì il rumore di un esercito in marcia: erano i Teutoni che avanzavano; ma resi prudenti dalla sconfitta dei compagni, non osarono attaccare le legioni romane e rimasero per due giorni al piano, aspettando ma questa volta ben organizzati e ben disposti, che il nemico scendesse a ingaggiare battaglia.
Sperava Mario di poter cogliere anche questa volta i barbari alla sprovvista, ma, vedendo che i Teutoni vigilavano ed erano sempre pronti a riceverli, stanco di attendere, schierò il suo esercito sull'altura quindi inviò la cavalleria a stuzzicarli con 1' ordine che, dopo la prima scaramuccia, di simulare la fuga in modo da trascinarseli dietro nel luogo dove lui aveva preparato la trappola.

I barbari caddero nell'insidia; assaliti dai cavalieri, resistettero all'urto; avendo poi questi girato le spalle e credendo di averli messi in fuga, si diedero ad inseguirli disordinatamente su per le pendici dell'altura.
In cima c'era MARIO con il suo esercito, mentre in un bosco più a valle si era nascosto M. MARCELLO con tremila soldati scelti, che doveva prima lasciarli passare, poi piombare alle spalle del nemico a battaglia ingaggiata.

Il piano funzionò come il generale romano aveva previsto. Le sue truppe iniziarono facilmente a respingere dall'altura i barbari, fu ingaggiata la "finta" battaglia, ma a quel punto dal bosco uscirono gli uomini di Marcello attaccando alle spalle i nemici, e sbaragliati prima questi, calarono tutti insieme impetuosamente nella pianura contro il resto dei Teutoni che si difesero accanitamente, ma, incapaci di tener testa a lungo a schiere così bene ordinate e così forti, furono alla fine sbaragliati anche questi nel loro campo.
Durante la battaglia, vedendo che le cose volgevano male per i suoi, TEUTOBODO, re dei Teutoni, si era dato alla fuga; ma i suoi stessi uomini, sdegnati dalla viltà del loro capo, lo inseguirono, lo presero e lo consegnarono ai Romani.
Gli storici sono discordi sulle cifre delle perdite subite dagli Ambroni e dai Teutoni nelle due memorabili battaglie. Dovettero senza dubbio essere enormi ed è da considerarsi inferiore a quella vera la cifra trasmessaci da Plutarco, il quale fa ascendere il numero dei barbari morti a centomila.
Fu così grande la strage dei nemici che il luogo dove si svolsero le battaglie conservò per lungo tempo il nome di "campi putridi", da cui forse ha origine il nome di Pourrières con cui oggi è chiamato un villaggio che sorge in quella località.

Rimanevano i Cimbri. Contro di loro il Senato aveva mandato l'esercito guidato dal console collega di Mario, CAJO LUTAZIO CATULO, che si era messo in marcia per incontrarli nei valichi dell'Alto Adige.
Questo secondo esercito non ebbe però la fortuna delle legioni comandate da Mario. Mentre queste combattevano contro gli Ambroni ed i Teutoni e li sconfiggevano ad Aquae Sextiae, quelle altre erano messe in rotta dai Cimbri, forti di oltre duecentomila uomini, comandati dai capi tribù BOIORICE, LUGIO, CLAUDICO e CESORIGE.
LUTAZIO CATULO tentò di arrestare sull'Adige l'avanzata dei barbari, ma non vi riuscì e fu costretto per non subire altre e più dolorose perdite a ritirarsi sulla riva destra del Po, lasciando in balia del nemico tutta la Gallia Transpadana; dal territorio Adige veronese, fino alla Lombardia.
Fortunatamente i Cimbri non tentarono di andare a sud e passare il fiume Po: verso est c'era una vasta pianura si estendeva davanti a loro, ricca e fertile; il cui clima non era rigido come quello dei paesi del nord da dove provenivano. Probabilmente non miravano a Roma, ma desideravano solo una nuova terra che avrebbe offerto abbondanza di prede e di raccolti; e non vi era regione migliore come quella dove ora si trovavano (od. Verona, Brescia, Milano, Novara). I Cimbri rimasero dunque a svernare nella Transpadana nell'inverno del 102-101.
Forse uno dei motivi che li consigliò a non proseguire nell'avanzata fu la notizia della strage dei loro compagni, che, senza dubbio, presto dovette giungere all'orecchio. Scrive PLUTARCO che i Cimbri non seppero della sconfitta di Aquae Sextiae che nell'estate seguente, quando s'incontrarono con MARIO e videro il re Teutobodo prigioniero; ma è da escludersi, e difficile accettare l'idea che i Cimbri rimanessero all'oscuro di un avvenimento così importante svoltosi in una regione così vicina a quella dove essi si trovavano, che, di fatto, era caduta da qualche tempo nelle loro mani (Elvezia, Rezia, Norico, e alta valle dell'Adige).

Dunque, è più credibile, che l'eco della disfatta giunse ai Cimbri, come rapidamente giunse a MARIO la notizia delle sconfitte del suo collega CATULO, e lo stesso vincitore di Aquae Sextiae lasciò il territorio del Rodano e si affrettò ad andare in soccorso del console, rifugiatosi -come abbiamo detto- sulla riva destra del Po.
Valicate le Alpi Marittime e attraversato il paese dei Liguri, Mario si congiunse a Catulo nella primavera del 101 a.C.
Saccheggiato intanto il territorio invaso, i Cimbri, forse da Milano o da Novara, avevano ripreso la marcia verso l'odierno Piemonte con lo scopo di farvi altre prede o di passare a monte del Po, dove in minori erano le difficoltà. Ma la terribile orda non era la sola a marciare; Mario con le sue truppe, che, unite a quelle del collega, non superavano i cinquantamila uomini, era passato sulla sinistra del fiume e seguiva lentamente e prudentemente i barbari aspettando un'occasione propizia per battersi.
La grande battaglia avvenne il 30 luglio del 101 presso Vercelli, in una località che poi prese il nome di "Campi raudii".
I Cimbri erano una moltitudine infinita oltre che terribile, che dava l'impressione che avrebbe schiacciato al primo urto le legioni di Roma che la fronteggiava; dietro l'orda della cavalleria e delle fanterie dei barbari su carri da battaglia, simili a quelli usati dai Galli, vi erano le donne cimbre con i loro figlioletti, pronte a soccorrere i loro uomini in caso di bisogno e a piombare sul nemico rotto per rendere maggiore lo sbaraglio.
L'esercito di Mario era schierato con le poche truppe di Lutazio Catulo al centro e i veterani delle Aquae Sextiae alle ali.
I primi ad assalire furono i Cimbri, che con orribili urli si lanciarono contro i legionari; ma il loro poderoso ma disordinato urto, s'infranse sul compatto fronte romano, che, respinto questo primo assalto, passò all'offensiva con audace determinazione. La battaglia fu aspra, lunga e feroce; i barbari nonostante quattro volte superiori di numero, alla fine, subirono una sconfitta disastrosa, mentre per i romani fu una vittoria memorabile.
Circondate dai legionari, le donne barbare - si narra - implorarono i vincitori di risparmiarle, inutilmente, e allora per non cadere in mano dei nemici, con le armi che avevano usato combattendo contro i Romani uccisero i propri figli e con le stesse armi si diedero la morte.
Centocinquantamila Cimbri furono uccisi in quella giornata e fra loro BOIORICE e LUGIO ; gli altri due capi, CLAUDICO e CESORIGE, furono fatti prigionieri, insieme con altri sessantamila uomini.
Mario aveva salvato 1'Italia dalla più terribile delle invasioni.
La notizia della vittoria, giunta a Roma, suscitò un entusiasmo indescrivibile. I1 Senato, quantunque nemico di Mario, lo proclamò, dopo Romolo e Camillo, terzo fondatore di Roma e gli decretò due trionfi, uno sui Teutoni e gli Ambroni, un altro sui Cimbri.
Mario però n'accettò uno solo e volle con sé negli onori del trionfo anche Catulo.
A perpetuare il ricordo delle grandi vittorie con il bottino sottratto ai nemici CATULO innalzò un portico e CAJO MARIO un tempio all'Onore e alla Virtù, che purtroppo in quei tempi di corruzione, non fu frequentato che da pochi.

Proprio per quest'ultimo motivo, mentre MARIO e CATULO nel 104 a.C., iniziavano a combattere e a fermare le invasioni barbare, nell'Italia alleata e nella stessa Roma, senza onore e senza virtù, trionfava la demagogia e iniziava una seconda guerra servile e quella rivolta agli stessi alleati di Roma.

I fatti li troviamo nella prossima puntata…

…periodo dall'anno 104 all'anno 88 a.C. > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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