ANNI 1261 - 1266

URBANO IV - CLEMENTE IV - MANFREDI - SPEDIZ. ANGIOINA


ELEZIONE DI URBANO IV - POLITICA DEL PONTEFICE VERSO MANFREDI - CARLO D'ANGIÒ - TRATTATIVE FRA URBANO E L'ANGIOINO - MANFREDI PORTA, LE ARMI CONTRO LO STATO DELLA CHIESA -MORTE DI URBANO IV ED ELEZIONE DI CLEMENTE IV - PREPARATIVI DI CARLO I D'ANGIÒ PER LA SPEDIZIONE NELL'ITALIA MERIDIONALE - CARLO D'ANGIÒ A ROMA: RIVESTITO DELLA DIGNITÀ DI SENATORE; SUO ACCORDO COL PONTEFICE PER L' INVESTITURA - L'ESERCITO DI CARLO SCENDE IN ITALIA TENSIONE DEI RAPPORTI TRA L'ANGIOINO E CLEMENTE IV - INCORONAZIONE DI CARLO D'ANGIÒ E BEATRICE - PREPARATIVI DI MANFREDI PER LA DIFESA - CARLO MUOVE ALLA VOLTA DEL MEZZOGIORNO - ABBANDONO DEL PONTE DI CEPERANO E PRESA DI S. GERMANO - BATTAGLIA DI BENEVENTO E MORTE DI MANFREDI - CARLO D'ANGIÒ A NAPOLI - INIZIO DELLA TIRANNIDE ANGIOINA - DOLOROSE VICENDE DELLA REGINA ELENA -PRIGIONIA E MORTE DELLA VEDOVA E DEI FIGLI MASCHI DI RE MANFREDI
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IL PONTIFICATO DI URBANO IV

Dopo quattro mesi dalla morte di ALESSANDRO IV, il 29 agosto del 1261, il collegio cardinalizio; formato di otto membri, non essendo riuscito a far convergere i voti su uno di loro, stabilì di dare la tiara pontificale a un prelato non cardinale ed elesse Papa il francese IACQUES PANTALEON nato a Troyes nella Champagne nel 1220, patriarca di Gerusalemme, uscito da famiglia di bassa condizione ma fornito di grande ingegno, pieno di profonda dottrina e dotato di straordinaria energia (morirà a Perugia tre anni dopo, ma fece in tempo a sconvolgere l'Italia, perché poco prima di morire chiamando gli Angioini, questi anche senza di lui non si tirarono indietro)

Il nuovo Pontefice, che prese il nome di URBANO IV, fin dall'inizio del suo pontificato si mostrò nemico di Manfredi e continuatore della politica dei suoi predecessori. Ordinò, infatti, allo svevo di richiamare i Saraceni che, durante la Santa Sede vacante, erano penetrati nella campagna romana; bandì contro il re di Sicilia una crociata; nominò capo delle milizie papali, fra cui arruolò tutti i fuorusciti del mezzogiorno, RUGGERO di SANSEVERINO, acerrimo nemico di Manfredi; cercò di dissuadere GIACOMO D' ARAGONA di dare in moglie al figlio PEDRO la sveva COSTANZA (figlia di Manfredi); e infine, il 6 aprile del 1262, rinnovata la scomunica contro il figlio di Federico, lo citò a comparirgli dinanzi per giustificarsi delle gravissime colpe di cui era accusato; che come quelle dei suoi predecessori erano tutte false, infamanti, e dato che colpivano anche la cultura, i commerci, la mondanità, le domestiche gioie, i diletti, erano anche fuori del tempo, retrograde. Tuttavia le accuse verso la "lasciva corte", erano che in quella, si "rovinavano le genti". Ma oltre le lettere papali c'erano i predicatori, i flagellanti, a spargere il terrore indicando il castigo divino sull'intera umanità, corrotta, da un insopportabile sovrano, e che quindi era "meritevole schiacciarlo".

Ma URBANO IV ben sapeva che le armi spirituali non erano sufficienti a debellare MANFREDI. Convinto che occorreva suscitare contro lo svevo un competitore valoroso, potente, ambizioso, che potesse con le sue forze togliere il regno al rivale, capeggiare il Guelfismo e mantenersi devoto alla Santa Sede, il Pontefice posò lo sguardo su CARLO D'ANGIÒ, del quale, nel 1248, in occasione della spedizione di Luigi IX in Egitto aveva ammirato il coraggio, il valore e la costanza.

CARLO era l'uomo che, più d'ogni altro, avrebbe potuto giovare alle trame della Curia romana contro Manfredi, sebbene non fosse di tal natura da rimanere, dopo il successo, assolutamente ligio ai voleri del Papato.
"Saggio, di sano consiglio e prode in arme - lo descrive il Villani - e aspro e molto temuto e riguardato da tutti i re del mondo, magnanimo e d'alti intendimenti nel fare ogni grande impresa, sicuro, in ogni avversità, fermo, e veritiero d'ogni sua promessa, poco parlante e molto adoperante, non rideva quasi mai o pochissimo; onesto come un religioso; cattolico ma aspro in giustizia e spesso feroce; grande di persona, possente come corporatura, colore del viso olivastro con un gran naso; e più che un signore nella sua imponenza pareva proprio una maestà reale; molto vegliava e poco dormiva, e usava ricordare che, dormendo si perdeva tanto tempo; era largo con i cavalieri d'arme, ma sempre bramoso di conquistare terre e signorie, oltre che essere avido di denaro necessario per le sue imprese e le sue guerre; di gente di corte, di menestrelli o giocolieri lui non si dilettò mai"

Carlo, possedeva già domini molto estesi; come principe della casa reale di Francia le contee del Maine e dell'Angiò, e come marito di Beatrice, ultima figlia del conte Raimondo, tutta la Provenza; ma la sua grande ambizione era spronata da quella ancor più grande della moglie, la quale - secondo quel che si narra - non sapeva darsi pace di esser una semplice contessa mentre le sorelle erano regine.
Con Carlo d'Angiò, il Pontefice iniziò trattative, che furono affidate alla scaltrezza dell'arcivescovo di Cosenza BARTOLOMEO PIGNATELLI. Questi, mosso da odio per Manfredi, seppe con grande astuzia rimuovere ogni difficoltà: ottenne che Edmondo d'Inghilterra rinunciasse ai diritti sul regno di Sicilia conferitigli da Alessandro IV, piegò Luigi IX di Francia, che, pur essendo ossequente alla Santa Sede, non voleva che il fratello Carlo togliesse quello che per diritto era di CORRADINO e riuscì a far concludere al Papa un trattato con Carlo d'Angiò, mediante il quale questi riconosceva alla Santa Sede l'alta sovranità sul regno siciliano, ne riceveva dal Pontefice l'investitura, rinunciava al possesso di Benevento e si obbligava a pagare alla Curia romana un annuo tributo di diecimila once d'oro.
E poiché durante le trattative, il partito guelfo romano aveva eletto senatore della città Carlo d'Angiò, questi giurò di deporre la potestà senatoria appena veniva in possesso del regno siciliano.

Le pratiche tra la Curia romana e Carlò d'Angiò non erano rimaste ignote a Manfredi. Sapeva che il rivale che la Santa Sede gli metteva di fronte era un uomo temibile ed ambizioso, e prevedeva pure che con lui si sarebbero schierati tutti i Guelfi d'Italia, ed era sicuro che, all'avvicinarsi dell'Angioino, i tiepidi amici lo avrebbero abbandonato ed avrebbero ripreso animo i numerosi occultati nemici che contava nel regno, pronti a salire sul carro di un qualsiasi suo avversario, rinnegando amicizie, fede e anche la ragione.

Volendo rafforzare la sua posizione e intimorire gli avversari prima che Carlo sarebbe sceso in campo, Manfredi, ideò un piano audace: impadronirsi di Roma e di Orvieto, dove risiedeva la corte pontificia. A tale scopo chiamò nella marca d'Ancona le milizie del conte GIORDANO; mandò PERCIVALLE d'ORIA con un forte contingente di cavalieri ed arcieri saraceni nel ducato di Spoleto; ad Ostia inviò il romano TEBALDO ANNIBALDI per chiudere la via del mare ai Guelfi di Roma; e contro di questa lanciò alcune gruppi di fuorusciti romani comandati da PIETRO DI VICO. L'impresa però ebbe un esito felice solo in parte: infatti, PERCIVALLE D'ORIA, mentre marciava su Orvieto, morì annegato nelle acque della Nera e PIETRO di VICO, giunto alle porte di Roma, fu respinto dai Guelfi.
Mentre nella marca d'Ancona due capitani delle milizie pontificie, il conte D'ANGUILLARA e dal vescovo di Verona furono sconfitti e fatti prigionieri. Ad Orvieto il Papa corse pericolo di cadere in mano delle truppe sveve con tutta la sua scorta e a stento riuscì, nel settembre del 1264, a fuggire e a rifugiarsi a Perugia.

Da questa città Urbano IV inviò un urgente appello all'angioino, ma non riuscì a vedere le armi della Francia che aveva chiamate, scendere contro lo scomunicato svevo; ammalatosi nella difficoltosa fuga da Orvieto, cessò di vivere il 3 ottobre del 1264

CLEMENTE IV - LA SPEDIZIONE ANGIOINA
BATTAGLIA DI BENEVENTO

Non fu facile dare un successore al morto Pontefice e passarono quattro mesi prima che il conclave elesse il nuovo Papa; infine i cardinali francesi, creati da Urbano, costituendo la maggioranza del Sacro Collegio, fecero il nome di un nobile tolosano, GUIDO, figlio di FOLCO LEGROS, che, rimasto vedovo e fattosi monaco certosino, dalla dignità di arcidiacono era stato sollevato a quella di vescovo di Puy prima, di arcivescovo di Narbona poi e, infine, da Urbano IV era stato creato cardinale di Santa Sabina.
Fu eletto il 5 febbraio del 1265 e prese il nome di CLEMENTE IV. Trovandosi a Roma quando gli giunse la notizia della sua elezione e non sentendosi sicuro, si travestì da pellegrino e si recò a Perugia.

Se la morte di Urbano aveva ridato speranza a Manfredi di pacificarsi con la Curia -romana l'avvento al papato di Clemente IV, suddito diretto di Carlo d'Angiò, fece cadere dall'animo dello svevo questa speranza. Comprendendo che la grande contesa con la Santa Sede doveva essere risolta dalle armi, il figlio di Federico II si preparò alla difesa; chiamò mercenari dalla Germania e Saraceni dall'Africa, ordinò ai vassalli del regno di radunare le milizie, fornì di vettovaglie le fortezze che guardavano il confino, fece sbarrare con travi l'imboccatura del Tevere e, per impedire che i Francesi sbarcassero sulle coste del Lazio, comandò che ottanta navi siciliane e pisane incrociassero tra la Corsica la Sardegna e la penisola.

CARLO D'ANGIÒ intanto si preparava anche lui alla spedizione, aiutato dall'ambiziosa moglie, che impiegava tutte le sue ricchezze e perfino vendeva e impegnava i suoi gioielli per assoldare gente, e dal clero francese che acconsentì alla levata della decima sui beni ecclesiastici.
Al principio della primavera del 1265 un esercito di cinquemila cavalli, quindicimila pedoni e diecimila balestrieri si era radunato sulle rive del Rodano. L'Angioino aveva ricevuto dal Pontefice una bolla, con la quale gli era confermata l'investitura del regno di Sicilia, e pressioni perché rompesse gli indugi e che si decidesse a partire per l'Italia.
Carlo aveva promesso di trovarsi a Roma prima della Pentecoste e poiché non aveva navi sufficienti per far passare l'esercito nel Lazio per la via mare e temeva le insidie della flotta nemica, diede il comando delle truppe al conestabile di TRAISIGNIES con l'incarico di condurlo in Italia attraverso le Alpi; poi per fare più presto, nell'aprile del 1265, s'imbarcò a Marsiglia con un corpo scelto di mille cavalieri distribuiti in venti galee e sciolse le vele diretto alle coste del Lazio. La navigazione non fu senza incidenti: era giunto presso le coste della Toscana, quando fu sorpreso da una violenta tempesta che disperse la flottiglia francese e gettò la galea su cui era montato l'Angioino verso Porto Pisano, dove poco mancò che Carlo non fosse catturato dal conte GUIDO NOVELLO, luogotenente di Manfredi.

La tempesta però fu la sua salvezza perché la flotta siculo-pisana fu costretta a prendere il largo e Carlo d'Angiò, rimessosi in mare, riuscì a giungere indisturbato fino alla foce del Tevere, risalire il fiume e andare ad alloggiare nel convento di San Paolo fuori le mura, e qui rimase fino a quando non lo raggiunsero i suoi cavalieri.
Il 24 maggio, vigilia della Pentecoste, alla testa dei suoi e seguito da una grande moltitudine, l'angioino fece il suo ingresso trionfale a Roma, accolto dal clero osannante e dal popolo che applaudiva al senatore, al re di Sicilia, al liberatore e imprecava a Manfredi. Feste splendide seguirono all'arrivo del conte e pochi giorni dopo, nel tempio d'Aracoeli sul Campidoglio, davanti alla folla plaudente, Carlo indossò la toga senatoriale.
Qualche tempo dopo, tra l'Angioino e i cardinali inviati dal Pontefice si veniva ad un accordo, in cui fra l'altro, Carlo s'impegnava ad osservare le seguenti condizioni: avrebbe pagato dopo la conquista, in cinque rate, cinquantamila marche alla Santa Sede, e alla stessa un tributo annuo di ottomila once d'oro; avrebbe tenuto il regno di Sicilia in qualità di vassallo della Chiesa per sé e i suoi legittimi eredi; in mancanza di figli maschi la successione sarebbe passata alle femmine; non sarebbe mai diventato imperatore né re di Germania o dei Romani né signore della Toscana o della Lombardia; l'erede, se donna, sarebbe decaduta da ogni diritto sposando l'imperatore; Carlo avrebbe potuto ottenere la corona imperiale solo rinunciando al regno in favore dei suoi discendenti; non avrebbe, pena la scomunica, mai occupato alcun territorio della Chiesa, alla quale avrebbe restituito tutte quelle occupate dagli svevi; che avrebbe tenuto la carica di senatore solo temporaneamente, fino vale a dire alla conquista del regno; riconosciute le immunità ecclesiastiche, avrebbe revocate le costituzioni contrarie alla libertà della Chiesa e ai sudditi del regno avrebbe concesso tutte quelle immunità e quei privilegi ch'essi godevano al tempo di Guglielmo II.

Intanto l'esercito francese radunato alle rive del Rodano si preparava a partire. Il conestabile di Traisignies, portandosi dietro la contessa Beatrice, verso la fine dell'estate del 1265, lo guidò, attraverso le Alpi, in Italia ed ebbe libero il passaggio nel Monferrato il cui marchese aveva sposato la causa guelfa.

"Benché il partito di Manfredi - scrive il Sismondi - avesse subito in Lombardia qualche perdita, rimaneva però ancora una barriera di città ghibelline che erano in grado di chiudere ogni passo tra l'alta Italia e la bassa. MASTINO della SCALA, potente cittadino di Verona, si era con il favore del partito ghibellino, reso padrone della suo territorio; Brescia e Cremona erano dipendenti dal MARCHESE PELAVICINO, che reggeva anche le città di Piacenza e di Pavia.
Pare che il marchese Pelavicino si sia all'inizio appostato in vicinanza delle due ultime città con le proprie truppe e con quelle che gli aveva mandate Manfredi sotto la guida del marchese Lancia; di modo che l'esercito francese doveva lasciare la strada che doveva tenere da Asti a Parma.
Pelavicino rimase nella sua posizione con circa tremila cavalli tedeschi e Lombardi finché i Francesi furono nel Monferrato e tornò a Soncino solo quando li vide entrare nel Milanese.
Un'altra schiera meno forte, sotto il comando di BUOSO di DOVARA custodiva il piano a ovest del Po ed il passaggio dell'Oglio. I Francesi non sapevano quale strada imboccare, quando NAPOLEONE della TORRE andò loro incontro conducendoli poi attraverso il Milanese fino a Palazzuolo, sul territorio di Brescia, dove qui dovevano passar l'Oglio.
Il marchese OBIZZO D'ESTE ed il CONTE di SAN BONIFACIO comparvero nella parte opposta del fiume, a quel punto Buoso di Dovara temendo di essere circondato, non osò o non fu in grado di opporsi al passaggio dell'Oglio; e rimase chiuso in Cremona, mentre la forza guelfa si avvicinò a Brescia, prese Montechiaro, sconfisse a Capriolo gli uomini del Pelavicino che gli si era parata davanti; poi, attraverso lo stato di Ferrara, entrò nei paesi occupati dai Guelfi".

BUOSO di DOVARA fu poi accusato, non si sa con quale fondamento, di essere stato comprato dall'oro di GUIDO di MONFORTE, alleato dell'Angioino, e di avere aperto ai Francesi il passaggio dell'Oglio. A quest'accusa prestò fede Dante; il quale mise Buoso nell'Inferno tra i traditori.
Da Ferrara l'esercito francese, ingrossato dalle milizie del marchese d'Este e del conte di San Bonifacio, da quattrocento uomini d'arme, inviati dai fuorusciti di Firenze, e da quattromila Bolognesi, per la Romagna, la marca d'Ancona e Spoleto, si mosse verso Roma, dove giunse nei primi del 1266.
L'arrivo dell'esercito francese in Roma poneva Carlo d'Angiò in penose difficoltà perché lui non aveva danaro per pagare le truppe e papa CLEMENTE IV, che gli aveva dato tutto il suo per mantenere i mille cavalieri condotti da Marsiglia, richiesto insistentemente, rispondeva: "Io non possiedo né monti né fiumi d'oro. Dopo che per te ho fatto tutto quel che ho potuto, dopo che ho stancato i mercanti, i quali non ci vogliono prestar più nulla, non capisco come tu possa ancora importunarmi. Io stesso soffro la povertà e per far fronte ai miei bisogni sono dovuto ricorrere a tutti i mezzi, eccettuate le estorsioni e le ingiustizie. Tu conosci bene le cause di tanta miseria: l'Inghilterra ci è contraria, l'Alemagna non ci obbedisce, la Francia è malcontenta e si lagna, la Spagna basta appena a se stessa. Pretendi tu forse che io faccia miracoli e cambi la terra e i sassi in oro ?".

Il linguaggio aperto e rude del Papa era dovuto, oltre che all'impossibilità di dare ancora aiuto all'Angioino, al contegno sfrenato dei francesi, i quali, attraversando l'Italia, si erano dati ai saccheggi, non rispettando neppure i beni ecclesiastici, e, giunti a Roma, avevano commesso e continuavano a commettere rapine e violenze, che lo stesso Carlo non sapeva o non poteva impedire.
A lui, cui era stato rimproverato di aver preso con i suoi uomini alloggio nel Laterano, il Pontefice scriveva:
"Noi non siamo affatto disposti a sopportare ancora il tuo contegno, né vogliamo lasciare inascoltate le lagnanze che da ogni parte ci inviano gli ecclesiastici, i baroni, i cavalieri e le città che hanno subito i torti che tu a tutti hai fatto da quando lasciasti il tuo paese. Noi non ti abbiamo chiamato perché nel malaffare tu imitassi i nostri nemici, ma per sostenere i nostri diritti, pago di quanto ti spetta; e non smetterò mai di ricordarti che il tuo primo dovere è di obbedire e prestar difesa alla Santa Madre Chiesa".

Alle rimostranze papali, CARLO D'ANGIÒ rispondeva reclamando che lui doveva raggiungere Roma per incoronarlo; ma Clemente indugiava, prendendo come pretesto o la stagione poco propizia, o la scarsa sicurezza del territorio che avrebbe dovuto attraversare, o la molestia che i creditori di Roma gli avrebbero data e, a sua volta, invitava l'Angioino a recarsi a Perugia per ricevervi la corona.
Alla fine il Pontefice incaricò cinque cardinali d'incoronare Carlo. La cerimonia avvenne il giorno dell'Epifania del 1266, nella basilica lateranense, dove, presenti i magistrati, numerosi prelati e i baroni francesi e provenzali, l'Angioino prestò nelle mani del cardinal vescovo di Albano il giuramento di vassallaggio alla Chiesa e dell'osservanza assoluta dei patti e infine riceveva la corona del regno di Sicilia insieme con la moglie Beatrice.

Dopo alcuni giorni di feste, il nuovo re, giudicando dannoso aspettare la primavera per iniziar le ostilità contro Manfredi, anche perché sarebbe stato abbandonato dalle sue milizie male o per niente pagate, diede all'esercito il segnale della partenza e, attraverso la strada di Ferentino, iniziò a marciare verso l'Italia meridionale.
Qui Manfredi non era rimasto inoperoso: convocati a Benevento i baroni, i feudatari e i rappresentanti delle città demaniali, aveva a loro ordinato di chiamare alle armi i vassalli; aveva rafforzato con truppe ed opere di difesa, i confini del regno, aveva presidiato Rocca d'Aree e messa una numerosa guarnigione di Saraceni, Lombardi e Tedeschi a San Germano; al conte Riccardo di Caserta, suo cognato, aveva affidato la custodia del ponte di Ceperano, incaricando il conte Giordano Lancia di guardare con la cavalleria tedesca i guadi del Garigliano; lui invece con il grosso dell'esercito aveva messo il campo a Capua, punto strategico, e da dove avrebbe potuto accorrere in difesa delle truppe di prima linea e, in caso di sfondamento, ritirarsi nell'interno del regno
Se ai sapienti preparativi dello Svevo avesse corrisposto la costanza dei suoi vassalli, forse agli Angioini non sarebbe mai stata possibile la conquista del regno; infatti, a Manfredi, mancò purtroppo la fedeltà dei suoi baroni, e perciò furono vani il valore di pochi e le sagge disposizioni del re.
Fu detto e ripetuto che il conte di Caserta tradisse il suo sovrano lasciando libero il passaggio del Garigliano alle milizie angioine. È questa una leggenda smentita dai moderni storici; ma tutti sono concordi nel riconoscere la verità dei versi di Dante che scrisse: "là dove a Ceperan fu bugiardo ciascun pugliese".
E al ponte di Ceperano, infatti, si videro i primi disastrosi effetti della propaganda degli agenti pontifici, delle promesse del Papa e di Carlo, e dell'instabilità dei baroni del reame svevo, i quali, all'apparire dell'esercito angioino, abbandonarono slealmente e codardamente quel punto importantissimo della difesa agli invasori.

Questi, dopo avere occupato Rocca d'Arce ed Aquino, si spinsero, quasi senza colpo ferire, fin sotto le mura di San Germano, dove giunsero il 4 febbraio 1266. Famosa fu la resistenza che opposero i Saraceni coadiuvati da Tedeschi e Lombardi e prove di indubbio valore diede il conte di Caserta; ma il numero dei nemici prevalse; periti la maggior parte dei difensori musulmani e dei baroni rimasti fedeli al re, S. Germano cadde, il 10 febbraio 1266, nelle mani dell'Angioino, che subito dopo riceveva l'omaggio dell'abate di Montecassino.

La caduta di questa fortezza consigliò Manfredi a levare il campo da Capua e trasferirlo presso Benevento, dove più facilmente avrebbe potuto ricevere rinforzi dalla Puglia, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla Sicilia. Saggio consiglio. La guerra era al suo inizio e il disastro di San Germano non era irreparabile. Manfredi, se avesse dato ascolto alla voce della prudenza, avrebbe dovuto evitare di scontrarsi in giornata campale con Carlo. La tattica migliore da seguire era quella di temporeggiare; così avrebbe dato tempo ai rinforzi di giungere ed avrebbe messo in cattive, forse disperate condizioni il nemico, privo di vettovaglie e di foraggi e lontano dalle sue basi.

Forse Manfredi aveva stabilito di adottare questa tattica in un primo tempo, e ne fa fede il ripiegamento su Benevento; purtroppo però fu di breve durata questa sua intenzione e forse nel cambiare piani fu consigliato dalla defezione dei suoi, dal desiderio di lavar l'onta di San Germano e dalla speranza di evitare un'ulteriore e più vasta defezione dei suoi vassalli.

Anche per non dare lo sconfortante spettacolo di soccombere davanti all'insolente Angioino, che, imbaldanzito dai facili successi, gli devastava i territori, lo Svevo decise di aspettare il nemico e dargli battaglia; ma quando, il 26 febbraio del 1266 gli Angioini, dopo una difficile marcia per la via di Venafro, Alife e Talese, si affacciarono sulle alture dominanti la pianura di Santa Maria della Grandella, a due miglia da Benevento, dove era accampato Manfredi, questi tentennò e, ritornato al primo disegno, cercò di prender tempo, inviando al nemico ambasciatori con proposte di accomodamento.

Giovanni Villani ci riferisce -la spavalda riposta di Carlo d'Angiò: "Andate, e dite al sultano di Lucera che io voglio battaglia e che oggi o io manderò lui all'inferno o egli manderà me in Paradiso".

Ferito nel suo orgoglio, Manfredi accolse la sfida e ordinò subito ai suoi di passare il fiume Calore, il quale divideva i campi opposti, e di assalire il nemico. I primi ad ingaggiar battaglia furono i Saraceni. Questi, passato il fiume, tempestarono di frecce la fanteria angioina procurandole delle sensibile perdite, poi l'assalirono vigorosamente e la sbaragliarono.
In soccorso dei fanti Carlo mandò una parte della sua cavalleria, comandata da GUIDO DI MONFORTE e dal conte di MIREPOIX. Questa, dopo avere ricevuto la benedizione e l'assoluzione dal vescovo di Auxerre, lanciando il grido di guerra "Montjoie ! Montjoie" ! si scagliò contro i Saraceni, ne arrestò l'impeto e li avrebbe decimati se non fosse stata a sua volta assalita dalla cavalleria tedesca che operò un formidabile attacco di fianco al grido di "Svevia".

A quel punto la battaglia divenne generale ed accanitissima e poiché il vantaggio stava, dalla parte delle truppe di Manfredi, i Francesi ricorsero ad un mezzo che dai cavalieri d'allora era considerato sleale: cominciarono con le daghe ad abbattere i cavalli tedeschi, lanciando poi sui cavalieri caduti i mazzieri che li finivano a colpi di mazza. Questo sistema di combattere produsse enormi vuoti nella cavalleria tedesca che iniziò a ripiegare.

A sostenerla Manfredi fece partire alcune compagnie che aveva conservato come riserva e senza dubbio il vantaggio degli Angioini sarebbe stato annullato se gli ordini dello Svevo impartite a quelle fossero stati eseguiti. Invece, proprio allora, fra le truppe della riserva iniziò la diserzione che doveva decidere delle sorti della battaglia.
Primi a dare l'esempio furono il conte di Molfetta, gran camerario del regno, i conti di Caserta e d'Aquino, cognati del re, e il conte d'Acerra. Li imitarono altri baroni di Puglia e così non solo la cavalleria fu completamente sopraffatta, ma divenne chiaro ai Francesi e lo sfaldamento delle milizie sveve.

La battaglia era ormai irrimediabilmente perduta per il figlio di Federico. Non volendo lui essere tra i superstiti del suo esercito disfatto, decise di trovare nella battaglia una morte gloriosa che preferiva ad una vita ignominiosa. Alcuni cavalieri, pochi fedelissimi, gli stavano intorno, pronti a seguirlo ovunque e a perire con lui, che, a cavallo, era affaccendato ad allacciarsi l'elmo.
In quel momento si verificò uno di quei segni di sinistro augurio che avrebbero fatto arretrare dal campo perfino un romano antico: l'aquila d'argento che faceva da cimiero all'elmo del biondo e cavalleresco sovrano cadde sulla groppa del destriero. Manfredi vide in quel segno la fine ed esclamò: "Hoc est signum Dei; avevo attaccato il cimiero con le mie mani e se cade non è per puro caso". Così detto, spronò il cavallo, seguito dal valoroso romano TEBALDO degli ANNIBALDI, e si cacciò dentro nella mischia come un uomo che cerchi più di mettere fine ai suoi giorni che non di procurare agli altri la morte.
Poco dopo un destriero, quello del re, a sella vuota, galoppava tra i cadaveri che ricoprivano il campo di battaglia e chi dei Ghibellini riuscì a vederlo capì che con la battaglia e con la sfortuna era anche finita la vita del re.
Ma pochi riuscirono a vedere quel cavallo senza cavaliere; i più fuggivano alla volta di Benevento, inseguiti dai vincitori, che entrarono a tarda serata, quasi al buio, in città, dove furono fatti prigionieri, fra gli altri baroni, GIORDANO LANCIA e PIETRO degli UBERTI.

La sera stessa della battaglia (26 febbraio 1266) annunciando al Pontefice la vittoria, CARLO D'ANGIÒ fra le altre cose, scriveva: "Di Manfredi si ignora se sia caduto in battaglia o preso o fuggito. Il suo cavallo è in nostre mani, e ciò potrebbe far credere che sia già morto. Do' l'annuncio alla Santità Vostra di questa grande vittoria affinché ne porga grazie all'Onnipotente che ce la concesse, combattendo con il braccio mio per la causa della Chiesa. Se giungerò ad estirpare dalla Sicilia le radici del male, assicuro che ristabilirò in questo reame l'antico obbligo di vassallaggio che deve alla Chiesa stessa: l'avvierò di nuovo, ad onore e gloria di Dio, all'esaltazione del suo nome e pace della Chiesa ed al bene del paese".

Tre giorni dopo giunsero notizie più precise sulla sorte di Manfredi; da un suo valletto, sul campo di battaglia, fu riconosciuto il cadavere, tutto crivellato di ferite. Giaceva accanto a quello del fedele Tebaldo degli Annibaldi, che era stato, durante il combattimento, sempre accanto al re e vicino a lui era morto. Il corpo del sovrano fu messo sopra un asino e portato al cospetto di Carlo, che, per assicurarsi che fosse proprio quello del suo rivale, lo mostrò a tutti i baroni prigionieri.
Tutti lo riconobbero; quando GIORDANO LANCIA lo vide scoppiò in dirotto pianto ed esclamò: "O mio signore, che siamo, noi diventati!". I cavalieri francesi, presenti alla scena, commossi chiesero che si rendessero funebri onoranze alla salma, ma Carlo tirando fuori come pretesto la scomunica di Manfredi, lo fece seppellire in un'improvvisata comune fossa scavata presso la strada maestra, vicino al ponte Valentino sul Calore; i cavalieri vi posero solo qualche pietra sopra da rendere il luogo riconoscibile.
Ma neppure lì doveva aver pace lo sventurato eroe. Si sostenne che il luogo dove era stato sepolto era dominio della Chiesa e quindi sacra era la terra dov'era la fossa, perché era accanto ai ruderi di un'antica chiesa di Marciano. Fu perciò ordinato a Tommaso d'Aqui, arcivescovo di Cosenza, di rimuovere il corpo dello scomunicato, e il prelato, che era fiero nemico dello Svevo, si affrettò ad ubbidire e di notte lo fece esumare e trasportare oltre il Garigliano (il Verde).

Dante, che di questo fatto dà notizia, fa dire a Manfredi nel Purgatorio

"Se il pastor di Cosenza, che alla caccia
Di me fu messo per Clemente, allora
Avesse in Dio ben letta questa faccia,
L'ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte, presso a Benevento,
Sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e muove il vento
Di fuor del regno, quasi lungo il Verde,
Dov'ei le trasmutò a lume spento.

INIZIO DELLA TIRANNIDE ANGIOINA
DOLOROSE VICENDE DELLA FAMIGLIA DI MANFREDI

Dopo la sconfitta di Manfredi, Benevento la successiva mattina del 27 febbraio 1266, aprì le porte ai Francesi e questi, fin dall'ingresso nella città mostrarono ai nuovi sudditi di Carlo che razza di padrone guadagnavano. Benevento che non era accusata di nessuna colpa, fu ugualmente e selvaggiamente messa a sacco dalle soldatesche accecate di sangue e di rapina. Nulla fu rispettato, né i beni dei laici, né quelli delle Chiese, né l'età, né il sesso degli abitanti; per otto giorni la città visse solo di terrore e di stragi; furono uccisi uomini e donne, vecchi e fanciulli, violati i monasteri violentate le monache (lo accenna lo stesso papa), vuotate le case, dati alle fiamme gli edifici con tale furia che, dopo una settimana, della ricca e prosperosa Benevento non rimaneva che uno squallido insieme di case deserte, in gran parte distrutte, e tutte lorde di sangue.

A distruzione e ad eccidio compiuto giunse poi il "pianto del coccodrillo". Il Pontefice era irritato dalla notizia del sacco di Benevento e il 12 aprile del 1266 scrisse a Carlo in tono risentito:
"I Crociati che dovevano protegger templi e i conventi, li hanno invece assaliti e saccheggiati, hanno arso le sante immagini, e perfino recata violenza alle vergini sacre al Signore. Né le rapine, le uccisioni e gli orribili delitti di ogni maniera furono compiuti nel primo furore della battaglia, ma durarono per ben otto giorni sotto i tuoi occhi, senza che nulla venisse da te fatto per impedirli. Apertamente si dice che questo è stato fatto a bello studio (premeditato), per il motivo che la città non sarebbe rimasta al re, ma al Pontefice. Nemmeno Federico, il nemico della Chiesa, si è mai comportato così indegnamente".

Non occorsero altre battaglie per la conquista del regno che era stato di Manfredi. Le città e i castelli si dichiaravano subito per Carlo e gli inviavano rappresentanti a giurargli, obbedienza. Da Benevento l'Angioino passò a Capua dove fu festosamente accolto, poi a Napoli. Trionfale fu l'ingresso del vincitore in questa città destinata ad esser la capitale del regno. Dopo avere ricevuto le chiavi e l'omaggio del sindaco FRANCESCO ROFFREDO, Carlo d'Angiò entrò a Napoli a cavallo, seguito da un brillante stuolo di baroni e cavalieri e dalla regina trasportata su un carro coperto di velluto azzurro e ricamato a gigli d'oro.
"A Napoli - scrive il Sismondi - Carlo radunò un parlamento dei baroni del regno che cercò di ingraziarsi con affettata affabilità. A tutti prometteva grazie, o per lo meno il perdono della passata animosità; ma al loro ritorno nelle proprie province gli mise dietro ad ognuno di loro un po' di quella ciurma di plebaglia francese che formava la fanteria delle sue truppe, con le armi in mano ovviamente solo per farne poi uso nei vari saccheggi.

Carlo distribuiva ai suoi cavalieri le baronie che aveva confiscato a suo profitto, e dava a quelli anche di minor grado tutte le cariche più redditizie.
In pochi giorni si videro partire dalla sua corte, per tutte le parti dei nuovi suoi stati, sciami di giustizieri, ammiragli, comiti, ispettori dei porti, gabellieri, ispettori di magazzini, maestri giurati, balivi, giudici e notai.
A tutti gl'impieghi dell'antica amministrazione aveva aggiunto tutti gli impieghi corrispondenti che lui conosceva in Francia, di modo che il numero dei pubblici ufficiali era più che raddoppiato. Gonfi di boria per le nuove loro dignità, ignorando, come il loro padrone, la lingua del paese, e disprezzando i costumi nazionali, questi plebei, diventati possenti e arroganti, percorrevano le province con un solo proposito: impossessarsi di ogni cosa in ogni contrada.

Volevano essere accolti come vincitori, ma in ogni luogo gli abitanti manifestavano il più alto disprezzo per la nazione soggetta. I loro arrivi deprimevano le popolazioni, e le loro dimore che si sceglievano diventavano subito simili a lussuosi palazzi reali a spese dei cittadini; infatti furono mantenute tutte le imposte già vigenti sotto Manfredi, riportate alla luce quelle che Manfredi aveva da qualche tempo abolite, e non bastanti le une e le altre per mantenere il lusso dei vincitori ("liberatori") ne imposero altre.

Riguardo a tasse e balzelli sulle proprietà dei fondi, nel corso di decenni erano state introdotte molte riserve e privilegi; o moltissimi dei tributi non erano stati riscossi secondo le effettive quote nominali; Carlo impose di riscuoterle tutte a rigore, chiedendo anni e anni di arretrati e riformò di fatto creando un abuso, quelle tolleranze che altro non erano che dei benefici dei passati sovrani.

Così quegli stessi che avevano tradito Manfredi, quelli che si erano immaginati di trovare sotto la protezione della Chiesa e sotto un Re guelfo una pace ed una prosperità inalterabile, quando si ritrovarono messi in bolletta sotto gli implacabili gabellieri del re, iniziarono a versare amare lagrime sulla morte del principe Svevo, e iniziarono ad accusarsi l'un l'altro d'ingratitudine e di viltà".

Intanto CARLO D'ANGIÒ estendeva la sua conquista. Gli avanzi dell'esercito di Manfredi comandati da GALVANO LANCIA, si erano rifugiati nella Calabria; i Saraceni si erano rinchiusi a Lucera decisi a resistere all'invasore; l'ammiraglio siciliano FILIPPO GHINARDO era padrone del mare; in Sicilia rimaneva CORRADO D'ANTIOCHIA, nipote di Federico II.
Se tutte queste forze fossero state sotto un solo comando e riunite avrebbero potuto dare del filo da torcere a Carlo; e invece si trovavano sparpagliate, senza un capo, in mezzo a popolazioni che la vittoria angioina e la morte di Manfredi avevano fatte schierare contro gli Svevi. Perciò non fu difficile al nuovo re di impadronirsi di tutto il regno.

In Sicilia fu mandato il CONTE di MONFORTE e l'isola non tardò a riconoscere la signoria angioina; lo stesso fece la Calabria dove fu inviato GOFFREDO di MIREPOIG, al cui arrivo Galvano Lancia con il fratello Federico e il figlio si rifugiò nelle città ghibelline della Toscana; solo Lucera non piegò il capo di fronte alle armi angioine; Lucera che parecchi anni prima aveva accolto fuggiasco Manfredi e che sarebbe stato rifugio sicuro alla famiglia del morto sovrano se fosse rimasta entro le possenti mura della fedele città.
Invece tristissime furono le sorti della famiglia del re, composta dalla regina Elena, della primogenita Beatrice che contava allora cinque anni e dei tre figli maschi, Enrico, Federico ed Azzolino, l'ultimo dei quali aveva appena due anni. All'avanzarsi dell'Angioino, Elena con i suoi figli aveva detto addio a Manfredi, che andava contro il rivale, e si era ritirata a Lucera, dove si trovava la cognata Costanza, imperatrice di Costantinopoli.
Giunta la notizia della sconfitta di Benevento e della morte del marito, abbandonata da Costanza e dai cortigiani, l'infelice regina decise di salvarsi in Epiro e con i figli fuggì a Trani per imbarcarsi. Una violenta tempesta le impedì di mettersi in mare e le consigliò di rifugiarsi nel castello. Qui però, poco dopo, giunsero dei frati travestiti, i quali, a nome del Pontefice e di Carlo d'Angiò, ordinarono al castellano di non far partire la famiglia di Manfredi, pena la vita se non ubbidivano.
La viltà del castellano perdette l'infelice famiglia dello Svevo. Il 6 marzo del 1266 giunse a Trani un corpo di milizie angioine e strapparono alla madre i figli; la piccola Beatrice fu condotta in prigionia nel Castel dell'Ovo a Napoli, e i tre maschi furono rinchiusi nel castello di S. Maria del Monte, presso Andria.
Dopo alcuni mesi Elena fu condotta a Lagopesole, dove Carlo le propose di rinunciare alle terre d'oltremare che aveva ricevuto in dote dal padre, ma, essendosi rifiutata, fu rinchiusa nel castello di Nocera.
Qualche tempo dopo, il Pontefice, il quale temeva che l'Angioino riuscendo a metter piede in Oriente diventasse troppo potente, pensò di dare alla vedova di Manfredi come marito don Enrico infante di Castiglia, figlio del re Ferdinando; ma queste nozze, che prima aveva promesso di favorire, si oppose Carlo, che occupò l'isola di Corfù e continuò a tenere in prigione a Nocera la sventurata regina.

Elena languì cinque anni in carcere, ignara della sorte dei suoi figli, e non aveva ancora trent'anni quando, nel marzo del 1271, cessò di vivere.
Fu sepolta nella cappella del castello e della sua tomba, distrutta con la rocca dal tempo, non è rimasta alcuna traccia.
"Le damigelle e i familiari della defunta prigioniera, - scrive uno storico della famiglia di Manfredi - ebbero la facoltà di uscire dal castello di Nocera, ma a condizione che i loro nomi e cognomi fossero esattamente registrati, e che si prendesse anche nota del luogo dove andavano a stabilirsi; forse per incutere loro timore, perché nulla rivelassero della desolata sposa e madre, ai cui lamenti ed alle cui pene quei familiari avevano assistito per cinque anni, partecipando ai suoi dolori.
Tutti loro, durante al prigionia, né ad Elena né ai figli di Manfredi dovevano rivolgere la parola, come se non fossero mai esistiti al mondo. Uscite dal castello le damigelle e i familiari, fu imposto al castellano di fare un inventario di tutte le masserizie e degli arnesi che in quella prigione erano appartenuti ad Elena, e di mandarlo al Re. L'elenco fu fatto e tutti gli oggetti furono poi consegnati al maestro PIETRO FARINELLI, regio tesoriere, quando il castello dì Nocera, essendo stato assegnato come dimora dei principi reali, si volle svuotare di tutti i mobili e cose che erano state usate dalla vedova di Manfredi.
Era una triste rimembranza, che bisognava allontanare dalla mente di coloro che dovevano succedere ad un'eredità macchiata da troppi delitti".

Dei figli di Manfredi chi ebbe sorte migliore fu Beatrice. Trattenuta prigioniera nel Castel dell'Ovo per circa diciotto anni, solo nell'estate del 1284, all'età di ventitré anni, dopo la famosa sconfitta navale inflitta agli Angiomi dall'ammiraglio siciliano RUGGERO DI LAURIA, riuscì ad acquistare la libertà e a raggiungere la sorellastra Costanza d'Aragona che poi lascerà per unirsi in matrimonio con il marchese Manfredi di Saluzzo.

Quanto ai maschi, Carlo d'Angiò tenne a lungo nascosto il luogo della loro prigionia affinché si credesse da tutti che fossero morti, temendo una ribellione fatta in loro nome. Perché dopo la sua vittoria, il Lauria non abbia reclamato la loro libertà, come fece per Beatrice, è un mistero che per la mancanza di documenti non ha permesso di penetrarlo. Solo delle ipotesi si possono fare: o PIETRO D'ARAGONA, divenuto dopo la guerra del Vespro, re di Sicilia, credeva alla morte dei suoi infelici cognati - il che non sembra verosimile - o l'Angioino si rifiutò di scarcerarli, o, infine, - e questo rappresenterebbe un'infamia - Pietro non volle, reclamandone la liberazione, che il nuovo regno fosse poi conteso dai tre cognati che più di lui avevano diritto alla corona.
I tre infelici, languirono, segregati e mal nutriti, per trentacinque anni, nel Castel del Monte.
All'inizio del 1300 furono trasferiti, per ordine di CARLO II D'ANGIÒ, nel Castel dell'Ovo e qui, tra il 1300 e il 1301, i due minori Federico ed Azzolino morirono. Sopravvisse ai due fratelli, per sua disgrazia, ENRICO, per il cui nutrimento, nel 1309, il re ROBERTO D'ANGIÒ ordinò che non si spendessero più di sei once l'anno (quaranta centesimi circa al giorno !). L'infelicissimo superstite della casa sveva, dopo la morte dei suoi fratelli, visse ancora diciassette anni.
Si spense il 31 ottobre del 1318: aveva cinquantasei anni e mezzo e ne aveva passati cinquantadue nella solitudine e nella miseria del carcere, invidiando forse la sorte dello zio Enzo verso cui i Bolognesi avevano usato quella generosità italiana, che era del tutto assolutamente sconosciuta al gretto egoismo francese dei principi d'Angiò.

Ora noi dobbiamo ritornare al giorno più che della morte di Manfredi, al giorno della fine del regno dell'ultimo sovrano Svevo. A quella mala sorte che era legato tutto il Ghibellismo dell'Italia centrale e settentrionale.

Ma prima di affrontare il "dopo Manfredi", cioé di proseguire dall'anno 1267, dobbiamo tornare indietro di qualche anno, quando a Milano era scoppiata la rivolta fra Guelfi e Ghibellini e che poi terminò con la pace; con il cosiddetto "Trattato di Sant'Ambrogio"; che però fu una pace breve.

Poi seguiremo nello stesso periodo il trionfo del Guelfismo in Toscana.
Ed infine, i burrascosi rapporti fra Venezia e Genova.

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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