ANNI 1281 - 1282

I VESPRI SICILIANI - L'ASSEDIO DI MESSINA - L'ANGIÓ UMILIATO

I VESPRI SICILIANI - RIVOLUZIONE DI PALERMO - ECCIDIO DEI FRANCESCI - LA RIVOLTA E LA STRAGE SI ESTENDE A TUTTA LA SICILIA - PRESA DI VICARI - MESSINA SCUOTE IL GIOGO FRANCESE - MINACCE DI MARTINO IV E CARLO D'ANGIÒ - SPEDIZIONE ANGIOINA IN SICILIA - ALAIMO DI LENTINI - ASSEDIO DI MESSINA: EROICA RESISTENZA DELLA CITTÀ - BATTAGLIC DAL SALVATORE E DELLA CAPPERINA - DINA E CLARENZA - MEDIAZIONE DI GHERARDO DA PARMA - SCONFITTE DEGLI ANGIONI - PIETRO D'ARAGONA: LA SICILIA GLI OFFRE LA CORONA; ARRIVO IN SICILIA - CARLO D'ANGIÒ TOGLIE L'ASSEDIO A MESSINA
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I VESPRI SICILIANI
Abbiamo accennato nella precedente puntata, che la misura era colma, giunta al massimo la tirannide, così acuta l'angoscia e così profondo l'odio del popolo di Sicilia verso l'Angioino, che bastò una sola goccia per far traboccare il vaso. Un ultimo sopruso, non certo il più perverso dei molti altri sofferti, doveva spingere gli esasperati Siciliani alla grande vendetta.Ecco come la descrive Michele Amari nella sua magistrale opera sulla "Guerra del Vespro siciliano", dalla quale ricaviamo queste notizie:"I Siciliani maledissero e sopportarono fino alla primavera del 1282. Dei preparativi di guerra in Spagna si sapeva poco, e se in Sicilia c'era qualcuno che n'era a conoscenza, non è che nutrisse molte speranze.
Sulle spalle del popolo incombeva e c'erano gli smisurati preparativi della guerra di re Carlo contro Costantinopoli; l'isola era imbrigliata da quarantadue castelli regi posti o in luoghi strategici o nelle maggiori città, più ce n'era un alto numero che era in mano ai feudatari francesi; già raccolti e con le armi al piede quelli stanziali; tutte pronte a radunarsi ad un cenno le milizie baronali, che erano la maggior parte dei suffeudatari stranieri.
In tale condizione di cose, i saggi meditando e predicendo, non avrebbero mai puntato sulla nascita di un movimento di ribelli; e così gli ufficiali di Carlo si ripromettevano di farla diventare perpetua la pazienza e continuavano imperterriti e senza tanti timori a flagellare il popolo siciliano.

"La Pasqua di risurrezione di quell'anno, fu amarissima per i nuovi oltraggi fatti a Palermo, città che gli stranieri odiavano più d'ogni altra, ed era la più ingiuriata e con cinico piacere la più angariata.
A Messina c'era ERBERTO D'ORLÉANS, vicario del re nell'isola; mentre il "giustiziere" di Val di Mazzara governava Palermo ed era questi GIOVANNI di SAN REMIGIO, un ministro degno di Carlo; e degni del giustiziere del principe erano i suoi ufficiali che come normale attività la loro era quella di fare rapine e violenze. "Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini di Palermo, dalle terrene tribolazioni cercando conforto in Dio, nei giorni sacri della passione di Cristo erano entrati in un tempio a pregare, ma anche lì, tra i riti di penitenza e di cristiana pace trovarono i più crudeli oltraggi.
Gli agenti persecutori del fisco adocchiarono fra i fedeli i debitori delle tasse; li strapparono a forza dal luogo sacro, e dopo averli ammanettati li portarono in carcere, intanto gridavano ingiurie in faccia alla folla accorsa: "Pagate, paterini, pagate !"

E il popolo sopportava! Ma il martedì seguente dopo la Pasqua, il 31 marzo 1282, si celebrò nella chiesa di Santo Spirito un'altra festa religiosa, e quel giorno ci fu un altro oltraggio alla libertà, e allora il popolo si stancò di sopportare (Amari)".In questa chiesa, che sorge a mezzo miglio dalle mura meridionali della città, affluivano quel giorno, nelle ore del vespro, seguendo una vecchia consuetudine, gli abitanti di Palermo. Erano gruppi di uomini e donne, tranquille famiglie, accolte pacificamente da amici, che, dimenticando le sofferenze del giogo, volevano per qualche ora essere felice; e chi andava nel tempio che risuonava del canto delle vergini, chi ne usciva dopo le preghiere, altri passeggiavano nella circostante campagna ricoperta dal primo verde, altri facevano merenda sui prati con i primi fiori della primavera, e altri ancora intrecciavano danze e facevano sentire il suono degli strumenti musicali.
Ed ecco, a turbar la letizia della festa campestre, apparire, non desiderati, gruppi di Francesi, che si mescolarono alle brigate, volevano partecipare alle danze e, non contenti di questo, iniziarono a usare un contegno poco licenzioso con le donne al cospetto dei padri, degli sposi e dei fratelli.I più vecchi tra i cittadini consigliarono gli stranieri a lasciare in pace le donne, ma i più giovani rimproverarono aspramente i Francesi; nel loro viso si leggeva chiaramente che avevano la voglia di menar le mani e di rispondere alle provocazioni. Insospettiti dallo spavaldo contegno dei cittadini, credendo che fossero armati, alcuni si diedero a frugarli, altri con bastoni e scudisci cominciarono a percuoterli se si rifiutavano.
I Siciliani fremevano per l'ira, quando ad un tratto si vide una giovane maritata di rara bellezza, accompagnata dal consorte e seguita dai parenti, avviarsi al tempio. Un francese di nome DROUET, avvicinatosi a lei per vedere se teneva armi nascoste, frugò il petto alla giovane donna che per la paura e la vergogna cadde svenuta in braccio allo sposo. Un grido di collera si levò allora dalle labbra del marito offeso: "Ah ! Muoiano ! Muoiano questi Francesi !" e subito, dalla ressa, che incominciava a farsi intorno, avanzò un giovane siciliano e, impadronitasi della spada del Drouet, con la sua stessa arma lo trafisse. A quella vista, l'ira compressa nei petti scoppiò, l'odio da molto tempo maturato e tenuto nascosto, esplose violento, gli occhi s'iniettarono di sangue, le mani strinsero convulsamente i coltelli, altri si armarono di pietre raccolte in terra, e un solo grido si alzò, che fu ripetuto rabbiosamente da mille bocche: "Muoiano i Francesi !"
In breve, attorno alla chiesa s'ingaggiò una mischia furibonda; la campagna, che un momento prima era allietata da mense, da canti e da liete danze, risuonò ora di urla minacciose, di lamenti, di rantoli, di grida di donne spaurite; si rovesciarono le tavole, sassi di ogni dimensione solcarono l'aria, balenarono lame di coltelli e di spade, roteavano bastoni, e iniziò a macchiarsi di sangue il verde dei prati.A dispetto del fatto che erano ricoperti di armi, i Francesi furono sopraffatti e dopo una lotta sanguinosa caddero tutti. La morte dei provocatori non calmò lo sdegno dei provocati; ormai il sangue sparso voleva altro sangue, la vittoria accresceva l'ira, la vista poi dei parenti e degli amici uccisi spingeva ad un'altra strage. Impadronitisi delle armi dei vinti, i sollevati si avviarono verso la città lanciando il pauroso grido di "Morte ai Francesi !" ; e quanti stranieri incontravano tanti ne massacrarono.In breve la rivolta penetrò a Palermo, serpeggiò furiosa in tutte le vie, rumoreggiò in tutte le case, guidata da un certo RUGGERO MASTRANGELO, alimentata dall'odio e dalla sete della vendetta.
Non fu battaglia contro un nemico che si difendeva, ma una caccia spietata agli Angioini che non tentavano neppure di opporre resistenza e, circondati dalle turbe inferocite, porgevano le armi e imploravano pietà. Si frugarono le case, le caserme, i magazzini, ogni angolo; si narra che il popolo, incontrando qualche sconosciuto, per accertarsi della sua nazionalità, gli imponeva di proferire la parola dialettale "ciciri" e davanti a una storpiata pronuncia forestiera lo passavano per le armi.Per i malcapitati Francesi non furono ricoveri sicuri nemmeno i templi e i conventi dei Minori e dei Predicatori; gli altari furono macchiati di sangue e i frati francesi che erano nei chiostri furono trucidati pure loro; né il sesso o l'età, né le preghiere e i pianti ottennero dalla folla rabbiosa pietà, perché i Siciliani ricordavano le patite sofferenze, le prepotenze, i ratti, i furti, gli stupri, l'eccidio feroce della generosa Augusta e quei ricordi eccitavano il popolo alla vendetta e alla strage.
Alle madri furono strappati dal petto i lattanti e sfracellati; non furono risparmiate le incinte e "alle siciliane ingravidate dai francesi - narra l'Amari - con atroce supplizio gli aprivano il corpo, e facevano scempio con i sassi il frutto di quel mescolamento di sangue d'oppressori e d'oppressi".Al primo segno del tumulto della folla il giustiziere GIOVANNI di SAN REMIGIO si era chiuso nel palazzo sperando forse di resistere; ma il popolo circondò la casa, urlando contro il ministro della tirannide, sfondò le porte, irruppe dentro le stanze ed avrebbe fatto a pezzi il carnefice se questi, favorito dalle prime ombre della sera, ferito in volto, non fosse riuscito a montare in sella e a prendere la fuga in compagnia di due suoi familiari.La notte non pose fine alla strage; continuò spietata e infuriò ancora il mattino dopo; cessò solo quando non vi fu più un francese nella città. Duemila, altri dicono tremila, altri ancora quattromila, Francesi caddero in quella prima rivolta e all'inizio i cadaveri furono lasciati sulle vie, poi qua e là furono scavate delle grandi fosse e riempite di corpi insanguinati.
Ancora oggi, in una piazza di Palermo, si vede una colonna, sormontata da una Croce, che forse in tempi posteriori fu innalzata sul luogo dove la tradizione assicura che lì fu scavata una di quelle fosse. Non era ancor cessato l'eccidio quando, nella stessa notte del 31 marzo, il popolo siciliano, riunitosi a parlamento, dichiarò Palermo libera dalla dominazione angioina e stabilì di reggersi a comune, formare una federazione con gli altri e mettersi sotto la protezione della Chiesa. RUGGERO MASTRANGELO, ARRIGO BARESI, NICOLA D'ORTOLEVA e NICCOLÒ D'EBDEMONIA furono eletti capitani del popolo."Alle primi luci dell'alba, sul terreno insanguinato, tra una rumoreggiante calca di armati, con la sublime pompa del tumulto, s'inaugurò il magistrato repubblicano; i suonatori diedero fiato alle trombe e migliaia di voci gioiosamente gridarono "buono stato e libertà!". L'antico vessillo della città, l'aquila d'oro in campo rosso, fu spiegato a nuova gloria, e ad ossequio della Chiesa vi aggiunsero le chiavi (Amari)".

Primo pensiero dei Palermitani fu di inseguire il giustiziere, il quale, rifugiatosi nel forte castello di Vicari, con una numerosa guarnigione francese si era velocemente preparato alla difesa. Circondato il castello, i Palermitani intimarono ai difensori di arrendersi, promettendo salva loro la vita e libera partenza per le coste della Provenza; ma quelli rifiutarono e tentarono una sortita disperata, che finì tragicamente; catturato e "giustiziato" il "giustiziere" GIOVANNI DI SAN REMIGIO, trucidati tutti gli altri fu occupato il castello. Così -si iniziava la famosa rivolta che doveva passare alla storia col nome di "Vespro siciliano" e rappresentava solo la prima fase di una guerra lunga e piena di vicende che, combattuta per terra e per mare, doveva strappare per sempre all'Angioino la Sicilia e a minacciare seriamente il possesso di quello che fu poi il reame di Napoli.
Più che non come avvenimento in sé, e nel suo esito fortunato, la ribellione al "Vespro" assunse il suo significato storico, e un incancellabile ricordo nella coscienza collettiva come pochi altri fatti.

L'ASSEDIO DI MESSINA - 64 GIORNI DI EROISMI

Si spargeva, intanto, rapidamente per tutta l'isola la notizia della rivoluzione palermitana e dovunque il vasto incendio portava la scintilla che procurava altri incendi, che prestissimo divamparono in tutta la Sicilia.
La prima a seguir l'esempio della capitale fu Corleone, che giurò alleanza con Palermo il 3 aprile ed eletto capitano del popolo un certo BONIFACIO, lo s'inviò con tremila uomini a distruggere le vicine tenute reali, gli armenti di Carlo, ad espropriare i castelli in mano degli Angioini e a fare a pezzi tutti i Francesi dei territori vicini.
In pochissimo tempo un buon tratto d'isola era sgombro di stranieri e i capitani del popolo delle terre liberate, riunitisi in parlamento a Palermo, infiammati dalle ardenti parole di Ruggero Mastrangelo, decisero di far sollevare contro Carlo tutta la Sicilia.
A Palermo si radunarono le milizie della rivoluzione, che, divise in tre schiere, furono inviate la prima verso Occidente, la seconda verso Oriente la terza nell'interno; le insegne distese dal Comune - scrive Michele Amari - portavano le chiavi della Chiesa, dipinte intorno; mentre la fama precorreva le aspirazione degli animi anche in coloro che erano digiuni di arte bellica.

Poi senza ulteriori contrasti ogni territorio rimosse il nome di re Carlo, in piena intesa, anche se non cessò lo spargimento del sangue dei francesi.
A questi diedero la caccia per monti e boschi; li espugnarono nei castelli, li perseguitarono in cento modi, con tale rabbia che ai pochi scampati nelle mani dei popolani venne in odio la vita; dalle più munite rocche, dai luoghi più nascosti il popolo voleva i francesi nelle proprie mani per linciarli; e alcuni piuttosto che finire a pezzi si lanciavano dall'alto di una torre. "In qualche luogo le stragi di Francesi non ci furono, furono soltanto scacciati, e spogliati di ogni cosa si rifugiarono a Messina. In altri posti furono perfino generosi, come con GUGLIELMO PORCELET, feudatario o governatore di Calatafimi. Lui era stato giusto ed umano rispetto agli altri colleghi, e nell'ora della vendetta, giunta a Calatafimi i rivoltosi di Palermo, non toccarono né lui né i suoi, lo rimandarono semplicemente in Provenza da dove era venuto: il che mostra che qualche volta il popolo è capace di contenere anche i suoi eccessi" (Amari)
Baluardo della tirannia straniera era però rimasta Messina dove risiedeva il vicario D'ORLÉANS, che disponeva di parecchi uomini. Ma non rimase a lungo la generosa città sotto il giogo francese; il popolo aspettava solo il momento buono per vendicarsi delle sofferenze patite. Stimolati dall'esempio di Taormina che, qualche giorno prima, aveva fatto a pezzi gli angioini, e con l'aiuto di Palermitani approdati con una galea, il 28 aprile i Messinesi si levarono a tumulto e al grido di "Morte ai Francesi !", uccisero quanti stranieri trovarono, inalberarono il vessillo della città, costrinsero ERIBERTO D'ORLÉANS a chiudersi nel castello di Matagrifone ed elessero capitano del popolo il nobile BALDOVINO MUSSONE.
Alcuni giorni dopo mandarono libero il vicario, ma, essendo questi venuto meno alla promessa fatta di tornarsene in Provenza, il popolo prese le armi e trucidò spietatamente lui e tutti gli altri soldati francesi che erano rimasti a Messina (7 maggio 1282). Così un mese dopo circa dai "Vespri" palermitani, quasi tutta l'isola fu libera dal giogo angioino, le città si diedero un governo repubblicano, si federarono tra loro e, decisero a non ritornare più sotto l'odiata dominazione di Carlo; e si prepararono a fronteggiare un ritorno offensivo del re vettovagliando la strategica città di Messina per due anni e inviarono presidii di uomini e di navi a Siracusa, ad Augusta, a Catania, a Milazzo, a Patti e a Cefalù. CARLO D'ANGIÒ si trovava presso il Pontefice quando gli fu portata la notizia della rivoluzione siciliana. Corso a Napoli e, informato della gravità della situazione, si diede a fare preparativi per risottomettere l'isola e richiese perfino l'aiuto di uomini e di denaro al re di Francia. Aiuti finanziari glieli fornì pure papa Martino IV (ricordiamo che era stato eletto grazie a Carlo), che tentò a favore del re le armi spirituali, e, ad Orvieto, il giorno dell'Assunzione ordinò a tutta la Cristianità di non prestare aiuto di qualsiasi sorta ai ribelli e a questi minacciò la scomunica se non tornavano all'obbedienza dell'Angioino.
Ma i Siciliani non si lasciarono intimorire né dall'ira del sovrano né dalle minacce del Pontefice, al quale però giustificarono la loro rivolta con una particolareggiata esposizione delle angherie sofferte.
Vani sforzi questi di convincere un Papa che, come MARTINO IV, non era protettore degli italiani ma un ostinato protettore di Carlo.
Pontefice e sovrano, insieme tentarono di riportare l'isola all'obbedienza con mezzi pacifici; il primo inviò come suo legato il cardinale GHERARDO da PARMA, il secondo promulgò uno statuto in cui, riversata la responsabilità del malgoverno agli ufficiali inferiori, "moderava", al dir dell'Amari, "i più grossi aggravi del fisco, dei magistrati e dei loro familiari, la crudeltà di alcune leggi, le usurpazioni dei castellani nelle faccende municipali, e loro violenze nei contadi". Ma non era con le lusinghe che Carlo poteva convincere e vincere i Siciliani. Lo comprese pure lui e con tutte le forze che aveva radunato per l'impresa a Costantinopoli le rivolse contro l'isola ribelle; e a Catona, in Calabria, posta davanti a Messina, radunò duecento navi e un poderoso esercito di quindicimila pedoni e sessantamila fanti.
Messina, la quale sapeva benissimo che contro di lei sarebbe stato fatto il primo spietato castigo dell'Angioino, si preparò a resistere energicamente all'urto; rafforzò come meglio poté le deboli mura, eresse numerose barricate, armò le non poche navi francesi che erano state catturate nel porto e chiuse questo con catene e travi.Il primo fatto d'armi avvenne il 24 giugno del 1282 presso Milazzo, dove una schiera di Messinesi, sorpresa da millecinquecento tra fanti e cavalli, dopo un'accanita zuffa fu sbaragliata. La colpa della sconfitta fu data all'inettitudine del comandante, che era BALDOVINO MUSSONE, e il popolo, levatosi a ribellione, lo depose dalla carica di capitano del popolo ed elesse in sua vece ALAIMO di LENTINI, già avanti negli anni, ma ancora vigoroso, dotato di grand'energia e molto esperto in cose di guerra (fu infatti lui l'eroe di Messina).
A lui si deve se Carlo, sbarcando con tutto il suo esercito in Sicilia il 25 luglio 1282, trovò Messina perfettamente preparata e le milizie cittadine - formate da cittadini che non avevano mai prima di allora preso un'arma in mano- pronte a difendere "fino alla morte" la propria città; e per come poi andarono le cose, e che leggeremo più avanti, non era per nulla demagogica né campata in aria quella frase; mai fu usata con così tanta determinazione dalla popolazione di una città, che aveva davanti a sé duecento navi e settantacinquemila angioini, e che se fosse stata espugnata l'avrebbero ridotta in cenere.

L'Angioino pose il suo campo alla badia di Santa Maria Roccamadore, a quattro miglia dalla città, e il primo saluto che diede alla terra siciliana fu quello che poteva dare un uomo crudele come lui; fece come prima atto distruggere tutt'intorno la campagna, tranciare le vigne, tagliare gli alberi, saccheggiare e bruciare i casali; e poiché i Messinesi, trattenuti dal prudente Alaimo, non erano usciti per impedire queste devastazioni, anzi, non potendolo fortificare per mancanza di tempo e di materiali, avevano volontariamente abbandonato il borgo meridionale di Santa Croce, Carlo con tutta la sua boriosa impudenza, il terzo giorno dallo sbarco, l'occupò con le sue truppe e lui stesso stabilì il suo quartiere nel convento dei Frati Predicatori.
Sperava il superbo sovrano di avere Messina stipulando dei patti ed era contrario al parere di molti dei suoi che consigliavano di espugnarla a viva forza; non certo per amore alla città, ma perché non voleva che una città così ricca fosse saccheggiata dal suo poderoso esercito. Quelle "cavallette" non avrebbero risparmiato nulla. Ma i suoi capitani chiesero con insistenza che si tentasse di forzare la difesa, insomma di attaccare, e Carlo dovette il 6 agosto 1282 inviare un numeroso corpo d'armati contro il convento del Salvatore che, sorgendo all'imboccatura del porto, ne costituiva la difesa principale.
Cento uomini lo presidiavano, eppure, nonostante l'enorme l'inferiorità numerica dei difensori, questi resistettero magnificamente al terribile assalto e, dopo un aspro combattimento, costrinsero i regi a ritirarsi con gravissime perdite. Era il primo smacco, che l'umiliazione e l'ostinazione ne procurò una serie infinita fino alla beffa.
Infatti, migliore fortuna non arrise due giorni dopo alle truppe di Carlo un nuovo tentativo in forze di conquistare un guarnigione sul monte della Capperina, che ALAIMO era solito far presidiare da un gruppo di cittadini improvvisatisi arcieri. Era quella una postazione strategica, molto delicata, perderla significava mettere in mano al nemico un altura micidiale per la sottostante città "Ma accadde che questi uomini del presidio, comportandosi come dei novellini -e del resto lo erano perché erano normali cittadini- quel giorno, l'8 agosto, nel tardo pomeriggio a seguito di un gran rovescio di pioggia, per mettersi in un riparo, abbandonarono i loro posti di guardia, di modo che i Francesi colta l'occasione, furono pronti a salire l'erta attraverso gli uliveti.
ALAIMO appena gli fu data la brutta notizia, comprese che se passava un altro istante Messina era perduta; ma l'istante lo sfruttò straordinariamente bene, in un fiato si lanciò alla riscossa, portandosi dietro tutto il popolo, e urtò e poi riconquistò la strategica postazione facendo una strage di francesi; poi caduta la notte, al lume delle fiaccole tornarono a ripristinare le barricate. "La "Notte del Campidoglio" trascorse a Messina con l'infaticabile ALAIMO che impartiva ordini perentori e assegnava i compiti ad ogni singolo messinese, uomini e donne di ogni età. Drappelli di uomini validi giorno e notte dovevano avvicendarsi per vegliare le postazioni fisse; mentre pattuglie di donne dovevano fare la guardia girando in continuazione per gettare gli allarmi.
I Francesi a notte fonda, tentarono un altro l'assalto al monte Capperina; ma superati in silenzio i ripari, s'imbatterono proprio in una pattuglia di due donne DINA e CLARENZA; due coraggiose donnette di cui l'ingiusta storia tramanda appena il nome, eppure salvarono loro due la città.
Fu la prima, la DINA a gridare "all'arme", scagliando nello stesso tempo sui nemici intravisti un masso, che atterrò parecchi soldati; mentre la CHIARENZA andò a martellare a stormo le campane; l'allarme si espanse in un baleno e si sentì nella notte un solo grido: "Alla Capperina il nemico !"; e verso là andarono tutti senza chiedersi se c'era pericolo o no, o tutti così là, a notte fonda, forse guidati per il solo gran piacere di trovarlo il pericolo, a patto che ci fosse un odiato francese. "Sul posto c'era già ALAIMO, che sugli attoniti nemici piombò con tutta la popolazione accorsa come una furia; e non solo li ricacciarono indietro, ma un gruppo di spavaldi uscirono fuori dalle mura, e a piedi, mentre quelli erano a cavallo, li incalzarono fin sotto il quartier generale di Carlo d'Angiò" (Amari).
L'Angioino, che prima di partire per la Sicilia aveva assicurato i suoi che avrebbero combattuto contro "gente miserevole", che era solo una "vile accozzaglia", si accorgeva ora che aveva a che fare con gente audace, che si batteva con eroismo e non era proprio per nulla scoraggiata nel difendere la propria città e proprio per nulla intimorita che lui il "feroce" Carlo con la sua accozzaglia era a due passi, al poco lontano convento dei Frati Predicatori.
In verità, era veramente magnifico il contegno della popolazione messinese: tutti si prodigavano per la difesa senza distinzione di età, di ceto, di sesso, nobili e popolani, mercanti e giuristi, vecchi e giovani lavoravano giorno e notte a riparar le brecce, a rinforzare le mura, a costruir palizzate; e le donne erano infaticabili nell'aiutare gli uomini, così infaticabili da ispirare la musa popolare che le immortalò nel canto; e, quando queste "guardiane ancelle" martellavano le campane, tutti lasciavano i lavori e correvano sulle mura a respingere il nemico, sprezzando il pericolo e la morte. Non erano quelli solo "abitanti" di Messina, erano l'"anima" di Messina, e tutti insieme formavano una sola anima.
Dopo la battaglia della Capperina, vi furono alcuni giorni di tregua e ne approfittò il vescovo GHERARDO da Parma per tentare le vie pacifiche. Entrato a Messina e accolto dai sospettosi cittadini, tuttavia da questi ricevette le chiavi della città e da ALAIMO il bastone del comando. I Messinesi lo pregarono di regger lui, a nome della Chiesa, la città, ed essi avrebbero pagato i tributi e prestata obbedienza, ma che tenesse lontani i Francesi, di cui non volevano sentirne più parlare.
Ma Gherardo disse ch'era venuto non solo per conciliar la città con la Santa Sede ma anche per darla al suo legittimo sovrano, e che Carlo avrebbe saputo perdonare. Ed ecco Alaimo, sdegnato, ritogliere il bastone appena dato al prelato ed urlare: "A Carlo no!". E la folla ad urlar con lui: "A Cardo no; mai più i Francesi fin che avremo sangue e spade!".Quietatosi il tumulto, furono scelti trenta tra i più ragguardevoli cittadini, ai quali dal popolo fu affidato l'incarico di svolger le trattative con il legato pontificio. Proposero la cessazione delle ostilità alle seguenti condizioni:
a) Carlo doveva perdonare la città;
b) dargli la costituzione di Guglielmo il Buono;
c) farla governare a un italiano;
d) nessun soldato e nessun funzionario francese doveva entrare a Messina. Erano condizioni che Gherardo -filo-angioino come il Papa, eletto grazie a Carlo- non poteva accettare: le trattative furono troncate e il vescovo ritornò al campo angioino con le pive nel sacco.
Fu tale lo sdegno delle milizie francesi all'annuncio del fallimento della missione di Gherardo, che i soldati di loro iniziativa più eccitati che organizzati presero le armi e assalirono impetuosamente la città.
Ma anche questa volta furono respinti pagando caro l'irrazionale iniziativa. Carlo furente per questi veri e propri smacchi del suo esercito e ancora più infuriato per la tenacissima resistenza della "vile accozzaglia" che stavano però dimostrandosi uomini migliori dei suoi, pensò di stancarli con ripetuti quotidiani assalti, stringendo sempre di più il cerchio intorno alla città; ma tutto gli riuscì vano; ogni giorno per gli angioini era uno scacco, una frustrazione, anche piuttosto pesante, perché i Messinesi nel ributtarli indietro continuavano a far subire ai Francesi pesanti perdite; inoltre quelle continue mortificazioni inflitte dai Messinesi, contribuivano a questa "vile accozzaglia" a far aumentare la propria audacia, e nemmeno li sfiorava il dubbio di una resa.
Ma Carlo non si arrese; il re tentò ancora l'impresa della Capperina il 15 agosto 1282, lanciando contro la fortificazione il meglio delle sue truppe: ma queste dovettero rientrare nel campo dopo avere inutilmente combattuto e dopo aver lasciato sul terreno un gran numero di loro compagni morti; nonostante quest'altro fiasco, Carlo assalì ancora il 2 settembre con più vigore le mura settentrionali; ma ancora una volta l'assalto s'infranse di fronte alla tenacia e all'eroismo degli abitanti.
Allora l'impotente Carlo sfogò la sua ira sul contado; saccheggiò ancora la campagna con orribili scorrerie, e nulla fu risparmiato, neppure le chiese, i cui arredi furono presi e portati al campo, malmenati i sacerdoti che si opponevano. Poi tentò un ultimo e generale assalto, consigliato da nuovi preoccupanti avvenimenti (che accenneremo più avanti): l'arrivo in Sicilia di Pietro d'Aragona. Era il 14 settembre 1282. Carlo sferrò l'assalto della disperazione.
"Allo schiarir del giorno - riportiamo l'efficace narrazione dell'Amari -predispose la sua macchina di guerra a cerchio, dal piano, dal monte, in ordine, con macchine e infiniti ordigni; tutti splendenti nelle loro armature cavalcano le schiere di baroni; Carlo esorta i suoi a "non solo a combattere" ma strepita "dovete fare un gran macello".Nello stesso tempo la flotta armata con una tramontana favorevole nel golfo lanciata in avanti investì la bocca del porto; in prima fila un grandissimo naviglio, pieno di uomini e di macchine, dotato di difese contro i fuochi, e un rostro possente per spezzare la catena del porto per poi entrarvi.

Ma il porto Alaimo l'aveva con attenta cura rafforzato molto dentro, e aveva steso fuori delle micidiali trappole. Dentro la catena, nel porto messinese c'erano schierate quattordici galee con un equipaggio giovane audace; in mezzo altre sei navi, cariche di mangani e altri congegni; mentre fuori dalla catena molto bene occultate si nascondevano tese a pochi palmi sotto la superficie dell'acqua delle grosse reti che dovevano rompere l'eventuale movimento dei navigli nemici che s'impigliavano a quelle: sorgeva inoltre sulla riva un fortino, e dentro questo i combattenti più feroci muniti oltre che di ottime armi di tanti altri micidiali ordigni. Proprio qui iniziò la prima zuffa. Dirigendosi la grande nave sopra il fortino impigliatasi nelle reti, con sassi e dardi i Messinesi la tempestarono, gli gettarono spezzoni infuocati, squarciarono le vele. Teneva la nave tuttavia la battaglia, ma saltato il vento a favore, con lo scafo sfasciato e le vele lacerate, i suoi uomini rimasero sgomenti, la grande nave allora si ritrasse da quell'impaccio, ma arretrando anche tutta la flotta si ritrasse. Altro umiliante smacco!
Se dal mare il pericolo era stato così bene neutralizzato, tutta l'attenzione fu allora rivolta all'attacco a terra, dove le turbe di francesi avevano sferrato il grande assalto; facendo cozzare i "gatti" contro le mura per aprire una breccia; appoggiando scale sulle stesse mura mentre nuvole di saette della fanteria investivano i Messinesi sugli spalti. Ma questi per nulla intimoriti, sfidando la morte ogni volta che si affacciavano, facevano grandinare pietre, massi, buttavano olio e pece bollente, e col fuoco greco incendiavano le scale facendo ruzzolare giù i Francesi a grappoli.A quel punto la sorte nell'accanita lotta ondeggiava, la situazione era diventata critica per entrambi.
Eppure ALAIMO, infaticabile, non perdeva la testa; anzi era raggiante in volto, correva in ogni luogo, agli steccati delle barricate, agli spalti delle mura, si precipitava dove era necessario, dove urgeva, dove c'era all'improvviso il maggior pericolo e a dire cosa e come fare. Intanto seguiva attento i movimenti del nemico, reggeva tutta la difesa, cambiava i soldati stanchi con quelli freschi, faceva rifornire di armi e di ordigni chi era rimasto senza, esortava acombattere. E con lui condottiero, tutti i cittadini, compresi quelli di maggior nome s'impegnavano in quella che doveva essere ormai la prova estrema, e anche la più disperata.

Come negli assalti dei giorni precedenti, non vi era nessuna indecisione, timori, tentennamenti. I più audaci, i più eccitati, gridano "Viva Messina e la libertà", quelli che non gridano però ascoltano; e agli uni e agli altri torna la lena nei petti e si raddoppia il vigore chi nelle braccia e chi nell'ingegnarsi a come battere sia la morte a un passo, sia i Francesi a due passi a decina di migliaia.

Poi c'erano le donne, anche loro a sgusciare in mezzo ai tiri delle saette; nei grembiuli portavano i rifornimenti di sassi, frecce, olio, pece, e qualche volta per rincuorare i mariti, i figli, i fratelli, portavano qualche fiasco di vino, le cibarie, e qualche sorriso d'incoraggiamento.
Giravano anche con i bambini in braccio, e ogni tanto quelle più esasperate, li alzavano mostrandoli ai Francesi e gridavano "li vedete, li sgozzeremo noi piuttosto che lasciarli a voi", e un'altra gridava "non ci rapirete più le nostre vergini, non contaminerete più i nostri letti, perché quando entrerete -se entrerete perché noi lotteremo fin quando avremo fiato- noi stessi spianeremo la città e di noi non ne troverete una viva".

Tutto un popolo unito in armi e in una sola virtù. Fuori, la città, in effetti, era già spianata; la furia degli assalti e l'accanimento della difesa aveva sfasciato tutto. Ai piedi delle mura, c'erano montagne di scale e macchine d'assedio fracassate, e poi di assediati e assedianti c'era attorno alle mura una ghirlanda di cadaveri, o uomini feriti a lamentarsi o nelle convulsioni della morte. Le perdite dei Francesi erano enormi perché erano uomini mandati con una irrazionale ostinazione, al macello, mentre quelle dei messinesi erano molto inferiori avendo una posizione dominante. Il re in sosta nei pressi della chiesa di Santa Maria, si rodeva dalla rabbia per quegli assalti che erano tutta una serie di cocenti fallimenti; ma gli mancava ancora la sua personale disfatta, e questa arrivò dalle mura che lui voleva conquistare; dall'alto di una di quelle, il messinese BONACCORSO un dottore che nell'occasione era addetto ai lanci dal mangano, con un magistrale tiro mirava con un bel macigno proprio al sovrano; Carlo non ci lasciò la pelle, solo perché due suoi ufficiali con un atto eroico scansarono il re e furono colpiti loro due, ma fu tuttavia sufficiente a far perdere l'indomito coraggio al sovrano, che abbandonò il luogo dove la fortuna non gli era proprio più propizia. Da dove si era rifugiato iniziò a vedere il ripiegamento non di un esercito ma una marmaglia di sbandati, zoppi, sanguinanti, afflitti, e dato che era giunta anche la sera a quel punto fece suonare la ritirata generale.
E se per i Francesi sul campo quello era il suono umiliante della disfatta, e per alcuni l'ultimo che udivano, lo stesso suono arrivò anche oltre le mura, e allora si sentì un boato che i gridi di tripudio avevano fatto esplodere, fatto ridere e insieme fatto piangere dalla gioia. Alcuni arditi uscirono fuori le mura, a inseguire qualche sbandato, a beffeggiarlo, altri andarono a spogliare i cadaveri dei francesi quasi sotto gli occhi del re. Nella stessa notte un altro ardito, un certo LEUCCIO, che voleva saziarsi di nemici e gli piacevano le beffe, con un gruppo di spavaldi come lui, si spinse fino al campo dei Francesi, e dopo aver fatto una strage fra gli stanchi, assonnati e miseri soldati di quell'esercito fantasma, se ne tornò dentro in città carico di un ricco bottino.

Così, sotto le mura dell'eroica Messina fu punita l'arroganza angioina e tramontava da questo momento e per sempre la fortuna di Carlo, mentre contemporaneamente nell'altra parte dell'isola la rivoluzione prendeva tutta un'altra via, la repubblica che era sorta dopo il vespro, sboccava un'altra volta nella monarchia; pure questa straniera.

PIETRO D'ARAGONA IN SICILIA
FINE DELL'ASSEDIO DI MESSINA

Se l'annuncio della rivolta palermitana del "Vespro", aveva fatto fremere di rabbia Carlo d'Angiò, ovviamente recò esultanza nell'animo dell'indeciso PIETRO D'ARAGONA. La rivoluzione veniva a facilitare tutti i suoi piani e pensò seriamente che sarebbe stata a lui d'immenso aiuto se avesse saputo indirizzarla a suo favore.

Intensificò pertanto i contatti con i frustrati baroni siciliani, consigliandoli forse di prendere parte al moto, a parteciparvi e, potendo, mettersi al governo delle città insorte; inoltre affrettò i preparativi, concluse segretamente gli accordi col principe saraceno di Costantina, scrisse al Papa che gli mandasse qualche aiuto per la guerra che stava per intraprendere contro i Mori d'Africa, pur sapendo che non li avrebbe ricevuti; si diede da fare con cura e nello stesso tempo con celerità a sistemare le cose della sua famiglia e del regno, affrettando il matrimonio del figlio Alfonso con Eleonora d'Inghilterra, facendo testamento con il quale istituiva Alfonso erede dei reami d'Aragona e Valenza e della contea di Barcellona e destinando come reggenti il figlio medesimo e la regina Costanza.

Il 3 giugno 1282, con poche migliaia di cavalli e fanti leggeri salpò dal porto di Fangos presso Tortosa e il 28 dello stesso mese giunse al porto di Collo nella provincia di Costantina, dove seppe che il principe alleato era nel frattempo morto e trovò piuttosto ostili gli abitanti. Nonostante questo contrattempo, re Pietro non abbandonò l'impresa, che faceva parte dei suoi disegni, si impadronì del territorio e iniziò le operazioni contro Arabi e Berberi che difendevano Costantina e si opponevano energicamente all'avanzata dell'Aragonese.

Pur combattendo con grande entusiasmo, pensava l'Aragonese che, non essendo l'Africa lo scopo principale della sua impresa, era inopportuno esaurire lì tutte sue forze. Alla Sicilia, dove i suoi emissari lavoravano, lui mirava, ma gli era pur necessario un pretesto per recarvisi onde giustificare il proprio intervento alla Santa Sede che temeva più di Carlo.

Per consiglio di RUGGERO di LAURIA e di altri fuorusciti siciliani, inviò al Pontefice, con due galee, GUGLIELMO di CASTELNUOVO e PIETRO di QUERAULT affinché gli annunciassero l'iniziata guerra contro i Musulmani e a nome del re chiedere quegli aiuti che la Chiesa di solito era abituata ad accordare alle crociate in Terrasanta.
Di un'altra missione più delicata erano però incaricati i due ambasciatori: dovevano scendere in Sicilia, esplorare gli animi degli abitanti e indurli a chiamare Pietro e il suo esercito nell'isola.
Ripartiti da Roma, fingendo di esservi stati costretti dai venti contrari, i due messi dell'Aragonese approdarono a Palermo proprio quando, nella chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio, i rappresentanti delle città siciliane e i baroni riuniti in Parlamento, erano preoccupati per la sorte di Messina e non sapevano cosa decidere; se cadeva quella città Carlo avrebbe invaso l'Isola. (Carlo come abbiamo visto sopra aveva appena iniziato il terribile assedio della città con tutte le sue truppe. Quindi molti nutrivano poche speranze per la sorte dei Messinesi in una così impari lotta).
Presentatosi all'assemblea, il QUERAULT, toccò l'argomento eredità, parlò dei diritti che Costanza aveva sul Regno Siciliano, e consigliò il parlamento di eleggere re Pietro, che era già pronto con il suo esercito in poche ore a intervenire. Vinti i pochi e deboli oppositori, fu deliberato di offrire a Pietro la corona purché mantenesse tutte le leggi del tempo di Guglielmo il Buono ed aiutasse con le sue armi i Siciliani a scacciare Carlo; inoltre furono mandati in Africa NICOLÒ COPPOLA e PAIN PORCELLA con lettere per il re, mentre il Castelnuovo e il Querault riprendevano il loro viaggio per Montefiascone dove il Pontefice era solito passare in vacanza l'estate.

MARTINO IV si mostrò lieto delle prime vittorie di Pietro, ma rifiutò gli aiuti richiesti e a quel punto gli ambasciatori, fingendo sdegno, subito se ne tornarono a casa. Intanto in Africa l'Aragonese riceveva i messi da Palermo e, accettata la corona, il 25 agosto 1282, con ventidue galee, oltre legni minori, e circa diecimila tra cavalieri e fanti, partiva alla volta di Trapani, dove giungeva il 30 dello stesso mese accolto festosamente dal popolo e dai nobili (Messina intanto lottava ed era in piena disperata resistenza)

A Trapani Pietro non ci rimase a lungo: la settimana dopo, il 4 settembre, spedita a Palermo la flotta, lui si mise in marcia via terra, verso la capitale dell'isola, dove quando vi arrivò furono grandiose le accoglienze che gli furono tributate e tre giorni dopo Pietro accordò le franchigie del tempo di Guglielmo e ricevette il giuramento di fedeltà.

Terminate le feste, fatte per solennizzare l'avvenimento, Pietro scrisse al Pontefice per informarlo di essere sbarcato in Sicilia per sostenere i diritti della moglie e dei figli e perché vi era stato chiamato dalla popolazione.

Stimolato dai Siciliani, Pietro ordinò che tutti gli uomini dei dintorni, dai quindici ai sessant'anni si riunissero in Palermo entro un mese con armi e viveri per trenta giorni e, prima ancora che l'adunata fosse terminata, con le milizie condotte dalla Spagna e con quelle più numerose dell'isola che già si erano raccolte, marciò per la via di Nicosia e Randazzo alla volta di Messina e contemporaneamente inviò la flotta verso il faro con il proposito evidente di tagliar le comunicazioni con la Calabria a Carlo, al quale spedì pure un'ambasciata composta da Pietro QUERAULT, RUY XIMENS DE LUNA e GUGLIELMO AYMERICH.
Gli ambasciatori però non furono ricevuti subito: Carlo d'Angiò preparava allora quel fatidico decisivo assalto -che abbiamo narrato sopra- del 14 settembre con il quale era sicuro che in una sola giornata si sarebbe impadronito di Messina, e fece rispondere che avrebbe dato loro udienza entro due giorni.

Fallito l'assalto con una disfatta, l'Angioino ricevette i messi dell'Aragonese e non riuscì a frenare la sua collera quando il Querault, a nome del suo sovrano, gl'intimò di lasciar la Sicilia a torto da lui occupata e angariata, al cui aiuto ora il re d'Aragona si era mosso per far trionfare i diritti dei suoi figliuoli e dei Siciliani. E' fama che Carlo, mordendo per la rabbia il bastone che di solito portava, rispondesse "non esser la Sicilia né sua né di Pietro d'Aragona, ma della Santa Romana Chiesa; che lui difendeva e avrebbe saputo come far pentire un audace occupatore".

Intanto giungevano a Messina cinquecento balestrieri dell'esercito di Pietro. Questo notevole rinforzo e la notizia che dal porto di Palermo era già uscita la flotta, con il proposito di tagliar le comunicazioni degli angioini con la terraferma e, ancora, che un pericoloso malumore serpeggiava pure sulla terraferma a Reggio, provocarono al campo del re un consiglio di guerra in cui fu deciso di togliere l'assedio a Messina e ripassare il mare.

Prima però Carlo volle fare gli ultimi tentativi: e non sdegnò di ricorrere al tradimento. Fallitogli anche questo colpo per la vigilanza dei Messinesi, indugiava ancora a passare lo Stretto, quando a partire lo costrinse un'audace sortita degli assediati, i quali, la notte del 24 settembre, ruppero sanguinosamente un corpo di milizie nemiche rafforzate presso le mura e superate queste andarono a portare lo scompiglio nel campo di Carlo.
Più che l'ultimo atto di guerra dei Messinesi, quella era l'ultima beffa, che convinse a mettere le ali ai piedi all'umiliato sovrano.

Il 25 settembre iniziò la ritirata degli Angioini, con la partenza della regina; il 26 partì il re, poi seguì l'esercito, e parve una fuga più che una ritirata, tanto era il disordine e così grande la fretta d'imbarcarsi che lasciarono al campo bagagli, vettovaglie, macchine e cavalli.
A render più disastrosa la partenza concorsero i Messinesi, che molestarono l'esercito angioino in così malo modo che i capitani nemici si trovarono nella necessità di costruire ripari sulla spiaggia per proteggere la ritirata, durante la quale i Francesi vi lasciarono altri centinaia di morti e una quantità enorme di materiali di guerra.

Questo fu il memorabile esito - osserva giustamente Michele Amari - dell'assedio di Messina. Tra le gare, fanciullesche sì, ma anche parricide, dove l'Italia cadde lacera e schiava, splende congiunta la gloria delle due maggiori città nella rivoluzione del vespro.
Ne levò alto l'insegna Palermo che così aggregò la Sicilia intera al gran fatto; ma non assestò il reame proprio per nulla, che minacciato da tanti conflitti, solo Messina si salvò - e con le sole sue forze- nell'eroica difesa.
Così s'iniziò a celebrare la fama di Messina, del suo eroico capitano Alaimo, dei cittadini e… delle donne, anche queste ferite nella battaglia disperata durata sessantaquattro giorni; damigelle della guerra poi cantate nella rinascente musa d'Italia; le altre siciliane spose e donzelle, mosse da ammirazione, iniziarono ad imitare la magnificenza delle Messinesi, le loro fogge e gli ornamenti; giacché, dileguato il pericolo, a Messina fu ripreso ogni delicato vivere tra i commerci, le industrie e le ricchezze della valente città". Di stranieri nell'assedio combatterono non più di sessanta Spagnoli; parteciparono circa cento fra Genovesi, Veneziani, Anconitani, Pisani. Non vi erano né cittadini esercitati alle armi prima dell'assedio, né vi erano possenti fortificazioni; la maggior parte erano rovinate e fu necessario rimediarvi con delle barricate; molti assalti proprio su queste improvvisate barriere furono respinti.

Provvisti d'ingegnose macchine fatte da loro stessi, obbedienti, ordinati, gli abitanti all'inizio di quell'assedio come numero, nemmeno contando i poppanti e i vecchi decrepiti, raggiungevano il numero degli assedianti.
Eppure per sessantaquattro giorni diedero prima scacco e poi umiliarono un così potente esercito, la sua flotta e il Re in persona che li comandava, ma che commise tanti grossolani errori, e che come superiorità aveva una sola cosa in abbondanza: la superbia che con la virtù, i Messinesi prima la respinsero, poi la umiliarono e alla fine derisero pure. La vittoria non sola salvò Messina da un nuovo e più pericoloso giogo angioino (e chissà con quale tremenda punizione la città avrebbe pagato il suo ardire) ma, inchiodando per due mesi Carlo in quest'angolo della Sicilia, fece in modo che salvasse il resto dell'isola sicuramente da altri successivi attacchi angioini.

Di modo che i Siciliani, sotto la guida dell'Aragonese, ritrovata l'antica energia, passarono risolutamente all'offensiva, balzando alle cronache del tempo con tante vittorie navali e terrestri e diedero per parecchi anni l'equivalente smacco al più spavaldo degli stranieri e al più crudele e sleale tra i nemici d'Italia. Carlo D'Angiò dopo Messina, contro Pietro D'Aragona iniziò la sua ormai "perdente guerra", che durerà fino alla sua fine; con una conseguenza: che nel Mezzogiorno, s'insediò un'altra monarchia, e causò quella separazione -Regno di Sicilia dal Regno di Napoli- che sarebbe durata fino al 1816.
Tutto grazie ad Innocenzo IV, quando pochi mesi prima di morire chiamò l'angioino in Italia, con delle intenzioni che forse erano buone, ma non altrettanto lo erano i suoi principi; enorme fu il danno di questa scelta e poi l'influenza sul corso della storia: fu causa della rovina dell'impero, diede inizio al declino del papato, modellò i destini d'Italia.
I fatti di questa guerra fra Aragonesi-Angioini è il prossimo…
periodo dall'anno 1282 al 1302 > > >
Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
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