ANNI 1339 - 1355

I VISCONTI: LUCHINO E GIOVANNI - LE GUERRE TRA GENOVA E VENEZIA

LUCHINO VISCONTI SIGNORE DI MILANO CONGIURA DI FRANCESCO PUSTERLA - NUOVI ACQUISTI DI LUCHINO E PACE COL PONTEFICE - GUERRA PEL POSSESSO DI PARMA - VICENDE DEL PIEMONTE: ODOARDO, AIMONE ED AMEDEO VI DI SAVOIA; FILIPPO E GIACOMO D'ACAIA; I MARCHESI DI SALUZZO E MONFERRATO - I VISCONTI E I SAVOIA - MORTE DI LUCHINO - SIGNORIA DI GIOVANNI VISCONTI - I POPOLI E IL CONTE DI ROMAGNA - BOLOGNA PASSA SOTTO IL DOMINIO VISCONTEO - GIOVANNI VISCONTI E CLEMENTE VI - I VISCONTI IN TOSCANA: ASSEDIO DI SCARPERIA - VICENDE DI VENEZIA: IL DOGE GRADENIGO E LA SERRATA DEL GRAN CONSIGLIO; LE CONGIURE DI MARINO BOCCONIO E DI BAIAMONTE TIEPOLO; ISTITUZIONE DEL CONSIGLIO DEI DIECI; MARINO ZORZI, GIOVANNI SORANZO E FRANCESCO DANDOLO DOGI; SPEDIZIONE DI PIETRO ZENO CONTRO I TURCHI - VENEZIA E GENOVA NEL MAR NERO - GIOVANNI DI VALENTE DOGE DI GENOVA. - GUERRA TRA GENOVA E VENEZIA: BATTAGLIA NAVALE DEL BOSFORO; IL PETRARCA E CLEMENTE VI SI ADOPERANO PER LA PACE; BATTAGLIA NAVALE DELLA LOIERA - GENOVA SI DA A GIOVANNI VISCONTI - II PETRARCA A VENEZIA - ANDREA DANDOLO - LEGA CONTRO I VISCONTI - I VENEZIANI SCONFITTI A PORTOLUNGO - CONGIURA DI MARIN FALIER - PACE TRA GENOVA E VENEZIA

sulla dinastia dei VISCONTI
l'abbiamo già riferita in queste pagine
in MILANO MEDIOEVALE



 I SAVOIA E I VISCONTI
FINE DELLA SIGNORIA DEI PEPOLI IN BOLOGNA


 Lo abbiamo appena letto nel precedente capitolo, AZZO VISCONTI cessò di vivere il 16 agosto del 1339. 
Essendo rimasto sterile il suo matrimonio con Caterina di Savoia, due giorni dopo la sua morte la signoria venne data ai due fratelli superstiti, LUCHINO e GIOVANNI, col titolo di signori generali di Milano e del distretto, ma in realtà l'autorità fu esercitata dal primo, che era maggiore di età. Luchino, quando era vivo Azzo, era dedito alla crapula, in cui gli facevano compagnia ministri e cortigiani, e forse per questo il Consiglio generale gli aveva dato come collega il fratello; ma ottenuta la signoria divenne tutt'altro uomo, si diede con estrema severità ad amministrare la giustizia, allontanò da sé i compagni dissoluti e con grande rigore cominciò a frenare la licenza dei suoi ministri. 

Di questo mutamento gli furono grati i sudditi, non certo coloro che colpiva; questi anzi ordirono ben presto una congiura per sbarazzarsi di Luchino e Giovanni e conferire il potere ai tre figli di Stefano Visconti. Capo della congiura era FRANCESCO PUSTERLA, CHE odiava Luchino dal quale la moglie Margherita, virtuosissima gentildonna, aveva patito violenza. I congiurati però non seppero mantenerE segrete le loro trame né, forse proprio per questo motivo,  riuscirono a porre in atto i loro disegni: scoperta la congiura, i mèmbri vennero arrestati, i tre nipoti di Luchino furono puniti con l'esilio, gli altri, tra cui Margherita, vennero giustiziati. Solo Francesco Pusterla con un fratello e i figli si era salvato trovando scampo, fuggendo nel giugno del 1340, ad Avignone presso la corte pontificia. Ma a Luchino riuscì con l'inganno di farlo andare a Pisa e di farselo consegnare e, nel 1341, Francesco, col fratello e i figli, tradotto in catene a Milano, venne decapitato nella piazza dei Mercanti. 

"Molte virtù guerriere, perfida politica, impenetrabile dissimulazione, gelosia feroce della propria autorità, diffidenza tale da trarlo a sopprimere per sospetto i suoi più stretti parenti: questi erano i principali tratti del suo carattere. Fu molto lodato il suo amore per la giustizia o piuttosto la vigilanza con cui reggeva i suoi stati e la severità con cui castigava i malfattori; ma sotto lo stesso nome non si debbono confondere l'amore integerrimo e giusto per le immutabili norme della giustizia e l'inflessibilità di un despota geloso della propria autorità, che conserva o vendica l'ordine da lui stabilito. Luchino era amante della lode, onde ambiva l'amicizia del Petrarca, la quale i potenti di allora ottenevano facilmente solleticando l'amor proprio del poeta. Infatti il Petrarca indirizzò una pomposa epistola a Luchino per celebrare la virtù e la gloria. (Così scrive di Luchino il Sismondi)

 E il ritratto del signore non manca di verità, ma si vuole aggiungere che Luchino, sia pur governando dispoticamente, seppe mantenere alla sua casa i domini ereditati da Azzo ed accrescerli con importanti conquiste che diedero ai Visconti il primato in Italia. Nel 1340 Luchino aggiunse ai suoi possessi Asti, che gli fu ceduta dal marchese Giovanni di Monferrato, e Bobbio.
 Il Pontefice protestò, ma il Visconti seppe abilmente evitare un conflitto con Avignone, sborsando alla curia cinquantamila fiorini d'oro che gli procurarono la conferma papale e il titolo di vicario di Milano e degli altri domini durante la vacanza dell' impero (6 .agosto 1341) e, più tardi, procacciarono a Giovanni Visconti la sede arcivescovile milanese (17 luglio 1342). 
Meno facile gli riuscì l'acquisto di Parma. Era signore di questa città Azzo da Correggio che se ne era impadronito nel 1341 con la promessa di cederla, dopo quattro anni, a Luchino. Invece, nel 1344, egli la vendette per sessantamila fiorini d'oro ad Obizzo II d' Este, signore di Ferrara e di Modena. Luchino allora mosse guerra ai Correggeschi aiutato dalle armi di Filippino Gonzaga; Azzo da Correggio fu soccorso dagli Scaligeri, da' Popoli e da Pisa. 

I Pisani erano da qualche tempo in guerra coi Visconti per aver cacciato dalla città Giovanni Visconti d' Oleggio. Malgrado fossero sostenuti da tanti alleati, essi ebbero la peggio e furono costretti nel 1345 a chieder pace pagando la somma di ottantamila fiorini e restituendo i beni ai figli di Castruccio. Sorte peggiore ebbe Obizzo in quella guerra che al Petrarca ispirò la famosa canzone Italia mia, benché il parlar sia indarno. 
Battuto dalle armi di Filippino Gonzaga, egli dovette accontentarsi di cedere Parma a Luchino per lo stesso prezzo al quale l'aveva comprata e firmare a Milano, nel dicembre del 1346, la pace, che rinsaldò tenendo a battesimo i gemelli Novello e Giovanni che la moglie, di Luchino, Isabella Fieschi, aveva in quei giorni dato alla luce. 

Il felice successo di questa guerra accrebbe l'autorità e gli appetiti di Luchino, il quale rivolse lo sguardo verso il Piemonte dove le signorie più potenti erano quelle dei Monferrato e dei Savoia. Era morto il 16 ottobre del 1323 in Avignone Amedeo V e gli era successo il primogenito Odoardo, detto il liberale, noto per la sconfitta subita a Varey (1325) dal Delfino di Vienne e per gli statuti generali legati ai principi di civiltà e di giustizia. 
Ad Odoardo, morto nel 1329, era successo il fratello Aimone, che, fu detto il Pacifico malgrado avesse guerreggiato dal 1329 al 1334 col Delfino di Vienne; dal 1338 al 1348, alleato del re di Francia, contro l'Inghilterra; mentre un altro Savoia, Filippo d'Acaia combatteva contro Roberto d'Angiò e i Marchesi di Saluzzo e Monferrato, alleati contro di lui. 
Quando Luchino Visconti cominciò a rivolgere nuovamente gli sguardi sul Piemonte, il ramo sabaudo d'Acaia era rappresentato da Giacomo, successo al padre Filippo nel 1334; quello principale dei Savoia da Amedeo VI, (successo in età di nove anni al padre Aimone) che doveva più tardi essere soprannominato il Conte Verde dal colore del costume indossato in un torneo a Chambery (1348); il marchesato di S luzzo si trovava diviso tra i figli di Manfredo; quello del Monferrato era tenuto da Giovanni, figlio di Teodoro, che, sceso in campo contro gli Angioini, li sconfiggeva nel 1346 a Gamenario, segnando con questa vittoria la fine del dominio angioino in Piemonte. 

Nel 1347 Luchino ebbe per dedizione spontanea di Tortona ed Alessandria, poi, alleatosi con Giovanni di Monferrato e Tommaso di Saluzzo, occupò Alba, Cherasco, Mondovì e Cuneo, entrando in conflitto con Giacomo d'Acaia ed Amedeo VI, che avevano preso le armi anche loro per partecipare alle spoglie dei possessi angioini. La guerra ebbe varie vicende e fruttò ai principi sabaudi l'acquisto di Chieri, Savigliano ed Ivrea. Quest'ultima città era stata tolta da Amedeo VI al Marchese di Monferrato, ma fatta, nel 1349, la pace tra i Savoia e i Visconti,  fu resa più salda col matrimonio di Bianca, sorella del Conte Verde, con Galeazze II. Rimessa la questione di Ivrea nelle mani del l'arcivescovo di Milano, e questi dichiarò che la signoria della città e del suo territorio fosse divisa fra il conte e il marchese. 

La pace tra i Savoia e i Visconti non fu però opera di Luchino, morto il 24 gennaio del 1349 secondo alcuni di peste, secondo altri di veleno propinategli dalla moglie infedele; ma opera del fratello Giovanni, il quale — fuggita a Genova la cognata col figliuolo, Luchino Novello, unico superstite dei due gemelli — prese la signoria. 
I primi atti dell'arcivescovo Giovanni furono pacifici: richiamò dall'esilio di Chambery Galeazzo e Bemabò figli di Stefano e complici della congiura del Pusterla, liberò dalla prigione, in cui languiva da dieci anni, Lodrisio Visconti, il condottiero sfortunato della Compagnia di San Giorgio, concluse, come abbiamo visto, la pace con i Savoia, facendo da arbitro nelle loro contese col marchese di Monferrato; diede in sposa Bianca di Savoia al nipote Galeazzo e Beatrice Regina, figlia di Mastino della Scala; a Bernabò  troncò la guerra che il fratello Luchino aveva mosso a Genova. Ciò non deve far credere che Giovanni Visconti aborrisse le armi, ma è certo che alla dubbia sorte delle operazioni militari egli preferiva i negoziati o, quando occorreva, il saggio impiego dei suoi denari. E per denari egli accrebbe i suoi domini di una città importantissima qual'era Bologna. 

Morto nel 1347 Taddeo Pepoli, gli erano successi nella signoria i figli Giovanni e Giacomo. Dominavano questi a Bologna da tre anni, quando giunse in Romagna, come vicario del Pontefice nella regione, ETTORE di DURFORT con mezzo migliaio di cavalieri provenzali, con una ragguardevole somma e col compito di ridurre all'obbedienza della Santa Sede la città di Faenza di cui si era proclamato signore GIOVANNI MANFREDI. Ma non era questo il solo compito del Durfort: egli aveva ricevuto da Clemente VI il titolo di Conte di Romagna e col titolo anche l'incarico di spodestare tutti i signorotti della regione.
Ettore di Durfort, ricevute milizie dagli Alidosi di Imola e duecento cavalieri dai Pepoli di Bologna, mosse contro il Manfredi, che era sostenuto da Francesco degli Ordelaffi insieme col quale aveva assoldato la compagnia del duca Guarnieri, e il 13 maggio del 1350, sconfitti gli avversari si impadronì a viva forza del ponte di San Procolo. Ma al castello di Saleruolo il conte trovò vivissima resistenza e dovette porvi l'assedio, e, siccome questo mostrava di durare troppo a lungo, per non perdere  tempo prezioso, strinse i segreta alleanza con Mastino della Scala e iniziò trame coi Bolognesi. I Pepoli, che avevano fornito aiuti al conte di Romagna non dubitavano che contro di loro potessero rivolgersi le insidie del Durfort, per cui Giovanni, chiamato al campo sotto il pretesto di farsi mediatore tra il conte e il Manfredi, non esitò a recarvisi (6 luglio), ma qui giunto venne arrestato e condotto a Imola, mentre i suoi uomini passarono sotto i  le insegne di Ettore di Durfort, che marciò sopra Bologna. 

Giacomo Popoli sorpreso e sdegnato dal tradimento, richiese di soccorsi alle città amiche e ai vicini signori. Firenze glieli neg ; glie ne offrirono i Gonzaga, i Malatesta e Giovanni Visconti. Quest'ultimo gli mandò cinquecento cavalli. Giacomo  seppe trarre dalla sua  parte assoldandola, la compagnia del duca Guarnieri, ma dovette piegarsi alle pretese del condottiero che volle per alloggio dei suoi uomini un' intera via della città, la quale  minacciata dai nemici che scorrevano, devastando, il territorio e spogliata dai mercenari dell'Urslingen, ben presto si trovò in condizioni insostenibili.
 Ma neppure il conte di Romagna si trovava in floride condizioni. Il denaro ricevuto dal Pontefice era finito e i suoi soldati da parecchio tempo non ricevevano le paghe. Stanchi di reclamarle, essi si ammutinarono, e il conte di Romagna, minacciato di essere tenuto in ostaggio, se la cavò a buon mercato consegnando ai suoi mercenari Giovanni Pepoli perché si pagassero col suo riscatto.
Giovanni Popoli offrì alle soldatesche una fortissima somma (ottantamila fiorini) ma non potendola sborsare interamente subito ne pagò in acconto ventimila lasciando come  garanzia  i suoi tre figli. Il Popoli sperava che il rimanente della somma sarebbe stata pagata dai Bolognesi, ma questi, esausti dai saccheggi del Guarnieri, non  furono in grado di soddisfarlo. Allora Giovanni per far fronte agli impegni e forse anche perché credeva di non poter mantenere la signoria di Bologna deliberò di cedere la città:
Perché il mercato che si proponeva di fare non trovasse ostacoli, mandò a Firenze di i più ragguardevoli cittadini col pretesto di chiedere la mediazione dei Fiorentini per ottener la pacificazione col conte di Romagna. Quando furono partiti si recò segretamente a Milano a trattar col Visconti la vendita di Bologna. L'arcivescovo promise ai Popoli ducentomila fiorini d'oro e lasciò loro il possesso  San Giovanni di Persiceto,  Sant'Agata Feltria, Crevalcuore e Nonantola, poi col pretesto di spedire  aiuti al Pepoli, ma in realtà per prender possesso della città, mandò a Bologna il nipote del Galeazzo con mille e cinquecento cavalieri. I Bolognesi troppo tardi si accorsero di essere stati venduti e protestarono, ma, privi dei loro capi che si trovavano a Firenze, non seppero difendere con le armi la loro libertà e il 23 ottobre del 1350 furono costretti  a riconoscere la signoria dei Visconti.

II duca Guarnieri, che non si trovava in buoni, rapporti con l'arcivescovo di Milano, al comparire delle milizie dei Visconti fuggì al campo di Enrico di Durfort, il quale  riceveva contemporaneamente i soccorsi di Mastino della Scala. Questi improvvisi  aiuti gli davano la superiorità numerica sul nemico, ma gli facevano difetto i denari,  perche  ebbene richiesti Avignone non ne mandava. In tali condizioni il conte di Romagna fu costretto ad acconsentire che le sue truppe trattassero direttamente col nemico. Galeazzo Visconti col denaro destinato ai Popoli diede le paghe arretrate a millecinquecento cavalieri del Conte che passarono così al suo servizio, costrinse gli altri ad allontanarsi e in poco tempo ricuperò tutti i castelli occupati dal Durfort, il quale, prima arretrò su Imola, poi se ne tornò nel febbraio del 1351 ad Avignone. 

L'acquisto di Bologna da parte del Visconti non poteva lasciare indifferente il  Pontefice. Clemente VI che con un opportuno inviò di denari avrebbe potuto qualche mese prima rialzare le sorti del conte di Romagna, tuttavia ora cercò di spaventare l'arcivescovo di  Milano con le armi spirituali. Citò Giovanni e i nipoti a comparire entro l' 8 di aprile ad Avignone e nel medesimo tempo incaricò il vescovo di Ferrara di portare al Visconti un ultimatum della Santa Sede, e, ove questo riuscisse vano, di mettregli contro una lega. 
Il legato pontificio si recò infatti a Milano, e nel Duomo, in presenza del clero e del popolo a nome del Papa ingiunse all'arcivescovo di restituire Bologna e di scegliere tra la condizione di prelato e quella di principe. Giovanni Visconti, tenendo con la sinistra una croce e sguainando con la destra una spada, superbamente rispose: Ecco le mie armi spirituali e temporali: con l'una difenderò l'altra.
II 21 maggio del 1351 Clemente VI lanciò l'interdetto su tutti i domini dei Visconti; ma non ebbe alcuna efficacia ; migliori risultati non produssero gli intrighi del vescovo di Ferrara: Giacomo da Carrara era stato assassinato il 21 dicembre del 1350 e il fratello Jacopino e il figlio primogenito Francesco succedutigli nella signoria di Padova non osarono mettersi contro la potenza viscontea; Mastino della Scala, che avrebbe aderito ad una lega, morì il 5 giugno del 1351, lasciando la signoria ai tre figli Cangrande II, Cansignorio e Paolo Alboino, il primo dei quali, avendo sposata una nipote dell'arcivescovo, propendeva piuttosto ad allearsi con lui; Alberto della Scala, che doveva spegnersi l'anno dopo, si era da tempo appartato dal governo, e gli Estensi, che avevano mostrato di accettare le proposte del vescovo, ora rifiutavano di mettersi in una impresa tanto pericolosa. 

Soltanto Firenze porse orecchio al vescovo di Ferrara, minacciata com'era dai Visconti che radunavano milizie contro questa città e si procuravano l'alleanza degli Scaligeri, degli Ordelaffi, dei Malatesta, dei Montefeltro, dei Monaldeschi di Orvieto, dei Gabrielli I di Gubbio, degli Ubaldini, dei Tarlati, degli Ubertini, dei Santaflora, dei Castracani e degli Spadalunga, e con Firenze si strinsero in lega Siena e Perugia, troppo debole  l'una e troppo lontana l'altra per porgerle valido aiuto. 

Intanto l'arcivescovo Giovanni preparava una spedizione in Toscana. Il comando venne affidato a Giovanni Visconti d'Oleggio, il quale da Imola, all'assedio di cui si trovava nell'estate del 1351 con un gran numero di milizie lungo la valle del Reno, scese nelAppennino pistoiese, e, attraverso i territori di Campi, Brezzi, e Peretola, andò ad assediare Scarperia nel Mugello.

 Era questa piccola terra presidiata da poche centinaia di fanti e di cavalieri; tuttavia rifiutò di arrendersi ed oppose una viva e gloriosa resistenza. Due mesi rimase stretta dal numeroso esercito dell'Oleggio e con superba bravura seppe respingerne tutti i poderosi assalti che vennero con insistenza sferrati contro, tanto che il Visconti, visti riuscire vani i suoi sforzi, e preoccupato dalle malattie che mietevano vittime nel suo campo, dalla scarsezza delle vettovaglie e dall'avvicinarsi dell'inverno, il 16 ottobre del 1351 tolse vergognosamente l'assedio e scornato se ne tornò nel bolognese. L' infelice risultato di questa spedizione non fece però desistere l'arcivescovo milanese dal proposito di impadronirsi della Toscana e, non avendo potuto conseguire il suo scopo con le armi cercò di conseguirlo con gli intrighi, procurandosi cioè in ogni città dei partigiani e provocando per mezzo di essi congiure e sommosse. 

Poco mancò che con questo sistema egli, nell'inverno seguente, non si impadronisse d'Arezzo. Questa città, riuscito vano un tentativo della famiglia dei Brandagli, alleata dell'arcivescovo, di rendersi signora di Arezzo, si unì in lega con Firenze e le altre città guelfe di Toscana. 
La nuova confederazione stabilì di mantenere al proprio soldo tremila cavalieri, fortificò i passi dell'Appennino e spedì un'ambasceria ad Avignone per muovere il Pontefice contro Giovanni Visconti. 
Ma nessun successo riuscì a conseguire quest'ambasceria; tuttavia l'arcivescovo l'aveva prevenuta iniziando pratiche con la curia avignonese. Da quell'uomo astuto che era Giovanni Visconti per mezzo di ricchissimi donativi si guadagnò l'appoggio dei cortigiani, di non pochi cardinali e della contessa di Turenna, che esercitava un grande ascendente sul Pontefice e così riuscì a ottenere di rappacificarsi con la curia papale. Il 27 aprile del 1352 Clemente VI riceveva, come indennizzo delle spese di guerra in Romagna, centomila fiorini d' oro e concedeva per dodici anni, dietro il tributo annuale di dodici mila fiorini, all'arcivescovo Visconti e ai suoi nipoti l'investitura della città e del territorio di Bologna.
 Un anno dopo, senza spendere un fiorino e senza spargere una sola goccia di sangue, Giovanni Visconti doveva acquistare un'altra città ben più importante: Genova, che era travagliata da una lunga e infelice guerra contro Venezia.


CONGIURE DI MARINO BOCCONIO E BAIAMONTE 
IL CONSIGLIO DEI DIECI 
 SPEDIZIONI VENEZIANE CONTRO I TURCHI 
GUERRA TRA GENOVA E VENEZIA 
BATTAGLIE DEL BOSFORO E DELLA LORENA 
GIOVANNI VISCONTI SIGNORE DI GENOVA


Genova e Venezia avevano conclusa una onorevole pace nel maggio del 1299, mediatori Bonifazio VIII, Carlo II d'Angiò e Matteo Visconti. Questa pace fu l'atto più importante della politica estera veneziana sul finire del secolo XIII; altro atto importante di politica interna fu la riforma del febbraio 1297, sotto il doge Gradenigo, che passò alla storia col nome improprio di Serrata Del Gran Consiglio.
"Questa legge — scrive il Bertolini — stabiliva che non potessero far parte del Gran Consiglio se non coloro che vi avevano seduto negli ultimi anni, e per non escludere del tutto gli uomini nuovi erano istituiti tre elettori con la facoltà di proporre altri candidati tra quelli che o non vi avevano mai seduto e non avevano ad esso appartenuto negli ultimi quattro anni. La legge doveva avere vigore per un anno, ma fu poi sempre rinnovata e con emendamenti sempre  più restrittivi;. La frase possint eligere de aliii, qui non fuissent de Majiori Consilo,  riferentesi al mandato dei tre elettori, fu interpretata nel senso che che fosse riferita a colui i cui antenati paterni avessero fatto parte del Consiglio; ch era del tutto contrario al vero. Nel 1315 si istituì un libro per inscrivervi gli eleggibili al Gran Consiglio, i quali avessero compiuto il diciottesimo anno di età.
e nel 1319 si stabbilì che, passati due anni, chiunque si trovasse ad aver compiuto l'età di 25 anni e possedesse  i necessari requisiti dovesse entrare senz'altro nel Gran Consiglio. Così la Serrata fu compiuta e i tre elettori, essendo divenuti inutili, furono soppressi.

 Naturalmente questa riforma non poteva non esser accompagnata da violenze da parte di coloro i quali venivano a precludere la via delle ambizioni. Infatti nel 1300 ci fu un tentativo di congiura contro il doge Pier Gradenigo, creduto il principale autore della riforma. Era capeggiata da un certo Marino Bocconio ed aveva lo scopo di sopprimere il doge; ma essendo stata scoperta a tempo, non riuscì ad attuare i suoi propositi: dieci congiurati tra cui il Bocconio, vennero arrestati, processati e impiccati. 

 Più importante e suscitata da più complessi motivi fu la congiura avvenuta dieci  anni dopo e che dal suo capo fu chiamata di Baiamente Tiepolo. Costui, nipote di Loronzo Tiepolo, già doge di Venezia, messosi d'accordo coi suoi congiunti Pietro e Marco Querini, con Badoero Badoer e molti altri, stabilì di sopprimere Pier Gradenigo e di abolire le riforme introdotte nel governo con la serrata del Gran Consiglio. Il colpo di mano, doveva essere attuato il 15 giugno del 1310 e quel giorno infatti molti congiurati uscirono  per le vie di Venezia gridando: Libertà! Morte al doge Gradenigo!. Il doge però, avuta notizia della trama da Marco Donato, uno dei congiurati, aveva fatto occupare la piazza di San Marco dalle sue milizie e queste non solo sbarrarono il passo ai rivoltosi che tentavano di giungere al palazzo, ma li ributtarono indietro con gravi perdite, uccidendo fra gli altri Marco Querini e suo figlio Benedetto. Essendosi inoltre dichiarata contraria a loro la maggior parte dei cittadini, i congiurati si ridussero oltre il ponte di Rialto, allora di legno, che fu tagliato, sperando nei  soccorsi che il Badoer doveva condurre da Padova. 

Quando però seppero che il Badoer era stato assalito e catturato nella laguna dai Chioggiotti e le sue schiere disfatte, si dichiarò disposto a scendere a trattative che vennero condotte dal vecchio Filippo Belegno, uno dei consiglieri del doge. Il 17 giugno  il Maggior Consiglio ratificò il patto concluso con i ribelli, cui si promise salva la vita, purché si allontanassero da Venezia. A Baiamente fu imposto di andare in esilio per quattro anni nella Slavonia, dove quindici anni dopo, tentò invano di tornare alla riscossa; perseguitato dalla repubblica, cessò di vivere!

La congiura di Baiamente — scrive il Battistella — « fu dai contemporanei considerata come un tentativo di parte guelfa di acquistare la supremazia a Venezia sul partito ghibellino del governo, e la guerra di Ferrara e l'essere i principali signori guelfi del Veneto gli alleati dei Tiepolo poterono dar colore di verità a tale opinione. Essa però non ha una reale consistenza, non essendoci a Venezia traccia di queste sciagurate fazioni, e non potendosi qualificare né guelfo, se non occasionalmente e apparentemente, Baia mente, né ghibellini i suoi avversari che proprio allora sapevano con dignitosa fermezza comportarsi di fronte all'imperatore Arrigo VII. 
Più tardi, dopo la caduta della Repubblica, la cospirazione fu magnificata come un'azione generosa intesa a restaurare la libertà e i diritti popolari e come un violento tentativo di reazione democratica contro la invadente aristocrazia. Niente di più errato né di più falso. Si osservi intanto che Baiamente, i Querini suoi parenti, i Badoer ed altri della congiura appartenevano già al Maggior Consiglio; che lui e gli altri precedentemente erano stati condannati per peculato e per negligenza amministrativa nei loro uffici in Morea e in Negroponte e per atti di violenza commessi in Venezia stessa; si tenga conto ancora delle condizioni speciali in cui allora si trovava la città a causa soprattutto dell'interdetto, il quale con gli scrupoli, le paure e la carestia, aveva risvegliato un partito di malcontenti contro il governo spregiudicato e antipapale e causato un grave disagio pubblico, e che di tale scissione cittadina aveva fatto tesoro la fazione del Tiepolo attirando a sé quei malcontenti e abilmente sfruttando la loro pessima volontà per opporsi alla fazione rivale del Dandolo, favorevole al governo; come pure aveva approfittato delle ostilità in quell'occasione dimostrata alla Repubblica da alcune terre confinanti per stringere con esse relazioni e patti giovevoli al proprio intento. 
C'erano poi anche le ragioni di sentimenti personali verso il doge considerato capo e sostegno del partito avverso, e aggiungasi anche il precedente delle tre elezioni dogali avvenute di padre in figlio nella famiglia Tiepolo, cosa che, con l'aiuto della sua forte clientela, avrebbe potuto proseguire, se la serrata non fosse venuta a porre ostacoli a questa lenta trasformazione della Repubblica in una signoria vera e propria della sua casata, uguale a quelle che allora per l'appunto badavano a formarsi o ad usurpare nelle varie città della Venezia i suoi amici ed alleati Caminesi, Carraresi ed altre simili.

Ben più che l'ideale democratico e la difesa dei diritti popolari  -che per que' tempi sarebbe stato un anacronismo- furono i motivi che devono averlo stimolato a intessere la trama. Lo seguirono tra i nobili alcuni parenti e consorti suoi, gente un po' bacata, e fra il popolo tutti coloro che il denaro o le promesse lusinghiere riuscirono a radunare intorno a lui, oltre una grossa schiera di forestieri assoldati nel padovano e nel trevigiano. Fu dunque il suo un tentativo facinoroso per rovesciare il governo costituito, non già con lo scopo di allargarne gli ordini, bensì con quello di raccogliere nella sua persona ogni potere et farsi doxe: et cussi, scrive il Sanudo, saria sta persa la libertà di Venezia ».

 In seguito alla congiura del Tiepolo, per garantire l'integrità dello stato e prevenire trame e sedizioni, il 10 luglio del 1310 il Maggior Consiglio istituì una magistratura di dieci mèmbri che avevano facoltà di spendere, provvedere, ordinare e fare quanto credessero opportuno per tutelare la tranquillità e la libertà dei sudditi dai prepotenti. Fu questo il famoso consiglio dei Dieci che nei primi tempi ebbe carattere di provvisorietà poi, rendendosi utile e perdurando i pericoli che ne avevano provocata la costituzione, diventò permanente (20 luglio del 1335). I Dieci restavano in carica un anno, avevano tre capi scelti nel proprio seno e tenevano le loro adunanze alla presenza del doge, dei suoi consiglieri e di uno almeno degli avogadori; nei processi in cui erano implicati personaggi importanti essi potevano chiedere la collaborazione di un certo numero di ragguardevoli cittadini. Il Consiglio dei Dieci alla sua costituzione non rappresentava che un supremo tribunale criminale, ma con l'andar del tempo crebbero le sue attribuzioni, ed estese la sua giurisdizione nel campo civile, avocò a sé i più importanti affari dello stato e diventò la prima magistratura della repubblica. 

 II Gradenigo morì nell'agosto del 1311 e il Maggior Consiglio gli diede come successore Stefano Giustiniam. Non avendo questi voluto accettare, fu eletto Marino Zorzi, cui nel 1312 successe Giovanni Soranzo. Sotto questi due dogi fu composto il conflitto con Padova per il corso del Brenta e con la Santa Sede, che nel 1313 revocò la scomunica lanciata sulla Repubblica in occasione della guerra infelice di Ferrara. Successore del Soranzo fu Francesco Dandolo, che venne innalzato nel gennaio del 1329 e visse fino al 1339. 

Durante il suo dogato due avvenimenti importanti registra la storia di Venezia: la guerra, combattuta insieme con Firenze contro gli Scaligeri (1336-1339), le cui vicende abbiamo altrove narrate e che fruttò alla Repubblica il primo possedimento nella terraferma, e la spedizione capitanata da Pietro Zeno contro i Turcomanni, che, affacciatisi alle coste del Mediterraneo, costituivano una seria minaccia per il debolissimo impero bizantino, per le floride colonie veneziane e genovesi in Oriente e per il commercio che le repubbliche marinare esercitavano nel Levante. 
La spedizione dello Zeno non portò ad alcuna conquista territoriale per la quale del resto non era sufficiente il piccolo esercito che le quaranta galee portavano, ma inflisse solo alcune sconfitte ai Turchi, ai quali vennero catturate alcune navi. Più importante invece fu quella del 1343, promossa, insieme con Clemente VI, il re Ugo di Cipro e i Cavalieri di Rodi, dal doge Andrea Dandolo, successo in quello stesso anno a Bartolomeo Gradenigo. 
Capo di essa fu ancora Pietro Zeno, che il 28 ottobre, facendo sacrificio della propria vita, strappò Smirne ai Turchi. Oltre quarant'anni erano passati dalla pace stipulata a Milano nel 1299 tra Venezia e Genova e, se si eccettuino i reciproci atti di pirateria isolata, nessun fatto grave era avvenuto durante tutto questo periodo a turbare le relazioni tra le due repubbliche. 

Questo lungo riposo delle armi non deve però far credere che col trattato milanese si fossero eliminate le ragioni di rivalità tra le due repubbliche. Queste perduravano; e se tra l'una e l'altra città non si venne alle armi ciò fu dovuto, da una parte alle discordie intestine di Genova, alle lotte cui essa partecipò (1307) per la successione del Monferrato; alla discesa di Enrico VII; alla guerra contro i Visconti e la casa d'Aragona; e alle vicende che diedero origine al dogato. Mentre dall'altra parte fu dovuto alle congiure di cui Venezia fu teatro; alle sue lotte contro il Pontefice, contro gli Scaligeri, contro  i Visconti e Luigi d' Ungheria e infine alle condizioni preoccupanti dei suoi feudi nell' Egeo e alle minacce del nuovo grande nemico della Cristianità: il Turco; ma era naturale che alla prima occasione la guerra tra le due rivali dovesse scoppiare più violenta di prima. 

L'occasione che fece risvegliare gli odi e preparò gli animi alla nuova guerra si presentò nel 1343. I Genovesi avevano due fiorenti colonie sul Mar Nero, quella di Caffa e quella della Tana (Azov). In quest'ultima città, che apriva la via al commercio con la Cina, anche i Veneziani da pochi anni avevano dedotto una colonia. Nel 1343 il Can dei Tartari, Gianis-Beg, si impadronì della Tana, scacciandovi Genovesi e i Veneziani  che riuscirono a trovare rifugio a Caffa; ma anche questa città fu assalita poco dopo dal Tartaro, ma senza alcun risultato. Venezia e Genova che avrebbero dovuto agire d'accordo contro il Can per la tutela dei loro interessi, invidiose l'una dell'altra e credendo l'una di danneggiare l'altra, stipularono separatamente trattati di commercio con Gianis-Beg, i quali fecereo aumentare l'attrito che esisteva tra le due repubbliche. Che aumentò ancora quando nel 1345 — essendo doge di Genova Giovanni di Murta — una flotta genovese di ventinove galee comandata da Simone Vignoso tolse ai Greci l'isola di Chio, quasi sotto gli occhi dei Veneziani che aspettavano il momento opportuno per impadronirsene. 

Certo sarebbe scoppiata allora la guerra tra le due repubbliche se Venezia in quel tempo non fosse stata impegnata a domare la ribellione di Zara con quaranta galee agli ordini di Pietro Canai e un esercito comandato da Marin Falier che il 1° luglio sconfisse Luigi d' Ungheria e il 21 novembre costrinse la città ad arrendersi. 
Fece ritardare di alcuni anni ancora la guerra un terremoto che nel 1347 danneggiò gravemente Ve-  | nezia, e la peste del 1348. Nell'una e nell'altra ci furono tantissime vittime; ma nel 1350 il conflitto da tanto tempo evitato scoppiò, i primi a provocarlo furono quelli di Genova che a Gaffa s' impadronirono di alcune navi veneziane.  A vendicare l'affronto Venezia mandò trentasei galee al comando di Marco Ruzzini,  il quale incontrate presso l'isola di Negroponte quattordici navi genovesi cariche di  merci dirette a Gaffa, le assalì e dopo un aspro combattimento nove furono catturate e cinque le costrinse a rifugiarsi a Pera con l'ammiraglio Filippino Doria. 

Non tardarono i Genovesi a prendersi la rivincita: lo stesso Doria nell'ottobre del  1350, approfittando dell'assenza del Ruzzini che si trovava nel Mar Nero, assalì la città di Negroponte, ne bruciò alcune case, liberò i prigionieri della passata battaglia, recuperò  le merci perdute e se ne tornò a Pera. Qui venne ad assalirlo il Ruzzini, il quale riuscì a penetrare improvvisamente nella città, ma, levatisi al rumore gli abitanti, lo costrinsero a imbarcarsi e a prender la fuga. 
La guerra risorta con Venezia aveva fatto cessare a Genova le discordie tra la nobiltà e il popolo; Giovanni di Valente che nel 1350 era successo a Giovanni di Murta, aveva formato un governo misto di nobili e popolani e avendo in tal modo messo fine agli odi,  potè allestire numerose forze per la guerra contro la repubblica rivale. 
Nel 1351 egli mise in mare una flotta di sessantaquattro galee, la quale, nell'estate di quell'anno, sotto il comando di Paganino Doria, si diresse verso l'Adriatico, poi fece vela verso l' Egeo dove sapeva trovarsi una flotta nemica di venti galee agli ordini di Niccolo Pisani. Questi, inferiore di forze, non è che l'aspettò per fare uno scontro; ma con tre galee si rifugiò a Costantinopoli, mentre le altre si chiusero ingenuamente nel porto di Negroponte dove vennero poco dopo bloccate dall'armata genovese. 

Mentre nei mari d' Oriente le flotte delle due repubbliche si cercavano e tentavano di sopraffarsi a vicenda, i governi di Genova e di Venezia lavoravano per procurarsi alleati. Venezia si guadagnò l'alleanza di Pietro IV d'Aragona e dell' imperatore di Costantinopoli Giovanni Cantacuzeno, Genova cercò di trarre dalla sua Anna di Savoia, il cui figlio Giovanni Paleologo era stato spodestato dal Cantacuzeno. 
Questi preparativi addoloravano l'animo nobile di Francesco Petrarca che avrebbe, visto volentieri le due repubbliche in pace. Da Padova, dove nel marzo del 1351 si trovava, egli indirizzava al doge Andrea Dandolo una lettera: "Dovrò io tacerti l'immenso dolore onde fui colto nel sentire dell'alleanza da voi recentemente contratta col re d'Aragona? Italiani adunque a ruina d'Italiani invocheranno il soccorso di barbari re? E qual più mai speranza d'aiuto può rimanere alla infelicissima Italia se, quasi fosse poco il vedere a' suoi danni rivolti i figli che venerarla dovrebbero, vengono pur gli stranieri chiamati ad aiutare il parricidio? ». 
E continuava il sognatore poeta,  mostrando i vantaggi della concordia: «Via dalle mani quelle armi funeste; porgetevi amica la destra, stringetevi in dolce amplesso, unite i cuori, unite le schiere. E aperto e libero le navi vostre sull'Oceano e sull'Eusino avranno il corso, e non sarà monarca  né popolo che devoto innanzi non vi si faccia. Voi temeranno gli Indi, i Britanni  e gli Etiopi; e a Taprobane, alle Isole Fortunate, alla famosa ed incognita Tuie, agli estremi confini dell' iperboreo mondo e dell'australe porteranno sicure i nocchieri vostri le antenne ». 

La voce del poeta rimase inascoltata: Niccolo Pisani raccoglieva intorno a sé tutte le navi della sua patria sparse nei porti del Levante e gli univa una forte armata speditagli da Venezia agli ordini di Pancrazio Giustiniani; e un'altra aragonese al coi mando di Ponzio di Santa Paz; Paganino Doria con le sue sessantaquattro galee, tolto l'assedio a Negroponte e invano avendo sollecitato all'alleanza Anna di Savoia, si era recato a svernare a Tenedo e a mettere ordine alla sua flotta. 

Nel febbraio del 1352, lasciate le acque di Tenedo, il Doria spiegò le vele verso Costantinopoli, dove giunse dopo di aver presa d'assalto Eraclea, seguito a distanza  di qualche giorno dalla flotta veneziana. Il 13 di quel mese, all' imboccatura del Bosforo, con un mare agitatissimo, si combattè una sanguinosissima battaglia, che durò tutto il giorno e parte della notte. Ciascuna delle due parti si attribuì la vittoria, ma in verità la sorte rimase indecisa. Forse i Veneziani avrebbero potuto avere il sopravvento data la superiorità numerica delle loro navi e l'infelice posizione del nemico, ma il loro vantaggio fu annullato dalla poca conoscenza che di quel mare avevano gli Aragonesi e dal contegno dei marinai greci loro alleati. 
Ingenti furono le perdite da una parte e dall'altra. I Veneziani, gli Aragonesi e i del Greci perdettero ventisei galee, ebbero duemila morti e lasciarono nelle mani del nemico mille ed ottocento prigionieri. Fra i morti furono personaggi di gran conto, dal quali Stefano Contarmi, Pancrazio Giustiniani, Giovanni Steno e Benatino Bembo. I Genovesi persero tredici galee ed ebbero numerosi morti e feriti. Essi uscirono così malconci dalla dura battaglia che non poterono impedire, sebbene lo tentassero, a  Niccolo Pisani di far vela con trentotto galee alla volta di Candia. 

Partiti i Veneziani, il Doria che si era alleato coi Turchi, costrinse il Cantacuzeno a disdire l'alleanza con Venezia e a firmare nel 1352 una pace separata con Genova, concedendo alle navi di questa repubblica libero traffico nei porti dell' impero che così rimasero chiusi alle navi veneziane e a quelle aragonesi.

Ritornò a consigliare pace il Petrarca, rivolgendosi questa volta a Genova; ma inutile fu il suo tentativo, né miglior risultato ebbe quello fatto da Clemente VI e  poi un altro di Innocenze VI che chiamò a parlamento in Avignone rappresentanti  d'Aragona, di Venezia e Genova. Questa, invece di aderire all'invito del Pontefice, strinse alleanza col re d' Ungheria che reclamava la cessione di tutte le terre della Dalmazia tenute da Venezia.
Venezia seppe abilmente allontanare le minacce dell'ungherse per mezzo dell'opera i Carlo IV di Baviera e, cessato il pericolo che le veniva da questa parte, dedicava tutta la sua attività ad armare navigli da guerra insieme con gli Aragonesi. Settanta galee misero gli alleati in mare nell'estate del 1353, le quali, divise in due squadre, — la veneziana comandata dal Pisani e l'aragonese agli ordini di Bernardo Chiabrera — dovevano riunirsi nelle acque dell'alto Tirreno. 

Genova dal canto suo aveva armato una flotta di cinquantadue galee, di cui aveva già affidato il comando ad Antonio Grimaldi. Quest'ammiraglio, sapendo di non potersi  cimentare con le forze nemiche molto superiori alle sue, pensò di impedire la congiunzione  delle due squadre avversarie e di avere ragione di esse attaccandole separatamente
Se avesse potuto mettere in attuazione il suo disegno la vittoria senza dubbio  sarebbe stata sua, ma quando giunse nelle acque della Loiera, presso Alghero in Sardegna, seppe che la congiunzione delle due squadre nemiche era avvenuta. Dare battaglia ad una flotta così potente era lo stesso che andare a sicura rovina. I nemici, infatti, oltre ad avere la superiorità numerica, conducevano un forte corpo di milizia da sbarco,  destinato ad operare in Sardegna contro il giudice di Arborea e possedevano tre grandi vascelli, chiamati cocche montati ciascuno da quattrocento Catalani. Pure il Grimaldi,  accortosi che il nemico manovrava in modo da stringere i Genovesi alla costa, tentò  di sfuggire alla manovra per lui pericolosa, affrontando coraggiosamente gli avversari.

 Per offrire una fronte impenetrabile, l'ammiraglio genovese fece legare saldamente con delle catene quarantaquattro galee, e ne lasciò sciolte soltanto otto mettendone quattro a ciascuna ala. Veneziani e Catalani imitarono i Genovesi, ma lasciarono sciolte sedici galee. La battaglia s'iniziò con scontri tra le navi libere dell'una e dell'altra parte, mentre le due file si avanzavano lentamente l'una contro l'altra.
 I Genovesi contavano sull'azione delle tre cocche perché non essendo fornite di remi, ma di sole vele, ed essendovi bonaccia rimanevano immobili e non potevano partecipare al combattimento. Disgraziatamente però, prima che le due file in catene si scontrassero si levò un forte vento che spinse le cocche catalane contro un'ala della flotta genovese, di cui tre galee, urtate violentemente, affondarono. 
La battaglia non tardò a volgere sfavorevole ai Genovesi a causa dei tre enormi vascelli che dai bordi altissimi lanciavano una grandine di pietre e di saette. Non potendo sostenere un' impari lotta, il Grimaldi ordinò che fossero sciolte undici galee dell'ala non ancora impegnata. Con queste e con le altre otto libere l'ammiraglio, col proposito di aggirare il nemico, prese il largo, ma, quando fu a una certa distanza dal punto in cui si svolgeva il combattimento, sia che gli mancasse il coraggio d'attaccare il nemico, sia che gli equipaggi si rifiutassero di tornare alla lotta, sia infine che egli non avesse speranza di mutare con la sua manovra le sorti della battaglia, abbandonate al loro destino le altre trenta galee, si diresse con le diciannove che aveva con sé verso Genova. Le altre rimaste si arresero. 

In quella giornata, che fu quella del 29 agosto del 1353, i Genovesi perdettero trentatrè navi, ebbero duemila uomini uccisi e lasciarono nelle mani del nemico tremila e cinquecento prigionieri. Quando il Grimaldi giunse in patria con le galee superstiti e l'annunzio della grave sconfitta, grande fu la costernazione dei Genovesi. Stanchi della lunga lotta sostenuta, credendosi esposti alle offese di una flotta potente che avrebbe potuto bloccare il porto e distruggere il commercio della loro patria nel Mediterraneo e desiderosi nello stesso tempo di trovar valida protezione e mezzi per una pronta riscossa, essi deliberarono precipitosamente di offrire la signoria di Genova all'arcivescovo Giovanni Visconti ch'era il più ricco e temuto signore d'Italia. 
L'arcivescovo di Milano non si lasciò sfuggire l'occasione di un sì prezioso acquisto e, accettata la signoria, mandò come suo governatore il conte Pallavicino, il quale entrò in Genova il 10 ottobre del 1353 alla testa di settecento cavalli e di mille e cinquecento fanti.

 

LEGA CONTRO I VISCONTI 
 SCONFITTA DEI VENEZIANI A POTOLUNGO
 CONGIURA DEL DOGE MARIN FALIER
PACE TRA GENOVA E VENEZIA


Venuto in possesso di Genova, Giovanni Visconti, volendo impedire che i Veneziani assalissero la città, mandò a Venezia un ambasciatore perché invitasse la repubblica alla pace. L'ambasciatore prescelto fu Francesco Petrarca, che allora viveva alla corte viscontea e che poteva far breccia sull'animo del doge Andrea Dandolo sia perché era con lui in relazione, sia perché questi era un valente cultore degli studi. 
L' 8 novembre del 1353 il Petrarca pronunziò a Venezia un'elegante orazione latina che riscosse molti applausi,  ma non giovò affatto alla causa della pace. Miglior risultato non ebbe una lettera che nel giugno dell'anno seguente il poeta scrisse al Dandolo. Il gran doge da un canto non poteva tenere in gran conto la mediazione del Petrarca che vivendo alla corte di Milano figurava come interessato, d'altra parte non stimava sincera la richiesta di pace del Visconti e temeva che questi volesse acquistar tempo  per armarsi ai danni della repubblica. 

Lo stato di guerra quindi continuò e Venezia, poiché un nuovo nemico era sorto nella persona dell'arcivescovo, iniziò pratiche per indurre i Carraresi, i Gonzaga, gli Estensi e gli Scaligeri ad allearsi  contro i Visconti. L'impresa presentava non poche difficoltà date le discordie che in quel tempo dividevano gli Estensi e gli Scaligeri dai Carraresi e dai Gonzaga. Questi ultimi sostenevano contro Aldobrandino d' Este (successo nel 1352 ad Obizzo) due membri di un ramo collaterale estense; Cangrande II della Scala era irritato contro i Gonzaga perché questi, durante una sua assenza da Verona, avevano aiutato Fregnano, suo fratello naturale ad usurpare la signoria. 
Tuttavia l'abile diplomazia dei Veneziani riuscì a comporre le discordie e la lega fu conclusa. Cresciuto il numero "dei belligeranti, la guerra si estese anche alla terraferma; ma qui si combattè con poco vigore; per mare invece la lotta riarse con estrema violenza. Bramosi di lavare l'onta della Loiera, i Genovesi, armata una flotta di trentatrè galee, l'affidarono a Paganino Doria e questi ebbe tanta audacia da penetrare nell'Adriatico, predare alcune galee e navi mercantili che tornavano da Candia, saccheggiare Lésina e Curzola e spingersi fino a Parenzo che fu presa e data alle fiamme (11 agosto del 1354). 

I Veneziani, sapendo il nemico così vicino, furono presi da terrore; Andrea Dandolo, che di lì a pochi giorni (7 settembre) doveva cessare di vivere, organizzò energicamente la difesa e comandò a Niccolo Pisani, che con trentacinque galee si trovava nelle acque della Sardegna, di accorrere prontamente in difesa della patria minacciata. Paganino Doria invece non osò assalire Venezia e uscì dall'Adriatico dirigendosi verso la Grecia, mentre il Pisani si metteva sulle sue tracce. Cercato invano l'avversario, l'ammiraglio veneziano approdò a Portolungo, a sud del Peloponneso, per dare riposo ai suoi uomini e riparare alcune navi. Per non essere sorpreso dal nemico Niccolo Pisani si mise in guardia all'imboccatura del porto con venticinque galee, mentre il resto dei legni al comando del viceammiraglio Morosini se ne stavano in fondo al porto per essere riparate. 

Conosciuto il rifugio della flotta veneziana, il Doria si presentò il 4 novembre del 1354 di faccia a Portolungo, cercando di provocare al Pisani la battaglia.
Ma questi, trovandosi in condizioni d'inferiorità non accettò la sfida. Allora Giovanni Doria, nipote di Paganino, penetrò arditamente nel porto, — non disturbato dal Pisani che forse sperava di chiuderlo dentro — ed assalì con dodici galee la squadra del Morosini, che, atterrita, dopo una debole resistenza cadde nelle mani del nemico. Il quale, imbaldanzito dal primo successo, assalì alle spalle il Pisani mentre Paganino Doria lo assaliva furiosamente di fronte.
 La battaglia terminò con una schiacciante vittoria dei Genovesi, che rientrarono in patria conducendo l' intera flotta nemica e circa seimila prigionieri fra i quali lo stesso ammiraglio. Quattromila erano stati i morti veneziani. 

Al tempo di questa sconfitta era doge di Venezia il settantenne Marin Falier, discendente dall'antica famiglia Faledra, uomo energico ed ambizioso, che aveva ricoperto alte cariche nel governo della città; aveva combattuto valorosamente nell'assedio di Zara del 1346 e nell'estate del 1354 era stato mandato come ambasciatore ad Avignone per trattare della pace con Genova promossa dal Pontefice. Proprio mentre si trovava in Avignone, quattro giorni dopo la morte di Andrea Dandolo, egli fu eletto doge (11 settembre), e il 5 ottobre, sul Bucintoro, egli fece il solenne ingresso a Venezia fra l'entusiasmo della popolazione. Breve fu il suo dogato, di sette mesi appena, ma degno di memoria soltanto per la famosa congiura di cui lo stesso Falier fu capo e che al doge doveva costare la vita. 
Questa — scrive il Battistella — « è la famosa congiura che diede  materia a tante leggende e a tanti romanzi e che, al pari di quella di Baiamento, fu giudicata dal pregiudizio politico come un ultimo sforzo di reazione democratica. Molto si fantasticò sulle cause che trassero il vecchio e aristocraticissimo doge a farsi paladino de' diritti popolari. È a tutti noto, infatti, il racconto inserito in parecchie cronache dell'insulto che alcuni giovani nobili, tra i quali un futuro doge, Michele Steno, avrebbero fatto al Falier scrivendo nella sala dei camini in palazzo alcune parole ignominiose a ludibrio suo, e della lieve pena a cui per tale colpa sarebbero stati condannati; ciò che l'avrebbe indignato e fatto concepire il disegno di vendicarsi della nobiltà dominante che sì poco conto faceva dell' ingiuria recata al suo nome. 

Osserveremo che tra le famiglie Steno e Falier esisteva realmente un vecchio rancore per offese che già nel 1343 un Paolo Steno aveva fatto all'onestà di Saray, figliuola di Pietro Falier; ma soggiungeremo che per questo oltraggio egli e i suoi complici erano stati puniti e che, a quanto sembra, lo stesso Steno aveva poi riparata l'ingiuria col matrimonio.
 Oltre a ciò noteremo essere confermato dai documenti il fatto della scritta disonesta villanamente apposta contro l'onore del doge, nell' indicata sala, dallo Steno e da altri, ed essere pure comprovati il processo compilato contro costoro il 10 novembre 1354 dalla Quarantia criminale, e la loro condanna a una decina di giorni di carcere. 
Mite sentenza, è vero, ma in altri casi antecedenti di sfregio al doge con parole o scritture non era mai stata più severa, e più volte anzi si era ristretta a una multa di 100 o 200 lire, forse nella considerazione che si trattava più che altro d'una sconveniente ragazzata di giovani poco licenziosi: e anche poi, nel maggio 1388, lo stesso figlio del doge Antonio Venier che con parole turpi aveva insultato tutte le donne d'una nobile famiglia non fu punito che con due mesi di carcere e 100 ducati d'ammenda. Mancava pertanto ogni giusta ragione per meditare una vendetta così sproporzionata e non avente alcun rapporto logico né reale con questo fatto così tenue nella sua volgarità. 
Fu asserito che le parole scritte da quegli scapigliati ledessero la riputazione della dogaressa, la bella muger del Faliero; ma le diligentissime ricerche del Lazzarini che intorno al fatto della congiura scrisse la più bella, compiuta, accurata e documentata memoria che si conosca, ci fanno sapere che Alvica Gradenigo doveva avere circa cinquant'anni; che il suo nome non comparisce in alcun documento né in alcuna delle cronache contemporanee; che l'espressioni con cui nel proprio testamento il marito la nominava unica esecutrice delle sue volontà attestano l'affettuosa stima ch'egli ebbe sempre di lei.

 Escluso dunque quale movente della grande cospirazione un meschino ripicco personale, troppo piccola favilla per suscitare un così vasto incendio, non si può accogliere altra causa fuorché quella ripetuta da tutte le testimonianze più antiche, il desiderio del Falier di farsi signore assoluto di Venezia. Le condizioni del momento eran tali da favorire il suo disegno: la lunga guerra con Genova aveva portato un grave colpo ai commerci e grave disagio in città, specialmente nelle classi dei mercanti e della gente di mare; il popolo si lagnava dell' insolenza dei nobili e della viltà mostrata da alcuni di loro in quella guerra; di più, ad accrescere le sofferenze pubbliche si era aggiunta una grande penuria di viveri. Non doveva quindi ritenersi cosa difficile valersi di questo generale malcontento per attuare un disegno a cui lo traeva la propria convinta ambizione e nel quale gli davano lusinghe di felice riuscita la sua autorità, la sua ricchezza, il largo credito di cui godeva anche presso il ceto popolare, la piena conoscenza di tutti gli organi governativi e le sue relazioni con i principali signori d'Italia.

 Era quello il tempo in cui tutto  intorno alla Repubblica si andavano consolidando le signorie; pertanto non doveva parer possibile di fare a Venezia quello che si era fatto altrove e all'abbattuto reggimento repubblicano sostituire un principato saldo e forte che Falier, benché senza figliuoli, avrebbe potuto conservare alla propria famiglia trasmettendolo al prediletto nipote Fantino Falier.
 Un indizio di tale sua riposta intenzione sembra scorgersi  nelle parole che il Sanudo riporta dai registri della Quarantia sul processo contro « quei zoveneti noli de zentilomeni » autori delle multa enormia verbo «a vitupero del doge e di suo nipote »
Queste parole, infatti, lascerebbero congetturare come il cocente risentimento del Falier per l'offesa ricevuta potesse essere causato dall'intima preoccupazione che si fossero indovinate le sue ambiziose intenzioni a favore di quel nipote che egli circondava di tanto affetto. Così e non altrimenti deve spiegarsi l'azione del doge, non già come uno sfogo di rivendicazioni popolari.

In tempi più lontani delitti simili li vedemmo puniti dalla stessa assemblea generale con la deposizione e con l'esilio di chi li commetteva: può quindi scambiarsi per un tentativo a favore del popolo un fatto il quale, in fondo, non era che la ripetizione di altri che appunto il popolo aveva ugualmente condannato prima che la serrata del Maggior Consiglio gli riducesse quella qualsiasi partecipazione indiretta al governo ch'esso aveva nell'antico sistema? di quello stesso  popolo che poi nel dicembre 1400 festeggiava con insolita allegria l'elezione a doge dello stesso Michele Steno, del campione cioè della superba e insolente nobiltà da dove sarebbe venuta la prima origine della congiura? E non sarà fuor di luogo ricordare che il Falier dal 1315 in poi era stato eletto fra quei magistrati che per un delitto simile al suo dovevano procurar  mortem et desolationem a Baiamente e a Pietro Querini ». 

La congiura, di cui facevano parte alcuni congiunti del Falier e alcuni popolani come Israele Bertuccio e Filippo Calendario, doveva scoppiare la notte dal 15 al 16 aprile del 1355. I congiurati si sarebbero raccolti in piazza San Marco, il doge avrebbe fatto suonare la campana per far credere che una flotta minacciava la città, e mentre i membri dei vari consigli ai rintocchi sarebbero accorsi al palazzo ducale, i cospiratori li avrebbero ammazzati; indi assalite le case dei nobili e trucidati i membri del Maggior Consiglio si sarebbe data la Signoria di Venezia a Marin Falier. 
Il 14 aprile il doge cercò di indurre un ricco popolano amico suo a partecipare alla congiura, ma questi tentò di distoglierlo, mostrandogli i pericoli e le difficoltà che presentava l'impresa. Assalito allora da dubbi, Marin Falier rimandò l'esecuzione della trama; il giorno dopo però uno dei congiurati, il pellicciaio Vendrame, temendo che l'attesa potesse fare scoprire la congiura, confidò ogni cosa a Niccolo Lion, membro del Consiglio, il quale corse dal doge a comunicargli quanto aveva udito. Marin Falier cercò di persuaderlo che si trattava di chiacchiere, disse che anch'egli aveva sentito buccinar trame e dichiarò che aveva fatto delle indagini ma nulla aveva scoperto. 

Poco convinto dalle assicurazioni del doge, il Lion informò il Consiglio Minore, il quale, senza por tempo in mezzo, si diede ad investigare. Si procedette anche ad alcuni arresti e gli arrestati, messi alle strette, confessarono la trama e dichiararono che capo ed autore della congiura era il doge medesimo. Allora per prima cosa si pensò di assicurar l'ordine: si fecero altri arresti, si chiamarono uomini di Chioggia, si ordinò ai nobili di armarsi e di tenersi in piazza per difendere il palazzo e furono poste sentinelle alle campane perché non venissero suonate. 
Sventata così la congiura e presi i provvedimenti del caso, si affidò il processo al Consiglio dei Dieci, che, trattandosi di un caso grave, si aggregò una giunta di venti membri. Fu per prima esaminata la posizione degli imputati più ragguardevoli, di cui undici risultarono colpevoli e condannati alla pena capitale. Il 16 aprile, ch'era un giovedì, furono impiccati Israele Bertuccio e Filippo Calendario alle colonne della loggia del palazzo verso la piazzetta; più tardi alle altre colonne vennero impiccati gli altri nove. Il doge, comparso al cospetto del Consiglio dei Dieci, confessò la parte avuta nella con- giura e fu anch'egli condannato a morte. L'esecuzione del doge ebbe luogo nel pianerottolo della scala, dove nell'atto di assumere il dogato aveva giurato di mantener fede alla costituzione. 
Le porte del palazzo rimasero chiuse, ma quando la testa di Marin Falier rotolò recisa dalla scure del carnefice, un membro del Consiglio dei Dieci si affacciò alla finestra, e tenendo in mano l'arma del supplizio ancora insanguinata, disse al popolo radunato di sotto che giustizia era stata fatta.

 Il cadavere del doge rimase esposto per tutto un giorno al pubblico, poi senza onori fu tumulato nella tomba di famiglia nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo. Nei giorni . seguenti fu continuato il processo: altri colpevoli vennero condannati al carcere o all'esilio,  i consapevoli della trama furono esclusi dagli uffici per non averla rivelata, gli innocenti vennero prosciolti, i contumaci si ebbero la confisca dei beni. Il 16 aprile, giorno di S. Isidoro, fu dichiarato festivo, il ritratto di Marin Falier che, fra quello degli altri  89 dogi, si trovava nella sala del Maggior Consiglio, fu coperto di un velo nero. 
Undici anni  dopo, il 16 dicembre del 1366, per deliberazione del Consiglio dei Dieci, il ritratto venne  tolto e nel posto vuoto furono scritte le parole: Hic fuit locus ser Marini Faledri decapitati, prò crimine proditionis
Nello stesso anno 1355 fu conclusa la pace tra Venezia e Genova; e fu una pace umiliante per Venezia, la quale pagò alla rivale una indennità di guerra di duecentomila ducati e si obbligò a vietare ai suoi mercanti di approdare alla Tana e nè di fare scalo a Caffa. 
La pace venne estesa ai Visconti e al re d'Aragona e i prigionieri furono liberati senza riscatto.


Dobbiamo ora tornare indietro di qualche anno,
e cosa accadeva al regno di Napoli

il periodo di GIOVANNA I DI NAPOLI 1343-1352 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia

GREGORIUVUS - Storia di Roma nel Medioevo - 1855

L.A. MURATORI - Annali d'Italia
MAALOUF, Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989
J.LEHMANN, I Crociati,- Edizioni Garzanti, Milano 1996
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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