ANNI 1504 - 1513

GIULIO II - LEGA CAMBRAI - LEGA SANTA

 
RIPRESA DELLA GUERRA TRA I PISANI E I FIORENTINI - GIULIO II E VENEZIA - II PONTEFICE E IL TRATTATO DI BLOIS DEL SETTEMBRE 1504 - GIULIO II SI IMPADRONISCE DI PERUGIA E BOLOGNA - RIBELLIONE DI GENOVA AI FRANCESI E DISCESA DI LUIGI XII - FERDINANDO I IN ITALIA -GUERRA TRA I VENEZIANI E L' IMPERATORE - LEGA DI CAMBRAI CONTRO VENEZIA - INIZIO DELLE OSTILITÀ - BATTAGLIA DI AGNADELLO E PERDITE TERRITORIALI - FEDELTÀ DI TREVISO - MASSIMILIANO IN ITALIA - ASSEDIO DI PADOVA - VENEZIA CONCILIAZIONE COL PAPA POI L' ALLEANZA - GUERRA CONTRO ALFONSO D' ESTE - CONCILIO DI TOURS - II PAPA PERDE BOLOGNA - CONVOCAZIONE DEI CONCILI DI PISA E DEL LATERANO - LA LEGA SANTA - ASSEDIO DI BOLOGNA - GASTONE DI FOIX A BOLOGNA E A BRESCIA - BATTAGLIA DI RAVENNA E MORTE DI GASTONE DI FOIX - I FRANCESCI IN RITIRATA - DIETA DI MANTOVA - SACCO DI PRATO - I MEDICI TORNANO A FIRENZE - MASSIMILIANO SFORZA DUCA DI MILANO - MORTE DI GIULIO II - GIUDIZIO SU L'OPERA DI GIULIO II

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RIPRESA DELLA GUERRA TRA PISA E FIRENZE 
RIBELLIONE DI GENOVA 
GIULIO II PRENDE PERUGIA E BOLOGNA 
GUERRA TRA VENEZIA E L' IMPERATORE


La tregua conclusa l'11 febbraio del 1504 tra la Francia e la Spagna fece riprendere con maggior vigore la guerra tra Pisa e Firenze. Quest'ultima repubblica, che il 22 settembre del 1502 aveva eletto gonfaloniere a vita PIERO SODERINI, magistrato onesto ma debole, con l'annuo stipendio di mille e duecento fiorini, assoldò GIAN PAOLO BAGLIONI, MARC'ANTONIO COLONNA, e i SAVELLI ed affidato il comando del suo esercito ad ERCOLE BENTIVOGLIO nel maggio del 1504 riprese le ostilità contro Pisa.

La guerra però in quell'anno non fruttò gran che ai Fiorentini i quali riuscirono soltanto a devastare il territorio nemico e ad impadronirsi del castello di Ripafratta. Un loro tentativo di deviare presso Pisa il corso dell'Arno fallì miseramente dopo molte fatiche ed ingenti spese. L'anno seguente la guerra parve volgere in favore dei Pisani che nel marzo sconfissero al Ponte a Cappellese un esercito dei Fiorentini; questi però, guidati dal Bentivoglio e da Antonio Giacomini, il 17 agosto sbaragliarono presso Campiglia le milizie di BARTOLOMEO d'ALVIANO, che si recava a soccorrer i Pisani, e, incoraggiati da questo successo, nel settembre assalirono Pisa. Ma furono respinti.

"" ...L'infelice andamento di questa guerra - scrive l'Orsi - indusse nel MACHIAVELLI la persuasione che occorresse dare a Firenze armi proprie istituendo una milizia cittadina ordinata secondo l'esempio degli Svizzeri: egli riuscì a convincere dell'utilità di questa riforma il gonfaloniere Soderini e cercò poi di attuarla dedicandosi a quest'opera patriottica con un ardore e un entusiasmo mirabili. Ma purtroppo essa non diede i grandi risultati da lui sperati; e la guerra contro Pisa continuò ancora per parecchi anni con poco onore di Firenze, che vi lasciò apparire tutta la sua debolezza..."".

Oramai la repubblica fiorentina non aveva più un gran peso nella politica generale d'Italia. Di fronte ai due stati stranieri che avevano messo piede nel settentrione e nel mezzogiorno d'Italia non rimanevano che due sole potenze, Venezia e lo stato pontificio, le quali avrebbero potuto impedire la rovina della penisola se fossero andate di accordo. Invece motivi di discordia non mancavano tra Roma e Venezia e il più importante fra tutti era costituito dagli acquisti che i Veneziani, approfittando dello sfacelo dei domini del Valentino, avevano fatti in Romagna.

Risoluto a rimettere nelle mani della Chiesa tutti i possessi che le erano appartenuti, GIULIO II aveva ricusato le proposte di Venezia che si dichiarava pronta a pagare alla Santa Sede un tributo per le città che aveva acquistate, e nel novembre del 1503 a NICOLÒ MACHIAVELLI aveva manifestato il suo fermo proposito di ricuperare quelle città dicendo che se non fossero restituite egli «avrebbe fatto ogni estremo sforzo e provocati tutti i principi cristiani » contro i Veneziani. Vedendo che i suoi reclami rimanevano lettera morta, nel gennaio del 1504 il Pontefice pubblicò una bolla con la quale ingiungeva ai Veneziani di restituire tutti i luoghi di Romagna; ma all' ingiunzione il doge rispose che "mai si renderia dette terre, anche se dovessimo spendere fino le fondamenta delle nostre case".

Questa risposta, che aveva tutta l'aria di una sfida, non poteva lasciare insensibile l'animo di Giulio II; questi però, sebbene di indole impetuosa, non volle subito muover guerra a Venezia, ma ritenne opportuno rafforzare prima la propria situazione, legando per mezzo di parentele la sua famiglia con quella dei Colonna e degli Orsini, ristabilendo l'ordine in Roma e producendo più nemici possibili ai Veneziani. 
Nel settembre del 1504 venne stipulato a Blois un trattato tra il re di Francia, l'imperatore MASSIMILIANO e l'Arciduca FILIPPO d'AUSTRIA: l' imperatore accordava a Luigi XII - dietro il pagamento di centoventimila fiorini e l'omaggio annuo di un paio di speroni d'oro - l' investitura del ducato di Milano e Luigi rinunziava alle sue pretese sul Napoletano e accordava la mano di sua figlia Claudia a Carlo, figlio di Filippo d'Austria e nipote di Ferdinando il Cattolico. Giulio II fece inserire nel trattato di Blois un articolo segreto con il quale tra il Pontefice, l' imperatore, il re di Francia e l'arciduca Filippo si stipulava una lega contro Venezia.

Due anni dopo, il Papa si accinse ad abbattere le signorie dei BAGLIONI e dei BENTIVOGLIO. Il 27 agosto del 1506 partì da Roma con un piccolo esercito. Gian Paolo Baglioni preferì fare degli accordi, e il 13 settembre il Papa entrò in Perugia che ritornò sotto il diretto dominio della Santa Sede. 
Da Perugia il Pontefice mosse verso Bologna e, scomunicato il Bentivoglio che invano cercava di trattare, il 21 ottobre pose il campo ad Imola, dove ricevette un rinforzo di ottomila Francesi. Giovanni Bentivoglio, avendo capito che sarebbe stata inutile ogni sua resistenza, abbandonò insieme con la famiglia Bologna e 1' 11 novembre Giulio II faceva il suo solenne ingresso nella città in cui ordinava che venisse costruita una fortezza.

Mentre il Pontefice si procacciava Perugia e Bologna, Genova si ribellava ai Francesi e questa ribellione consigliava Giulio II a procrastinare la spedizione da tempo vagheggiata contro i Veneziani per togliere loro le città occupate della Romagna. La ribellione era stata provocata dalla parzialità del governatore francese a favore della nobiltà. Nell'estate del 1506 il popolo genovese tumultuando costrinse il governatore a concedergli due terzi delle cariche, poi prese a saccheggiare alcuni palazzi di nobili, infine si impadronì della Spezia e di altre terre della Riviera di Levante, governate da Gian Luigi del Fiesco, e mosse contro Monaco che era tenuta dai Grimani. Il governatore francese, avendo tentato invano di ristabilire l'ordine e la sua autorità, il 25 ottobre abbandonò Genova lasciando un presidio nel Castelletto.

Partito il Governatore, i Genovesi, che avevano iniziato manifestazioni contro la nobiltà, molestati dai tiri delle artiglierie della fortezza, si ribellarono apertamente alla Francia e il 10 aprile del 1507 elessero doge PAOLO di NOVI, tintore di seta. Intanto LUIGI XII era sceso in Italia con un esercito e si accampava nelle vicinanze di Sampierdarena. Nei pressi di questa città il 26 e il 27 aprile ebbero luogo aspri combattimenti tra le truppe del re e i Genovesi che, avuta la peggio, scesero a trattative. 
Luigi XII entrò due giorni dopo,in Genova, annullò le convenzioni, impose ai cittadini una gravosa contribuzione e mandò a morte parecchi capi ribelli, fra i quali il doge, che, fuggito a Pisa, venne ricondotto in patria e qui giustiziato il 15 giugno.

Mentre questi fatti avvenivano in Genova, a Napoli si trovava Ferdinando il Cattolico. Questi, dopo di essersi intrattenuto alcuni mesi nel Napoletano, partì insieme con Consalvo di Cordova nel giugno del 1507 e si recò a Savona. Qui ebbe un abboccamento con Lugi XII, col quale, nell'ottobre del 1505, aveva a Blois concluso un altro trattato ottenendo la mano (era di poco rimasto vedovo di Isabella di Castiglia) di Gemma di Foig, nipote del re di Francia.
 In questo convegno, tra i due sovrani si presero senza dubbio accordi preliminari riguardo alle principali questioni politiche d'Europa; poi, l'uno per mare, l'altro per la via di terra, fecero ritorno nei loro Stati.

Intanto un nuovo sovrano s i preparava a scendere in Italia: l'imperatore MASSIMILIANO.
Nell'estate del 1507 egli comunicava ai vari Stati italiani la sua prossima venuta e mandava a domandare a Venezia libero passaggio per recarsi a Roma a cingere la corona imperiale. Il Senato veneziano però rispose che gli avrebbe dato passo libero e l'avrebbe anzi onorevolmente accompagnato se egli fosse disceso senza esercito, ma che glie l'avrebbe negato se fosse venuto alla testa di milizie.
Questa risposta non poteva che provocare una guerra, preludio di un'altra più grossa che di lì a poco doveva da mezza Europa essere scatenata contro Venezia. La quale allora non si sbigottì alle minacce e ai preparativi dell' imperatore, ma si apprestò energicamente alla difesa allestendo due eserciti dei quali uno sotto il comando di Bartolomeo d'Alviano fu mandato nel Friuli, l'altro con a capo Niccolò Orsini di Pitigliano nel Veronese.

Le ostilità furono iniziate nel marzo del 1508: il d'Alviano, impadronitosi di Pordenone e Codroipo, sconfisse nel Cadore e nella Carsia le truppe imperiali e occupò Gorizia, Trieste e Fiume; il Pitigliano nella valle dell'Adige sostenne validamente l' impeto delle milizie tedesche. I rovesci delle sue armi indussero l'imperatore a chiedere una tregua a questa venne stipulata il 6 giugno del 1508.

LEGA DI CAMBRAI 
BATTAGLIA DI AGNADELLO
L' IMPERATORE MASSIMILIANO IN ITALIA 
CONCILIAZIONE DI VENEZIA COL PAPA


La tregua stipulata con l' imperatore lasciava abbastanza soddisfatta Venezia che da questa guerra usciva vittoriosa; ma intanto contro di lei si addensava la bufera. Molti erano i nemici della vecchia repubblica e fra questi si contavano anche quelli che, come il re di Francia, le facevano buon viso.
Erano suoi nemici Luigi XII, che aspirava a riunire alla Lombardia Cremona, la Ghiara d'Adda, Bergamo e Brescia; Ferdinando di Spagna che desiderava di unire al reame di Napoli i porti della Puglia; il marchese di Mantova cui Venezia aveva tolto Asola, Peschiera e Lonato e nel 1498 la carica di capitan generale; il duca d' Este che voleva riavere il Polesine di Rovigo, il duca di Savoia che pretendeva Cipro; Massimiliano che bramava il Veneto e il Friuli e non dimenticava le sconfitte recentemente patite; e infine il Pontefice che da tempo guardava alle città di Romagna.

Già fin dalla vigilia della guerra tra l'imperatore e i Veneziani, anche per mezzo del marchese di Mantova, si erano avviate trattative tra Luigi XII e Massimiliano per stabilire un accordo che doveva portare ad una lega contro Venezia e nel gennaio del 1508 erano stati proposti alcuni capitoli che dovevano servire di base alla futura lega. Questa però non venne costituita che sul finire del 1508 a Cambrai, dove i rappresentanti della Francia, della Spagna e dell' impero convenuti col pretesto di appianare certe questioni che concernevano il Belgio (di cui aveva assunto il governo Margherita d'Austria figlia di Massimiliano e vedova di Filiberto di Savoia, in nome di CARLO, figlio dell'arciduca Filippo, morto due anni prima. 

 Il 10 dicembre firmarono due trattati, il primo dei quali, riguardante gli affari dei Paesi Bassi, fu reso pubblico. Il secondo trattato, che doveva  esser tenuto segreto, riguardava la lega contro Venezia. Ad essa parteciparono Massimiliano, cui sarebbero toccate Rovereto, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, il Friuli, Gorizia, Trieste e l' Istria; Luigi XII che avrebbe avuto Cremona, Crema, Brescia e Bergamo, e il re di Spagna che avrebbe ricevuto Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli e gli altri porti pugliesi tenuti dai Veneziani. Alla lega inoltre erano invitati il Pontefice, il re d'Ungheria, il duca di Savoia Carlo III il Buono, il duca d' Este e il Gonzaga: al primo si prometteva Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza e Forlì, al secondo la Dalmazia, al terzo Cipro, al quarto il Polesine di Rovigo ed all'ultimo Peschiera, Asola e Lonato.

"" ....Quantunque - scrive il Battistella - codesta grande macchinazione si fosse fatta in tutta segretezza, non volendosi, come scriveva il re di Francia all'ambasciatore mantovano, "di questa cosa al mondo non se ne parli acciò non pervenga alle oregie de Viniciani", ai quali seguitava a fare dichiarazioni della sua leale amicizia; ma i veneziani  che già prevedevano la cosa e aveano cominciato a correre ai ripari, lo stesso mese di dicembre del 1508 ne ebbero notizia certa da G. G. Caroldo, loro segretario a Milano. La congiura restava, ma la sorpresa era fallita. A quelle prime informazioni ne seguirono ben presto altre e più precise che i loro oratori presso le Corti di Francia e di Spagna con la consueta sagacia seppero raccogliere, tanto, che messi in apprensione dall'insistenza e concordanza di tali avvisi, raddoppiarono le cure nel fortificare i confini, apprestar armi, procurarsi denari e assoldare capitani e compagnie. 

Nel medesimo tempo i veneziani cercarono di riconciliarsi col Papa per staccarlo dalla lega, promettendogli, il 4 aprile 1509, la restituzione di Faenza e Rimini che si ostinava a volere, quantunque quand'era cardinale li avesse consigliati ad acquistarle e nel febbraio del 1505 per mezzo del duca d'Urbino, avesse promesso che le avrebbe loro lasciate; ma era troppo tardi e pareva più indizio di timore che atto di spontanea saggezza:  infatti, fino dal 23 marzo il papa aveva sottoscritta la propria partecipazione alla lega, e di più non voleva, accettando l' incompiuta cessione, mostrare di rinunziare a Cervia e a Ravenna. 

Altro tentativo simile di riavvicinamento fu fatto anche con l'imperatore, ma neppure questo riuscì. Non rimaneva quindi altro che "...disporsi a sostenere la lotta con tutte le forze, con il concorso, -come esortava il doge LEONARDO LOREDAN- delle sostanze e della vita di tutti, poichè perdendo si sarebbe perduto un bello stato et non sarà più gran Consegio et non saremo più in terra libera".

Nell'aprile del 1509 Giulio II lanciò la scomunica contro i Veneziani; ma il Senato della repubblica proibì che si pubblicasse la bolla e ordinò che si continuassero a celebrare le funzioni religiose. Nello stesso mese lo Chaumont, che comandava l'avanguardia francese, passava l'Adda a Cassano ed occupava Treviglio che poco dopo gli veniva ripresa dai Veneziani. Il 1° maggio LUIGI XII entrava a Milano e si recava ad assumere il comando del suo esercito.

La repubblica di Venezia aveva affidato il comando delle sue milizie al conte NICCOLÒ ORSINI di Pitigliano e a BARTOLOMEO d'ALVIANO. L'avere messo insieme questi due condottieri, l'uno prudente, l'altro impetuoso, fu un gravissimo errore dei Veneziani che presto dovettero scontarlo a caro prezzo. 

Il 14 maggio, presso i villaggi di Vailà ed Agnadello, mentre l'esercito di Venezia si ritirava verso Brescia, la sua retroguardia comandata dal d'Alviano prese contatto con l'avanguardia francese ed ingaggiò arditamente battaglia. Bartolomeo d'Alviano sperava di essere soccorso dal collega, il quale invece prosegui la marcia invitandolo a seguirlo. Era però troppo tardi, per il fatto che la battaglia divampava furiosa e la retroguardia veneziana aveva contro di sé tutto l'esercito nemico giunto nel frattempo in aiuto della sua avanguardia. Dopo un accanito combattimento la vittoria rimase ai Francesi, malgrado l'impeto superbo della cavalleria italiana e l'eroica fermezza di un corpo di fanti romagnoli. Bartolomeo d'Alviano, che quel giorno avrebbe potuto annientare l'esercito francese se fosse stato sostenuto dal Pitigliano, ferito al volto cadde prigioniero.

La giornata di Agnadello decise le sorti della guerra. Caravaggio il giorno dopo aprì le porte ai Francesi e la rocca capitolò il 16; il giorno 17 Bergamo inviò le chiavi al re; Brescia rifiutò di ricevere le milizie del Pitigliano e il 24 maggio si diede a Luigi XII, imitata da Crema e Cremona; di lì a poco Peschiera fu presa d'assalto. Erano appena trascorsi quindici giorni dalla battaglia di Agnadello e già tutte le terre assegnategli dal trattato di Cambrai erano venute in potere del re di Francia.

Intanto anche gli altri collegati scendevano in campo. L'esercito pontificio, comandato dal nipote del Papa, Francesco Maria della Rovere, che l'anno prima era succeduto nel ducato d' Urbino a Guidobaldo di Montefeltro, occupava dopo breve lotta Solarolo, Brisighella e Russi e senza incontrar resistenza, Faenza, Ravenna, Cervia e Rimini; Alfonso d' Este, cacciato da Ferrara il visdomino veneziano, occupava senza colpo ferire Rovigo, Este, Montagnana e Monselice; Gianfrancesco III Gonzaga si impadroniva di Asola e di Lonato; infine i porti della Puglia venivano da Venezia spontaneamente ceduti a Ferdinando I.

Mentre lo Stato veneziano di terraferma andava rapidamente in sfacelo, non entrava ancora in campagna Massimiliano; prendevano invece le armi i suoi vassalli confinanti con la repubblica: Cristoforo Frangipani occupò Pisino e Duino, il duca di Brunswich si impadronì di Feltre e Belluno; Trieste e Fiume ritornarono all'Austria, il conte di Lodrone espugnò alcuni castelli presso il lago di Garda e il vescovo di Trento prese Riva.

Non pochi luoghi della terraferma avrebbero potuto tenere testa ai vassalli imperiali se avessero voluto; la rapida ritirata del Pitigliano, che con l'esercito in disordine e assottigliato dalle diserzioni si era ridotto a Mestre,  e il malcontento dei nobili delle varie città del Veneto contro il governo della repubblica da cui erano sempre esclusi fecero però sì che parecchie, di queste città, come Verona, Vicenza e Padova, si concedessero ai Tedeschi. Per volere dei nobili locali anche Treviso stava per imitare le sue consorelle quando, il 10 giugno del 1509, un MARCO CALIGARO, pellicciaio di professione, sollevato il popolo al grido di Viva S. Marco, decise  la difesa e chiese aiuti al campo di Mestre da cui furono mandati settecento fanti.

Questa prova di affetto rincuorò la repubblica che, grata ai Trevisani della loro devozione, li esentò per quindici anni dalle imposte. La decisione di Treviso inoltre parve di buon augurio e, poiché Luigi XII, Giulio II e Ferdinando I, paghi di aver preso quanto desideravano, stavano con le armi al piede e l'imperatore indugiava a scendere, i Veneziani furono convinti che era giunto il momento di muovere alla riscossa contro Massimiliano, che era il nemico più debole e meno preparato.

Padova era presidiata da soli trecento fanti e cinquanta cavalieri tedeschi comandati da Leonardo Trissino. L'esiguità della guarnigione e il malcontento degli abitanti che mal tolleravano le vessazioni degli imperiali, consigliarono la repubblica a cominciar l'offensiva con un colpo di mano su quella vicina città. La mattina del 17 luglio il provveditore veneziano ANDREA GRITTI si impadronì di sorpresa di Padova e fece prigioniero il comandante del presidio. Questo primo successo diede nelle mani dei Veneziani altre terre del contado ed anche l' importante fortezza di Legnago cadde in loro potere. Ventidue giorni dopo, il 3 agosto, i Veneziani assalirono Isola della Scala, se ne impadronirono e catturarono il marchese di Mantova che da qualche giorno vi si trovava.

Questi fatti punsero sul vivo Massimiliano, che fino allora era rimasto inoperoso. Egli comprese che era giunto il tempo di entrare velocemente in campagna se non voleva perder le terre che i suoi vassalli avevano già acquisite. E mentre Rodolfo d'Anhalt, assediata invano Manfalcone, espugnava Pieve di Cadore e il duca di Brunswich, trovata una forte resistenza a Udine si rivolgeva contro Cividale e il Frangipane occupava Castelnuovo e Respucchio, l'imperatore radunato un esercito di circa trentamila uomini, si mosse da Trento alla volta di Padova.

Questa città era pronta alla difesa: vi si era trasferito il Pitigliano con parecchie migliaia di fanti e cavalli; centosettantasei nobili veneziani, tra cui due figli del doge, vi si erano recati conducendo ciascuno parecchi soldati, gran quantità di munizioni e numerose artiglierie vi erano state portate, viveri in grande quantità vi erano stati ammassati e nuovi bastioni, nuove cinte di mura e nuove casematte erano state aggiunte alle vecchie fortificazioni.

Il 10 agosto l'esercito imperiale giunse a Vigodarzere, poi si trasferì a Limena e il 20 avanzò fino al Bassanello, dove vennero ad ingrossarlo settecento lame francesi guidate dal La Palisse, duecento lance pontificie al comando di Pico della Mirandola, altrettante ferraresi col cardinale Ippolito d' Este e un reparto di soldati dei figli del marchese di Mantova.
Gli imperiali tentarono di deviare il corso del Bacchiglione, ma non vi riuscirono; poi strinsero d'assedio la città e verso la metà di settembre cominciarono a battere le fortificazioni con le loro artiglierie che, secondo gli storici, erano costituite da circa duecento cannoni e bombarde. Aperte delle larghe brecce, fu tentato l'assalto del bastione di porta Codalunga, ma le soldatesche di Massimiliano vennero respinte. 

Un altro assalto, più vigoroso del primo, preceduto da nutrito fuoco di artiglieria, riuscì, con gravissime perdite degli imperiali, a sloggiare i difensori dal bastione; questo però era stato minato e poco dopo, scoppiate le mine, gran parte degli assalitori furono sepolti sotto le macerie. Ad accrescere il danno degli assedianti contribuì un contrattacco impetuoso della fanteria comandata dal condottiero ZITTOLO di Perugia che cacciò fuori  il nemico dai vari punti occupati.

Questa sconfitta intiepidì l'entusiasmo degli imperiali: le quotidiane sortite delle milizie veneziane, le discordie nate tra i cavalieri tedeschi e quelli francesi ed infine l' impossibilità di prender Padova con la forza o con la fame, consigliarono a Massimiliano di levare il campo.
 
Il 1° di ottobre fu tolto l'assedio; il La Patisse con i suoi francesi se ne tornò a Milano e l' imperatore, presa la via della val D'Adige, ai primi di novembre se ne andò a Trento.
Grandissima fu la gioia dei Veneziani. "Si baciavano - scrive il Priuli - per le strade, li patrizi abbracciavano i popolari, insino le donne uscivano dalla loro modesta continenza coll'affollarsi nei circoli per partecipare d'una novità così gloriosa"

La partenza dell' imperatore segnò l' inizio di altri successi veneziani. Andrea Gritti marciò su Vicenza, che il 26 novembre gli aprì le porte; il D'Anhalt, che comandava il presidio, si chiuse nella cittadella, ma dopo tre giorni fu costretto a capitolare. Dopo un vano tentativo su Verona, l'esercito veneziano si divise in due schiere: la prima ricuperò Bassano, Feltre, Belluno, Cividale e Castelnuovo del Friuli, la seconda riprese Monselice, Montagnana e il Polesine.
Imbaldanziti da questi successi, i Veneziani vollero dare una dura lezione al duca di Ferrara. Un esercito venne mandato contro la capitale estense e a sostenerlo fu inviata una flotta sul Po al comando di Angelo Trevisani. Ma l'esercito, vedendosi minacciato dai Francesi dello Chaumont giunti a Verona, abbandonò le rive del Po, e la flotta, che si trovava ancorata sotto Polesella, il 22 dicembre venne sbaragliata pienamente dalle numerose e precise artiglierie di Alfonso d'Este.

Con questa disfatta, che del resto non poteva avere funeste conseguenze per Venezia, si chiudeva il 1509. All'inizio dell' anno seguente, la repubblica, che non aveva mai cessato di fare passi per staccare la Santa Sede della lega, intensificò il suo lavorio presso il Pontefice e gli sforzi dei suoi abili ambasciatori furono coronati dal successo. GIULIO II, che - proprio lui- tanto si era adoperato per scatenare contro Venezia così tanti nemici, ora che aveva conseguito quanto voleva, si accorgeva di avere fatto male a danneggiarla così gravemente, e inoltre -e questo era ora il male- così agendo aveva permesso di far crescere in Italia la potenza e l'arroganza dei francesi. 
Credette quindi di agire nel proprio interesse conciliandosi con la repubblica e il 24 febbraio del 1510 nella chiesa di S. Pietro l'assolse dalla scomunica.


GIULIO II ALLEATO CON VENEZIA - GUERRA CONTRO ALFONSO D' ESTE
 CONVOCAZIONE DEI CONCILII DI PISA E DEL LATERANO


L'assoluzione dalla scomunica equivaleva alla pace tra la Santa Sede e Venezia e in sostanza significava il ritiro del Papa dalla lega di Cambrai, e a questa, poiché anche il re di Spagna si era staccato dagli altri collegati, dei principali sottoscrittori non rimasero fedeli che Luigi XII e Massimiliano. Di questi due il più pericoloso per l' Italia era il primo, e a lui Giulio II cominciò a creare fastidi per distruggere la grande autorità che si era guadagnata nella penisola. 
Cercò infatti, senza riuscirvi, di spingere il re ENRICO VIII d'Inghilterra contro la Francia, accordò a FERDINANDO il CATTOLICO l' investitura del reame di Napoli, tentò di fare ribellare i Genovesi, concluse un trattato d'amicizia con gli Svizzeri che si erano raffreddati con il sovrano francese, assicurandosi il loro servizio militare; ed infine si diede da fare d'attorno per conciliare Venezia col duca di Ferrara e dividere l' Estense Alfonso dal re francese.

Queste ultime trame però non gli riuscirono. Allora cominciò a cercar cavilli per romperla con Alfonso, gli proibì la raccolta del sale a Comacchio, lo minacciò di annullare il contratto dotale di Lucrezia Borgia, e chiese che alcuni castelli di Romagna portati in dote da questa fossero restituiti alla Chiesa e che l'annuo contributo del ducato da cento fiorini fosse portato a quattromila. Alfonso tenne duro, stringendosi sempre più a Luigi XII, il quale da prima tentò di riconciliarlo col Pontefice, poi, vedendo che l'ostinazione di Giulio II difficilmente poteva esser piegata, giudicò conveniente di rinsaldare maggiormente l'alleanza con Massimiliano e di ricominciare la guerra contro Venezia per intimorire il Papa.

Dietro ordine del re di Francia lo Chaumont entrò nel Polesine con millecinquecento lancieri e diecimila fanti, Alfonso d' Este e il d'Anhalt, che presidiava Verona, si unirono a lui, e tutti insieme marciarono alla volta di Vicenza. Perché Venezia potesse difendersi, il Pontefice le permise di assoldar truppe nello stato della Chiesa e le cedette il suo condottiero Gian Paolo Baglioni, il quale assunse il comando dell'esercito della repubblica (il conte di Pitigliano era morto nel febbraio del 1510). Il Baglioni, non disponendo di molte truppe, lasciò il Vicentino e si afforzò alla Brentella, cosicché Vicenza dovette aprire le porte ai confederati, che la misero a sacco. 
Poco tempo dopo Legnago cadde in potere dei francesi e nel giugno la stessa sorte toccò a Cittadella, Marostica e Bassano.
Erano a questo punto le cose quando GIULIO II reputò giunto il momento dI intervenire con la "solita arma" che ogni tanto funzionava, e funzionava meglio se era accompagnata da vere armi.
  
Il 9 agosto del 1510, Giulio II,  lanciò la scomunica contro il duca ALFONSO d' ESTE e, per distrarre le forze francesi dalla difesa del ducato di Ferrara, fece assalir Genova e altre città della Riviera con forze di terra e di mare e indusse gli Svizzeri a scendere in Lombardia. L' impresa della Liguria, tentata dal fuoruscito Ottaviano Fregoso e da Marc'Antonio Colonna, però fallì; quella degli Svizzeri, che si spinsero fin nella Brianza -donde poi comprati dall'oro francese tornarono nelle loro montagne-  non ottenne che di fare rientrare frettolosamente le truppe dello Chaumont nel ducato di Milano; successo migliore invece ebbe la spedizione pontificia nell' Emilia capitanata da Francesco Maria della Rovere che indusse Modena a darsi al Pontefice.
In questo frattempo i Veneziani passavano all'offensiva: LUCIO MALVEZZI, capitano della repubblica, ricuperava Bassano e Marostica, entrava a Vicenza e si spingeva sotto Verona, entro cui si erano rifugiate  le truppe imperiali. Ma un assalto tentato alla città, dopo un intenso fuoco d'artiglieria, non ebbe esito felice e i Veneziani, tolto l'assedio, posero il campo a cinque miglia da Verona.

IL CONCILIO FRANCESE DI TOURS


Il contegno del Papa non poteva non irritare LUIGI XII, che, volendolo colpire anche lui con le "armi spirituali", nei primi di settembre adunò a Tours i vescovi francesi. Questo concilio accolse le accuse del re rivolte al Pontefice, il quale, secondo il sovrano, turbava la cristianità con il suo spirito bellicoso, dichiarò che il Papa non poteva portare guerra ai principi per motivi esclusivamente temporali, ed esortò Luigi a portare le sue lagnanze davanti ad un concilio ecumenico da convocarsi d'accordo con l' imperatore.

Il CONCILIO di TOURS sdegnò vivamente GIULIO II. Egli ritentò, ma inutilmente, l'impresa di Genova, poi, deciso di farla finita col duca di Ferrara, allo scopo di sorvegliar personalmente più da vicino l'andamento della guerra, a cavallo parti per Bologna dove giunse il 20 settembre con tutta la sua corte. La sua presenza valse ad accelerare il ritmo della guerra e il duca Alfonso si trovò contemporaneamente minacciato dalle milizie pontificie e da una flotta veneziana che risaliva il Po.
In aiuto dell' Estense allora accorse lo Chaumont, il quale, avanzandosi celermente, il 12 ottobre giunse a dieci miglia da Bologna. Il Papa, trovandosi con poche e male disciplinate truppe, assillato dalle preghiere dei cardinali che volevano indurlo alla pace e minacciato dai partigiani del Bentivoglio, aprì trattative con lo Chaumont, che si era spinto a tre miglia dalla città; ma qualche giorno dopo, rinfrancato per l'arrivo di un buon esercito, il papa ruppe bruscamente i negoziati, mentre il generale francese, preoccupato dall'arrivo dei rinforzi pontifici, si ritirava a Rubiera.

Quando fu convinto di aver truppe sufficienti per cominciare l'offensiva, Giulio II fece avanzare il suo esercito per investire Sassuolo, che in capo a due giorni capitolò, quindi ordinò che fossero assalite Concordia e Mirandola. La prima cadde verso la metà di dicembre, la seconda resistette più lungamente, ma il 20 gennaio del 1511 capitolò.

Una ventina di giorni dopo, cioè 1' 11 febbraio del 1511, cessava di vivere Carlo di Chaumont e il comando dell'esercito francese veniva affidato al maresciallo Gian Giacomo Trivulzio. Questi ai primi di marzo assalì e riprese Concordia, poi occupò Castelfranco, minacciando l'esercito pontificio che si era ritirato a Casalecchio. Giulio II non sentendosi sicuro a Bologna  partì per Ravenna, lasciando in qualità di suo legato il cardinale Francesco Alidosi, il quale, anziché provvedere alle difesa della città, anche lui se ne fuggì ad Imola. 

Il 21 maggio, saputasi la fuga del cardinale, i partigiani del Bentivoglio si levarono in armi, l'esercito pontificio accampato a Casalecchio si ritirò precipitosamente in Romagna, abbandonando bagagli e cannoni, e i Francesci entrarono in Bologna, dove fu dichiarato decaduto il governo papale e una statua di bronzo del Pontefice, opera di Michelangelo, che ornava la facciata di S. Petronio, fu abbattuta e ridotta in pezzi.

La colpa della perdita di Bologna fu attribuita da Francesco Maria della Rovere, cardinale degli Alidosi, il quale andò a Ravenna per giustificarsi con il Pontefice; ma il della Rovere, incontratolo in una via della città, colto da furore, lo assalì e a colpi di spada lo uccise. Addolorato e nello stesso tempo sdegnato per questo delitto e per le vicende della guerra, Giulio II partì da Ravenna alla volta di Roma, ma passando da Rimini il suo dolore e il suo sdegno dovevano essere aggravati dall'annunzio di un concilio generale convocato a Pisa per il 1° di settembre con lo scopo di riformare la Chiesa nel suo capo e nelle sue membra.

LA LEGA SANTA
 GASTONE DI FOIX A BOLOGNA E A BRESCIA
BATTAGLIA DI RAVENNA


 Tornato da Ravenna a Roma, Giulio II con il proposito di opporsi al concilio di Pisa, il 18 luglio del 1511 convocò a sua volta un altro concilio da tenersi a S. Giovanni in Laterano il 19 aprile dell'anno dopo e minacciò i cardinali ribelli di privarli della porpora e dei benefici se entro due mesi non si fossero presentati a lui per giustificarsi. 
I preparativi per i due concili vennero sospesi da un' improvvisa malattia del Pontefice, che, per gli strapazzi della guerra e per i molti affanni provati, nell'agosto si ammalò così gravemente da far temere per la sua vita. Si sparse anzi la voce della sua morte e il protonotario Pompeo Colonna, credendo vera la notizia, levò a tumulto i Romani; ma presto la voce fu smentita e la quiete ritornò nella città.


LA LEGA SANTA


In breve la robusta fibra del Papa trionfò sul male. Non appena si fu ristabilito, Giulio II si adoperò affinché il concilio di Pisa non avesse luogo e fece passi a Firenze perché non permettesse che le sedute si tenessero nel suo territorio. Non osando la signoria fiorentina rompere l'amicizia col re di Francia e col Papa e tenendo perciò un atteggiamento indeciso, Giulio II lanciò l' interdetto su Pisa e Firenze; nello stesso tempo intensificò le pratiche da tempo iniziate presso la Spagna e l' Inghilterra per trascinarle nella guerra contro la Francia e il 5 ottobre pubblicò solennemente nella Chiesa di Santa Maria del Popolo col grido di "fuori i barbari"  la LEGA SANTA tra la Chiesa, Ferdinando il Cattolico e la repubblica di Venezia.

Il concilio di Pisa, su cui tanto assegnamento facevano Luigi XII e Massimiliano, ebbe il più grande insuccesso. Pochissimi furono i prelati che  intervennero e questi furono apertamente osteggiati dalla cittadinanza e dal clero di Pisa che rifiutò loro le chiese e i paramenti. 

Il 13 novembre, accesasi una mischia tra i cittadini e gli arcieri francesi di scorta ai cardinali ribelli, questi, colti da paura, abbandonarono la città e trasferirono il concilio a Milano, la cui popolazione non fece loro migliore accoglienza. Si dimostravano quindi inefficaci le "armi spirituali" suscitate contro il Pontefice dal re di Francia e la decisione della grande contesa veniva affidata alle sorti ancora una volta alle "armi vere".

""...La Lega Santa - scrive il Sismondi - aveva per obbiettivo il mantenimento dell'unione della Chiesa minacciata di scisma dal conciliabolo di Pisa; la restituzione alla Santa Sede di Bologna e di ogni altro feudo che immediatamente p successivamente  potesse appartenerle, volendo indicare con ciò lo stato di Ferrara; per ultimo la cacciata dall'Italia con un poderoso esercito di chiunque si opponesse a questo duplice proposito, vale a dire del re di Francia.

 Per mettere in piedi questo esercito il Papa prometteva quattrocento uomini d'arme, cinquecento cavalli e seimila fanti, la repubblica di Venezia ottocento uomini d'arme, mille cavalli ed ottomila fanti, il re di Spagna milleduecento uomini d'arme, mille cavalli e diecimila fanti. Ma, poiché il contingente del re cattolico richiedeva troppa spesa, il Papa e il senato si obbligavano a pagargli ventimila ducati al mese ciascuno per tutta la durata della guerra. 

L'esercito della lega doveva, esser comandato dal catalano Raimondo di Cardona, vicerè di Napoli; una flotta di dodici vascelli spagnoli e di quattordici veneziani doveva essere allestita per portar la guerra sulle coste francesi. Tutti quei paesi conquistati dagli alleati, appartenenti una volta a Venezia dovevano esserle restituiti. L' imperatore e il re d' Inghilterra, desiderandolo, potevano essere accolti nella lega. Il Pontefice abilmente aveva fatto inserire quest'articolo a favore di Massimiliano sperando di staccarlo dalla Francia; e il cardinale di York, ambasciatore di Enrico VIII, che era uno dei negoziatori della lega, non avendo ancora ricevuto istruzioni per sottoscrivere il trattato, aveva chiesto che a nome e in favore del suo sovrano fosse inserita la medesima riserva..""(Sismondi )

Verso la fine del dicembre l'esercito della lega si raccolse intorno ad Imola con il doppio intento di assalire il ducato di Ferrara e di conquistare Bologna. Nel frattempo sedicimila fanti svizzeri scendevano in Lombardia o giungevano fin presso Milano; ma il generale francese Gastone di Foig mandato a governare Milano dapprima ne sorvegliò le mosse poi con forti somme li indusse a ritornare in Svizzera.

Sul finire del gennaio del 1512 gli Spagnoli e i Pontifici cinsero d'assedio Bologna; le artiglierie furono subito messe in azione sbrecciando le mura e sotto la direzione dell'ingegnere Pietro Navarro furono scavate mine sotto le fortificazioni. La città aspettava di essere assalita quando, la notte dal 4 al 5 febbraio, vide giungere in suo soccorso l' intero esercito francese comandato da GASTONE di FOIX, che col suo arrivo indusse i collegati a levar l'assedio e a ritirarsi nelle Romagne.

Ma un giorno prima dell' ingresso del generale francese a Bologna, i Francesi avevano subìto un grave rovescio in Lombardia: Brescia era stata espugnata dai Veneziani comandati da Andrea Gritti, che aveva iniziato l'assedio della fortezza, e Bergamo e le altre terre della repubblica occupate dai Francesi, eccettuate Crema e Cremona, erano riuscite a cacciare gli stranieri ed avevano inalberato il vessillo di S. Marco.

Alla notizia di questi avvenimenti Gastone di Foix lasciò trecento lancieri e quattromila fanti a Bologna e partì velocemente alla volta di Brescia. Presso Isola della Scala assalì e mise in fuga, dopo vivace combattimento, una schiera veneziana capitanata da Gian. Paolo Baglioni; quindi si rimise in cammino e nove giorni dopo la sua partenza da Bologna giunse a Brescia. 

Il giorno dopo -era il 19 febbraio-  i Francesi assalirono la città e nel primo scontro cadde gravemente ferito il cavaliere Baiardo. La battaglia fu impetuosa e i Veneziani si difesero in modo ammirevole; ma alla fine dovettero cedere al numero dei nemici e Brescia, tornata in possesso dei Francesi, venne orribilmente saccheggiata. Molte e degne di barbari furono le violenze commesse dai vincitori; per due giorni interi uccisero, torturarono, rubarono, stuprarono; finalmente Gastone di Foix ordinò che cessassero le stragi e il saccheggio e le soldatesche furono fatte uscire dalla città cariche di bottino. Bergamo, atterrita, tornò dolorosamente a sottomettersi.

Dopo la presa di Brescia ci fu un po' di tregua nelle operazioni di guerra; tregua che necessariamente doveva aver breve durata per la situazione critica in cui si trovava Luigi XII. Minacciato dalla parte dei Pirenei da Ferdinando, dal nord da Enrico VIII d' Inghilterra, e dagli Svizzeri che parevano disposti , a scender nuovamente in Lombardia, il re di Francia spingeva Gastone di Foix a proseguire le operazioni per costringere il Pontefice e i Veneziani alla pace e fare ritorno in patria.
Dopo un mese circa di riposo, il giovanissimo generale si portò a Finale e di là si spinse verso le Romagne cercando d'indurre Raimondo di Cardona ad accettar battaglia. Il capitano spagnolo invece si sforzava di evitare di combattere per stancare il nemico e dar tempo agli Inglesi di invadere la Francia e agli Svizzeri di giungere in Italia.

Allora Gastone di Foix si mosse contro Ravenna sicuro che il nemico non avrebbe lasciato senza soccorsi questa città. L' 8 aprile vi giunse e subito cominciò a bombardarla, aprendo nelle mura alcune brecce. Il giorno dopo fu tentato un assalto che, sebbene vigoroso, fu respinto dal presidio comandato da Marc'Antonio Colonna. Credendola in pericolo, il CARDONA si mosse da Faenza con tutto il suo esercito per soccorrere la città assediata e il 10 di aprile giunse alle rive del Ronco, proprio di fronte all'esercito francese.

Il giorno dopo, che era la domenica di Pasqua, cominciò la battaglia. L'esercito francese era ordinato a semicerchio: la destra, protetta dalla numerosa ed ottima artiglieria del duca di Ferrara, si componeva di settecento uomini armati francesi e della fanteria tedesca; il centro era formato di ottomila fanti guasconi e piccardi; la sinistra era forte di cinquemila italiani comandati da Federico di Bozzolo e da tremila arcieri; di retroguardia stava il LA PALISSE con seicento lance. 
L'esercito di Raimondo da Cardona stava trincerato alla riva del Ronco: alla sinistra stava Fabrizio Colonna con ottocento uomini d'arme e seimila pedoni, al centro personalmente il Cardona e il cardinale Giovanni de' Medici, legato pontificio, con seicento lance e quattromila fanti, alla destra era il CARVAJA con quattrocento uomini d'arme e quattromila fanti, protetti da una schiera di cavalli al comando del giovane marchese di Pescara FERDINANDO d'AVALOS; tutta il fronte era protetto dalle artiglierie.

I Francesi passarono indisturbati il Ronco e sempre in formazione di semicerchio avanzarono verso il nemico, fermandosi poi a quattrocento passi  e iniziando il cannoneggiamento, cui rispose il tiro nutrito delle artiglierie spagnole che causarono gravissime perdite alle fanterie francese e tedesca. Un assalto tentato dai fanti di Gastone di Foix fu nettamente respinto; ma la medesima sorte subì un contrattacco spagnolo. In questa prima fase della battaglia la peggio toccò ai Francesi che persero il novanta per cento dei capitani della loro fanteria e parecchie migliaia di soldati.
La seconda fase rialzò le sorti dell'esercito francese per merito del duca Alfonso d' Este, il quale, portate le sue batterie sulla sinistra, aprì un fuoco micidiale prendendo d'infilata il nemico; ma le palle giungevano anche alla destra francese producendovi non pochi danni. Narrasi che, avvertito di questi gravi errori, il duca di Ferrara dicesse ai suoi cannonieri: «Non importa; sono tutti stranieri e perciò nemici degli Italiani!».

Non potendo resistere in posizione di attesa al fuoco dell'artiglieria, Prospero Colonna, malgrado gli ordini contrari del Cardona, uscì arditamente all'attacco con gli uomini, costringendo Pietro Navarro ad andar anche lui all'assalto con la fanteria spagnola. Ma gli uomini del Colonna, mentre avanzavano contro l'artiglieria estense che li aveva decimati, furono presi di fianco da una schiera comandata da Ive d'Alégre e sconfitti. Fabrizio, circondato dai nemici, dopo eroica resistenza si arrese nelle mani del duca di Ferrara.
Rotto lo schieramento del Colonna, il Cardona e il Carvajal presero la fuga; il marchese di Pescara invece tentò di arrestare la cavalleria francese, ma venne ferito e fatto prigioniero. Ora tutto il peso della battaglia gravava sulla famosa fanteria spagnola, la quale, dopo aver fatto una orribile strage sui fanti tedeschi, venne assalita di fronte e dai lati dalla cavalleria francese, personalmente comandata da Gast ne di Foix e da Ivo d'Alégre. Quest'ultimo trovò la morte in questo terribile assalto.

Rimasta sola di fronte a tutto l'esercito nemico, la fanteria spagnola cominciò a ritirarsi in perfettissimo ordine, respingendo valorosamente gli attacchi francesi. Durante questa ritirata, i Francesi perdettero il loro generalissimo, che in quella campagna, a soli ventitré anni, si era rivelato uno straordinario condottiero. Spintosi audacemente tra la fanteria con una squadra di cavalli, fu sbalzato di sella e ucciso a colpi di picca e di spada. Morto il loro capo, i Francesi arrestarono la loro avanzata e di conseguenza cessò la battaglia.
 
Essa fu la più sanguinosa di tutte quelle che da molto tempo si erano combattute in Italia: dai dieci ai ventimila morti rimasero sul campo; l'esercito del Cardona lasciò in mano del nemico le artiglierie, le insegne, i bagagli e molti prigionieri, tra cui, oltre il Colonna e il Pescara, vanno ricordati Pietro Navarro, i marchesi di Bitonto e della Palude e il cardinal de' Medici. Dopo la battaglia, Ravenna cadde in potere dei Francesi; Imola, Forlì, Cesena, Rimini aprirono le porte ai vincitori e il cardinale di Sanseverino ne prese possesso in nome del Concilio di Milano.

RITIRATA DEI FRANCESI - PROGRESSI DEI COLLEGATI
DIETA DI MANTOVA - I MEDICI TORNANO IN FIRENZE
MASSIMILIANO SFORZA DUCA DI MILANO, - MORTE DI GIULIO II

Sebbene vincitori e padroni delle Romagne, i Francesi non si trovavano in grado di continuare l'offensiva, privi com'erano di un capo autorevole e mancando la concordia tra il La Palisse, successo a Gastone di Foix nel comando dell'esercito, il cardinale di Sanseverino e Gian Giacomo Trivulzio. Si aggiunga che Luigi XII desiderava la pace col Papa, che l' imperatore Massimiliano, subito dopo la battaglia di Ravenna, aveva ordinato alle truppe tedesche di ritirarsi e si apprestava a passar dalla parte dei collegati e, infine, che il re di Spagna e il re d' Inghilterra facevano assalire dai loro eserciti il territorio della Francia.

Giulio II era stato fortemente scosso dalla notizia della sconfitta subita nella battaglia di Ravenna e, costernato dall'atteggiamento ostile di molti baroni romani e dallo stesso suo nipote Francesco Maria della Rovere, si era piegato ad entrare in trattative con Luigi XII; ma, riconfortato dall'annuncio dell'indisciplina e debolezza dell'esercito francese, dalle promesse di Ferdinando di inviare in Italia Consalvo di Cordova e dagli incitamenti degli ambasciatori spagnolo e inglese a continuare la lotta, riprese animo e il 3 maggio del 1512 aprì il Concilio Lateranense, fece annullare le decisioni dell'altro concilio ed ammonì severamente il re di Francia, imponendogli sotto la minaccia della scomunica di render la libertà al cardinale Giovanni de' Medici.

Così la guerra ricominciava con maggior vigore. Ventimila Svizzeri, assoldati dal Papa, scendevano nel Veronese e insieme all'esercito veneziano comandato da Gian Paolo Baglioni passavano il Mincio e l'Oglio e il 5 giugno occupavano Cremona, costringendo il presidio francese a chiudersi nella cittadella; nello stesso tempo Bergamo si ribellava ed apriva le porte ai Veneziani; dal sud intanto l'esercito della lega rioccupava Rimini, Ravenna, Cesena, e le altre terre di Romagna.

Il La Palisse, minacciato da ogni parte, aveva raccolto tutti i presidi della Romagna e dell'Emilia a Pontoglio e di qua si era trasferito più tardi a Castiglione delle Stiviere, a Valeggio, a Gambara, ritirandosi infine nei pressi di Pontevico. Non ritenendo sicura  questa posizione, raggiunse poi Pizzighettone, e da qui convogliò l'esercito a Pavia, lasciando Milano scoperta. La ritirata del La Palisse costrinse il Trivulzio ad abbandonare Milano nel cui castello lasciò però un presidio, portandosi dietro il cardinale de' Medici, il quale, durante il viaggio, fu strappato alle guardie e rimesso in libertà da una turba di contadini.

Neppure a Pavia i Francesi riuscirono a stare tranquilli e, assaliti dall'esercito della lega, dovettero ben presto abbandonarla. Anche Lodi fu poi perduta; Bologna venne occupata dalle truppe pontificie e Giulio II si impadronì di Reggio e di Modena e occupò per sé Parma e Piacenza sotto il pretesto che queste due città facevano parte dell'antico esarcato di Ravenna. Milano aprì le porte ai collegati; Genova si ribellò acclamando doge Giano Fregoso (29 giugno) e costringendo il governatore Francesco de la Rochechouart a chiudersi nel forte della Lanterna.

Oramai i Francesi potevano dirsi cacciati dall' Italia. Non restavano che questa fortezza genovese, il castello di Milano, Brescia, Crema, Legnago e le fortezze di Novara e Cremona. Era tempo perciò di procedere alla divisione dei territori e di ciò che rimaneva. Con questo scopo si tenne una dieta a Mantova, in cui fu stabilito di mettere sul ducato di Milano MASSIMILIANO SFORZA, primogenito di Ludovico il Moro, affidandogli la protezione della repubblica di Genova, e di mandare un esercito in Toscana per abbattere il governo repubblicano di Firenze e rimettere in questa città i Medici.

Nell'agosto del 1512 RAIMONDO di CARDONA e il cardinale GIOVANNI de' MEDICI, che aveva sborsato diecimila ducati, alla testa di duecento uomini e cinquemila fanti spagnoli, valicarono gli Appennini e, giunti a Barberino, fecero sapere ai Fiorentini che non avevano intenzione di togliere loro la libertà e le leggi, ma volevano soltanto che fosse cacciato il gonfaloniere SODERINI e fossero riammessi i Medici come privati cittadini. Poichè Firenze rifiutò di cacciare il gonfaloniere, il Cardona avanzò con le sue truppe e il 29 agosto, dopo dei brevi tiri di artiglieria, si impadronì di Prato che fu messa orribilmente a sacco.

Firenze non aveva fatto nessun preparativo per la difesa. Ma la notizia del saccheggio di Prato mise in costernazione la città; un colpo di mano dei partigiani dei Medici riuscì in tempo a chi voleva resistere di organizzare una di difesa. Il Soderini venne deposto e se ne andò in esilio; al Cardona fu promesso il pagamento di centoquarantamila ducati e a settembre entrarono in Firenze i membri della famiglia medicea: il cardinale Giovanni e Giuliano, figli del Magnifico, Giulio, figlio di quel Giuliano che era perito nella congiura dei Pazzi, e Lorenzo II figlio di quel Piero che aveva trovato la morte nelle acque del Garigliano. 

Con il ristabilimento dei Medici fu abolito il gonfalonierato a vita e vennero abrogate tutte le leggi posteriori al 1494; il governo apparentemente rimase repubblicano, ma in sostanza fu asservito alla famiglia medicea e in special modo al cardinale, il quale, del resto, non pensò ad altro che a guadagnarsi la simpatia del popolo con feste e ad accrescere con favori il  numero dei suoi partigiani.

Il 18 settembre Raimondo da Cardona parti da Prato e si recò sotto Brescia che era stretta d'assedio dai Veneziani. Il d'Aubigny che la difendeva si arrese al vicerè di Napoli. Di lì a poco Legnago si arrese agli imperiali, Crema alla repubblica di Venezia e Novara allo Sforza. Questi il 29 dicembre ricevette con una solenne cerimonia le chiavi di Milano dagli Svizzeri, i quali si impegnarono di proteggere il ducato Milanese e di mandare in suo aiuto tutte le truppe occorrenti.

Sul finire dell'anno ebbe luogo a Roma una dieta dei confederati per risolvere le questioni rimaste insolute al congresso di Mantova. Fra queste le più difficili a risolversi erano quelle tra l' imperatore Massimiliano e i Veneziani. Il primo, che occupava Verona, reclamava il possesso di Vicenza e non voleva lasciare Padova, Treviso, Brescia, Bergamo e Crema alla repubblica se questa non si obbligava a pagargli un tributo annuo di trentamila fiorini e duecentomila per l' investitura.
 
Il Pontefice cercò di convincere i Veneziani ad aderire alle pretese di Massimiliano; non essendovi riuscito, concluse con l'imperatore un'alleanza. In virtù di questa il Papa s'impegnava a mettere in opera le "armi spirituali" e temporali affinché l'alleato entrasse in possesso delle terre assegnategli dal trattato di Cambrai; in compenso l'imperatore aderiva al Concilio Lateranense e prometteva di non soccorrere Alfonso d' Este e i Bentivoglio.

Quest'alleanza, che costrinse i Veneziani ad orientarsi verso la Francia, fu l'ultimo atto di Giulio II, che nella notte dal 20 al 21 febbraio del 1513 cessò di vivere. 

Di lui il GUICCIARDINI scrisse: ""...Degno certamente di somma gloria se fosse stato principe secolare; o se quella cura e intenzione, che ebbe ad esaltare con le arti della guerra la Chiesa nella grandezza temporale, avesse avuta ad esaltarla con le arti della pace nelle cose spirituali: e nondimeno sopra tutti i suoi antecessori di chiarissima ed onoratissima memoria, massimamente appresso a coloro; i quali, essendo perduti i veri vocaboli delle cose, e confusa la distinzione del pensare rettamente, giudicano che sia più ufficio dei pontefici aggiungere con le armi e col sangue dei cristiani imperio alla Chiesa apostolica, che l'affaticarsi con l'esempio buono della vita e col correggere e medicare i costumi trascorsi per la salute di quelle anime per la quale si magnificano che Cristo li abbia costituiti in terra suoi vicari""

I cardinali si chiusero in conclave il 4 marzo e il giorno 11 riuscì eletto GIOVANNI de' MEDICI che, col nome di LEONE X, fu incoronato papa in San Giovanni in Laterano l' 11 aprile del 1513, anniversario della battaglia di Ravenna. 
Nella scelta del Medici, uomo dotto, amante delle arti e della pace, c'era la volontà e il desiderio da cui il collegio cardinalizio era animato di dare alla Chiesa un capo che del predecessore non avesse la natura collerica e l' indole battagliera.

Terminato il periodo di Giulio II e le guerre della Lega Cambriai, lo scenario cambia con la Francia in Lega con Venezia per riconquistare e dividersi la Lombardia

ed è il periodo che va dal 1512 al 1517 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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