3a GUERRA PUNICA - "DISTRUGGETE CARTAGINE!"

RINASCITA DI CARTAGINE - LE USURPAZIONI DI MASSINISSA - MARCO PORCIO CATONE - "DELENDA CARTHAGO " - BATTAGLIA DI OROSCOPA - TENTATIVI DI CARTAGINE DI SCONGIURARE LA GUERRA - I ROMANI A UTICA - CARTAGINE MANDA OSTAGGI E CONSEGNA LE ARMI - IL SENATO ORDINA LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE - IL POPOLO CARTAGINESE SI PREPARA ALLA DIFESA - RICHIAMO DI ASDRUBALE DALL'ESILIO - ASSEDIO DI CARTAGINE - SUCCESSI DEI CARTAGINESI - SCIPIONE EMILIANO A CARTAGINE - VITTORIA DEI ROMANI A MEGARA - LA DIGA DI SCIPIONE - IL PORTO MILITARE CONQUISTATO - DIOGENE SCONFITTO - L'EPICA LOTTA NELLE VIE DI CARTAGINE - RESA DELLA CITTADELLA - VILTÀ DI ASDRUBALE - EROICA FINE DELLA MOGLIE DI ASDRUBALE E INCENDIO DEL TEMPIO DI ESCULAPIO -DISTRUZIONE DI CARTAGINE - ASSETTO DELL'AFRICA E TRIONFO DI SCIPIONE EMILIANO
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RINASCITA DI CARTAGINE


Il Senato romano con le durissime condizioni di pace imposte ai Cartaginesi, dopo la seconda guerra punica, forse credeva che la rivale di Roma non dovesse più risorgere e, non potesse più ritornare allo splendore ed alla potenza di una volta.
La disfatta subita per opera di Scipione l'Africano (nella battaglia di Zama) invece non l'aveva abbattuta, e, sebbene fosse stato per lei un fierissimo colpo, pure, in un periodo di tempo relativamente breve, Cartagine aveva saputo sanare le sue ferite.
Non poteva morire in conseguenza di una sconfitta una città che per la sua posizione era l'emporio dell'Africa e il cuore del commercio di quasi tutto il Mediterraneo, una città abitata da gente attiva ed intraprendente, nata sul mare e per il mare, per le industrie e per gli scambi, una città che aveva tradizioni antichissime e relazioni vastissime e che, sebbene in lotta con i principi dell'interno, era indispensabile alla vita delle popolazioni del retroterra.

Al principio del VI secolo di Roma (il II a.C.) Cartagine era una delle più grandi e più floride città del mondo; e se non affluivano più le prede conquistate dai suoi eserciti in Africa, in Spagna e nelle isole, i suoi magazzini rigurgitavano di prodotti che le innumerevoli navi mercantili vi portavano da tutti gli scali del Mediterraneo.
Al centro dell'ampio golfo di Tunisi, Cartagine era città di traffico intenso, luogo di delizie e piazzaforte inespugnabile. Sorgeva sopra una penisola congiunta al continente per mezzo di un istmo della larghezza di venticinque stadi, fiancheggiato a nord-ovest dal Sinus Uticensis (oggi Sebca er-Riaua) e a sud dal lago di Tunisi (El-Bahira). La città vecchia era situata verso il mare sul lato sud-est della penisola, la nuova, che era costituita da un vasto sobborgo ed era chiamata Megara, circondava la prima dal nord e dall'ovest, ed era ricca di ville e di fiorenti giardini. Due porti si aprivano presso la città antica, il mercantile e il militare (Cothon). Quest'ultimo era interno e comunicava con il primo e con il mare aperto per mezzo di canali. La cittadella, denominata Birsa (in siriaco - rocca) era posta su una piccola altura tra i due porti, sormontata dal tempio di Esculapio. Città vecchia e nuova, erano circondate da robustissime mura che in certi punti misuravano una larghezza di venti cubiti. Imprendibile era la cittadella: la cingevano tre ordini di mura, ciascuna larga quindici metri, merlate e rafforzate da numerose torri, provviste di stalle in cui potevano stare trecento elefanti e quattromila cavalli, di vastissimi magazzini per viveri e di caserme capaci di alloggiare oltre ventimila soldati.
Due grandi vie, che facevano capo alla cittadella, la congiungevano ad Utica e Tunisi e, se non sono esagerate le cifre degli storici, la città contava settecentomila abitanti.

Se Cartagine non fosse stata dilaniata dai partiti e governata con politica gretta ed egoistica, avrebbe potuto con il tempo costituire un serio pericolo per Roma anche perché non tutti i Cartaginesi erano decisi sostenitori del quieto vivere sotto l'oculato controllo dei Romani. Non pochi erano difatti coloro che sognavano la riscossa e che a questa si preparavano, e ne sono prova eloquente le numerose armi accumulate nei magazzini militari.
Ma i più, quelli specialmente che avevano in mano le redini della repubblica, pur sognando forse per un lontano avvenire l'affrancamento della patria, non volevano lanciarla in una prossima e pericolosa avventura e si sforzavano di mantenere buoni rapporti con Roma, seguendo una politica che tendeva a non irritare la potente e diffidente rivale, una politica onesta e leale basata sull'assoluto rispetto dei patti stipulati nel trattato di pace.

CARTAGINE E MASSINISSA - IL MONITO DI CATONE

Ma la buona volontà del governo cartaginese era messa continuamente a durissima prova da un uomo astuto e rapace che odiava a morte Cartagine ed era cieco strumento dell'inesorabile politica di Roma.
Quest'uomo era MASSINISSA. Interprete fedele della politica romana, lui teneva d'occhio costantemente Cartagine e cercava d'ingrandire la sua signoria a spese della vicina repubblica; sognava anzi di poter debellare completamente i Cartaginesi e fare di Cartagine la capitale del suo impero. Egli fu il primo Africano che sostenesse il diritto della sua terra ed operasse per fondare sotto il suo scettro un grande Stato in Africa libero dagli stranieri.
Nel 193 Massinissa occupò il territorio di Emporia (il nome era -ed è rimasto- sinonimo di luogo dalle mille cose) nella Sirti Minore, così ricco che una sua città, Lepti, al dir di Livio, rendeva come entrate a Cartagine un talento il giorno.
Cartagine si lagnò dell'usurpazione con il Senato di Roma, cui Massinissa, richiesto, fece rispondere che i Cartaginesi erano degli stranieri, degli usurpatori del suolo africano, i quali avevano soltanto diritto a Birsa. Era stato loro concesso tanto terreno quanto ne poteva circondare una pelle bovina tagliata in minutissime strisce e invece, con il tempo, si erano impadroniti di buona parte dell'Africa.
Il Senato; cui certo non dispiaceva l'agire di Massinissa, inviò in Africa PUBLIO SCIPIONE L'AFRICANO, CAJO CORNELLO CETEGO e MARCO MINUCIO RUFO per vedere e decidere, ma non decisero nulla.
Il contegno dell'amica Roma incoraggiò l'audace monarca africano a continuare le usurpazioni e nel 174 Massinissa, sottrasse a Cartagine l'intera provincia di Tisca.
Cartagine, alla quale il trattato di pace impostole da Scipione gli legava le mani, vietandole di muover guerra a chicchessia, si appellò a Roma, invocando da questa giustizia e protezione. Erano gli anni che nell'aria si sentiva già lo scoppio dell'ultima guerra macedonica e il Senato romano che conosceva i segreti maneggi di Perseo, non volendo procurare a Roma nuovi nemici e al re macedone degli alleati, fece la voce grossa con Massinissa.
Ma Cartagine non ritornò in possesso dei territori perduti né il re africano mutò politica; Roma, per salvare le apparenze, mandò in Africa un'altra commissione, presieduta da CATONE.

Cartagine però sapeva per esperienza che nulla aveva da sperare dai commissari, i quali erano soliti sbarcare, guardare e lasciar poi le cose come stavano. Sostenne che non voleva sottostare a nessun giudizio espresso dalla commissione, ma voleva solamente che fossero rispettati i patti del 201.

Le pretese cartaginesi non recarono nessuna meraviglia a Catone. Visitando Cartagine e il suo territorio lui aveva visto una gran quantità di armi che si trovavano negli arsenali e aveva quindi costatato la rinascita dell'eterna nemica della sua patria. Credeva che Cartagine andasse solo cercando dei pretesti per rompere la pace; vide nel rifiorire della repubblica africana una terribile minaccia per Roma e, quando fu di ritorno, parlò in Senato appassionatamente ed energicamente contro Cartagine, dipingendola ostinata, falsa e pericolosa.

Secondo quel che scrive PLUTARCO, Catone, per provare la ricchezza di Cartagine, mostrò dei fichi di straordinaria grossezza da lui colti nei giardini cartaginesi e concluse, dicendo che Roma non era sicura fino a quando Cartagine era viva, che era necessario quindi "distruggere Cartagine".

"Delenda Carthago!" Questo era il grido che straripava dal petto del fiero patriota tutte le volte che parlava in Senato, grido che vinse l'opposizione degli Scipioni e riuscì a furia di essere ripetuto a convincere i senatori della necessità di muover guerra a Cartagine.
L'occasione d'intervenire fu data a Roma dalla stessa rivale.
C'era a Cartagine una fazione che parteggiava servilmente per i Romani e per il re di Numidia. Quaranta persone appartenenti a questo partito furono esiliate e trovarono ospitalità presso MASSINISSA, il quale, spinto da loro, inviò i suoi figli a Cartagine con l'intimazione di richiamare subito dall'esilio i suoi amici. Cartagine si rifiutò e Massinissa colse il pretesto per occupare la città di Oroscopa.
Fu questa la goccia che fece traboccare il vaso. Ritenne inutile Cartagine di ricorrere a Roma, sapeva che dai Romani non avrebbe mai ottenuto giustizia. Costretta da quest'ultimo atto di prepotenza del re numida pensò di farsi giustizia da sé anche venendo meno ai patti con Roma.
Armò pertanto un esercito di cinquantamila uomini e lo inviò a rioccupare Oroscopa. Ma la sorte delle armi non fu propizia ai Cartaginesi; Massinissa, pur ottantenne, ma sempre vigoroso ed energico, assalì con le sue truppe il nemico e lo sbaragliò (151 a.C.).

ULTIMA GUERRA PUNICA

Cartagine con quella sua reazione militare contro le scorrerie di Massinissa, aveva violato il trattato del 201 offrendo a Roma quel pretesto che aveva sempre cercato di evitare, a tante umiliazioni si era dovuta sottostare, a tante mutilazioni dolorose del suo territorio dovuto subire.
Tentò con tutti i mezzi di placare lo sdegno del Senato Romano; inviò in esilio Asdrubale e tutti coloro che avevano voluto la guerra contro Massinissa, spedì a Roma ambasciatori affinché implorassero clemenza e perdono, si umiliò, si dichiarò disposta a risarcire i danni.
Ma il Senato non si lasciò commuovere; la dignità di Roma era stata offesa e la l'infelice città doveva pagarne le conseguenze.
Altre volte e ad altri popoli Roma aveva perdonato e per colpe più gravi di quella commessa dai Cartaginesi. Ora non volle essere generosa perché temeva di compromettere la propria esistenza, incoraggiando con la magnanimità Cartagine alla riscossa. La propaganda ostinata, ininterrotta di Catone dava i suoi frutti. La paura fece sì che Roma diventasse inflessibile.
Un esercito di ottantamila fanti e quattromila cavalli fu messo in armi e ai consoli MANIO MANILIO NEPOTE e LUCIO MARCIO CENSORINO fu ordinato di sbarcare in Africa, e distruggere la città nemica.
All'avvicinarsi della bufera Cartagine si vide perduta. Se il suo esercito non aveva saputo resistere a quello di Massinissa come avrebbe potuto tener testa a quello di Romano.
Nessuno degli antichi amici le avrebbe ora prestato aiuto contro la potenza dei Romani, nemmeno la sua consorella Utica, la quale anzi si arrendeva al nemico.
Per Cartagine non c'era che una via di scampo: mettersi a discrezione di Roma.
Fu subito inviata una legazione al Senato romano (150 a.C.), il quale rispose che ai Cartaginesi non sarebbero state sottratte le libertà, il territorio e le leggi se avessero consegnati ai consoli, trecento ostaggi scelti tra i giovani delle migliori famiglie.
Cartagine ubbidì e trecento giovani lasciarono la patria e andarono a costituirsi ai consoli che con l'esercito erano giunti a Lilibeo (Marsala) pronti al grande balzo.
Sperava l'infelice città di calmare con l'immediata ubbidienza l'ira di Roma e di scongiurare l'arrivo delle armi nemiche. Ma non fu così. L'anno successivo (149) i consoli, ricevuti gli ostaggi, scesero in Sicilia si misero in mare e giunti in Africa occuparono Utica, quindi ordinarono a Cartagine di inviare i legati per definire le questioni ancora pendenti.

Gli ambasciatori furono mandati. Il ricevimento fu fatto al cospetto di tutto l'esercito armato. I consoli pieni di maestà sedevano fra i tribuni e i commissari. Dinnanzi a loro si prostrarono i legati, dopo che le trombe ebbero suonato il silenzio; e implorarono misericordia.
Risposero i consoli di sapere che Cartagine aveva costruito navi e costruito e preparato armi violando apertamente i trattati. Perché tutti questi preparativi di guerra se Cartagine protestava di voler la pace? Forse per difendersi dagli altri nemici? Bastava Roma a difendere i Cartaginesi posti sotto la sua alta protezione e non erano necessarie quelle armi negli arsenali se desideravano veramente la pace.
Gli ambasciatori avrebbero potuto obbiettare che la "protezione" di cui negli anni precedenti avevano sempre parlato i consoli fosse una vana parola, e la prova era che avevano permesso a Massinissa di compiere impunemente tante usurpazioni; ma affermare questo, avrebbe sdegnato e irritato ancora di più Roma. Bisognava ancora una volta ubbidire.
E Cartagine ubbidì prontamente: duecentomila armature, duemila catapulte e un numero grandissimo di ordigni guerreschi furono spediti al campo nemico da Utica.
Il sacrificio fu inutile. Avvenuta la consegna, il console MARCIO CENSORINO disse ai legati: "Vi diamo lode per avere immediatamente obbedito, ma quel che avete fatto non basta. Non è possibile tenere a freno la vostra città; e fino a quando rimarrà in piedi la sicurezza di Roma è minacciata; occorre quindi, per assicurar la pace, che Cartagine sia distrutta. Escano dunque dalle sue mura gli abitanti e vadano ad abitare ad ottanta stadi dal mare" (a circa 15 chilometri).
A quest'ordine infame i legati non riuscirono a trattenere le grida. Roma tradiva Cartagine e veniva meno alle sue promesse.

I consoli però risposero che "Roma aveva promesso la salvezza ai cittadini, non alla città"; aggiunsero che Cartagine non doveva dolersi del provvedimento che era preso per il suo bene, perché gli abitanti, lontani dal mare, non avrebbero più accarezzato mire ambiziose e pericolose, e conclusero con il sostenere che era meglio per i Cartaginesi andare a vivere nei campi, e dedicarsi all'agricoltura la quale dava guadagni più sicuri di quelli che potevano procurare il commercio.
Gli ambasciatori, tornati in città con la risposta fatale, rischiarono di essere uccisi dalla folla inferocita. L'amore rovente della patria che correva pericolo di essere rasa al suolo fece ardere di collera i petti dei Cartaginesi e scacciò dal loro animo qualsiasi desiderio di pace. Ora che il verdetto di Roma toccava tutti, scomparvero come per incanto gli odi di parte, si dileguarono i privati rancori e tutti decisero di difendere fino all'estremo la città natale, le loro case, i loro templi o di morire sotto le rovine della patria. Il furore scoppiato al primo annuncio dell'infame decreto fu fatale agli Italici che abitavano a Cartagine: non uno ebbe salva la vita. Al furore successe la calma della disperazione e una febbrile attività. Le porte furono immediatamente chiuse e sbarrate e numerose guardie messe alle mura; Asdrubale fu richiamato dall'esilio, furono liberati gli schiavi perché aiutassero i cittadini nella difesa; fu eletto capo delle milizie urbane un altro Asdrubale e, mentre si chiedevano ai consoli trenta giorni di dilazione con il pretesto di mandare una nuova legazione al Senato romano, con tutto l'impegno si metteva a fortificare la città e a preparare le armi.
Ma per fabbricarle mancavano il ferro e il rame e per le macchine il legno. Si scoperchiarono allora i pubblici edifici e con le travi si costruirono macchine; si raccolse tutto l'oro e l'argento delle case e dei templi e con questo si fecero armi; le donne sacrificarono le loro trecce con cui si fabbricarono corde per gli archi e per le fionde. Ogni casa diventò un'officina, un tempio un cantiere, un cittadino un operaio.
Poco tempo dopo i consoli levarono il campo da Utica e con parte dell'esercito giunsero a Cartagine per eseguire gli ordini del Senato e distruggere la città.
Ma grande fu la loro sorpresa quando, invece delle porte aperte e di una popolazione immersa nel lutto per l'imminente rovina della sua patria, trovarono le mura coronate di macchine guerresche e tutto il popolo in armi deciso a difendere disperatamente la sua città.
Non rimaneva ai consoli che di assediare la città, e l'assedio fu posto.

ASSEDIO DI CARTAGINE

L'impresa, alla quale i consoli si accingevano, si presentava difficilissima. Come già accennato, se Cartagine era forte per la posizione e per le opere, la disperata risoluzione dei suoi abitanti la rendeva fortissima. Si aggiunga che l'inazione dei consoli ad Utica avrebbe dato tempo agli abitanti delle campagne vicine di accorrere alla difesa della città e Asdrubale avrebbe potuto radunare un esercito di circa cinquantamila uomini e persuadere le città e i villaggi vicini a schierarsi in favore di Cartagine.
Questa, inoltre, non poteva esser presa per fame, perché era stata abbondantemente rifornita dalla campagna e continuava a ricevere vettovaglie da Asdrubale.
Cartagine fu assediata per terra e per mare: MANIO MANILIO pose il campo sotto le mura della cittadella, CENSORINO bloccò con la flotta i due porti e iniziò le operazioni con le macchine, riuscendo ad aprire una breccia nelle mura.
Fatica sprecata! Durante la notte i Cartaginesi operarono una sortita e sorpresi gli assedianti ne distrussero le macchine; il giorno dopo le truppe di Censorino tentarono di penetrare nella città per la breccia ma furono respinti con gravi perdite.
Dalla parte di terra le cose andarono peggio. Censorino, stimando inutile assalire la città dopo l'infelice risultato del collega e volendo tagliarle le comunicazioni con la terraferma, si volse verso Neferi, borgo vicino dove Asdrubale era accampato con le sue milizie. Il capitano cartaginese però si difese con grande bravura e respinse il nemico infliggendogli perdite assai rilevanti.
Maggior danno le truppe romane avrebbero avuto in quell'infelice azione se non le avesse prontamente soccorse un giovane che già cominciava a far parlare di sé.

Era questi SCIPIONE EMILIANO, figlio del console Emilio Paolo, adottato dall'Africano, che si trovava nell'esercito con il grado di tribuno militare. Prove di valore le aveva fornite alcuni anni prima nella Spagna e nel 152 si era recato in Africa per chiedere a Massinissa alcuni elefanti da condurre in Spagna contro i Celtiberi. In quell'occasione egli era stato per caso spettatore della battaglia avvenuta ad Oroscopa tra i Cartaginesi e i Numidi.
Scipione Emiliano era valoroso guerriero ed astuto uomo politico e durante l'assedio di Cartagine, fra l'inettitudine dei due consoli, egli riuscì a far brillare le sue grandi qualità.
In quel primo anno difatti riuscì a tirare dalla sua parte IMILCONE FAMEA, uno dei capi della cavalleria nemica che portò ai Romani un aiuto di mille e duecento cavalieri, ed aveva saputo ispirare tanta fiducia nel vecchio Massinissa che verso la fine del 249 fu dal moribondo re della Numidia nominato esecutore testamentario con l'incarico di dividere il regno fra i tre figli del novantenne sovrano, Micipsa, Mastanabalo e Gulussa. Quest'ultimo era un rinomato capo di cavalieri e a Scipione non riuscì difficile farlo entrare ai servigi dell'esercito assediante.
Il primo anno di guerra trascorse senza notevoli avvenimenti. L'imperizia dei consoli giovò moltissimo ai Cartaginesi i quali poterono rafforzare le opere di difesa e trovare nuovi aiuti nelle città vicine.

Nel 148 a continuare le operazioni contro Cartagine furono mandati i nuovi consoli LUCIO CALPURNIO PISONE e LUCIO OSTILIO MANCINO dei quali, il primo, assunse il comando dell'esercito, il secondo, quello della flotta.
Ma sia l'uno che l'altro si mostrarono meno abili dei loro predecessori. Calpurnio Pisone non comprese che per vincere la guerra occorreva espugnare Cartagine. Caduta questa, le città vicine si sarebbero arrese o sarebbe stato più facile costringerle alla resa. Invece lui volle prima ridurre in suo potere il territorio, sperando forse d'indebolire Cartagine, ma neppure questo gli riuscì a fare. Assalita Clupea, dovette battere in ritirata; assediò poi Ippona Zarito, ma gli abitanti, usciti dalle porte, lo assalirono duramente e gli inflissero perdite dolorose e lo costrinsero ad allontanarsi.

Questi successi fecero crescere nei Cartaginesi la baldanza e la fiducia. Avendo saputo che in Macedonia era comparso un presunto figlio di Perseo a ribellarvi la popolazione e che nella Grecia serpeggiava la rivolta, vi mandarono emissari. Altri ambasciatori inviarono in Numidia e in Mauritania per spingerle a brandire le armi contro i Romani.
E senza dubbio i loro maneggi e la resistenza avrebbero prodotto buoni frutti se la concordia non fosse venuta a mancare con le migliorate condizioni della città e con la piega favorevole che aveva cominciato a prendere la guerra.
I rancori privati e gli odi di parte, sopiti nel momento del comune pericolo, erano riapparsi e si erano ravvivati; ASDRUBALE, avido di potere, aveva messo in cattiva luce presso i suoi concittadini, il comandante della piazza e al cospetto dei Senatori in un accesso d'ira lo aveva ucciso.
Prese in mano le redini della repubblica, continuò la difesa con inaudita ferocia. Allo scopo di atterrire gli assedianti ordinò che i prigionieri, orribilmente mutilati, fossero esposti dall'alto delle mura. Ma ottenne l'effetto contrario, poiché inasprì i Romani e segnò da quel momento il destino della sua patria, alla quale, dopo così tante efferatezze, nessun nemico avrebbe potuto concedere perdono. Più che mai risuonava il grido di guerra "Delenda Carthago!"

SCIPIONE EMILIANO A CARTAGINE

Il Senato romano sapeva e lo sapeva anche il popolo che la lunga durata dell'assedio e gli scacchi subiti in Africa, erano essenzialmente dovuti all'inettitudine dei consoli.
Giunto pertanto il giorno delle elezioni dell'anno 147 a.C. le tribù furono concordi nella scelta di chi poteva condurre a termine felicemente la guerra.
Furono eletti CAJO LIVIO DRUSO e SCIPIONE EMILIANO. Su quest'ultimo però erano fondate tutte le speranze di Roma e pur di dargli il comando delle operazioni contro Cartagine le tribù non avevano esitato a metter da parte la legge che prescriveva l'età di quarantatre anni per il conseguimento del consolato.
Quando Scipione assunse il supremo comando, volgevano male per i Romani le sorti della guerra africana; la disciplina delle truppe era indebolita, scarsa la fiducia dei soldati nei loro capi, e basso lo spirito dei combattenti.
LUCIO OSTILIO MANCINO nel tentativo di aprirsi la strada attraverso le rocce era stato respinto dai difensori di Cartagine e circondato sulla sommità di una rupe scoscesa, dove isolato correva pericolo di morir di fame.
SCIPIONE, che era sbarcato ad Utica, corse a salvarlo da quella difficile situazione, poi si diede a ripristinare la disciplina dell'esercito e a intensificare le operazioni di assedio.

Prima cura del nuovo console fu di tagliare i viveri alla città, impedendole di comunicare con la terraferma. Gli assediati ricevevano le vettovaglie dalla parte dell'istmo, dove Asdrubale aveva costruito una trincea difesa da settemila uomini. Scipione assalì di notte quel luogo, se ne impadronì e costrinse il generale cartaginese a riparare nella fortezza di Birsa.
Il successo di quest'impresa era di capitale importanza, ma non si era ottenuto lo scopo di isolare completamente la città. II cartaginese BIZIA dalla campagna vicina riusciva arditamente a far pervenire a Cartagine zattere cariche di vettovaglie ed audaci mercanti, allettati dai lauti guadagni, trovavano sempre il modo d'introdurre viveri.
Allora Scipione fece costruire sull'istmo un grosso muro alto tre metri e per impedire le comunicazioni con Cartagine dalla parte del mare fece costruire un'enorme diga all'imboccatura dei porti.
Dopo queste opere la città poteva dirsi stretta in una morsa di ferro. Ma gli assediati tentarono di aprirsi un varco e con un lavoro assiduo, titanico, di alcuni mesi cui partecipò tutta la popolazione senza distinzione di sesso e di età, riuscì a scavare nella roccia un canale e a fabbricare una cinquantina di triremi.
Se avessero saputo servirsi con rapidità di questa flotta avrebbero certamente causato ai Romani danni considerevoli, ma i Cartaginesi rimasero esitanti per tre giorni e diedero così tempo al nemico di radunare la sua armata e piombare sull'improvvisata flotta.
Gli equipaggi della città assediata si difesero con estremo accanimento, ma non ebbero fortuna; i loro inutili navigli furono distrutti e il canale chiuso, poi messo sotto controllo da macchine che Scipione si affrettò a far collocare davanti l'imboccatura.

Avvenivano questi fatti nell'estate del 147. L'inverno di quello stesso anno non fece rallentare le operazioni di guerra. Nelle vicinanze di Cartagine sorgeva la città di Nefari; qui vi era stanziato un fortissimo campo cartaginese con un numeroso esercito comandato da DIOGENE, luogotenente di Asdrubale.
Questo luogo costituiva una minaccia per i Romani e l'ultima speranza per i Cartaginesi, ma anche questa fu sottratta agli infelici assediati.
Scipione, con il concorso di Golussa e di Lelio, riuscì a sorprendere il campo nemico e a prenderlo d'assalto conquistandolo. Immensa fu la strage. Si narra che solo quattromila Cartaginesi riuscirono a mettersi in salvo con la fuga e che ben settantamila rimasero uccisi. Ma queste cifre sono, senza dubbio esagerate.

Caduta Neferi, caddero le altre città vicine che ancora resistevano, e la guerra si concentrò tutta intorno a Cartagine.

CADUTA E DISTRUZIONE DI CARTAGINE

Cominciò l'eroica agonia dell'infelice città, che durò tutto l'inverno. SCIPIONE stancava giorno e notte con piccoli assalti i difensori, ma non spingeva a fondo le operazioni. Conosceva le tristissime condizioni in cui versavano i Cartaginesi ed aspettava la primavera per dare loro il colpo finale.
Stretti da ogni parte, i difensori erano destinati a capitolare. I viveri di giorno in giorno si facevano più scarsi per i cittadini e lo spettro della fame toccava anche i più ostinati. I corpi si facevano sempre più deboli, ma la volontà di resistere non veniva mai meno. Alla penuria dei viveri si aggiunse la pestilenza.
Le condizioni di Cartagine erano dolorosissime quando giunse la primavera del 146, e con il bel tempo Scipione ordinò che si facesse ogni sforzo per espugnare la città.

Gli assalti più impetuosi furono affidati alle truppe di Lelio rivolti contro le mura che difendevano Cothon e il porto militare. I difensori, estenuati dalla fame e dalle malattie, non resistettero all'impeto dei Romani e il porto e il foro caddero nelle mani dei legionari.
Da quel giorno la sorte della città era segnata e da quel giorno ebbe principio l'ultima lotta che fu degna di epopea.
Tra il foro e la cittadella di Birsa sorgeva un quartiere attraversato da tre strade anguste, fiancheggiate da altissime case. Qui si concentrò l'estrema resistenza dei Cartaginesi.
Sei giorni e sei notti durò la lotta. I Romani erano decisi ad espugnare il quartiere, ma decisi a difenderlo o a morire erano gli eroici abitanti. Ogni casa diventò una fortezza; dalle finestre furono lanciati sugli assalitori ogni sorta di proiettili, dai tetti grandinavano tegole e sassi. Si demolivano i muri per farne materiale da battaglia, si scardinavano le imposte e insieme a tanti mobili si buttavano nelle strade per colpire i nemici e ostacolarne l'avanzata. Ma questa procedeva inesorabile. Si combatteva aspramente nelle vie e lungo queste le case ad una ad una erano invase, poi si passava da una casa all'altra praticando brecce, gettando ponti tra le finestre, passando su montagne di cadaveri.
I difensori catturati nelle case espugnate li scaraventavano giù dalle finestre o infilzati sulle picche. Si narra che, straziati dalla fame, erano giorni che addentavano perfino le carni degli uccisi.
Alla fine il quartiere fu conquistato e i legionari giunsero alla cittadella.

Scipione diede l'ordine di appiccare il fuoco al quartiere che tanto da fare aveva dato ai soldati di Roma; lingue di fuoco s'innalzarono dalle case e vortici di fumo offuscarono il cielo. I pochi difensori che erano rimasti asserragliati o nascosti nelle abitazioni scampando al ferro trovarono morte atroce tra il fuoco che non perdonava
Era inutile oramai prolungare la resistenza. Del resto come il primo così gli altri quartieri sarebbero caduti. Il console, più per risparmiare sacrifici alle sue truppe che per risparmiare la vita degli abitanti, fece conoscere per mezzo di un pubblico bando che avrebbe accordato salvezza a tutti coloro che uscivano disarmati dalla cittadella.
Cinquantamila persone obbedirono. Alla testa del corteo dei vinti erano i sacerdoti ricoperti dei sacri paramenti e fra i sacerdoti vi era ASDRUBALE.
Lo scellerato generale che di tanto sangue si era macchiato, che per libidine di comando aveva trucidato il suo collega, che aveva crudelmente straziato i prigionieri, ora, mosso da viltà, si arrendeva al nemico.
Non tutti però uscirono da Birsa. Qui si trovavano novecento disertori romani, i quali sapevano che non avrebbero trovato nessuna misericordia arrendendosi. E si trovava anche la moglie di Asdrubale con i suoi figli, e che non aveva voluto commettere la suprema viltà e sopravvivere alla rovina della patria.
Dall'alto delle mura della cittadella essa guardò il pietoso spettacolo dei superstiti che si avviavano per consegnarsi nelle mani dei vincitori e vide davanti a loro il marito.

La nobile e fiera donna arse di sdegno a quelle vista e ad alta voce pregò Scipione di punire severamente quell'uomo che preferiva il disonore alla morte gloriosa; poi gridò lanciando il suo disprezzo al codardo consorte, lo chiamò vile, indegno di Cartagine, rampollo degenere della stirpe punica, traditore della famiglia, della patria e della religione.
Dato così sfogo al suo dolore, al suo disprezzo e alla sua collera, l'eroica donna si abbigliò con le sue vesti migliori, corse con i figli sulla sommità della rocca.
II tempio di Esculapio era avvolto nelle fiamme, in mezzo alle quali si consumavano i corpi dei disertori romani che, appiccatovi l'incendio, avevano voluto perire così piuttosto che cadere vivi nelle mani di Scipione.
La donna imprecò un'ultima volta contro il marito, pregò ad alta voce, come forsennata, che la vendetta degli dei si abbattesse sul capo del vile, poi estrasse un pugnale e, sgozzati uno dopo l'altro i suoi figli, si slanciò tra le fiamme del gigantesco incendio.
Era l'ultimo atto, poi la ricca Cartagine, cadde finalmente nelle mani della sua rivale.

SCIPIONE spogliò i templi e le case di tutti i tesori d'arte che i Cartaginesi vi avevano portato dai saccheggi delle città d'Italia e di Sicilia, fra cui il toro di Agrigento, la Diana di Segesta, il monumento d'Imera e la statua di Stesicoro; poi abbandonò la città al saccheggio dei soldati romani
Infine Cartagine ebbe il destino che il Senato le aveva decretato, cioè quella sorte conforme al desiderio di Catone: "Delenda Carthago!"

Il fuoco fu appiccato a tutti i quartieri, l'incendio avvolse, distrusse, ridusse in polvere una delle più ricche città del mondo, la superba città che aveva dominato il Mediterraneo ed aveva fatto tremare Roma.
Quando la città fu ridotta ad un mucchio informe di macerie, Scipione Emiliano minacciò di morte chiunque osasse mettere la sua dimora nel luogo dove Cartagine sorgeva e fece passare l'aratro sui ruderi.

Lo storico POLIBIO, che assistette all'agonia ed alla fine della città, narra di aver visto Scipione piangere sulle fumanti rovine di Cartagine. Interrogato, il console rispose che non per la distruzione della rivale di Roma egli versava quelle lagrime, ma perché pensava alla futura rovina della propria patria.
Non lacrime di coccodrillo erano quelle di Scipione; lui aveva ubbidito agli ordini del Senato, della cui volontà era stato strumento, ma pensava - e non a torto - che nel tempo non poteva rimanere impunito un simile delitto e che la sorte toccata all'infelice città dovesse essere riservata, prima o poi, per legge fatale, a quell'altra che n'aveva voluto la fine.

Il territorio che era stato della potente repubblica, sottratte alcune parti distribuite ai figli di Massinissa, fu dichiarato romano con il nome di Africa; come nuova capitale fu dichiarata la città di Utica.
A SCIPIONE EMILIANO, che con tanta energia aveva condotto a termine felicemente la guerra punica, Roma tributò un trionfo non meno splendido di quello che era stato celebrato in onore del padre adottivo e come premio della grande impresa concesse il nome di SCIPIONE SECONDO AFRICANO.

Durante il tempo in cui le legioni in Africa assediavano Cartagine, in Grecia e Macedonia gli abitanti avevano piegato la fronte ai Romani, ma il desiderio della riscossa non si era spento; in gioco c'era la loro indipendenza.
Così in Spagna, dove i locali per riaverla, avevano cacciato i Cartaginesi sì con l'aiuto dei Romani, ma poi si accorsero che dopo la fine di un giogo ne iniziava un altro; e si ribellarono.
Dobbiamo dunque tornare indietro di tre anni e seguire questi avvenimenti...

…nel periodo dall'anno 149 al 129 a.C. > > >

 

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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