ANNI 1525 - 1528

SECONDA LEGA SANTA - SACCO DI ROMA
IN ROTTA I FRANCESI - GENOVA NUOVAMENTE LIBERA

GLI STATI ITALIANI DOPO LA BATTAGLIA DI PAVIA MINACCIATI DA CARLO V - TRATTATIVE DEL PAPA E DI VENEZIA CON LA FRANCIA - CONGIURA DEI PRINCIPI ITALIANI CONTRO L' IMPERATORE - GIROLAMO MORONE E IL MARCHESE DI PESCARA - IL TRATTATO DI MADRID: LIBERAZIONE DI FRANCESCO I - LA SECONDA LEGA SANTA - FRANCESCO MARIA DELLA ROVERE E LA GUERRA IN LOMBARDIA - CAPITOLAZIONE DI FRANCESCO SFORZA - CLEMENTE VII E SIENA - BLOCCO DI GENOVA - I CONFEDERATI OCCUPANO CREMONA - POMPEO COLONNA A ROMA - TREGUA DEL PAPA CON CARLO V - GIORGIO FRUNDSBERG IN ITALIA - MORTE DI GIOVANNI DELLE BANDE NERE - GLI IMPERIALI A BOLOGNA - LA GUERRA NEL MEZZOGIORNO - NUOVA TREGUA DEL PAPA CON L' IMPERATORE - TUMULTI A FIRENZE - SACCO DI ROMA - CAPITOLAZIONE DI CLEMENTE VII - CACCIATA DEI MEDICI DA FIRENZE - VICENDE DI GENOVA - FUGA DEL PAPA DA CASTEL SANT'ANGELO - SPEDIZIONE DEL LAUTREC - ASSEDIO DI NAPOLI - VITTORIA NAVALE DI FILIPPINO DORIA - ANDREA DORIA ABBANDONA IL RE DI FRANCIA - SFACELO DELL'ESERCITO FRANCESE - GENOVA RIACQUISTA LA LIBERTÀ

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CONGIURA DEI PRINCIPI ITALIANI CONTRO CARLO V
GIROLAMO MORONI E IL MARCHESE DI PESCARA


La vittoria degli imperiali a Pavia e la prigionia di Francesco I atterrirono fortemente gli stati italiani. Avevano fino allora sperato che la guerra avrebbe indebolita i due sovrani rivali e che alal fine all'Italia sarebbe riuscito facile cacciare dal suo territorio gli stranieri; invece la vittoria di CARLO V costituiva un pericolo gravissimo per le potenze della penisola, poiché l'Imperatore, padrone (come spagnolo) del regno di Napoli e (come tedesco) della Lombardia, stringendo come in una morsa lo stato della Chiesa ed accerchiando da tre lati il Veneto, minacciava seriamente i due più importanti stati d' Italia.

Malgrado la sconfitta e la prigionia del re, anziché sulla Francia, la vittoria dell'Imperatore pesava molto di più sull'Italia. Francesca Maria Sforza era sì duca di Milano, ma il vero padrone era Carlo V, le truppe imperiali vivevano alle spalle delle popolazioni, taglieggiando e commettendo soverchierie di ogni sorta; i capitani dell'Imperatore acquartierando le loro soldatesche nei territori di Piacenza e Parma, mostravano chiaramente che non si curavano di rispettare i domini pontifici e con il loro comportamento facevano sospettare che il loro sovrano volesse strapparli al Pontefice; voci allarmanti correvano, infine, intorno alla sorte delle città venete; che cioè Carlo V intendesse riunirle all'Austria.

Temendo questo pericolo che li minacciava, non potevano Clemente VII e i Veneziani rimanere inoperosi ed insensibili alle profferte d'alleanza che andava loro facendo LUISA di SAVOIA, reggente di Francia. Essa aveva accolta con sommo dispiacere la notizia della sconfitta di Pavia e della cattura del figlio e ovviamente bramava la rivincita. Nella generosità di CARLO V non c'era da sperare: difatti Francesco I era stato condotto prigioniero a Madrid e l' Imperatore gli aveva proposto di liberarlo a patto che rinunziasse ad ogni diritto sull'Italia e la Fiandra, che cedesse la Borgogna alla casa d'Austria e la Provenza e il Delfinato a Carlo di Borbone; proposte che il re di Francia non poteva accettare e non accettò. Luisa di Savoia era quindi d'avviso che solo la forza delle armi poteva giovare alla causa del figlio.

Era tale il suo desiderio di vendicare l'onta patita che non disdegnò di spingere il sultano dei Turchi ad invadere l' Ungheria; ma Solimano rappresentava un aiuto troppo lontano per essere efficace e Luisa di Savoia, facendo (forse a ragione) maggiore assegnamento sugli stati italiani, iniziò approcci presso di loro per aizzarli contro Carlo V, dichiarandosi pronta a rinunziare ad ogni pretesa sul Napoletano, a riconoscere duca di Milano Francesco Sforza,  e a inviare truppe nella penisola.

Le proposte della reggente diedero animo al Pontefice, ai Veneziani e a Francesco Maria Sforza di costituire una lega segreta contro l'Imperatore. Il momento di cacciare fuori gli stranieri dall' Italia non poteva essere più propizio: dell'esercito imperiale non erano rimasti nella penisola che i fanti spagnoli comandati dal De Leyva; il Lànnoy si trovava in Spagna dove aveva accompagnato il re prigioniero all' insaputa di Carlo di Borbone e del marchese di Pescara; di questi due il primo si era recato presso Carlo V per convincerlo che il merito della vittoria di Pavia non era del vicerè, come questi voleva far credere, il secondo era molto sdegnato per il contegno del Lannoy e per la fiducia che l' Imperatore gli accordava. Si poteva quindi approfittare -nello sferrare una offensiva- delle poche forze che gli imperiali avevano in Italia e degli aiuti offerti da Luisa di Savoia e dalla Svizzera e sfruttare lo sdegno del marchese di Pescara, guadagnando alla causa della lega questo valente generale.
Fu GIROLAMO MORONE, abilissimo cancelliere di Francesco Sforza, che si assunse l'incarico di staccare il marchese di Pescara dall' Imperatore, comunicandogli con molta destrezza che il Papa e i Veneziani gli avrebbero data la corona di Napoli se si fosse schierato dalla loro parte per aiutarli a liberare la penisola dai "barbari" tedeschi dell'Imperatore. 

""...Il Pescara, uomo ambiziosissimo e senza scrupoli, - scrive I'Orsi - quando ricevette le prime confidenze del Morone, dovette certo rimanere abbagliato all' idea di poter cingere una corona, ed è difficile il poter oggi giudicare se dichiarando al Morone di voler prender tempo prima di pronunciarsi  invitandolo intanto a continuare le trattative, avesse fino da allora in animo di tradirlo. Certo però non tardò a persuadersi che l' impresa, non presentava probabilità di riuscita, sia perché gli stati italiani erano sempre pieni di diffidenza tra di loro dato che tutti trattavano nello stesso tempo con l'impero e con la Francia, sia perché questa, pur di liberare il re, poteva da un momento all'altro decidersi ad abbandonare gli alleati italiani ».

Il marchese di Pescara -non meno ambiguo di quelli di cui lui diffidava- avvertì l'Imperatore della congiura, tuttavia continuò a trattare con il Morone fino a che non gli furono noti tutti i particolari della trama.
 II 15 ottobre del 1525, trovandosi a Novara, invitò il cancelliere ad un convegno nel castello, poi lo fece arrestare dalle sue guardie, ordinando che fosse condotto a Pavia. 
Tutti credevano che il Morone dovesse esser mandato a morte; invece il Pescara, che ne apprezzava l'abilità diplomatica e sperava di metterla a servizio dell'Imperatore, lo tenne prigioniero; quindi, si fece consegnare le fortezze di Cremona, di Trezzo, di Lecco e di Pizzighettone, e -non più difeso dal Morone- andò ad assediare il duca Francesco Sforza nel castello di Milano.
 
Stava appunto in questa città, quando, il 3 dicembre del 1525, il MARCHESE di PESCARA, che allora contava soli trentasei anni e si era guadagnata la fama di valente capitano, cessò di vivere, lontano dalla consorte, la celebre poetessa Vittoria Colonna, che, partita da Napoli per andare ad assisterlo, aveva da poco oltrepassato Viterbo quando il marito morì.

LA SECONDA LEGA SANTA

La morte del marchese di Pescara, avvenuta mentre si trovavano assenti dall' Italia Carlo di Borbone e il vicerè Lannoy, ridiede animo ai Veneziani, i quali sollecitavano il Pontefice perché sottoscrivesse il trattato di alleanza. Dal canto suo LUISA di SAVOIA dalla Francia prometteva di mettere a disposizione degli Italiani cinquecento lancieri e di sborsare quarantamila ducati al mese sufficienti per assoldare  diecimila Svizzeri, impegnandosi nello stesso tempo di fare iniziare la guerra alla frontiera spagnola per così impedire a CARLO V di togliere truppe dalla Spagna per inviarle in Italia.
Sebbene le promesse della reggente fossero garantite dalla parola di Enrico VIII d'Inghilterra, il quale sul finire d'agosto aveva stipulata una alleanza (ma solo difensiva) con la Francia, e quantunque fosse convinto della necessità di unire le forze della Chiesa con quelle degli altri stati indipendenti della penisola per salvare l' Italia dal giogo imperiale, tuttavia CLEMENTE VII era indeciso per gli opposti e contrastanti consigli di due suoi confidenti, l'arcivescovo Nicola di Scomberg (favorevole a Carlo V) e il datario apostolico Gian Maria Giberti, (amico della Francia).

Al pari del Pontefice era incerto sulla via da seguire l' Imperatore. Alcuni consiglieri, infatti, cercavano di persuaderlo che il mezzo migliore per dominare l' Italia era di ingraziarsi la Francia; altri invece, tra cui il gran cancelliere MERCURINO di Gattinara, piemontese, facevano di tutto per indurlo semmai ad abbattere la potenza francese schierandosi con gli Italiani.
Mentre Carlo V era indeciso sul partito da prendere, Francesco I, che desiderava ardentemente di essere rimesso in libertà, si piegava a sottoscrivere il trattato da Madrid col quale si impegnava a rinunciare ad ogni sua pretesa sull' Italia e a cedere la Borgogna. Come garanzia dava in ostaggio due suoi figli e il 18 marzo del 1526 veniva liberato.
Ma il sovrano francese, sottoscrivendo il contratto, aveva deciso di non osservarne le gravose condizioni. Giunto difatti in Francia, protestando di essere stato costretto con la violenza di Carlo V ad accettare i duri patti, si rifiutò di ratificare il trattato di Madrid, e il 22 maggio del 1526, a Cognac sulla Charente, stipulò con Clemente VII, con Firenze, con Francesco Maria Sforza e coi Veneziani una lega per scacciare dall' Italia gli imperiali.

Questa alleanza, al pari di quella che aveva presieduta Giulio II, fu detta Lega Santa. I confederati si obbligavano a radunare nella penisola a spese comuni duemilacinquecento uomini armati, tremila cavalli e trentamila fanti; Francesco I prometteva di mandare un esercito in Lombardia e un altro in Spagna; i Veneziani e il Pontefice dovevano assalire il regno di Napoli con una flotta di ventotto navi; infine, cacciati gli Spagnoli, il Papa doveva mettere sul trono napoletano un principe italiano il quale avrebbe pagato al re di Francia un canone annuo di settantacinquemila fiorini.
Furono - come vedremo- tutte illusioni.

Date le poche forze di cui gli imperiali disponevano in Italia, la guerra avrebbe potuto dare risultati favorevoli agli alleati della Lega Santa, se questi avessero agito di comune accordo e senza indugi. L'accordo invece mancò; perché Francesco I continuò a trattare con Carlo V per il riscatto dei figli e per tutto il 1526 non partecipò alle operazioni belliche, proprio lui che le aveva promosse.

Queste poi non procedettero prontamente come il caso richiedeva: infatti, prima furono ritardate dalle negoziazioni di UGO di MONCADA, il quale tentava di sciogliere la lega, quindi dal generale dei confederati, FRANCESCO MARIA della ROVERE, che, sebbene avesse sotto di sé provetti capitani quali GUIDO RANGONI e GIOVANNI delle BANDE NERE e truppe superiori di numero agli imperiali, per l'astio che nutriva contro CLEMENTE VII e la famiglia dei Medici, condusse la guerra in modo così fiacco e così lento da non approfittare di tutti i vantaggi che aveva sul nemico, permettendogli spesso il tempo di rafforzarsi quando era debole, o di riorganizzarsi quando era allo sbando per le numerose morti dei suoi comandanti.

A Milano il 17 giugno la popolazione angariata dagli Spagnoli, si levò a tumulto, ma le truppe imperiali comandate da Antonio de Leyva ed Alfonso d'Avalos repressero ferocemente la rivolta. Il Della Rovere, che disponeva di ventimila uomini e di una buona e numerosa artiglieria, trovandosi sull'Adda avrebbe potuto facilmente soccorrere i Milanesi e il duca Francesco Sforza che era assediato nel castello e cominciava a difettare di vettovaglie; invece non si mosse e solo il 24 giugno, approfittando di una favorevole occasione, occupò Lodi costringendo Fabrizio Maramaldo, che vi stava di guarnigione con settecento fanti spagnoli, a riparare indisturbato a Milano.
Alla fine, spinto ad agire dal luogotenente pontificio Francesco Guicciardini, il Della Rovere si trasferì con l'esercito e Marignano (30 giugno), ma non volle andare più in là, dicendo che prima voleva aspettare l'arrivo degli Svizzeri assoldati dal Papa. La imperdonabile lentezza di Francesco Maria della Rovere diede tempo agli imperiali di ricevere rinforzi. Questi vennero condotti da CARLO di BORBONE, il quale, sbarcato a Genova, riuscì anche lui senza ostacoli ad entrare a Milano 1'8 luglio.

Francesco Sforza intanto aspettava invano che i confederati giungessero a liberarlo dall'assedio. Per risparmiare le poche vettovaglie che ancora gli rimanevano il 17 luglio fece uscire dal castello trecento persone - vecchi, donne e fanciulli - le quali, recatesi di notte al campo di Marignano, scongiurarono il generale dei confederati di soccorrere il duca. Il Della Rovere, cui erano giunti gli Svizzeri, andò ad accamparsi tra l'abbadia di Casoretto e il Naviglio, a due miglia da Milano. Tutti i suoi ufficiali lo supplicavano di condurre l'esercito contro il nemico, ma il generale non voleva saperne di entrare in azione e così due giorni dopo (14 luglio) Francesco Sforza si vide costretto a capitolare, ottenendo dagli imperiali che si recasse al campo degli alleati.

Non meglio andavano le cose dei collegati in Toscana, dove Clemente VII aveva raccolto un esercito di ottomila uomini allo scopo di assalire Siena (dichiaratasi per l' Imperatore) e mettere al governo i suoi fautori. Il 25 luglio i pontifici, assaliti vigorosamente dai Senesi, lasciarono nelle mani del nemico diciassette cannoni e fuggirono precipitosamente a Castellina.

In questo frattempo Andrea Doria con undici navi pontificie e tredici veneziane era andato a bloccare Genova, sicuro di impadronirsene se l'esercito del Della Rovere veniva a collaborare con la flotta dalla parte di terra  Ma il generale, che già non aveva voluto assalire Milano, ora si rifiutò di marciare contro Genova e il 6 agosto andò ad assediare la più facile Cremona, che si arrese il 23 settembre.
Intanto un grave fatto era avvenuto. Il cardinale POMPEO COLONNA, nemico del Papa, spinto da Carlo V con promesse e denari, aveva, durante la notte dal 19 al 20 settembre, con un esercito di ottomila uomini occupato la porta di San Giovanni Laterano e, occupato il Trastevere, si era spinto poi per il Borgo Vecchio fino al Vaticano. Il Pontefice fece in tempo a rifugiarsi a Castel Sant'Angelo, e il Vaticano e i palazzi vicini vennero saccheggiati dalle soldatesche.

CLEMENTE VII, chiuso nel castello, chiese la mediazione di Ugo di Moncada, si impegnò di perdonare ai Colonnesi, di richiamare da Genova la flotta, di ritirare le sue truppe dalla Lombardia, e a questi patti concluse una tregua di quattro mesi con l'Imperatore. Il GUICCIARDINI ricevette a Cremona il 24 settembre la notizia della tregua e il 7 ottobre condusse a Piacenza le truppe pontificie esclusi i quattromila fanti al comando di GIOVANNI delle BANDE NERE, che finse di essere al soldo del re di Francia.

** DALLA CALATA DEL FRUNDSBERG IN ITALIA
 ALLA CACCIATA DEI MEDICI DA FIRENZE
** MORTE DI GIOVANNI DELLE BANDE NERE
** IL SACCO DI ROMA

Dopo la partenza, delle truppe pontificie, l'esercito della lega rimaneva tuttavia superiore a quello imperiale contando circa venticinquemila uomini ed avrebbe potuto agevolmente prendere Genova; ma il Della Rovere si trattenne a Cremona fino al 30 ottobre e quando decise di passare in Liguria fu disturbato da un nuovo nemico che scendeva dalle Alpi. 
Era questi il tirolese GIORGIO FRUNDSBERG, il quale, raccolto a sue spese quattordicimila lanzichenecchi, li unì ai cinquecento cavalli fornitigli dall'arciduca d'Austria, e con questo esercito, ai primi di novembre del 1526, per la Val Sabbia, Rocca d'Anfo e Salò, giunse a Castiglione delle Stiviere.
Francesco della Rovere si era accampato a Vaprio per chiudere la via ai Tedeschi credendo che volessero recarsi a Milano, ma il Frundsberg, che diceva di volere andare a Roma per impiccare il Papa e i Cardinali, il 24 novembre avanzò verso Borgoforte, e, poichè difettava di vettovaglie e di artiglierie, le chiese al duca d' Este, che, essendosi alleato con l' Imperatore, dovette affrettarsi a provvederlo delle une e delle altre.
Il generale dei collegati che, se avesse voluto, avrebbe potuto agevolmente chiudere ai lanzichenecchi i passi delle Alpi, tenne dietro a questi nuovi nemici con l' intenzione di sorvegliarli, molestarli con la cavalleria leggera ed ostacolare il loro vettovagliamento. 

Fra tutti i capitani dei confederati chi più di ogni altro recava molestia al Frundsberg era Giovanni dei Medici, il quale con le sue famose "bande non ancora nere" gli stava sempre alle costole. Il 25 novembre, tra Borgoforte e Governolo, ebbe luogo una scaramuccia tra i lanzichenecchi e le bande del Medici. Giovanni, ferito gravemente ad una coscia da una archibugiata, dovette ritirarsi dal combattimento; trasportato a Mantova, subì l'amputazione della gamba, ma il 30 novembre morì. Aveva appena ventotto anni e già si era acquistata fama di grande condottiero; i nemici, che lo temevano, lo avevano soprannominato il Gran Diavolo; le sue truppe, che l'amavano e lo seguivano ciecamente, ne piansero la, morte e, come avevano fatto dopo che era cessato di vivere Leone X, si coprirono di gramaglie nere. GIOVANNI delle BANDE NERE lasciava un figlio di sette anni, COSIMO, che più tardi doveva essere il primo granduca di Toscana.

Dopo la morte di Giovanni de' Medici, il DELLA ROVERE cessò di seguire e molestare il nemico, il quale, passato il Po il 28 novembre, si diede a razziare i territori di Modena, Reggio, Parma, e Piacenza e alla fine di dicembre si accampò tra la Trebbia e la Nura ad aspettarvi Carlo di Borbone.
Questi, lasciato a Milano Antonio de Leyv a,, il 30 gennaio del 1527 andò a raggiungere il Frundsberg con circa ottomila soldati; quindi, dopo essere rimasto una ventina di giorni intorno a Piacenza, seguendo il consiglio del duca di Ferrara, che, per allontanare dai suoi Stati i pericolosi alleati, lo esortava a marciare verso Firenze e Roma, si pose in cammino verso Bologna.
Nessuno ostacolo, all' infuori della penuria delle vettovaglie e della mancanza di denari necessari alla paga dei soldati si opponeva alla marcia del Borbone.
Infatti Francesco Maria della Rovere nel gennaio si era ritirato prima a Casalmaggiore, poi a Gazzuolo; il marchese di Saluzzo, che comandava le milizie pontificie e alcune schiere di francesi giunte poco prima in Italia, aveva avuto l'ordine di ritirarsi davanti gl'imperiali, lasciando guarnigioni nelle città attraversate.

Il 22 febbraio il Borbone entrò a Borgo San Donnino che venne saccheggiato; il giorno dopo il marchese di Saluzzo si ritirava da Parma alla volta di Modena, seguito a distanza dagli imperiali. Il 13 marzo, nel territorio di Modena, un grave tumulto scoppiava tra i lanzichenecchi che reclamavano le paghe; il Borbone, che tentò di ricondurre all'obbedienza i sediziosi, salvò a stento la vita con la fuga; il Frundsberg credette di poter calmare i suoi soldati, ma non vi riuscì e colto, nell' impeto dell' ira, da apoplessia, dovette abbandonare l'esercito e andare a Ferrara dove tre giorni dopo cessò di vivere.

 Alfonso d'Avalos acquietò i tumultuanti distribuendo loro del denaro fornito dal duca d' Este. Proprio in quei giorni il Della Rovere partiva da Gazzuolo e raggiunto l'esercito veneziano - che il 3 marzo aveva passato il Po - avanzava lentamente e di malavoglia verso Bologna, risoluto a non venire a battaglia con il nemico, che voleva solo sorvegliare come in passato aveva fatto.
Mentre il Borbone avanzava lentamente verso Bologna, rumore di armi veniva dall' Italia meridionale. Il vicerè LANNOY, giunto dalla Spagna nel Napoletano, stava in atteggiamento minaccioso a Gaeta; la flotta pontificia si impadroniva di Castellammare, Torre del Greco, Sorrento e Salerno; un corpo di milizie al comando di Renzo di Ceri penetrava negli Abruzzi ed occupava Aquila, Tagliacozzo ed altre terre; un altro esercito papale comandato da Agostino Trivulzio e Vitellio Vitelli marciava verso S. Germano.

La guerra nel mezzogiorno della penisola iniziava dunque favorevolmente per il Pontefice. Ma presto la situazione doveva cambiare. La flotta si indeboliva a causa delle Guarnigioni che doveva lasciare nelle città occupate; la mancanza di denari e di vettovaglie era cagione di indisciplina nei due corpi dell'esercito; le diserzioni si facevano di giorno in giorno più numerose; ai primi di marzo il Trivulzio e il Vitelli dovettero ritirarsi da S. Germano a Piperno e Renzo di Ceri, abbandonato da gran parte dei suoi soldati, fu costretto a lasciare gli Abruzzi e a tornarsene a Roma.

In simili circostanze, vedendo che i Francesi non gli mandavano gli aiuti promessi e che i Veneziani non attaccavano come avrebbero dovuto il Borbone, Clemente VII il 15 marzo concluse una tregua di otto mesi col Lannoy, promettendo di sborsare sessantamila ducati al Borbone a condizione che si ritirasse, di assolvere dalle censure ecclesiastiche i Colonna e di restituire nella sua dignità il cardinale Pompeo.
Ma Carlo di Borbone, che oramai non esercitava che scarsa autorità sulle proprie truppe, dichiarò che la somma stabilita nel patto della tregua non era sufficiente e non accettò l'armistizio. 
Il 31 marzo egli passò il Reno presso Bologna e verso la metà d'aprile, per Meldole, Santa Sofia e Val di Bagno, si diresse verso la Toscana. Allora le truppe della lega al comando di Francesco Maria della Rovere e del marchese di Saluzzo, passarono gli Appennini ed andarono ad accamparsi a poche miglia da Firenze per proteggere questa città dall'esercito del Borbone.

Questo era giunto a Pieve Santo Stefano quando a Firenze, dove era generale il malcontento contro il cardinale di Cortona, Silvio Passerini, tutore di due giovani bastardi dei Medici, Ippolito ed Alessandro, il 26 aprile scoppiò un tumulto. Molti giovani delle principali famiglie fiorentine, capeggiati da éIETRO SALVIATI, occuparono il Palazzo della Signoria; ma quello stesso giorno, assediati da millecinquecento soldati della lega prontamente accorsi dal campo, dietro la mediazione del gonfaloniere LUIGI GUICCIARDINI che fece ottener loro il perdono, cedettero il palazzo e la calma ritornò in città.

Intanto il Borbone dal territorio di Arezzo entrava nel Senese e si dirigeva alla volta di Roma. Lungo la via saccheggiò Acquapendente e San Lorenzo alle Grotte, occupò Viterbo e Ronciglione, e il 5 maggio giunse sotto le mura di Roma, ch'era difesa da una improvvisata ed esigua schiera e mal disciplinate milizia al comando di Renzo da Ceri.
La mattina del 6 maggio del 1527 l'esercito imperiale mosse all'assalto delle mura del Borgo tra il Gianicolo e il Vaticano. Carlo di Borbone, per animare con l'esempio verso i suoi soldati, si lanciò tra i primi e, presa una scala, l'appoggiò alle mura; ma mentre arditamente saliva, fu colpito da una palla d'archibugio, che Benvenuto Cellini si vantò d'aver tirata, e cadde morto all' età di soli trentotto anni.
La sua morte invece di smorzare accrebbe  l'impeto degli assalitori, i quali, sebbene con gravi perdite, riuscirono a superare le mura e ad entrare nella città.

LO SPIETATO SACCO DI ROMA


Durante la battaglia Clemente VII stava a pregare nella cappella del suo palazzo. Quando le grida dei soldati gli annunciavano che Roma era perduta, fuggi a Castel Sant'Angelo e vi si chiuse con i cardinali e gli altri prelati, mentre gl' invasori inseguivano per le strale i soldati pontifici fuggiaschi le catturavano e li  trucidavano con le picche e le alabarde.
Circa quarantamila uomini contava l'esercito imperiale che faceva irruzione a Roma; il nucleo principale era costituito dai quattordicimila lanzichenecchi del Frundsberg e dai seimila spagnoli del Borbone; a queste truppe, lungo il cammino attraverso la penisola si erano aggiunte le fanterie italiane di Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga, molti cavalli che si erano messi al comando di Ferdinando Gonzaga e del principe d'Orange Filiberto di Chalons, succeduto nel comando supremo a Carlo di Borbone, numerosi disertori dell'esercito della lega, i soldati licenziati dal Pontefice e non pochi banditi attratti dalla speranza di rapine.

Quest'accozzaglia d'armati, di cui buona parte erano stranieri e luterani fanatici, gente senza scrupoli e senza disciplina, era naturale che dovesse trattare brutalmente la città conquistata. Parecchie migliaia di difensori nella prima esaltazione della vittoria furono passati per le armi, poi cominciò il saccheggio e la distruzione e Roma fu teatro di scene terribili che è impossibile poter descrivere. Le chiese furono invase, profanate, spogliate di tutti i tesori; dagli arredi sacri, furono asportati l'oro, l'argento e le gemme, di ciò che rimaneva vennero disseminate per le strade; i quadri e le statue, considerati dai luterani come segni di idolatria, furono fatti a pezzi, i monasteri furono violati e le monache date in pasto alla furiosa libidine dei soldati; numerosissime donne vennero strappate dalle case e condotte per le vie dalle truppe assetate di sozze voglie. Nessuna casa fu risparmiata, ma furono presi specialmente di mira i palazzi dei ricchi e dei prelati, che vennero spietatamente saccheggiati. Si credeva che le case dei cardinali devoti al partito imperiale dovessero esser rispettate e perciò i mercanti vi avevano trasportato le loro robe; ma alcune vennero lo stesso messe a sacco, altre si salvarono pagando grosse taglie, che furono richieste e sborsate più d'una volta. I cittadini subirono ogni sorta d'insulti, d'imposizioni e di violenze. Molti vennero sottoposti a torture perché rivelassero i nascondigli dove si pretendeva che avessero nascosto le loro ricchezze o perché riscattassero la loro vita con enormi somme; e le grida dei torturati echeggiavano sinistramente mescolandosi con quelle delle donne violate. Molti prelati morirono fra i tormenti, molti altri, riscattatisi a caro prezzo, cessarono poi di vivere a cagione delle sofferenze e dalla paura.

Roma, in quel maggio, presentava un aspetto desolante. Le vie erano disseminate di cadaveri, percorse da ciurme di soldati ubriachi e schiamazzanti che si trascinavano dietro donne di ogni condizione, da saccheggiatori che trasportavano oggetti rapinati; le chiese erano trasformate in bivacchi, dove Tedeschi, Spagnoli e Italiani gozzovigliavano; dovunque c'erano robe ammucchiate che aspettavano di esser portate via o perché rivelatisi di poco conto abbandonate dai saccheggiatori;  in ogni luogo e sopra ogni cosa lasciavano traccia del loro passaggio e della loro ferocia.

Il cardinale POMPEO COLONNA trionfante entrò a Roma il giorno 8, seguito da numerosi contadini dei suoi feudi, i quali si vendicarono dei saccheggi subiti mesi prima per ordine del Pontefice saccheggiando a loro volta tutte quelle case in cui ancora rimaneva qualche cosa da prendere o da distruggere. Il cardinale però - secondo quello che scrive un suo biografo - avuta compassione della miseria in cui era precipitata la sua patria, diede asilo nel suo palazzo a quanti vollero rifugiarvisi e liberò perfino con i propri denari non pochi prelati, senza distinzione di partito. Dopo tre giorni il principe d'Orange ordinò che cessasse il saccheggio; ma le soldatesche non ubbidirono e Roma continuò ad essere saccheggiata finché vi rimase qualche cosa da prendere.
Lo stesso giorno in cui gli  imperiali penetrarono a Roma, giunse in soccorso con una schiera di cavalli e di archibugieri il capitano pontificio Guido Rangoni; ma era troppo tardi. Dal ponte Salario, fin dove si era spinto, si ritirò ad Otricoli. Francesco Maria della Rovere, partito da Firenze il 3 maggio, giunse il giorno 16 ad Orvieto dove si unì al marchese di Saluzzo che vi era giunto cinque giorni prima e invano aveva tentato di liberare Clemente VII da Castel Sant'Angelo.

Il Della Rovere - ancora una volta- se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente con le sue milizie penetrare in Roma e cacciare gli invasori, i quali, privi di disciplina, e intenti al saccheggio e a gozzovigliare, non erano in grado di opporre alcuna seria resistenza; tuttavia non volle tentare nessuna azione e il 1° giugno andò ad accamparsi a Monterosi.

Essendo caduta ogni speranza di soccorso, Clemente VII il 6 di giugno capitolò, obbligandosi a pagare agli imperiali quattrocentomila ducati, di cui centomila subito e il resto entro tre mesi. Fino al pagamento avvenuto egli doveva restar prigioniero a Castel Sant'Angelo assieme a tredici cardinali che lo avevano seguito nella fuga. Inoltre il Pontefice si impegnò a consegnare all'Imperatore, Parma, Piacenza e Modena e di ricevere guarnigioni nel castello in cui si trovava, oltre a quello di Ostia, Civitacastellana, e  Civitavecchia. 
Appena ebbe sottoscritta la capitolazione, tre compagnie spagnole e tre tedesche destinate alla custodia del Papa entrarono in Castel Sant'Angelo.
I patti della capitolazione non vennero però tutti osservati: Civitacastellana, occupata dalle truppe della lega, rifiutò di ricevere il presidio imperiale; Civitavecchia rimase ad Andrea Doria che la tenne in pegno delle paghe dovutegli; Parma e Piacenza non vollero fare entrare il commissario dell'Imperatore e soltanto Modena si arrese al duca di Ferrara.
 
Contemporaneamente gli alleati del Papa, approfittando della sua prigionia si impadronirono di alcune terre della Chiesa. I Veneziani occuparono Cervia e Ravenna; Sigismondo Malatesta, vista l'occasione propizia, rientrò in Rimini.
Se queste città andarono perdute per la Chiesa, Firenze andò perduta per i Medici. Il 16 maggio il cardinale di Cortona uscì dalla città con i due bastardi Ippolito e Alessandro e fu rimessa in vigore la costituzione con la quale era stata governata la repubblica fino al 1512. 
Cinque giorni dopo il Consiglio dei Cento adunò il Consiglio Generale e si procedette alle elezioni. Furono eletti il gonfaloniere NICCOLÒ CAPPONI, la nuova Signoria, i decemviri della libertà, gli otto della guardia, fu creato il consiglio degli Ottanta, e il 2 giugno tutti i magistrati e il clero si recarono in solenne processione nelle principali chiese a ringraziare Dio della ricuperata libertà.


SPEDIZIONE DEL LAUTREC - ASSEDIO DI NAPOLI - 
ANDREA DORIA - GENOVA RIACQUISTA LA LIBERTA

La notizia del barbaro sacco di Roma commosse l'intera Europa. Lo stesso CARLO V ne fu indignato e per convincere i suoi sudditi che non era stato lui ad ordinare le atrocità commesse, fece sospendere le feste indette in Spagna per la nascita del figlio Filippo, fece fare preghiere per la libertà del Pontefice, come se questi non fosse suo prigioniero, e scrisse al re d' Inghilterra e ad altri principi protestando che le violenze di Roma erano state commesse contro sua volontà ed avanzando proposte per una pace generale.
Ma FRANCESCO I ed ENRICO VIII rifiutarono le proposte dell' imperatore e il 18 agosto del 1527 conclusero un trattato d'alleanza con il quale il re di Francia si  impegnava di mandare in Italia un esercito comandato dal LAUTREC e il re d'Inghilterra di sborsare trentaduemila ducati al mese per le spese di guerra. Nello stesso tempo il cardinale CIBO invitava tutti i cardinali a riunirsi a Parma per decidere sulla condotta da tenere  per ottenere la liberazione del Pontefice e per prender contatto con gli alleati.

Intanto nell' Italia settentrionale era scoppiata la peste che, nell'afoso luglio e agosto, propagandosi verso il mezzogiorno della penisola, andò a desolare orribilmente proprio Roma. Per evitare il terribile flagello il principe d'Orange  fuggì a Siena, il Lannoy prese invece la via di Napoli, ma ormai con il morbo della peste addosso, giunto a Aversa vi morì  il 23 settembre e fu sostituito nella carica di vicerè da Ugo di Moncada. Anche le truppe spagnole ed italiane abbandonarono Roma e si sparsero qua e là, saccheggiando alcune città fra cui Terni e Narni e taglieggiandone altre, come Spoleto.

Nell' Italia settentrionale, nel frattempo, cominciavano altre ostilità. Genova, bloccata dal mare dalla flotta francese comandata da Andrea Doria e minacciata dalla parte di terra da un piccolo esercito condotto da Cesare Fregoso, depose il doge Antoniotto Adorno e si diede a Francesco I nel cui nome andò a governarla Teodoro Trivulzio. L'esercito veneziano insieme con le milizie di Francesco Sforza tentò un attacco contro Milano, ma venne respinto da Antonio de Leyva.

Più fortunato fu invece il Lautrec, il quale, espugnata Alessandria ed occupate Vigevano e Novara, il 28 settembre pose l'assedio a Pavia, che fu presa d'assalto il 5 ottobre e abbandonata al furore delle truppe vittoriose; quindi scese nell' Emilia, riuscì a staccare dall' Imperatore il duca Alfonso d' Este, cui venne promessa al figlio Ercole la mano della principessa Renata, figlia di Luigi XII e cognata di Francesco I, si procurò l'amicizia e gli aiuti della repubblica di Firenze che gli promise cinquemila uomini comandati da Orazio Baglioni e, infine, ottenne che dalla parte della Francia si schierasse il marchese Federico II di Mantova. 
E proprio in quest'ultima città il 7 dicembre del 1527 fu pubblicata la lega tra il Pontefice, Francesco I, Enrico VIII, Venezia, Firenze, lo Sforza, l' Estense e il Gonzaga. 
Il giorno dopo Clemente VII, travestito da mercante, riusciva a fuggire da Castel Sant'Angelo e riparava ad Orvieto dove si trovava accampato una parte dell'esercito degli alleati.

Il 9 di gennaio il Lautrec lasciò Bologna e, passando per le Romagne e le Marche, il 10 febbraio entrò negli Abruzzi, le cui città gli aprirono le porte; quindi passò nelle Puglie, fatta la rassegna delle sue truppe a Sanseverino, andò a raggiungere Pietro Navarro che lo aspettava a Lucera.
Tra questa città e Troia, il Lautrec venne raggiunto dall'esercito imperiale che al comando del principe d'Orange era partito da Roma il 17 febbraio. I due eserciti stettero a guardarsi per una settimana, non osando assalirsi; il 21 marzo, avendo saputo che in aiuto del nemico venivano le Bande Nere comandate da Orazio Baglioni, il principe d'Orange, approfittando di una densa nebbia, abbandonò inosservato il campo e se ne andò a Napoli, lasciando durante il cammino, allo scopo di trattenere i Francesi, un forte presidio a Melfi agli ordini del principe GIANNI CARACCIOLO.

Il Lautrec, accortosi della precipitosa ritirata degli imperiali, voleva inseguirli e dar loro battaglia prima che giungessero in Napoli; ma nel consiglio di guerra tenuto a Troia prevalse il parere di PIETRO NAVARRO che proponeva di assalire Melfi. Allo stesso Navarro venne affidata l'impresa: alla testa delle Bande Nere e dei fanti guasconi, il 23 marzo, dopo due assalti con molto spargimento di sangue, riuscì ad impadronirsi della città, prese prigioniero il Caracciolo e passò per le armi l' intera guarnigione che contava più di tremila soldati. Mentre l'Orange si fortificava a Napoli, il Lautrec, presa Melfí, occupava Barletta, Venosa e quasi tutte le altre città della Puglia. 
Contemporaneamente la flotta veneziana conquistava Monopoli, Trani e Brindisi, assediava Manfredonia e si apprestava ad assalire Otranto. 

Verso la metà di aprile il Lautrec entrò in Campania, occupò Capua, Nolo, Acerra, Aversa e tutte le principali città di Terra di Lavoro, e il primo di maggio andò ad assediar Napoli.
Essendo questa città difesa dall' intero esercito del principe d'Orange, il Lautrec non poteva sperare di prenderla a viva forza, decise quindi di averla per fame e proibì perciò ai suoi di venire alle mani con il nemico. Però, malgrado i suoi divieti, tra assediati ed assedianti venivano impegnate quotidiane scaramucce. In una di queste, il 22 maggio, trovava la morte ORAZIO BAGLIONI e nel comando delle Bande Nere gli succedeva il conte UGO de' PEPOLI.

Per mare, Napoli era bloccata da otto galee genovesi comandate da Filippino Doria. Cominciando in città a mancare le vettovaglie e sapendo che la flotta veneziana, che operava nelle acque della Puglia si preparava a partire per cooperare con il Doria davanti a Napoli, il vicerè UGO di MONCADA tentò un colpo audace contro le navi genovesi nella speranza di poterle sconfiggere prima che si unissero a quelle veneziane in arrivo. Armate sei galee, quattro fuste e due brigantini e imbarcati mille archibugieri spagnoli e i migliori capitani che allora si trovavano in Napoli, il 28 maggio del 1528 il vicérè andò ad assalire la flotta genovese che incrociava nelle acque di Salerno. Accanita fu la battaglia, ma gli Spagnoli ebbero la peggio. La flotta imperiale venne quasi interamente distrutta. Ugo di Moncada fu ucciso e la maggior parte dei suoi ufficiali fu fatta prigioniera. 

Pochi giorni dopo questa battaglia e precisamente il 10 di giugno, giunsero nelle acque di Napoli ventidue navi veneziane con l'ammiraglio Pietro Lando e così il blocco della capitale fu completo, tuttavia il principe d' Orange trovò il modo di vettovagliare la città con frequenti e fortunate sortite. Ma erano piuttosto critiche le condizioni degli assediati; nè del resto migliori erano quelle degli assedianti. La fame e la peste mietevano numerose vittime nella città ma anche nel campo francese, la stanchezza, e i disagi avevano indebolito sia l'esercito imperiale come quello di Francesco I, e nessuno avrebbe potuto prevedere l'esito finale dell'assedio se il passaggio di Andrea Doria alla parte degli imperiali non avesse improvvisamente capovolta la situazione a favore di questi.

Il grande ammiraglio si era disgustato con il re di Francia per le umiliazioni che questi infliggeva ai Genovesi e per il favore che Francesco I mostrava di accordare a Savona togliendola dalla dipendenza di Genova. Commosso dalle istanze dei suoi concittadini, il Doria aveva pregato il sovrano di rispettare i loro privilegi; non essendo state accolte le sue domande, lasciò l'appoggio al servizio del re, e fece sapere a Carlo V di esser disposto a passare a lui con dodici galere purché gli accordasse uno stipendio annuo di sessantamila fiorini e concedesse a Genova l' indipendenza a guerra finita.
 L'Imperatore accettò le condizioni di Andrea Doria e questi, il 4 luglio, ordinò al nipote Filippino di abbandonare con la flotta le acque di Napoli. Contemporaneamente da Genova si trasferiva a Lerici.
Con la partenza delle navi del Doria cessò il blocco di Napoli dalla parte del mare. Per dì più il 18 luglio si allontanò anche la flotta veneziana e così la città riuscì ad essere abbondantemente rifornita di vettovaglie. 

Mentre le sorti degli assediati miglioravano, peggioravano quelle dei francesi. Nel loro campo si cominciava a provare seriamente la fame, dato che gli imperiali con frequenti sortite  impedivano al nemico il servizio di rifornimento. Inoltre la pestilenza mieteva vittime nell'esercito francese, che ai primi d'agosto poteva soltanto disporre di quattromila uomini abili  adoperare le armi: tutti gli altri erano ammalati e fra questi si contavano Pietro Navarro, Camillo Trivulzio e lo stesso LAUTREC, che o per la pestilenza o per le enormi fatiche sostenute, nella notte dal 15 al 16 agosto cessò di vivere.

Prese allora il comando dell'esercito il marchese di Saluzzo, il quale, stimando molto pericoloso continuare quell' inutile assedio poiché Andrea Doria, giunto a Gasta, aveva costretto la flotta francese a lasciar le acque del Napoletano e Fabrizio Maramaldo, Ferdinando Gonzaga ed altri capitani imperiali, usciti da Napoli, assalivano i distaccamenti francesi di Capua, Nola ed Aversa e minacciavano il campo degli assedianti, decise di ritirarsi.
Nella notte del 29 agosto, abbandonati le grosse artiglierie e i carriaggi, il marchese di Saluzzo iniziò alla chetichella la ritirata, ma poche ore dopo, scoperta la fuga, venne inseguito e raggiunto dalla cavalleria imperiale. Questa fu respinta dalle Bande Nere con una nutrita scarica di moschetteria, ma tornata all'assalto riuscì a scompigliare la colonna francese in marcia e a far prigioniero lo stesso NAVARRO.

I resti dell'esercito in fuga riuscirono a stento riparare ad Aversa; ma poco tempo dopo questa città si arrese. Il MARCHESE di SALUZZO, anche lui caduto prigioniero, morì qualche giorno dopo a Napoli, dove venne pure strozzato PIETRO NAVARRO, reo di essere passato al nemico; anche il conte UGO PEPOLI morì a Capua e dopo la sua morte le schiere superstiti delle Bande Nere si dispersero per non più riunirsi.
 Del numeroso esercito francese non rimasero che alcune disordinate compagnie, le quali nella Puglia e nella Calabria iniziarono una disperata guerriglia, sostenendo alcuni baroni ribelli, tra i quali erano Federico Caraffa, il principe di Melfi, il duca di Gravina e Simone Tebaldi.

A risollevare le sorti dei suoi in Italia Francesco I nei primi d'agosto aveva mandato un esercito al comando del SAINT-POL, che si era unito alle milizie degli alleati capitanate da Francesco Maria della Rovere. Questi fino allora era rimasto inoperoso e non aveva saputo impedire agli imperiali del De Leyva di rioccupare Pavia. Ricevuto il rinforzo del Saint-Pol, il Della Rovere mosse su Pavia e il 19 settembre riuscì ad impadronirsene.

Proprio in quei giorni però i Francesi perdevano Genova. ANDREA DORIA si presentò nel porto di questa città il 12 settembre e lo occupò con le sue compagnie da sbarco. Teodoro Trivulzio, che vi comandava a nome del re di Francia, si ritirò con la guarnigione nel Castelletto e chiese aiuti al Saint-Pol; ma questi, giunto a Gavi il 1° di ottobre, non osò assalire Genova né riuscì a soccorrere il Trivulzio né a soccorrere Savona e si ritirò in Piemonte. Savona capitolò il 21 di ottobre e una settimana dopo capitolò il Trivulzio.

Ricuperata la libertà, i Genovesi im massa si portarono alla espugnata fortezza del Castelletto e offrirono ad ANDREA DORIA la signoria della città; ma generosamente rifiutò e si ritenne appagato degli onori tributatigli dai genovesi e da Carlo V, il quale lo insignì dell'ordine del Toson d'oro, gli diede il principato di Melfi e gli confermò la promessa fattagli dello stipendio annuo che invece di sessantamila fu invece di novantamila ducati. 

Genova continuò a reggersi con gli ordinamenti repubblicani, fu ripristinato il dogato ma limitato nella durata a un biennio e a questa carica fu innalzato UBERTO LAZZARO CATANI. 
E affinché le antiche fazioni, che tanto danno avevano arrecato alla patria fossero distrutte, nobili e popolani vennero ammessi alle cariche pubbliche e si abolirono i nomi delle famiglie dei Fregoso e degli Adorno, che vennero fuse con le altre. 
Fu infine creato un collegio destinato a vigilare sui magistrati. 
Esso fu composto di cinque sindaci, di cui uno fu Andrea Doria, il quale ebbe questa carica a vita mentre agli altri la durata di essa fu limitata a quattro anni.

Se Napoli fu liberata, i francesi in disfatta e Genova tornava ad essere nuovamente libera Carlo V vincendo aveva affermato la sua potenza in Italia; e chi aveva ora molte ragioni di temerla erano ora i Fiorentini, sempre stati amici della Francia.

Prima o dopo sapevano che sarebbero stati assediati.
E questo avvenne quasi subito dopo i fatti sopra narrati
 
la puntata che segue è appunto il periodo che va dal 1528 al 1530 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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