ANNI 1540 - 1573

VENEZIA E I TURCHI - BATTAGLIA DI LEPANTO

VENEZIA DOPO LA PACE DEL 1540 - ASSUNZIONE AL TRONO OTTOMANO DI SELIM II - IMPREVIDENZA DEI VENEZIANI PER LA DIFESA DI CIPRO - LEGA DEGLI STATI CATTOLICI CONTRO IL TURCO - INFRUTTUOSA SPEDIZIONE NAVALE DEGLI ALLEATI - OCCUPAZIONE TURCA DI CIPRO - ASSEDIA E CADUTA DI NICOSIA- NUOVA LEGA CONTRO I TURCHI - DON GIOVANNI D'AUSTRIA COMANDANTE SUPREMO DELLA FLOTTA ALLEATA - ASSEDIO E DIFESA DI FAMAGOSTA - RESA DELLA CITTÀ - STRAGI DI FAMAGOSTA E MARTIRIO DI MARCANTONIO BRAGADINO - FORZE NAVALI DELLA LEGA CRISTIANA - BATTAGLIA DI LEPANTO: SCHIERAMENTO DELLE FLOTTE CRISTIANA E TURCA; VICENDE DEL COMBATTIMENTO; VITTORIA - VENEZIA, ROMA ED ALTRE CITTÀ FESTEGGIANO LA VITTORIA - TORTUOSA POLITICA DI FILIPPO II - SPEDIZIONE NAVALE DEL 1572 - PACE TRA VENEZIA E GLI OTTOMANI - POLITICA DI VENEZIA DOPO LA PACE DEL 1573

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VENEZIA E I TURCHI - INVASIONE DI CIPRO
ASSEDIO E CADUTA DI NICOSIA - LEGA CONTRO I TURCHI
ASSEDIO E RESA DI FAMAGOSTA -  FINE DI MARCANTONIO BRAGADINO


Dopo la pace concliusa nel 1540 con i Turchi, la Repubblica di Venezia aveva seguito una saggia politica di raccoglimento e di neutralità, da un lato mettendosi da parte, prudente - come abbiamo visto nei precedenti riassunti- spettatrice delle guerre tra Francia e Spagna che spesso avevano avuto per teatro l' Italia, e dall'altra assicurandosi in tutte le maniere, facendo sacrificio anche della propria dignità di grande potenza marinara, di mantenere le buone relazioni con i Turchi.

""...Questo saggio isolamento e l'arte, o meglio l'espediente - come osserva il Battistella-  di dirimere tutte le cause di dissenso e tutte le questioni che sorgevano con i Turchi per via delle loro piraterie e sopraffazioni, con dei donativi, con accrescimento di tributi, con il pagamento di indennità, le giovò finché durò sul trono SOLIMANO il magnifico, il quale, occupato nelle guerre d'Ungheria, mostrò di accontentarsi di queste sistemazioni e lasciò impuniti certi atti di audacia da essa compiuti per estrema necessità contro i corsari, come ad esempio quello di Antonio e Cristoforo da Canale che nel 1562 distrussero la squadra di Mustafà che devastava periodicamente i lidi della Dalmazia, flagello e tormento degli infelici abitanti ».

Ma le cose cambiarono quando, morto nel 1566 Solimano, gli successe il figlio SELIM II, il quale, fatta una pace, nel principio del 1568, con l'Imperatore MASSIMILANO II, aveva l'occasione di rivolgere il pensiero ad altre imprese, che doveva tentare non per avidità di gloria e smania di conquiste, ma per consiglio di un ricchissimo ebreo portoghese, GIUSEPPE NASSI, intimo del Sultano, e per le istigazioni dell'ammiraglio PIALE, desideroso di rifarsi della sconfitta che nel settembre del 1565, assediando Malta, gli avevano inflitta i Cavalieri gerosolimitani comandati dal loro gran maestro GIOVANNI LA VALLETTE.

Già fin dalla fine del 1566 Venezia era stata informata, dal suo bailo di Costantinopoli, MARCANTONIO BARBARO, che il nuovo Sultano voleva muovere su Cipro ed era stato esortata la Serenissima ad abbandonare la politica fiacca fino allora tenuta con gli Ottomani e a premunirsi e prepararsi per una probabile guerra, restaurando la disciplina navale e cercando forti alleanze in Italia e fuori. Quindi non dovette esserci nessuna meraviglia al Senato veneziano quando arrivò la -arrogante- richiesta fatta nel marzo del 1570 dal nuovo Sultano che gli fosse ceduta Cipro. Si avvicinava insomma la tempesta.

La repubblica rispose - come era naturale - con un rifiuto; e poiché, prima ancora di domandare la cessione dell'isola, Selim II aveva dato ordine che fossero sequestrate tutte le navi venete che si trovavano nelle acque di Cipro e fossero imprigionati tutti i mercanti veneziani che risiedevano a Costantinopoli. Venezia, per giusta rappresaglia, fece arrestare tutti i Turchi che erano nel suo territorio e sequestrare le loro mercanzie, quindi si preparò a sostenere valorosamente la guerra che si poteva considerare iniziata, imponendo alle province di terraferma un sussidio di centomila ducati, mandando a Cipro artiglierie e milizie e mandando al Pontefice PIO V un'ambasceria per avere aiuti da lui e dagli altri stati cattolici.

""« Se non che - scrive il BATTISTELLA - codeste difese fatte in fretta e furia, all'ultimo momento, riuscirono insufficienti o disordinate e non tutte furono pronte quando sarebbe stato necessario. Ci voleva altro che rinforzi e apprestamenti raccolti e studiati sotto l'imminenza del pericolo e senza un criterio generale: sarebbe occorsa una preparazione tempestiva la quale avesse colmate le vecchie deficienze dell'armamento, avesse tolti certi difetti dell'organizzazione militare e preordinato razionalmente un disegno organico di difesa dell' isola per terra e per mare. Oltre a questo e forse prima di questo, sempre nella previsione del pericolo lontano, sarebbe stato necessario provvedere a calmare il malcontento degli isolani angariati dalle imposte, impoveriti dal monopolio industriale e commerciale dei dominatori, offesi dalle prepotenze e dai privilegi della nobiltà veneziana spadroneggiante, senza riguardo ai nativi del luogo ed alle loro misere condizioni, e formare in tal modo un ambiente di simpatia verso la Repubblica, agevolare una fusione cordiale fra indigeni e forestieri, ciò che avrebbe reso mal tollerato ogni mutamento di Signoria e raddoppiate, nel comune affetto e nella concordia di tutti, le forze della resistenza. 

Sotto tale rispetto, invece, nulla fu fatto e il malcontento rimase, fu cagione di debolezza e persuasore di partiti non certo giovevoli. alla causa di S. Marco. Quanto a una difesa premeditata di lunga mano basterà che io ricordi come soltanto nel 1557 il governo desse incarico di fortificare alcuni luoghi del1'isola, che pure la Repubblica possedeva da circa ottant'anni, a GIROLAMO SANMICHELI, la cui opera, interrotta alla sua morte avvenuta nel 1559, si ridusse a disegni, modelli, progetti e null'altro, e come si lasciasse passare un'altra decina d'anni prima di riprendere gli studi per mettere in condizioni di sostenere almeno Famagosta e Nicosia, come meglio potevano consentire la ristrettezza del tempo e dei mezzi ..."" (Battistella).

Quanto agli aiuti sollecitati presso il Pontefice ed altri stati cattolici, Venezia riuscì ad ottenerli: la Spagna promise sessanta navi comandate da Gian Andrea Doria, Genova una galea, il Papa dodici, tre Malta, tre il duca di Savoia, i Medici e gli Estensi promisero truppe da sbarco; ma tutte queste forze che, se impiegate a tempo e insieme, avrebbero potuto tenere in rispetto il Turco, si mossero lentamente, senza un piano prestabilito, senza un comando unico e non riuscirono di alcun giovamento all'isola, minacciata.

Venezia aveva approntata una flotta di centotrenta navi delle quali aveva avuto il comando FRANCESCO ZANE. Questi nell'estate del 1570 partì da Venezia e si recò a Corfù di cui era provveditore SEBASTIANO VENIER. Ma mentre questi assaliva ed espugnava il castello di Sopotò, e MARCO QUERINI provveditore di Candia con venti galee recatosi sulla punta della Morea occupava la fortezza di Maina facendo prigioniera la guarnigione turca con trenta pezzi d'artiglieria e poi veleggiava verso Corfù, Fancesco Zane rimaneva inoperoso in questo porto, malgrado la sollecitazioni del Senato di assalire la flotta turca, e solo dopo l'arrivo del Querini, faceva vela verso Candia.

Più sollecite ad agire non furono le navi pontificie, le quali, partite con grande ritardo, si fermarono ad Otranto per aspettarvi la flotta spagnola che doveva giungere da Messina. Questa a sua volta, prima di muoversi, aspettava le istruzioni di Filippo II, e solo il 19 agosto comparve davanti ad Otranto, dove poi le due flotte, riunite sotto il comando di Marcantonio Colonna, andarono a raggiungere quella veneziana che già si trovava a Candia, nella baia di Suda.

Mentre le navi come abbiamo visto  perdevano del tempo preziosissimo, i Turchi avevano iniziate le ostilità. Nel giugno del 1570 usciva dai Dardanelli un'armata ottomana di trecentocinquanta navi con centomila uomini e faceva vela verso il porto di Saline, nell'isola di Cipro, dove sbarcarono le truppe Ottomane comandate da Mustafà. Queste, occupata la piccola terra di Lefcara, andarono ad assediare Nicosia, capitale dell'isola, che era difesa da un presidio di circa tremila uomini comandati dal luogotenente generale NICCOLÒ DANDOLO e dal capitano ciprioto EUGENIO SINCLITICO, conte di Rocas. Ma la città non aveva fortificazioni tali da resistere a tanti nemici; d'altro canto, forse temendo di esser sopraffatto, il Dandolo non permetteva uscire dei suoi o non voleva che questi si impegnassero a fondo, cosicché, dopo un mese di assedio, Nicosia venne espugnata (9 settembre).

Il saccheggio e la strage che seguirono all'occupazione della città furono orribili secondo uno storico, quarantamila abitanti vennero trucidati, e fra questi NICCOLÒ DANDOLO e il vescovo FRANCESCO CONTARINI; numerosissime donne, destinate all' harem del vincitore, vennero ammassate in una nave, ma una di esse, ARNALDA ROCAS, per evitare il disonore, diede fuoco alle polveri e la nave, saltata per aria con tutto il suo carico, si inabissò nel mare.

La caduta di Nicosia e la sorte che avevano subita i suoi abitanti fecero sì che altre terre come Pafo, Amatunta, Larnaca, Cerinie si arrendessero al nemico. Allora Mustafà rivolse il suo poderoso esercito contro Famagosta, che GIULIO SAVORGNANO, dietro ordine della repubblica, aveva alla meglio fortificato e munito di artiglierie.
Intanto le navi degli alleati rimanevano inoperose a Candia, perchè il Doria, ispirato da Filippo II, si opponeva con molti pretesti alla proposta dei veneziani di soccorrere sollecitamente Cipro. Quando poi giunse la notizia della caduta di Nicosia, anzichè andare in aiuto di Famagosta, come l'ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna voleva, o di effettuare uno sbarco a Negroponte secondo la proposta di Francesco Zane, Gian Andrea Doria propose una spedizione contro Durazzo.

Ma neppur questa impresa si fece; difatti, quando la flotta fu giunta a Scarpanto, il Doria con il pretesto della cattiva stagione se ne tornò con le sue navi a Messina e cosi si sciolse quella flotta che per il numero di navigli avrebbe potuto benissimo tener testa alla turca e salvare Cipro dall'invasione nemica o almeno soccorrere efficacemente Famagosta.



Grande fu l'indignazione di Venezia per l'esito di quella campagna navale; da un canto essa sfogò il suo sdegno su Francesco Zane mettendolo a riposo e sostituendolo con il vecchio ma battagliero SEBASTIANO VENIER, dall'altro, avendo compreso che da Filippo II non c'era molto da sperare, cominciò a prestare orecchio alla Francia, la quale cercava di convincerla a trattar la pace con Selim.
Il Pontefice però si dava da fare  in tutti i modi per ricostituire la lega e per mezzo del suo ambasciatore, cardinale Michele Bonelli, riusciva, dopo lunghe discussioni a persuadere Filippo II a partecipare alla lega contro i Turchi. Questa venne conclusa il 25 maggio del 1571. La costituivano la repubblica di Venezia, il Pontefice e il re di Spagna; più tardi  si unirono Firenze, il duca di Savoia, Urbino, Ferrara, Parma, Mantova, Genova e Lucca.

Tutti gli Stati partecipanti alla lega si trovarono d'accordo circa l'entità delle forze da mettere in campo: cento navi onerarie, duecento galee ed altri legni minori, cinquantamila fanti e quattromilacinquecento cavalli, un numero adeguato di artiglierie; l'accordo però non fu facile per ciò che riguardava il comando supremo perché Venezia e la Spagna lo volevano ciascuna per sé. Deferita la risoluzione della contesa al Pontefice, questi stabilì che il comando supremo della flotta alleata venisse affidato a don GIOVANNI d'AUSTRIA e che si nomînasse comandante in seconda MARCANTONIO COLONNA.

Mentre gli alleati discutevano e facevano i preparativi necessari Famagosta si trovava stretta nell'assedio. I Turchi di Mustafà vi erano giunti poco tempo dopo la caduta di Nicosia e per intimorire i difensori della città che erano comandati da Astorre Baglioni e Marcantonio Bragadino, avevano mandata la testa di Niccolò Dandolo (già trucidato a Nicosia).

Questi invece si preparavano alla difesa, decisi a resistere fino all'ultimo sangue. Il presidio della fortezza, tenuto anche conto dei millecinquecento fanti che i fratelli Querini e Luigi Martinengo avevano potuto condurvi da Candia, ammontava, a circa settemila uomini, ma di questi, due terzi circa erano veramente adatti alle armi; questa esigua schiera doveva difendere una cinta dì fortificazioni che misurava più di due miglia e tener fronte a un esercito nemico forte di quasi centomila combattenti, ben fornito di artiglierie e di macchine d'assedio.
L'inverno trascorse per i Turchi nei lavori d'approccio; sebbene disturbati continuamente dal presidio, essi riuscirono a costruire intorno alla città, dalla parte di terra, ben dieci trincee e a piazzare oltre  cento pezzi di grossa artiglieria e con l'aprile del 1571 cominciarono il vero e proprio assedio

 « ...fu - scrive il Battistella - una primavera di sangue, fu un assedio epico del quale è impossibile raccontare tutti gli episodi gloriosi, le azioni eroiche, i sovrumani sforzi senza sentirsi nell'animo al medesimo tempo un fremito di orrore e di orgoglio. Combatterono uomini e donne, soldati e sacerdoti; mobili, masserizie, arredi preziosi, ogni cosa fu tratta dalle chiese, dalle case e dai conventi per chiudere gli squarci che le batterie turche andavano aprendo nelle mura. Quattro schiere di giovani donne accorrevano da ogni parte dove più ardeva la mischia, per curare i feriti e incoraggiare i superstiti, mentre monaci e preti guidati dal vescovo di Limissò, che morì poi sugli spalti, si aggiravano per ogni dove, recando un crocifisso e invocando l'eterna requie per i morenti e l'aiuto divino sui difensori. La, disperazione ingigantiva 1'anima e le forze e il ricordo recente del feroce macello di Nicosia, togliendo ogni illusione sulla pietà degli assalitori, persuadeva al sacrificio della vita, purché questo, quasi anticipata rivincita, fruttasse nuove stragi e nuove rovine al nemico. 

"Ma tale estrema resistenza, il cui racconto ancora oggi risveglia, la nostra commozione, non poteva durare: dopo cinque terribili assalti coraggiosamente respinti, con il presidio ridotto ormai ad 800 uomini, esaurite le polveri e le vettovaglie, sgretolate in più  punti irreparabilmente le mura e perduta ogni speranza di soccorsi, il 7 agosto, dopo cinque mesi di lotta furibonda e incessante di tutti i giorni e di tutte le notti, il BRAGADINO, cedendo alle unanime suppliche dei miseri cittadini, pur con lo strazio nel cuore, mandò a Mustafà la proposta di resa. La difesa era stata troppo lunga e valorosa perché tale proposta non fosse accettata: si convenne che i difensori avrebbero potuto con armi e bagagli uscire onorevolmente dalla città incolumi ed essere trasportati su navi ottomane fino a Candia. Ma questi patti onesti sotto l'aspetto militare non erano ancora stipulati che già la maala fede dei Turchi si preparava a violarli con una infamia..""(Battistella )

Gli infelici superstiti erano appena saliti a bordo, allorquando Mustafà, messi innanzi inconsistenti pretesti e accuse ignobili a cui sdegnoso ribattè il Bragadino, fece d' improvviso ammazzare una quarantina di soldati che formavano la scorta, accanendosi in un modo barbaro contro i capi della medesima: un Querini fu strozzato, il settantenne Lorenzo Tiepolo fu impiccato all'antenna di una galea; il Baglioni e altri ufficiali furono tagliati a pezzi; i soldati imbarcati una parte furono uccisi e l'altra catturati per poi farne schiavi. Poi dalle navi il furore della soldatesca turca si riversò  sugli sciagurati cittadini compiendo un selvaggio sterminio.

Più crudele sorte attendeva il Bragadino contro il quale doveva sfogarsi nella maniera più brutale ed atroce tutta l'ira e la sete di vendetta del Mustafà per la gloriosa resistenza che aveva decimato l'esercito turco. Mozzatigli il naso e gli orecchi, fu costretto ad assistere al supplizio dei suoi compagni, poi per undici giorni lo trascinarono alla gogna per le strade di Famagosta e il dodicesimo, legato ad una lunga pertica sulla nave fu sbeffeggiato tra i lazzi e gli insulti dei soldati, tuffandolo più volto in mare come una secchia. Poi sempre per diletto lo costrinsero sfinito com'era, a portare dei cestoni di materiale, infine lo scorticarono vivo. 

Nè i vituperi né lo spasimare riuscirono a strappare un lamento dalle labbra del torturato il quale ai dileggi di Mustafir che gli chiedeva perché il suo Cristo non gli venisse in soccorso, rispondeva bisbigliando il miserere. Finito il supplizio con la morte, si inferocì contro il cadavere: la sua pelle  impagliata e ricucita, fu appesa come un fantoccio all'albero della nave ammiraglia ed infine trasportata a Costantinopoli fu deposta all'arsenale come trofeo.
Di qui nove anni dopo riuscì a trafugarla un certo Gerolamo Polidoro che la mandò a Venezia dove fu accolta con alti onori ed ebbe fine la sua triste odissea dentro un' urna marmorea nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. 
A rappresaglia dell'empio atto di questa barbaria ottomana, nel 1572 ALMORÒ TIEPOLO, fatto prigioniero un feroce noto corsaro, Ricamatore, usò lo stesso trattamento: deplorevole ma - fu detto- meritata vendetta ».(Battistella)

L'eroica resistenza di Famagosta rappresenta una delle pagine più gloriose della storia di Venezia: quattromila uomini avevano valorosamente resistito per cinque mesi contro ventimila ottomani, fiaccandone gli assalti. I difensori di Famagosta, prima ancora della celebre battaglia di Lepanto che ci accingiamo a raccontare, venivano a sfatare la leggenda dell'invincibilità che si era formata sul conto dei Turchi e con la, loro costanza, e il loro sacrificio furono di grande sprone per altre più gloriose imprese.

BATTAGLIA DI LEPANTO

Cinqùe giorni dopo la presa di Famagosta, a Messina, dove aspettavano la flotta veneziana a quella pontificia, giungeva a capo delle galee della Murcia e della Catalogna, don Giovanni d'Austria seguito da Alessandro Farnese, da Francesco Maria della Rovere, dal marchese di Carrara, da Ottavio e Sigismondo Gonzaga, da don Francesco di Savoia e da parecchi valenti capitani, quali Ascanio della Cornia, Andrea Provana conte di Leini, Pirro Malvezzi, Gil d'Andrate. i Doria, i Grimaldi, gli Imperiali, gli Spinola e don Alvaro di Bazan marchese di Santa Cruz.

Le forze che venivano a trovarsi sotto il comando di don Giovanni d'Austria erano le seguenti: trentuno galee e venti navi spagnole con cinquecentocinquantacinque cannoni, ottomila soldati e millesettecento marinai; diciannove galee napoletane con novantacinque cannoni, mille e novecento soldati e mille e cento marinai; sedici galee siciliane fra le quali la Capitana, la Sicilia, la Padrona, e la S. Giovanni, con venti cannoni, quattrocento soldati e duecentoquaranta marinai; dieci galee di Gian Andrea Doria. con cinquanta cannoni, mille soldati e seicento marinai; due di Niccolò Doria, quattro dei Nomellini, quattro dei Negroni, due dei De Mari, due dei Grimaldi, due degli Imperiali, una dei Santi, tre galee di Genova, tre del. duca di Savoia (la Piemontese, la Margarita e la Duchessa), tre di Malta, dodici galee pontificie noleggiate presso Cosimo de' Medici  montate da Cavalieri di Santo Stefano e soldati delle Marche e delle Romagne; infine centocinque galee veneziane con novecentocinque cannoni, undicimila e duecento soldati e settemila marinai.

In totale vi erano duecentonove galee, milleottocentocinque cannoni, ventottomila soldati, dodicimila e novecentoventi marinai e quarantatremila e cinquecento rematori.
Di tutte queste forze la maggior parte era stata fornita dall 'Italia (Stati indipendenti e Stati soggetti), la quale aveva dato centosettantotto galee, milleduecentosettanta cannoni, ventimila soldati, undicimila e duecentoventi marinai e trentasettemila e trecento rematori, il resto, secondo le cifre su riferite, era della Spagna.
Il 16 settembre, dopo lunghe discussioni sulla via da prendere, questa grande flotta, lasciò le acque di Messina e, raccolti nuovi soldati sulle coste calabresi, il 27 dello stesso mese giunse a Corfù dove apprendeva la dolorosa notizia della caduta di Famagosta e dello scempio fatto dei suoi difensori.
Da Corfù l'armata andò nel golfo di Gomenizza, che si apre nelle coste albanesi, e il 4 ottobre andò ad ancorarsi nel porto di Fiscardo, da dove poi ripartì il 6 ottobre, diretta al golfo di Lepanto dov'era la flotta turca comandata da ALI', forte di duecentoventidue galee, sessanta galeotte, settecentocinquanta cannoni, trentaquattromila soldati, tredicimila marinai e quarantamila rematori.

La mattina del 7 ottobre del 1571 la flotta alleata giunse in vista delle Curzolari, isolette poste presso l'imboccatura del golfo di Lepanto, e subito l'armata ottomana uscì e si schierò in ordine di battaglia di fronte al nemico.
Lo schieramento dell'armata alleata aveva una lunghezza di circa tre miglia, il centro era formato da una squadra di sessantuno galee, quasi al suo fianco quella  Reale di Spagna guidata da don Giovanni d'Austria, la Capitana pontificia comandata da Marcantonio Colonna, la Capitana di Savoia al comando del Provana, la Capitana di Venezia con Sebastiano Venier e la Capitana di Genova con Ettore Spinola ed Alessandro Farnese; all'ala destra stava una squadra di cinquantatré galee capitanata da Gian Andrea Doria, alla sinistra altrettante navi veneziane sotto il comando di Agostino Barbarigo; di riserva erano trentacinque navi comandate dal marchese di Santa Cruz don Alvaro de Bazan; di avanguardia, a un miglio a mezzo circa dalla linea frontale, stavano sei galeazze al comando di Francesco Duodo.

Della flotta ottomana il centro era comandato dall'ammiraglio supremo ALI', il centro destro da Mehemet Sciaurak, vicerè d'Egitto, il centro sinistro dal bey d'Algeri Ulugh Ali. Grande la determinazione dei Turchi, che, pur essendo forniti di minor numero di cannoni, si affidavano al maggior numero delle loro navi e nella conoscenza del luogo; non meno grande era l'ansia di battersi degli alleati, desiderosi di vendicare i martiri di Famagosta e, confortati dai frati i quali con il Crocifisso in mano benedicevano i combattenti e davano notizie delle indulgenze promesse dal Pontefice.

La battaglia fu ingaggiata verso mezzogiorno. Prime ad entrare in combattimento furono le sei galeazze di Francesco Duodo, le quali, vedendo la flotta ottomana avanzare a semicerchio con lo scopo evidentissimo di avvolgere quella cristiana, aprirono un fuoco violentissimo e ruppero l'ordine serrato dello schieramento nemico. Allora la battaglia infuriò contemporaneamente su tutti i punti della fronte e presto prese l'aspetto di una mischia apocalittica.

Al centro, l'ammiraglia turca si lanciò contro la Reale di Spagna, imitata da altre navi ottomane; in aiuto della capitana spagnola accorsero altri navigli cristiani, fra cui quello di Sebastiano Venica, il quale a capo scoperto combatté valorosamente e contribuì moltissimo all'esito dello scontro. Questo durò a lungo, con un accanimento straordinario; fin quando Ali fu colpito gravemente da una palla di cannone e la sua nave con la ciurma  nel panico presto venne fatta prigioniera.

Con accanimento non minore si combatté all'ala sinistra, dove in un primo tempo i cristiani furono quasi sopraffatti anche perché il Barbarigo, sebbene strenuamente difeso da Camillo da Correggio, aveva riportato una gravissima ferita che il giorno dopo doveva causargli la morte; ma i restanti non tardarono  a risollevarsi; un impetuoso assalto dato alla nave di Mehemet Sciaurak cambiò la sorti della battaglia, e lo Sciaurak cadde anche lui, come Alì, sotto i colpi di Giovanni Contarini, il suo legno fu colato a picco e la sua squadra anch'essa presa dal panico fu completamente sbaragliata.

Diversamente procedettero le cose all'ala destra. Gian Andrea Doria aveva poca voglia di sferrare battaglia forse per cieca obbedienza agli ordini di Filippo II, che avrebbe voluto che la flotta anziché contro i Turchi andasse contro Tunisi, forse anche per certe segrete trattative corse tra la Spagna e Ulugh aventi lo scopo di staccare quest'ultimo da Costantinopoli. A sua volta Ulugh Alì cercava di evitare il combattimento mosso dalle medesime ragioni ed anche perché  voleva che le sue forze rimanessero intatte par difendere le coste del suo remo di Algeri che potevano essere assalite dagli Spagnoli.

L'uno e l'altro pertanto dopo una serie di abili evoluzioni presero il largo; ma una parte della squadra del Doria, formata di veneziani, pontifici, piemontesi e maltesi, ardendo dal desiderio di combattere, si staccò dal resto della flotta genovese ed assali la navi nemiche. Sopraffatta dal numero dei legni avversari ebbe la peggio; ma in suo soccorso si mossero dal centro don Giovanni d'Austria e Marcantonio Colonna; lo stesso Gian Andrea Doria, visti i suoi in pericolo, fu costretto a rivolgersi contro gli Algerini; allora Ulugh Alì, temendo di essere accerchiato, abbandonò il combattimento e le galee che aveva catturate e con venticinque galee e venti galeotte se ne fuggì a Costantinopoli.

Il contegno del Doria fu la sola ombra che offuscò la vittoria cristiana di Lepanto, la quale fu completa. Centodiciassette galee ottomane e circa venti galeotte furono catturate; cinquantasette colate a picco durante la battaglia, cinquanta altre che si erano fracassate contro gli scogli furono prima saccheggiate poi incendiate; quarantamila turchi tra soldati e marinai furono uccisi, ottomila fatti prigionieri e circa diecimila schiavi cristiani furono liberati. Dei capitani nemici, oltre Ali e Sciaurak, trovarono la morte parecchi pascià e il comandante dei Giannizzeri. Ma la vittoria fu pagata a caro prezzo: settemila e cinquecento cristiani perirono, dei quali duemila e trecento veneziani fra cui il Barbarigo e ventisei gentiluomini, quindici galee andarono perdute; i feriti ammontarono a settemilasettecentottantaquattro e tra questi il CERVANTES, il celebre autore del Don Chisciotte.

Finita la battaglia, la flotta vittoriosa si rifugiò nel porto di Petala per sfuggire ad una tempesta che stava per scatenarsi; non essendo possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, il consiglio di guerra stabilì di far vela verso ponente e il 10 ottobre la flotta entrava nel porto di Santa Maura, poi  si recò a Messina. Qui fu fatta la divisione delle spoglie e a Venezia toccarono ventisette galee ed altre navi minori, sessantadue cannoni tra grossi e piccoli e milleduecento schiavi. L'annuncio della sconfitta produsse a Costantinopoli grandissima costernazione e si dice che il sultano Selim rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehemet Sokolli non rimase scosso dalla disfatta e al legato veneto Barbaro disse: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più ». 

E in verità quell'astuto uomo di Stato non aveva torto. Difatti gli Ottomani, con la sconfitta di Lepanto, non subivano perdite territoriali; in quanto ai danni materiali subiti, questi, date le immense risorse dell'Impero, erano facilmente riparabili, ed infatti l'anno dopo, una nuova flotta turca di oltre duecento navi al comando di Ulugh Alì veleggiava minacciosa sui mari d'Oriente. Due sole cose avevano perduto i Turchi, che non poterono più riacquistare la fama d' invincibilità che tanto aveva loro giovato e la fiducia nelle proprie forze. 
Venezia, se aveva perso Cipro, acquistava prestigio e fede in sè stessa: l'uno e l'altra, avrebbero potuto rialzare le sorti della repubblica, se le gelosia degli altri Stati e la tortuosa politica della Spagna non l'avessero costretta più tardi ad una pace, la quale non era quella che dalla strepitosa vittoria di Lepanto si era ripromessa.

FESTEGGIAMENTI PER LA VITTORIA DI LEPANTO
TORTUOSA POLITICA DI FILIPPO II - SPEDIZIONE NAVALE DEL 1572 
PACE TRA I VENEZIANI E I TURCHI
POLITICA DI VENEZIA DOPO LA PACE DEL 1573

La notizia della vittoria di Lepanto produsse una gioia indescrivibile in tutti i paesi del mondo cristiano; ""...dallo Jonio all'Atlantico volarono inni e canzoni; e mentre, in onore di Pio V, veniva rimessa e saliva dagli altari fervorosa alla Vergine del Rosario l' auxilium Christianorum, la bella preghiera del banditore della prima crociata; dai pergami di tutte le chiese cristiane piovvero panegirici e le più sfolgoranti immagini seicentistiche  a celebrare il comune entusiasmo, e dalle aule di tutti i consessi municipali si bandirono editti che ordinavano processioni e falodi per festeggiare il trionfo della croce..""  (Battistella).

A Venezia l'annunzio fu portato il 17 ottobre dalla galea Angelo Gabriele, che si avvicinò al porto sparando tutte le artiglierie e suonando vari strumenti. Le botteghe furono subito chiuse, le finestre si ornarono di drappi e bandiere, il popolo si riversò tutto in piazza San Marco e inginocchiato davanti alla basilica innalzò un inno di ringraziamento a Dio e a S. Marco; poi fu eretto un arco di trionfo in capo al ponte di Rialto, tutte le campane suonarono a distesa per tre giorni in segno di letizia. Il giorno dopo vennero fatte le esequie ai gloriosi caduti e l'umanista G. B. Rosario recitò in latino l'elogio funebre; il senato liberò i prigionieri e per non turbare la generale gioia proibì a tutti i sudditi di non vestire le gramaglie per i parenti morti nella battaglia; quindi il doge diede l'annuncio a tutte le città della terraferma,  e in tutti i paesi della Serenissima la vittoria venne festeggiata.

Feste ancor più solenni furono celebrate a Roma: Marcantonio Colonna, capitano della marina pontificia e luogotenente generale della Lega, entrò a Roma da trionfatore e salì al Campidoglio preceduto da una schiera di prigionieri; le insegne tolte ai Turchi vennero appese nella chiesa di Santa Maria d'Aracoeli e dopo una messa celebrata dai ministri e dai cantori della cappella papale, per incarico del Senato, di fronte ad popolo ed alla nobiltà, il MURETO recitò il panegirico del Colonna; infine a memoria perpetua della grande vittoria, il Senato decretò che nell'atrio del palazzo dei Conservatori si innalzasse una marmorea colonna rostrata.

Altre feste grandiose vennero fatte ai reduci di Lepanto in altre città, come Genova Messina e Napoli ; soltanto a don Giovanni d'Austria, che era stato il condottiero dell' impresa, fu fatta una fredda accoglienza dal re di Spagna, contrariato forse da quella vittoria che, secondo lui, riusciva di giovamento solo alla repubblica di Venezia, a quello stato cioè che fino allora non aveva voluto accettare di inchinarsi alla supremazia spagnola.

Il contegno di Filippo II minacciava ora lo scioglimento della Lega e faceva temere che non si dovessero raccogliere i frutti della vittoria. Difatti era necessario non dar tempo al Turco di rifarsi, occorreva che di fronte alla potenza ottomana la Lega si mostrasse unita e concorde e combattesse l'irriducibile nemico nei mari di Levante, dove tante terre cristiane erano cadute in suo potere e da qui poteva minacciare l'Occidente.
Invece Filippo da una parte temeva che Venezia si accostasse a Carlo IX re di Francia, e dall'altra voleva per sé solo i guadagni utilizzando la Lega e nelle conferenze tenute a Roma nel 1572 per discutere sulle future operazioni militari aveva fatto proporre dai suoi ministri che le forze alleate fossero impiegate nell' impresa di Tunisi e d'Algeri, contro quei Barbareschi che rappresentavano una continua minaccia per le coste di Spagna e ovviamente anche i suoi domini spagnoli in Italia.
La proposta dello Spagnolo provocò il giusto sdegno di Pio V e di Venezia, i quali non potevano permettere che  una lega fatta per il bene di tutta la cristianità ne ricavasse i benefici soltanto il sovrano di Spagna.

 La questione venne messa nelle mani del Pontefice e questi- com'era da aspettarsi - stabilì con delle delibere che l'Oriente fosse il teatro delle prossime operazioni, che si accettasse il piano deliberato dalla maggioranza dei componenti il consiglio di guerra e che infine le squadre alleate si riunissero nell'aprile nelle acque di Corfù.
PIO V non riuscì a vedere attuate queste sue deliberazioni essendo venuto a morte; il suo successore GREGORIO XIII però ne seguì la politica per quel che riguardava l'azione contro i Turchi, e le sue insistenze fecero sì che si stabilisse come luogo di raduno delle flotte il porto di Messina.
Qui, nel giugno del 1572, cominciarono a raccogliersi le navi alleate: vennero quelle di Spagna, quelle di Napoli, quelle di Sicilia, quelle di privati armatori genovesi, le tredici galee pontificie e venticinque veneziane con il provveditore Jacopo Soranzo; altre galee della repubblica dovevano giungere da Candia e inoltre il grosso della flotta veneta, composto di settanta galee, aspettava, a Corfù sotto il comando di Jacopo Foscarini che aveva sostituito il Venier.

Ma quando tutto sembrava pronto, don Giovanni d'Austria dichiarò che non poteva muoversi a causa degli ordini ricevuti dal re di non prender parte alle operazioni di guerra. I motivi che avevano provocato questi ordini erano la solita ripugnanza a partecipare ad un'impresa che Filippo II (anche lui, visto dalla sua parte) reputava vantaggiosa soltanto a Venezia; infine si tirò indietro per  il timore di una  invasione delle Fiandre e della Lombardia da parte dei Francesi.
Gregorio XIII fece di tutto per dissipare i timori del sovrano e in parte ci riuscì. Filippo II infatti diede ordine che all'impresa contro i Turchi partecipassero venti galee con cinquecento soldati spagnoli. Per le preghiere di Marcantonio Colonna, don Giovanni d'Austria portò il numero delle galee a ventidue, che affidò al comando a Gil d'Andrate, e il numero dei soldati a mille.

Nella prima decade di luglio (1572)  Marcantonio Colonna uscì con la flotta dal porto ili Messina per andare a congiungersi con le altre navi veneziane e muovere quindi contro Ulugh Alì, che con centottanta galee era uscito dai Dardanelli e veleggiava lungo le coste della Morea. A Corfù dove poco dopo giunse, ebbe la notizia che don Giovanni d'Austria, avendo ricevuto dal re il permesso di andare con gli alleati, si era messo in mare con cinquanta galee.
II Colonna, desideroso di misurarsi col nemico e avendo sotto di sé un numero di navi non inferiore a quello degli Ottomani, stabilì di non attendere don Giovanni e, avendo saputo che Ulugh era uscito dal porto di Malvasia, gli andò incontro; ma, i Turchi non accettarono battaglia e tutto si ridusse a una piccola scaramuccia, che, sebbene favorevole agli alleati, lasciava intatte le forze nemiche. Allora il Colonna fece ritorno a Corfù dove intanto era giunto don Giovanni d'Austria.
A Corfù tra i capi delle forze alleate si discusse a lungo sulle operazioni da fare. Marcantonio Colonna e Jacopo Foscarini volevano dare  la caccia alle navi nemiche, esprimendo la convinzione che sarebbe stato facile sgominarle poiché  disponevano di centonovantaquattro galee, otto galeazze e quarantacinque vascelli con circa ventimila soldati; don Giovanni d'Austria invece diceva che si dovevano aspettare altri aiuti per aver la sicurezza completa della vittoria.

Senza dubbio don Giovanni obbediva a precise istruzioni del re di Spagna, il quale da un canto metteva a disposizione della Lega la sua flotta, dall'altro impediva che si desse battaglia ai Turchi per il solito scopo di non fare conseguire dei futuri vantaggi a Venezia con un'altra vittoria navale. Solo così si spiega la condotta di don Giovanni d'Austria, il quale si lasciò persuadere dell'opportunità di andare contro il nemico quando ormai l'occasione di sorprenderlo e sbaragliarlo era già passata e i Turchi dal porto di Navarino ed erano andati a mettersi sotto la protezione del forte di Modone. Più tardi, con il pretesto della mancanza dei viveri, la flotta alleata lasciò, senza aver nulla concluso, le acque della Morea e gli Spagnoli se ne tornarono a Messina provocando lo sdegno dei Veneziani e dei Pontifici, che per colpa dello sleale alleato non avevano potuto raccogliere nessun frutto dalla vittoria di Lepanto e dai successivi sforzi fatti per abbattere la potenza del Turco.

Ed ecco che ancora una volta la lega cristiana si sfasciava. GREGORIO XIII si adoperò attivamente affinché essa rimanesse in piedi e, sapendo che Venezia era in grandi strettezze economiche, le concesse, pur di rimanere nell'alleanza, di vendere i benefici ecclesiastici fino alla somma di centomila ducati; Filippo II promise che avrebbe dato rilevanti aiuti per la futura campagna di cui perfino, nel febbraio del 1573, si discussero a Roma i piani; la repubblica però, che sapeva per esperienza che non c'era da fare nessun affidamento sulle promesse della Spagna e come fosse inefficace l'unione di Stati gelosi l'uno dall'altro, non volle sapere di rinnovar l'alleanza.

Essa ormai era esaurita di forze, aveva un debito pubblico di cinque milioni settecentoquattordicimila e quattrocentotrentanove ducati, e sentiva bisogno di pace, comprendendo inoltre che, se avesse perseverato nelle ostilità contro il Turco, si sarebbe in breve trovata sola contro di esso. Perciò, malgrado l'opposizione del Venier, la repubblica diede ascolto ai consigli del re di Francia, che le offriva la sua mediazione per un accomodamento con gli Ottomani, e il 7 marzo del 1573 firmò la pace, per la quale rinunziava a Cipro, a Dulcigno, a Sapotò e ad Antivari, pagava in tre rate una indennità di guerra di trecentomila ducati e si obbligava ad un tributo annuo di millecinquecento ducati per l' isola di Zante conservando in cambio gli antichi privilegi in tutto l' Impero Ottomano.

Questa pace era certamente umiliante per Venezia, la quale, sebbene vittoriosa, aveva dovuto accettare condizioni onerose che solo ad una potenza vinta potevano essere imposte. Ma la colpa non può attribuirsi alla vecchia repubblica, che tutto aveva fatto per rialzarsi, sacrifici di danaro, di dignità e di sangue, e che tutt'altra sorte meritava per la vittoria di Lepanto alla quale più degli altri aveva contribuito.
""...Dopo la pace del 1573 - scrive il Battistella- Venezia non è più una grande potenza, quantunque per oltre due secoli ancora il suo nome risuoni famoso nel mondo per la saggezza del suo governo, per lo splendore della sua civiltà, per l'opera sagace della sua diplomazia, per gli ultimi trionfi delle sue armi. Perdute la Morea, le Cicladi, Negroponte, Cipro, essa non ha più che la colonia di Candia; ormai il suo impero marittimo, percorsa la sua parabola, declina rapido al tramonto e la grande Repubblica marinara, si può asserire, non fa che sopravvivere a se stessa. A questo scadimento non c'era il solo urto con i Turchi, ma un'altra causa più generale e più alta aveva contribuito, l'essere cioè venute meno le ragioni storiche della sua esistenza, com'erano già cessate per altre (e nello stesso tempo e anche prima)  antiche città marinare. 
Per lunghi secoli Venezia era stata il veicolo tra l'Oriente e l'Occidente e aveva servito all'estendersi delle relazioni internazionali, allo scambio dei prodotti commerciali e industriali, allo svolgersi e al diffondersi della civiltà: nell'armonia universale della storia e questo era uno dei suoi maggiori compiti e l'aveva nobilmente adempiuto. Ma con le nuove scoperte geografiche della fine del XV secolo altri popoli si sostituiscono ad essa nel medesimo compito; altri mondi, altre vie, altri mezzi e modi si offrono all'operosità umana e al cammino della civiltà. Venezia che era bastata alla parte assegnatale durante l'intera età medioevale e nell'ambito dei paesi mediterranei, non poteva bastar più in un'età nuova e nella cerchia più ampia delle terre interoceaniche. 
Senz'essere fatalisti, bisogna pur riconoscere che esiste eterna e necessaria la legge di una continua evoluzione di tutte le cose per la quale a ciascun elemento è prescritta la sua speciale funzione ed è determinato il ciclo in cui si compendia la sua esistenza. 

Alla Repubblica nel predominio politico sul Mediterraneo si sostituì un popolo non mercante, non navigatore, non civilizzatore, ma semplicemente e sterilmente conquistatore, gli Ottomani; e tale predominio, che raggiunse l'apogeo nel triste periodo che intercede fra l' ignominiosa fuga dei cristiani alla Prèvesa e la vittoria di Lepanto, per una combinazione che non può sembrare strana a chiunque conosca tutto il segreto e sottile lavorio della politica (paradossalmente) coincide con la costituzione e con l'opera delle due grandi leghe cristiane messe insieme sotto gli auspici di Paolo III e di Pio V appunto per distruggerlo.
Il rude colpo ricevuto alle Curzolari ne inizia il decadimento, come la battaglia di Poitiers nel 732 segnò il termine della prima invasione musulmana (Battistella) ».

Dopo la pace del 1573 e per circa un secolo, la repubblica di Venezia non ebbe molestie dai Turchi, tuttavia preoccupata dalle voci che correvano intorno a pretesi propositi degli Ottomani d'invadere il Friuli, essa, nel settembre del 1593, stabilì di costruire la fortezza di Palma (Palmanova, la famosa città fortezza a stella) a difesa del confine orientale di quella regione e due anni dopo rinnovò col Sultano Maometto III il trattato di pace stipulato ventidue anni prima e che doveva essere rinnovato ancora nel 1604, regnando Ahmed I.

Decisa a seguire una politica pacifica, Venezia rifiutò sempre le proposte di alleanza che le furono fatte dalla Persia, dalla Russia e da Clemente VIII e negò il suo aiuto agli Albanesi che, pur di uscire dal giogo dei Turchi, preferivano passare sotto il dominio dei Veneziani; Tuttavia non lasciò di accarezzare la speranza di potere un giorno rientrare in possesso di Cipro. Questa speranza parve che dovesse mutarsi in realtà nell'autunno del 1608, quando Enrico IV - avendo saputo che la Spagna intendeva, strappare l' isola ai Turchi - si offrì di adoperarsi presso il Sultano perché cedesse in feudo Cipro alla repubblica dietro il pagamento di una somma; si parlò perfino della, cifra - seicentomila scudi - poi non si seppe più altro. La trattativa forse non fu continuata per le maggiori attenzioni della politica europea che assorbivano l'attività del re di Francia; o forse le trattative fallirono per le pretese eccessive del Sultano, e così Cipro rimase dei Turchi fino a quando, con altri eventi e cause che sono estranei e lontane da questo periodo,  nel 1898, passò sotto l'amministrazione dell'Inghilterra.


(LE ALTRE GUERRE DI VENEZIA CON I TURCHI
SONO POI RIASSUNTE NEL PERIODO 1575-1699


Dopo l'Italia sotto gli Spagnoli, dopo le vicende di Venezia, dobbiamo ritornare ai fatti più interni, e questa volta ripartendo da un Savoia, dal ducato lasciato da Carlo III in eredità a Emanuele Filiberto; sovrano importante per la sua attività, per la riforma del suo stato, e anche per le sue doti di geniale uomo d'armi. Ripartiremo dal 1504, poi dalla sua nascita e fino alla sua morte.

 
ed è il periodo che va dal 1528 al 1580 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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