ROMA - 2a GUERRA PUNICA: SCIPIONE IN AFRICA --BATT. DI ZAMA

SCIPIONE IN SICILIA E IN AFRICA - MASSINISSA - BATTAGLIA DEI CAMPI MAGNI - BATTAGLIA DI CIRTA - MORTE DI SOFONISBA - RITORNO DI ANNIBALE IN AFRICA - MORTE DI QUINTO FABIO MASSIMO - BATTAGLIA DI ZAMA - FINE DELLA SECONDA GUERRA PUNICA
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SCIPIONE IN SICILIA E IN AFRICA

Siamo nell'anno 204 a.C. - Fervono in Sicilia i preparativi e non si trascura di tener d'occhio Cartagine dove non sono ignorati i propositi di Scipione. CAJO LELLO con parte della flotta fa la sua comparsa davanti le coste della Numidia occidentale e saccheggia il territorio di Rippo. Cartagine crede invece che sia giunto Scipione, e si prepara alla difesa: assolda mercenari, raccoglie vettovaglie, fortifica città, manda ambasciatori a Siface e a Filippo il Macedone, pregando quest'ultimo di passare in Italia e in Sicilia; invia a MAGONE venticinque navi, seimila fanti, ottocento cavalli, sette elefanti e ingenti somme perché assoldi milizie e si congiunga con Annibale.
MAGONE però in Liguria trova gran difficoltà a procurarsi uomini ed i Galli, da lui sollecitati, rispondono che sono costretti a difendere il loro paese dagli eserciti di LUCREZIO e di MARCO LIVIO, che piantano le tende in Etruria e nel territorio di Arimino. Ma se Magone ed Annibale non possono recare nessun giovamento alla patria, questa si è procurato l'aiuto di uno dei suoi più potenti vicini: Siface. ASDRUBALE di GISGONE è stato l'artefice dell'alleanza. Sapendo che il re numida era unito da un trattato di amicizia con Scipione, Asdrubale aveva fatto conoscere a Siface, la propria figlia SOFONISBA, una fanciulla di straordinaria bellezza, la quale aveva suscitato nel cuore del re africano una violenta passione ed era riuscita a farsi sposare da lui. Alle nozze era seguita l'alleanza con Cartagine e Siface si era affrettato a mandar messi a Scipione, diffidandolo di passare in Africa, poi aveva radunato un esercito di cinquantamila fanti e diecimila cavalli e si era tenuto pronto a soccorrere Cartagine minacciata dai Romani.

Nemmeno la defezione di Siface scoraggiò Scipione. Nell'estate del 204 la flotta e l'esercito sono a Lilibeo: trentacinquemila soldati, quaranta navigli da guerra rostrati e quattrocento navi da carico. Il giorno della partenza è giunto e la riva è gremita di gente convenuta da tutte le parti dell'isola.
Ritto sul ponte della nave ammiraglia, Scipione prega solennemente le divinità del mare e della terra di essere favorevoli all'impresa e facciano tornare le milizie di Roma vittoriose e cariche di bottino, poi sacrifica la vittima, getta nelle onde le interiora e con la tromba fa dare il segno della partenza.
SCIPIONE e il fratello LUCIO sono all'ala destra con venti navi rostrate, alla sinistra con altrettanti legni da guerra LELIO e MARCO PORCIO CATONE. La flotta naviga in direzione di Emporia, ma una fitta nebbia la fa deviare verso occidente e l'alba del nuovo giorno le mostra in vicinanza il promontorio di Mercurio.
Qui approdò l'armata e presero terra le truppe, che si accamparono su alcuni colli vicini.
Nello stesso tempo giunsero a Cartagine la notizia dello sbarco dei nemici e i profughi del territorio al quale erano approdati i Romani. Immenso fu lo spavento, anche perché i Cartaginesi, credendo che il nemico sbarcasse ad Emporia, avevano là mandato tutte le loro forze. Fu raccolto in fretta un corpo di cinquecento cavalieri e al comando di ANNONE, nobile cartaginese; ma spedito al promontorio di Mercurio, è assalito dalla cavalleria di Scipione, fu sbaragliato, messa in fuga e in gran parte tagliato a pezzi; e fra i morti il medesimo Annone.
Dopo questo primo successo, Scipione mise sottosopra i dintorni del paese, portando ovunque lo sgomento, e assalita una città ricca catturò ottomila uomini che si affrettò a inviare in Sicilia come primi trofei della spedizione.

MASSINISSA

Fu in quei primi giorni della campagna d'Africa che Massinissa si unì all'esercito di Scipione. Non è che recava grandi aiuti, forse duecento cavalli, come vogliono alcuni, forse duemila come affermano altri; ma la fama di grande guerriero, l'ascendente che aveva presso le popolazioni africane e l'odio implacabile che nutriva contro Siface e Cartagine lo rendevano molto gradito ai Romani.
MASSINISSA era caduto in bassa fortuna. Mentre lui era guerra in Spagna al seguito dell'esercito cartaginese, suo padre Gaia era morto e al trono era succeduto DESALCE, fratello del re. Morto poco dopo anche questi, gli era succeduto CAPUSA, il maggiore dei suoi due figli; ma aveva regnato poco, perché un suo parente, MEZETULLO, marito di una sorella di Annibale, uccisolo in battaglia, si era impadronito del potere proclamandosi tutore di Lacumace, il secondo figliuolo di Capusa, e stringendo alleanza con Siface.
Udita la morte dello zio e l'uccisione del cugino, Massinissa aveva lasciato la Spagna ed era passato in Mauritania, e, protetto da BOCCARE, re dei Mauri, aveva potuto raggiungere i confini della Numidia. Radunati intorno a sé cinquecento cavalieri amici di suo padre, aveva assalito e costretto alla resa la città di Tapso ed, essendo cresciuto il numero dei suoi aderenti, aveva vinto in battaglia l'usurpatore Mezetullo e riconquistato il regno paterno.

Ma poco era durata la fortuna di Massinissa. Sconfitto dalle forze molto più numerose di Siface, si era ridotto con pochi fedeli sul monte Balbo, e da qui aveva cominciato a molestare con continue scorrerie il territorio di Cartagine. Assalito nel suo covo da un esercito cartaginese, dopo eroica resistenza, era riuscito a mettersi in salvo con cinquanta cavalieri; raggiunto e circondato dai nemici presso Clupea, sebbene ferito, anche questa volta si salva con due compagni passando a guado un fiume in piena e nascondersi in una caverna. Guarito, era tornato entro i confini del suo regno riuscendo a radunare intorno a sé un piccolo esercito di seimila fanti e quattromila cavalli, alla testa del quale, tra Cirta e Hippo, aveva sostenuto una durissima battaglia contro SIFACE e il di lui figlio VERMINA. Il suo valore però era stato sopraffatto dalla moltitudine dei nemici e Massinissa con pochi uomini era a stento sfuggito alla stretta dell'esercito avversario rifugiandosi nel paese dei Garamanti.
Con lo scarso numero dei suoi seguaci lo sfortunato ed eroico guerriero si presentava al grande Scipione offrendogli due cose che nessun generale accorto poteva rifiutare: un'inestinguibile sete di vendetta ed un cuore di leone.

PRIME VITTORIE DI SCIPIONE IN AFRICA

Volendo conquistarsi una base per le future operazioni, Scipione pose l'assedio ad Utica. Molestato da Annone, figlio di Amilcare, che comandava un corpo di quattromila cavalli, seppe trarlo, con l'aiuto di Massinissa, fuori della città, di Balera, in un agguato e distruggerlo quasi interamente, poi, saputo dell'avvicinarsi dell'esercito di Siface al quale si era congiunto Asdrubale di Gisgone con trentamila fanti e tremila cavalieri, e non riuscendogli a espugnare Utica, Scipione levò l'assedio e pose gli accampamenti su un promontorio vicino.
L'inverno trascorse senza che alcun fatto d'arme di notevole importanza avvenisse. A sette miglia circa dagli alloggiamenti romani sorgevano, in luoghi diversi, il campo di Asdrubale e quello di Siface, fabbricati con canne e stuoie, e riparati intorno da steccati.
I nemici di Scipione erano quasi centomila erano, e non osando assalirli per l'inferiorità numerica del suo esercito, che contava meno di quarantamila uomini, ricorse all'astuzia. Finse cioè di volere intavolare trattative con il re Siface e, dando tregua alle armi, inviò messi al campo nemico, i quali avevano il compito di osservare la disposizione degli accampamenti africani e le abitudini del nemico.
Anziché la pace, il re africano e il generale cartaginese, ebbero la distruzione dei loro campi. Infatti, Scipione, rotte bruscamente le trattative, fece occupare da alcune schiere un colle nelle vicinanze di Utica, per sorvegliare il presidio di questa città e, scesa la sera, divise l'esercito in due; una parte l'affidò a LELIO e a Massinissa, ai quali ordinò di marciare contro il campo di Siface, l'altra la trattenne con sé per condurla a quello di Asdrubale.
Favoriti dalle tenebre, i Romani giunsero verso la mezzanotte agli accampamenti nemici e li circondarono, poi appiccarono il fuoco in più punti degli alloggiamenti.
Cartaginesi e Numidi, svegliati dal crepitio dell'incendio, furono prima presi da grande spavento, poi si diedero a correr di qua e di là per spegnere il fuoco; ma, caduti senz'arme in mezzo alle schiere nemiche, moltissimi vi trovarono la morte.
Quella notte la strage fu enorme. Circa quarantamila uomini perirono; seimila furono catturati e fra questi undici senatori e molti nobili cartaginesi; furono presi centosettantotto insegne militari, duemilasettecento cavalli, sei elefanti e una grandissima quantità di armi. Asdrubale e Sifaee con ventimila fanti e cinquecento cavalieri riuscirono a salvarsi.
La notizia della strage portò a Cartagine lo spavento. Riunitosi il Senato, alcuni proposero di mandare ambasciatori a Scipione per trattare la pace, altri di richiamare Annibale dall'Italia, altri ancora di rifare gli eserciti e continuare la guerra. Prevalse il parere di questi ultimi. Siface, vinto dalle preghiere della moglie Sofonisba, decise anch'egli di rinnovare gli sforzi e di resistere fino a che i Romani non fossero stati cacciati dall'Africa.

Tra Cartaginesi e Numidi furono radunati circa trentamila uomini che marciarono contro Scipione. La battaglia avvenne in una pianura detta dei Campi Magni e fu accanitamente combattuta dall'una e dall'altra parte.
SCIPIONE schierò il suo esercito con i principi in testa, seguiti dagli astati e dai triarii e pose all'ala destra la cavalleria romana e alla sinistra i Numidi di Massinissa.
ASDRUBALE e SIFACE piazzarono al centro un forte contingente di mercenari celtiberi, alla sinistra i Numidi e alla destra i Cartaginesi.
Al primo scontro i corni dell'esercito africano furono respinti. Il combattimento però continuò energico contro le schiere dei Celtiberi che si difesero a lungo, disperatamente e caddero quasi tutti uccisi sul campo.
Siface ed Asdrubale, grazie all'eroica resistenza dei mercenari spagnoli, riuscirono a salvarsi fuggendo con parte delle loro truppe.

BATTAGLIA DI CIRTA

La sconfitta dei Campi Magni fu un gravissimo colpo per Cartagine. Le città del suo dominio costiero - eccettuate alcune, fra le quali Utica che continuava a resistere - aprivano impaurite le porte al vincitore o erano espugnate. Già l'esercito romano si era spinto a quindici miglia da Cartagine occupando Tunisi e di là minacciava la capitale. La situazione in cui la repubblica africana si trovava, era una delle più critiche. Molti dei più influenti cittadini consigliarono di venire a patti con il nemico, ma la maggioranza degli uomini che erano al potere si opposero. Non tutto era perduto; Siface disponeva ancora di molte truppe e non avrebbe posto termine alla guerra; Annibale poteva essere richiamato e rialzare le sorti della sua patria insieme con il fratello Magone; infine la flotta cartaginese era numerosa e poteva distruggere le navi di Scipione ed isolarlo da Roma.
Nella flotta e in Siface furono riposte le maggiori speranze di Cartagine, ma le navi africane, sebbene numerosissime, riuscirono a catturare solo una quindicina di navigli romani.
SIFACE intanto, fuggendo, si era rifugiato entro i confini del suo regno e forse avrebbe tentato di avviare trattative di pace con Scipione se non lo avessero distolto Asdrubale e Sofonisba. Quest'ultima, specialmente, mettendo in opera tutte le sue arti femminili, convinse il marito che era pericoloso abbandonare la guerra, perché i Romani non potevano aver dimenticato che lui aveva rotto l'alleanza e Massinissa non avrebbe permesso che l'odiato rivale rimanesse sul trono.
Facilmente persuaso di ritentar le sorti delle armi, Siface, chiamati tutti gli uomini validi del suo regno, radunò ben presto un numeroso esercito e mosse contro Lello e Massinissa i quali erano penetrati nel suo territorio.
Anche questa volta però la fortuna fu contraria al re di Numidia; motivo: sebbene pur più numerose, le sue truppe non erano agguerrite come le romane ed erano adatte più alla guerriglia ed alle scorrerie che ad una battaglia campale.

A poche miglia da Cirta, capitale del regno numidico, l'esercito di Siface si scontrò con le schiere guidate da Massinissa e da Lelio. Il combattimento fu breve e non riuscì difficile ai Romani di mettere in rotta gli Africani, che, abbandonate le armi, si diedero alla fuga. Siface, mentre si sforzava di far tornare i suoi alla battaglia, ebbe ferito il cavallo e, caduto al suolo, fu fatto prigioniero.
Cinquemila furono i morti dell'esercito di Numidia e meno di tremila i prigionieri. I superstiti, sbigottiti per la cattura del re, si rifugiarono a Cirta.

LA BELLA SOFONISBA

La città, chiuse le porte e organizzate delle guardie alle mura, si preparava alla difesa quando giunse Massinissa con parte dell'esercito vittorioso.
Chiamati i principali cittadini a parlamento fuori le mura, Massinissa li esortò a cedere la terra, ma poiché si rifiutavano non sapendo che il loro re fosse caduto in mano del nemico, né volevano crederci, fu davanti a loro condotto SIFACE avvinto da pesanti catene. Alla vista del loro sovrano legato, ogni proposito di resistenza fu abbandonato e le porte furono aperte.
Massinissa, fatte occupare dai suoi uomini le porte e le mura di Cirta, penetrò a cavallo nella città e corse al palazzo reale.
Era appena smontato di sella e stava per metter piede sulla soglia della reggia quando gli apparve una donna, bellissima di viso e di forme, cestita con abiti regali: SOFONISBA.
La regina, veduto Massinissa e dal portamento e dalle vesti riconosciuto in lui il capo dell'esercito vincitore, gli s'inginocchiò davanti e piangendo gli disse
"Gli dèi immortali ti hanno concesso la sorte d'essere arbitro della nostra vita e dei nostri beni; ma se è permesso ad una prigioniera di rivolgere la supplica al vincitore, se le è lecito abbracciargli le ginocchia ed umilmente toccargli la destra, io ti chiedo e scongiuro, in nome della terra nella quale io e tu abbiamo avuto i natali, che non mi consegni nelle mani dei crudeli Romani. Preferisco esser la schiava di un uomo della mia medesima nazione che la serva di uno dei nemici odiati della mia patria. E se tu non puoi salvarmi da tanta vergogna, sii almeno pietoso verso di me, togli pure la vita alla figlia di Asdrubale".

Vinto dalla bellezza più che dalle lacrime della regina, MASSINISSA le promise di non consegnarla ai Romani, ma ben presto si accorse di aver fatto una promessa che non avrebbe facilmente potuto mantenere. Sofonisba, per diritto di guerra, apparteneva ai Romani. Sofonisba però era giovane e bella; la sua voce era dolce ed armoniosa e il suo sguardo pieno di fascino. Massinissa fin dal primo momento che l'aveva vista e sentita parlare, si era perdutamente innamorato.

Accecato dall'ardente passione e deciso di salvarla ad ogni costo dalla prigionia, giunse nella determinazione di sposarla. Scipione non avrebbe fatto un affronto all'amico trascinando a Roma come schiava sua moglie.
Il giorno medesimo della resa di Cirta si celebrarono le nozze.

Giunto poco dopo, a stento Massinissa ottenne che Sofonisba non fosse mandata a Scipione con il marito Siface prigioniero. Questi, giunto al campo romano, fu condotto da Scipione e al generale che gli rimproverava la fede rotta, sostenne che responsabile di tutte le sue disgrazie era stata la moglie, quella perfidia figlia di Asdrubale, la quale, dopo averlo stregato con la sua fatale bellezza, lo aveva spinto a tradire l'amicizia con Roma, e a prendere le armi in favore di Cartagine. E disse inoltre che Sofonisba come aveva rovinato lui così sarebbe stata cagione della rovina di Massinissa.
Le parole di Siface preoccuparono Scipione, il quale, chiamato Massinissa, dolcemente lo rimproverò dell'inconsulto matrimonio e gli ordinò di consegnargli la donna.

Combattuto dalla voce imperiosa del dovere e dalla promessa che aveva fatta alla regina, Massinissa inviò alla moglie, per mezzo di un fedele servitore, un potente veleno affinché con questo potesse sottrarsi alla schiavitù.
Al servo che le porgeva la coppa è fama che Sofonisba dicesse: "Poiché il marito nessuna cosa migliore ha potuto inviare alla moglie, volentieri ricevo questo dono nuziale. E tu riferisci al tuo padrone che non della morte mi dolgo, ma di esser venuta meno, sposandolo, al giuramento fatto di odiare per sempre i Romani".
Pronunciate queste fiere parole, la coraggiosa figlia di Asdrubale bevve fino all'ultimo goccia il veleno.

MORTE DI MAGONE - ANNIBALE LASCIA L'ITALIA

202 a.C., Sconfitto Asdrubale e preso prigioniero Siface - che, inviato prima a Roma era stato poi confinato ad Alba, nella regione degli Equi - a Cartagine non rimaneva che una speranza di salvezza: il ritorno di MAGONE ed ANNIBALE. Era necessario però impedire ad ogni costo che Scipione si impadronisse della città prima che i due cartaginesi giungessero in patria.
Sapendo di non aver forze sufficienti per resistere ad un assalto dell'esercito romano, il Senato inviò a Scipione trenta ambasciatori, che chiesero la pace.
Il generale romano impose le seguenti condizioni: consegna dei prigionieri, ritiro degli eserciti cartaginesi dalla Gallia e dall'Italia, rinuncia alla Spagna ed alle isole poste tra l'Italia e l'Africa, consegna di tutta la flotta eccettuate venti navi, pagamento di cinquemila talenti, cinquecentomila moggi di grano e trecentomila d'orzo.
Cartagine finse d'accettare le condizioni dettate da Scipione e, firmata una tregua, mandò ambasciatori a Roma per concludere la pace. Nello stesso tempo però spedì messi ad Annibale e a Magone, scongiurandoli di tornare in patria con i loro eserciti.
Quando gli ambasciatori approdarono in Liguria, Magone, gravemente ferito, tornava dall'Insubria dove le sue truppe erano state duramente sconfitte dalle legioni del proconsole MARCO CORNELIO e del pretore PUBLIO QUINTILIO VARO.
A MAGONE, date le sue condizioni di salute, non dispiaceva lasciare l'Italia; imbarcatosi con i resti del suo esercito, fece prontamente vela per l'Africa, ma non riuscì a rivedere la sua patria perché, presso le coste della Sardegna, morì; molte delle sue navi, sorprese dalla flotta romana che incrociava in quelle acque, furono catturate.
Annibale si trovava a Cotrone quando giunsero a lui gli ambasciatori di Cartagine pregandolo che ritornare in Africa. Non senza dolore il grande generale aderì all'invito della patria. Da sedici anni egli era in Italia; aveva vinto parecchie volte gli eserciti nemici, aveva espugnato molte città, aveva corsa in tutti i sensi la penisola, e si era spinto quasi fin sotto le mura di Roma. Ora gli toccava di rinunziare, e certo per sempre, al suo sogno, alla conquista d'Italia, alla presa dell'odiata Roma e partire come un fuggiasco, precipitosamente, per difendere la patria minacciata.

La notizia della partenza di Annibale recò un giubilo immenso a Roma. Furono rese pubbliche grazie per più giorni agli dèi e al novantenne QUINTO FABIO MASSIMO fu solennemente data la corona d'alloro. Il venerando capitano, che con la sua saggezza aveva salvato la repubblica, non ebbe però la gioia di vedere Cartagine prostrata; infatti, morì in quello stesso anno prima della decisiva battaglia sui campi di Zama.

Annibale lasciò l'Italia nell'autunno del 202 a.C..Il suo esercito si era ridotto a poche migliaia di uomini e poche erano le navi di cui egli disponeva. Fu scritto che il Cartaginese, non sapendo come condurli in Africa per mancanza di mezzi di trasporto, fu costretto ad uccidere quattromila cavalli.
Dopo aver navigato senza incidenti, Annibale approdò a Lepti, città posta a sud-est del golfo di Cartagine, poi si recò a Adrumeto.
Qui ricevette da Asdrubale di Gisgone alcune schiere di mercenari e gli avanzi dell'esercito del fratello Magone, poi andò in Numidia. Scopo di Annibale era di rifornirsi di cavalli e di accrescere il numero delle sue soldatesche prima di cimentarsi con Scipione. Penetrato nel territorio numidico, Annibale ricevette gli scarsi aiuti di cui il figlio dello spodestato Siface, Vermina, poteva disporre, e con lui riconquistò parte della Numidia.

Il Cartaginese avrebbe forse esteso maggiormente le sue conquiste e reclutato un numero più considerevole di soldatesche se PUBLIO CORNELIO SCIPIONE gliene avesse lasciato il tempo; ma il generale romano, rotta la tregua con Cartagine, si affrettò a marciare contro il nemico e lo raggiunse a Zama presso la città di Noraggara sul fiume Bagrada, dove doveva essere combattuta la battaglia decisiva della seconda guerra punica.

BATTAGLIA DI ZAMA

Narrano gli storici che, prima di affrontare le sorti delle armi, Annibale tentò di giungere ad un accordo con Scipione.
Se il colloquio tra i due famosi generali non è un'invenzione si deve credere che esso fu chiesto da Annibale per dimostrare a quella corrente cartaginese sostenitrice della pace che si era cercato di concludere pacificamente la lunga guerra.
Secondo la tradizione Annibale si dichiarò pronto ad accettare le condizioni che Scipione aveva imposte a Cartagine, ma, avendo questi chiesto la restituzione di alcune navi cadute in potere dei cartaginesi durante la tregua, ed un'indennità per offese recate ad alcuni ambasciatori romani, quegli oppose un rifiuto e si lasciò che le sorti della guerra fossero decise dalle armi.

La battaglia fu combattuta il 19 ottobre del 202 a.C.
Pari erano le forze, disponendo ciascuno dei sue eserciti di circa cinquantamila uomini.
SCIPIONE aveva il vantaggio di possedere una cavalleria più numerosa e truppe di una medesima nazione che avevano le stesse armi e gli stessi metodi di combattimento ed erano imbaldanzite dalle recenti vittorie.
ANNIBALE era superiore per il numero delle sue fanterie; ma era questa una superiorità che non poteva avere gran peso nella battaglia essendo le sue truppe di varie lingue e nazionalità, Cartaginesi, Numidi, Balearici, Bruzi, Liguri, Galli e perfino Macedoni, che Filippo gli aveva inviati, mercenari la più parte, non animati da nessun amor di patria e non cementati da un'unica e salda disciplina. Molto inferiore per numero era la sua cavalleria, quella cavalleria che gli aveva fatto vincere tutte le battaglie. Egli contava sull'arrivo dei cavalieri di Vermina, ma quando questi giunsero la battaglia era finita e l'esercito del figlio di Siface, circondato, lasciò sul campo quindicimila fanti e millecinquecento cavalli. In compenso Annibale aveva ottanta elefanti e su questi egli faceva grande assegnamento, ma furono proprio gli elefanti quelli che diedero principio alla sua disfatta.

SCIPIONE quel giorno schierò il suo esercito su tre linee; nella prima pose gli astati, nella secondo i principi e nella terza i triari, ma volle che tra un manipolo e l'altro corresse una certa distanza affinché gli elefanti del nemico riuscissero a passare tra gli spazi vuoti senza disordinare le schiere.
La cavalleria italica comandata da LELIO fu posta all'ala sinistra e la numidica al comando di Massinissa alla destra.
Davanti alle insegne furono schierati i veliti con l'ordine di aprirsi all'irrompere degli elefanti e di attaccarli ai fianchi.
ANNIBALE mise in testa del suo schieramento gli elefanti che dovevano costituire la massa di sfondamento, poi, come prima linea di armati, i mercenari della Gallia e della Liguria mescolati con i Mauri e con i Balearici. In seconda linea pose il gruppo delle sue truppe composto di milizie cartaginesi e della legione macedone, e nella terza i soldati d'Italia della cui fedeltà poco si fidava. La cavalleria cartaginese fu posta alla destra, la numidica alla sinistra.
I Romani iniziarono la battaglia al suono delle trombe e levando altissime grida, che spaventarono, -come ci racconta TITO LIVIO- gli elefanti, i quali, voltate le spalle, misero lo scompiglio nell'ala sinistra di Annibale. Di questo fatto approfittò Massinissa che, con una decisa carica vigorosa dei suoi cavalieri, finì di sbaragliare la cavalleria numidica.
Pochi elefanti, non impauriti, penetrarono tra i veliti, ma assaliti di fronte dalle fanterie romane e di fianco dagli armati alla leggiera, furono costretti a dardi volta, scompigliando, nella fuga, la cavalleria cartaginese dell'ala destra, che, al pari della sinistra, fu caricata da Lelio e sbaragliata.

Era stato sguarnito ai due lati della cavalleria l'esercito cartaginese, quando le fanterie di Annibale entrarono nella battaglia; ma i mercenari della prima linea non sostennero a lungo l'urto degli astati romani e, ripiegando, cercarono riparo tra le schiere della seconda. I Cartaginesi e i Macedoni però li sospinsero avanti e ai lati ed entrarono nel combattimento dando grande affanno agli astati già stanchi, che Scipione subito sostituì con i principi e i triari.
Era in grande attività la mischia delle opposte fanterie quando la cavalleria di Lelio e di Massinissa, tornando dall'inseguimento, assalì alle spalle i fanti di Annibale e decise le sorti della battaglia in favore dell'esercito di Scipione.
Delle truppe di Cartagine più di ventimila uomini furono uccisi ed altrettanti fatti prigionieri. Centotrentatre insegne furono conquistate ed undici elefanti catturati dai Romani perirono diecimila soldati.
Annibale con un manipolo di cavalieri, vista perduta la battaglia, fuggì a Adrumeto, si recò poi a Cartagine e consigliò il Senato a concludere la pace.

FINE DELLA SECONDA GUERRA PUNICA E TRIONFO DI SCIPIONE

Le condizioni imposte da PUBLIO CORNELIO SCIPIONE furono le seguenti: Cartagine doveva restituire tutti i prigionieri e i disertori, doveva consegnare tutti gli elefanti ed obbligarsi a non domarne altri, cedere tutte le navi eccettuate le triremi, rendere a Massinissa tutti i dominii appartenenti a suo padre, pagare ratealmente entro cinquant'anni diecimila talenti d'argento, dar le paghe e fornire le vettovaglie per tre mesi all'esercito romano, impegnarsi a non muover guerra ad alcuno né in Africa né fuori senza il consenso di Roma, restituire le navi romane catturate durante la tregua e sborsare in compenso del carico asportato venticinquemila libbre d'argento;infine dare cento ostaggi scelti da Scipione come pegno di fede.
Dicono alcuni che il vincitore mise fra le condizioni la consegna di Annibale, ma questi, per non cadere nelle mani dei Romani, con una nave era già fuggito in Asia presso il re Antioco. Più avanti vedremo quali furono le vicende di Annibale.

Le condizioni erano dure, ma Cartagine era alla mercé di Scipione e dovette accettarle.
Invece a Roma per opera del console CORNELIO CETEGO, che allora era stato assunto in carica, e che desiderava di porre fine lui alla guerra con una facile vittoria sulla ormai sconfitta Cartagine, affinché la pace fosse ratificata, si dovette ricorrere al giudizio delle tribù.
Queste pronunciarono un plebiscito (che dai proponenti ACILIO GLABRIONE e MINUCIO TERMO tribuni prese il nome di "lex Acilia Minucia"; era stabilito che soltanto Scipione dovesse firmare la pace con il nemico e ricondurre in Italia l'esercito vittorioso.
All'inizio dell anno 201, dieci senatori romani furono inviati in Africa e da loro ratificata la pace, poi furono incendiate circa cinquecento navi cartaginesi ed esemplarmente puniti i disertori italici e romani, i primi con la decapitazione, con la crocifissione gli altri.
Così, dopo quarant'anni dalla prima, ebbe fine la seconda guerra punica, la quale, iniziatasi sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione e di Tito Sempronio, concludendosi dopo diciassette anni, dava a Roma l'imperio assoluto dell'Occidente e le apriva le porte del dominio del mondo.
Ma a qual prezzo era stata ottenuta la vittoria!
Quattrocento tra paesi e città, distrutti, le campagne della penisola saccheggiate, incendiate e per tre lustri in gran parte rimaste incolto; le popolazioni dissanguate dalle rapine degli eserciti nemici e dai contributi di guerra e di vittime; oltre trecentomila uomini, tra Romani ed Italici, perirono nei campi di battaglia.

Conclusa la pace vittoriosa, Publio Cornelio Scipione lasciò l'Africa, e passò in Sicilia. Giunto a Lilibeo (Marsala) fece proseguire via mare gran parte dell'esercito con destinazione Ostia, mentre lui via terra raggiunse Roma con il rimanente delle truppe via terra, prima attraverso la Sicilia poi dell'Itala meridionale. Il suo viaggio, da Lilibeo a Roma, fu una marcia trionfale; gli abitanti dei borghi e delle città accorrevano sulle vie ad applaudire il vincitore di Zama e l'entusiasmo suscitato dal suo passaggio faceva dimenticare tutti i sacrifici fatti e i danni sofferti.
Il trionfo che Roma gli tributò fu degno dell'uomo che aveva conquistato la Spagna, fiaccata la potenza di Cartagine e vinto in battaglia il più grande generale dell'antichità.
Il Senato ordinò che in Campidoglio fosse posta la statua del vincitore di Annibale e in memoria delle sue imprese gloriose fu a lui dato il soprannome di "Africano".

Nel 201 terminava la seconda guerra punica con una vittoria netta;
ma nel frattempo cosa era accaduto nella Gallia Cisalpina?
Che era stata quasi tutta persa, e di guerra -fuori dall'Italia- ne iniziava un'altra: quella Macedonica.

Nel prossimo capitolo ci aspettano i successivi cinque anni…

il periodo dall'anno 200 al 195 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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