GUERRA TARANTINA - PIRRO - LE BATTAGLIE - ROMA UNIFICA

TURIO ASSEDIATA DAI LUCANI, E' LIBERATA DAI ROMANI - LA FLOTTA ROMANA NELLE ACQUE DI TARANTO ASSALITA - POSTUMIO, AMBASCIATORE, OLTRAGGIATO DAI TARANTINI - EMILIO BARBULA CONTRO TARANTO - PIRRO, RE DELL'EPIRO, IN ITALIA - BATTAGLIA DI ERACLEA - PIRRO MARCIA VERSO ROMA - RITORNO DI PIRRO A TARANTO - PIRRO E FABRIZIO - CINEA A ROMA - APPIO CLAUDIO "CIECO" - BATTAGLIA DI ASCOLI - FABRIZIO E IL MEDICO DI PIRRO - PIRRO IN SICILIA - VITTORIE E CONQUISTE ROMANE NELL' ITALIA MERIDIONALE - RITORNO DI PIRRO IN ITALIA - BATTAGLIA DI MALEVENTO - PIRRO LASCIA L' ITALIA; SUA MORTE - CADUTA DI TARANTO - LA MAGNA GRECIA SOTTO IL DOMINIO DI ROMA - ORDINAMENTO POLITICO D'ITALIA
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Pirro re dell'Epiro

ORIGINE DELLA GUERRA TRA ROMA E TARANTO

Ritorniamo per un attimo, a ciò che accadeva pochi mesi prima dell'intervento dei Romani in Meridione (e che abbiamo narrato nelle pagine del precedente capitolo).

Turio (o Turi - l'odierna Bari) la città fondata dai superstiti abitanti di Sibari mezzo secolo circa dopo la distruzione di questa città da parte di Crotone era l'unica colonia greca nella zona rimasta in mano ad un governo aristocratico. Fu assediata da un esercito lucano capitanato da STATILIO. A quel punto, Turio non vide altra salvezza che chiedere aiuto a Roma, la tenace sostenitrice di tutte le aristocrazie dell'Italia centrale e meridionale.
Roma non aspettava altro che una richiesta d'aiuto da una popolazione meridionale per scendere a sud della penisola; e agli ambasciatori giunti a Roma, l'aiuto fu subito concesso.

Il console CAJO FABRICIO LUSCINO, con un esercito parte dirigendosi a Turio contro le truppe che assediavano la città greca; le sorti della battaglia furono subito a favore dei Romani; i Lucani furono clamorosamente sconfitti e lo stesso STATILIO che li guidava, cadde prigioniero dei Romani. Era l'anno di Roma 472 - (il 282 a.C.):

A Turio fu lasciato un presidio. Furono le prime milizie di Roma che posero lo sguardo sul Mar Adriatico e subito dopo sullo Jonio, il manipolo di soldati più lontano della repubblica nel mezzogiorno d'Italia; in una città, posta in vicinanza di Taranto, città importante, operosa, e spettatrice non indifferente e piuttosto preoccupata, dei progressi romani verso il sud.

Né del solo presidio di Turio, Roma si accontentò. Quello stesso anno, pur avendo fin dal 453 (301 a.C.) concluso con Taranto un trattato con il quale si impegnava di non oltrepassare con le sue navi il promontorio Lacinio (od. (od. Capo delle Colonne), Roma, costretta dalle condizioni precarie in cui si trovava il presidio, forse anche spinta dalla necessità di inviare navi in Adriatico (ricordiamo che aveva da poco (283) fondato a sud del territorio dei Senoni, la colonia Sena Gallica - od. Senigallia) inviò una flotta nelle acque dello Jonio e questa commise l'imprudenza (o volutamente per scatenare le proteste e quindi avere un pretesto) non solo di superare il promontorio, ma di entrare nel porto di Taranto, sfacciatamente violando i patti.

A Taranto era un giorno di festa, e la popolazione assisteva ai giochi nell'anfiteatro che sorgeva vicino e che quindi guardava il mare, quando un demagogo, di nome FILOCARI, viste all'orizzonte le navi romane che si dirigevano al porto, cominciò ad urlare come un forsennato, aizzando il popolo a castigare i violatori del trattato.
Il popolo tarantino che da qualche tempo odiava Roma per le sue mire espansionistiche e per gli aiuti che sempre aveva prestato ai governi aristocratici del sud della penisola, sollevatosi a tumulto, si diresse al porto e assalì le navi che alcune erano già attraccate e altre stavano ancorandosi; uccise l'ammiraglio, catturò la sua nave, ne affondò un'altra, le altre a stento riuscirono a fuggire lasciando a terra molti uomini fatti subito prigionieri.

Non appagati da questo gesto, nell'esaltazione bene strumentalizzata dai demagoghi, i Tarantini marciarono contro la vicina Turio, costrinsero alla resa l'esiguo presidio romano, poi si diedero al saccheggio della città.

Per i Romani tutto questo era un oltraggio -oltre che essere un atto cruento- alla dignità della repubblica e doveva esser vendicato; ma Roma era ancora impegnata nel nord con i Galli e gli Etruschi e voleva avere le mani libere prima di cimentarsi con Taranto, suscitando una guerra che avrebbe certamente messo in armi le colonie greche o richiamate in Italia milizie greche o cartaginesi.

Cercò perciò di guadagnar tempo e mandò un'ambasceria, guidata da POSTUMIO, a chiedere amichevolmente che si restituissero i prigionieri e la nave catturata, che si sgombrasse Turio e di consegnare i responsabili dell'offesa.
Ma gli ambasciatori furono accolti con dileggi, ed avendo Postumio pronunciato delle minacce, furono pure invitati a lasciare subito la città.
Mentre i legati si allontanavano, un tarantino, chiamato FILONIDE, fra le risa di scherno del popolo, imbrattò la toga di Postumio.
È fama che questi, ripulendo la veste, disse sdegnato: "Per lavare questa macchia spargerete una gran quantità di sangue e verserete molte lacrime".

Il Senato romano, davanti alla nuova offesa, usò ancora moderazione, ma nel frattempo al console EMILIO BARBULA, che si trovava nel Sannio, affidò l'incarico di andare a Taranto con le sue legioni a chiedere soddisfazione alle stesse condizioni proposte da Postumio e, se rifiutate, iniziare le ostilità. Era l'anno di Roma 473 (il 281 a.C.).

Taranto oppose un reciso rifiuto alle richieste di Roma e la guerra fu ovviamente dichiarata.
All'inizio non ci furono azioni di grande importanza. BARBULA diverse volte si scontrò con i Tarantini sconfiggendoli, ma non volle sfruttare i successi riportati né spingere la guerra fino in fondo, sperando sempre che Taranto, intimorita, chiedesse la pace.
Ma forse anche Roma gli aveva raccomandato di agire così; era ancora troppo impegnata a tenere a bada i soliti nemici, né voleva contro gli eventuali alleati di Taranto(di cui già c'era qualche notizia) subire una clamorosa sconfitta che avrebbe fatto rialzare la testa ai primi.

PIRRO, RE DELL'EPIRO, IN ITALIA

(altre pagine su Pirro, in "Storia della Grecia" )

Taranto invece, non avendo i problemi che assillavano Roma, si preparava a resistere alla pressione romana e, in quanto ad alleanze, già prima che le ostilità fossero cominciate aveva chiesto soccorsi ad uno dei più celebrati capitani del tempo. Questi era PIRRO, Re dell'Epiro, nipote di Alessandro Magno e discendente - come lui affermava - di Achille.
Si era acquistata fama di abile condottiero, aveva fornito prove magnifiche del suo valore nella battaglia d' Isso, era stato per sette mesi sovrano della Macedonia e, ambizioso anche quanto gli altri, sognava di conquistarsi un regno con la sua audacia e i suoi talenti militari. Astuto oltre che ardito, si era imparentato con Agatocle, sposandone, come abbiamo detto, la figlia, ed ora che il suocero era morto, guardava alla Sicilia, sulla quale accampava diritti in nome di suo figlio.
PIRRO, come del resto faceva Roma, non aspettava altro che qualcuno gli chiedesse aiuto, e accettò con entusiasmo la richiesta dei Tarantini che gli porgevano l'occasione di tradurre in realtà il suo sogno, e proprio nell'anno 473 (281 a.C. - quando le richieste di Barbulo furono rifiutate) inviò subito in Italia come suo luogotenente, MILONE con tremila Epiroti affinché aiutassero con un presidio la cittadella di Taranto.

L'anno dopo, PIRRO raggiunse le coste della penisola. Aveva con sé un esercito di ventimila fanti, duemila arcieri, cinquecento frombolieri, tremila cavalieri e venti elefanti, ma durante il viaggio alcune navi e numerosi soldati fecero naufragio.
Lui credeva di trovare in Italia un poderoso esercito promesso dalle città greche ed invece non solo non vi trovò neppure una schiera, ma gli stessi Tarantini si mostrarono meravigliati quando Pirro disse loro che l'esercito condotto dall'Epiro non era sufficiente ed occorreva arruolare delle truppe mercenarie.
E siccome questa idea non era per nulla gradita a Taranto, che si vedeva costretta a sborsare dell'altro denaro e a mandare sotto le armi i propri cittadini, Pirro ricorse alla violenza; obbligò i Tarantini validi ad arruolarsi, acquartierò i soldati nelle case, proibì le adunanze pubbliche, fece chiudere il teatro, i bagni, il ginnasio e fece custodire le porte della città. Trattò insomma Taranto non come una città alleata, ma come una città conquistata e mostrò chiaramente di esser venuto non come capo di un esercito mercenario a servizio di una repubblica di mercanti, ma come un re che voleva insignorirsi dell'Italia e della Sicilia.
Non era questa un'impressione dei tarantini, che ci misero poco a capirlo; perché del resto Pirro a questo mirava in modo palese.

BATTAGLIA DI ERACLEA (280 a.C.)

L'arrivo di PIRRO in Italia, gli ambiziosi disegni di cui lui non faceva mistero, la fama di guerriero audace e di abile capitano, gli elefanti che aveva con sé condotti, che nella penisola nessuno fino allora aveva mai visto, preoccuparono non poco Roma, consapevole della gravità della guerra che doveva sostenere.
Temendo che la presenza del re dell'Epiro provocasse ribellioni nelle città sottomesse o tradimento in quelle alleate, Roma inviò forti guarnigioni nelle città di incerta fede e obbligò altre a consegnare ostaggi. Fra queste ultime ci fu Preneste che fu costretta a dare a Roma i suoi magistrati.
Né meno energici furono i preparativi di guerra. Fu messa un'imposta straordinaria di guerra e si chiamarono sotto le insegne tutti i cittadini idonei alle armi, compresi i proletari. Con tutte le forze raccolte furono formati quattro eserciti dei quali uno -temendo delle rivolte- doveva restare a Roma --si disse- come riserva, ma in effetti, era stata messa a guardia della capitale e in pieno assetto di guerra, pronto a intervenire.

Il secondo esercito, comandato da T. CORUNCANIO, doveva essere inviato in Etruria per tenere a bada quelle popolazioni, il terzo, al comando del proconsole EMILIO BARBULA, doveva recarsi nel Sannio, di cui i Romani, nonostante la pace, poco si fidavano, e il quarto, capitanato dal console P. VALERIO LEVINO, aveva il compito più difficile: quello di marciare contro Pirro.
Questi si era accampato sulle rive del Liri e non dimostrava di aver fretta di dare inizio a una battaglia, poiché aspettava rinforzi. Tuttavia la posizione che si era scelta era ottima: tra Pandosia ed Eraclea e il fiume, protetto quindi da un improvviso attacco del nemico; inoltre se i Romani avessero tentato di passare il fiume avrebbe potuto arrecar loro gravissimi danni.

Il console LEVINO, si rese subito conto quante difficoltà presentasse il guado delle sue legioni sotto la molestia del nemico e cercò di ovviare a quest'inconveniente. Fece passare per prima la cavalleria in una località abbastanza lontana dal campo avversario e ordinò di assalire ai fianchi l'esercito di Pirro per tenerlo impegnato quel tanto per dar dare tempo alle fanterie di guadare il fiume.

Gli ordini del console furono eseguiti con precisione e l'esercito riuscì senza alcuna difficoltà ad effettuare il passaggio, mentre la cavalleria romana assaliva e teneva impegnato il nemico.
Prese le posizioni, l'urto dei due eserciti e la battaglia ben presto fu generale. Nonostante fosse mercenario e formato di soldati di diverse nazionalità, l'esercito di Pirro era una compagine salda, composta di veterani di molte battaglie, che si mostrarono ben degni di stare di fronte ai Romani.
Fu una giornata durissima, con una vittoria sempre incerta; il terreno ceduto da una parte era subito dopo con accanimento riconquistato dall'altra, lasciandolo ognuno ingombro di morti e di feriti.
Ma a poco a poco il combattimento cominciò a delinearsi a favore dei Romani, soprattutto non per le armi ma per lo sgomento degli avversari; ciò avvenne quando la cavalleria di Levino avuto il sopravvento su quella tessalica, cadde un capitano dell'esercito greco, MEGACLE; ma siccome costui indossava un'armatura simile a quella di Pirro, si sparse la voce che questi era stato ucciso.
La notizia diffusasi a entrambi i due esercito, diede maggior forza ai legionari ma portò allo sgomento le falangi greche, le quali iniziarono a vacillare, alcune a cedere; a quel punto Pirro intuì la gravissima crisi morale in cui si trovava l'esercito, e per smentire la falsa notizia che si era diffusa, a capo scoperto per farsi riconoscere, fu costretto a percorrere tutto il campo di battaglia, incitando le truppe a riprendere con accanimento la battaglia.

E fu a questo punto, che Pirro per infondere coraggio ai suoi e per ottenere l'effetto opposto ai nemici romani, improvvisamente diede il segnale di buttare nella mischia della battaglia gli elefanti.

L'aria del campo di battaglia iniziò a risuonare di loro feroci barriti che coprivano ogni altro rumore; sull'alta groppa di questi animali vi erano torri con dentro arcieri, e mentre gli elefanti avanzavano travolgendo gli impietriti romani, quelli saettano nugoli di frecce.

La comparsa degli elefanti, atterrì i legionari romani che mai prima di allora avevano visto così imponenti e terribili animali. Ci fu lo scompiglio nella cavalleria, con i cavalli imbizzarriti, che fuggendo all'indietro causarono oltre che la confusione il terrore nelle schiere dei fanti, trascinando così pure loro ad una fuga isterica e disordinata, e incalzati poi dalla cavalleria tessalica, questa, inizia a farne un macello. Pochi minuti ancora e il disastro delle truppe consolari fu completo.

Ecco il doloroso bilancio della battaglia: dei Romani, morti settemila, prigionieri duemila, feriti quindicimila; dei Greci, morti quattromila e un gran numero di feriti.

Le gravi perdite subite dai Romani non furono dovute alla novità degli elefanti, ma ci fu quel giorno a Eraclea un'altra cosa nuova nelle file del nemico (di importanza fondamentale nella storia dell'arte militare). Ci fu il primo scontro diretto tra falange macedone (adottata dagli Epiroti) e legione romana.
La tecnica piuttosto recente -attribuita a Filippo II di Macedonia- era di disporre in schiere serrate un contingente di fanteria, il che permetteva la formazione di un vero muro compatto, offensivo e difensivo, di cui elemento fondamentale era lo scudo. Fu uno dei principali strumenti della strategia macedone, con Filippo II e suo figlio Alessandro Magno.

PIRRO E FABRIZIO

La vittoria a Eraclea ha premiato Pirro, ma è una vittoria pagata a carissimo prezzo; eppure il re dell'Epiro è quasi convinto che il suo sogno inizia felicemente a tradursi in realtà.

I Romani dopo la terribile disfatta, hanno sgombrato la Lucania e si sono portati nella Campania e nell'Apulia, e Pirro - che conosce la situazione in Italia, ma non abbastanza, non è aggiornato- nella speranza di ribellare i Latini, invia emissari nelle loro città invitandoli ad unirsi a lui.
Ma, con sorpresa, da tutte riceve rifiuti e solo allora Pirro si accorge di avere a che fare con una potentissima nazione e che gli darà del filo da torcere.
Un'altra speranza però lo sorregge: l'Etruria è in guerra con Roma e l'annuncio della clamorosa sconfitta di Eraclea darà agli Etruschi forza e coraggio e avrà per conseguenza l'intensificazione delle operazioni alle frontiere settentrionali dello stato romano.
Con questa speranza Pirro muove il campo e marcia verso Roma conquistando facilmente Fregelle, Anagni e Preneste, ma, giunto in questa città, un'improvvisa e sgradevole notizia gli toglie molta fiducia: l'Etruria ha concluso la pace con Roma e l'esercito di T. CORUNCANIO marcia verso il sud.
Né questa è la sola notizia spiacevole: la repubblica compie sforzi giganteschi e prepara altri eserciti che presto entreranno in azione.
Lo sconforto si sostituisce alla speranza ed alla fiducia. Quantunque vittorioso, Pirro sa di essere in un paese nemico, di fronte ad un popolo fiero, militarmente forte, risoluto a battersi fino all'ultimo. Non crede opportuno di rimanere lontano dalla sua base e si ritira a Taranto, dove qui passa l'inverno 474-475 (280-279 a.C.)

Durante questa sosta, giunse a Taranto un'ambasceria, inviata dal Senato per chiedere il riscatto dei prigionieri. A capo di questa vi era il prode CAJO FABRIZIO LUSCINO e Pirro, sapendo quanto quest'uomo fosse influente in Roma, pensò di farselo amico e quindi a persuadere il Senato a chieder la pace.
Lo ricevette e lo ospitò pertanto con gran pompa e lo invitò ad un lauto banchetto, poi, rimasto solo con l'ambasciatore, gli offrì ricchissimi doni e gli promise ingenti somme ed onori se avrebbe esortato i Senatori alla pace.
Ma Fabrizio non si lasciò corrompere dall'oro né dalle promesse.
"Offri il tuo oro agli schiavi, i quali non hanno amor di patria" - rispose al re.

Non potendo Pirro vincere Fabrizio con l'oro cercò di vincerlo con il terrore. Il giorno dopo l'ambasciatore romano si trovava nella tenda del re e conversava con lui quando, improvvisamente, un gigantesco elefante apparve sulla soglia, ed emettendo un terribile barrito, alzò minaccioso la proboscide sul capo di Cajo Fabrizio.
Anche lui non li aveva mai visti i terribili elefanti, ma rimase impassibile e, rivoltosi a Pirro, gli disse:
"Tu oggi mi vedi quale io ero ieri; e come ieri non mi vinse la potenza del tuo oro così oggi non mi atterrisce la minacciosa presenza del tuo bestione".

Vedendo che né con le lusinghe né con la paura gli riusciva di piegar l'animo di Fabrizio, Pirro concesse che i prigionieri della battaglia di Eraclea tornassero a Roma a patto però che se, entro un termine stabilito, il Senato non avesse concluso la pace, sarebbero ritornati a lui.
Con quest'espediente di fare il generoso, Pirro sperava di accattivarsi l'opinione pubblica romana, e che questa spingesse a fare trattative di pace. Ma il Senato rimase fermo nel proposito di continuare la guerra e, scaduto il termine fissato dal re dell'Epiro, pur essendo una decisione affliggente, tenendo fede al patto, gli rimandò indietro i prigionieri.

Pirro non abbandonò la speranza di riuscire nel suo intento e spedì a Roma CINEA, un tessalo di origine, suo segretario, uomo astutissimo ed eloquente. Questi, giunto a Roma, prima di fare tentativi presso il Senato, visitò le case dei più influenti cittadini e si profuse in regali alle loro donne; recatosi poi al Senato, pronunciò un discorso abilissimo, in cui, dopo aver lodato le virtù militari e civili dei Romani, rinnovò le proposte del suo re.
Pirro chiedeva che non si attentasse alla libertà delle colonie greche dell'Italia meridionale e che fossero restituiti ai Sanniti, ai Lucani, ai Bruzii, ai Dauni ed agli Apuli i territori che erano stati a loro strappati, comprese Venusia e Luceria.
Erano condizioni impossibili. Accettandole, Roma avrebbe rinunziato al sogno di unificare la penisola sotto il proprio dominio, avrebbe frustrato tanti anni di lotte sanguinose, avrebbe cancellato circa un secolo della sua storia.

Tuttavia i Senatori rimasero dubbiosi, altri critici nell'agire in un modo o nell'altro. L'eloquenza di Cinea e, più di questa forse, i doni prodigati in precedenza, stavano forse producendo il loro effetto.
Ma a togliere ogni indecisione, ricomparve sulla scena APPIO CLAUDIO, il cieco, uomo carico di anni, pieno di autorità e rispettato da tutti. Il suo passato leggendario non era solo leggenda, ma faceva ormai parte della storia di Roma. Sempre parte di rilievo nei conflitti contro etruschi, sanniti, sabini. Poi c'erano a ricordarlo le sue opere, il primo acquedotto romano, la via Appia, teatri, basiliche, palazzi; e, pur essendo patrizio, lui a dare l'accesso al senato ai cittadini di bassa estrazione e ai figli dei liberti.
Oltre le vittorie militari, una volta era stato censore e due volte console, ingraziandosi la parte più povera della plebe.

Entrato nella Curia, Appio Claudio rivolse parole roventi ai Senatori, vedendoli disposti a discutere le proposte del nemico, rimproverò duramente la loro viltà, ricordò il valore delle legioni e le passate, gloriose imprese di Roma e così caldo fu il suo discorso che il Senato, uscito dall'indecisione che tanto fatale poteva riuscire alla repubblica, rispose che non intendeva discutere nessuna proposta di pace se prima, Pirro, con il suo esercito, non si fosse allontanato dall'Italia.

ATTAGLIA DI ASCOLI (o di APULIA) (279 a.C.)

Ricominciarono le ostilità e Roma e Pirro intensificarono i loro sforzi per porre fine alla guerra con una grande vittoria decisiva.
Pirro aveva triplicato il suo esercito. Delle truppe condotte dall'Epiro non gli rimanevano che circa quindicimila soldati, ma oltre cinquantamila uomini aveva potuto reclutare fra le colonie greche, tra i Lucani, i Bruzii ed i Sanniti ed ai tremila cavalieri di Tessaglia aveva aggiunti cinquemila cavalieri raccolti in Italia. I suoi fanti sommavano a quasi settantamila e ad ottomila i cavalieri. Diciannove erano gli elefanti.

Non meno potenti erano le forze romane. La città aveva risposto generosamente all'appello della patria, offrendo ventimila uomini; mentre gli alleati, Umbri, Arpani, Marrucini, Peligni, Frentani, Latini, Volsci, Sabini, Campani, avevano fornito oltre cinquantamila soldati. Questo rilevante numero di armati e il rifiuto opposto a Pirro di ribellarsi dimostrano come Roma in poco tempo avesse saputo imporsi ai suoi alleati e farsi rispettare e preferire agli stranieri.
Pari di forze alla nemica era la cavalleria romana, e né l'uno e né l'altro esercito poteva vantare la superiorità numerica. Ma senza dubbio più omogeneo e meglio addestrato da tante guerre era il romano, il quale aveva inoltre il vantaggio della snellezza della formazione essendo le sue legioni divise in manipoli.

Quello di Pirro invece, era in massima parte formato di gente raccogliticcia e il suo vero nerbo era costituito dalle truppe d'oltremare, ma la disposizione in lunga e rigida falange toglieva all'esercito elasticità di movimenti e se lo rendeva saldissimo nella difesa non ne faceva uno strumento ottimo per l'offesa.
Pirro, che conosceva le deficienze delle sue truppe, aveva stabilito di alternare con le sue falangi i soldati raccolti in Italia e di formare il centro con i suoi Epiroti. Ma era sugli elefanti che lui contava di più, su quegli elefanti che, salvandolo dalla sconfitta, gli avevano procurato la vittoria ad Eraclea.

I Romani però avevano prese delle misure valide a neutralizzare l'azione degli elefanti ed avevano, per opporli a loro, appositamente costruito dei carri armati con delle sbarre mobili che sostenevano all'estremità dei bracieri, avendo appreso che gli animali si spaventavano alla vista del fuoco.
I due eserciti si scontrarono in Apulia presso Ascoli. Comandavano le truppe romane i consoli PUBLIO SULPICIO e PUBLIO DECIO MURE.
La località dove si svolse la battaglia era boscosa ed accidentata e la cavalleria dell'uno e dell'altro esercito non riuscì ad esprimersi al meglio, ma accanitissimo fu il combattimento delle fanterie. Il console Mure, vedendo i suoi piegare davanti agli elefanti, contro i quali non poterono forse esser messi in azione i carri armati, imitando il padre e il nonno, si offrì in sacrificio per rialzare le sorti dei Romani, ma vu vano e non terminò allo stesso modo.

Non fu tuttavia una sconfitta come quella di Eraclea. I Romani si ritirarono a poca distanza dal campo, oltre il fiume di Ausculum e pronti sempre a contendere il terreno al nemico, ma le perdite subite furono più gravi di quelle del nemico. Seimila legionari rimasero uccisi quelli di Pirro soltanto tremila e cinquecento. Poco mancò che Pirro non lasciasse la vita sul campo essendo stato ferito ad un braccio da un giavellotto.
È fama che Pirro, dopo la giornata di Ascoli, esclamasse: "Ancora una vittoria come questa e tornerò in Epiro senza soldati".

Alcuni storici affermano che queste parole furono da Pirro dopo la battaglia di Eraclea; altri affermano che la battaglia presso Ascoli si combatté con esito incerto e forse hanno ragione questi ultimi perché se Pirro veramente avesse sconfitto i Romani avrebbe continuato le sue operazioni e non avrebbe indugiato a conquistar l'Apulia e il Sannio.
Invece il re dell'Epiro rimase inoperoso ed alla sua inazione - dovuta all'incerto esito della battaglia o ad un successo che per le sue misere proporzioni non poteva chiamarsi vittoria - fece seguito la risoluzione di troncare la guerra, una guerra difficilissima da sostenere e che ora chiaramente mostrava a Pirro come fosse inattuabile il suo sogno di abbattere la potenza romana e crearsi in Italia un vasto e stabile regno.
La tradizione attribuisce questa risoluzione alla virtù di FABRIZIO console ed alla cavalleresca riconoscenza del re dell'Epiro.

Si racconta infatti, che un giorno a Fabrizio si presentò il medico di Pirro e gli propose di avvelenare il suo sovrano, dietro il compenso di una forte somma di denaro.
Fabrizio, sdegnato, rifiutò l'infame offerta del traditore e informò del fatto Pirro, consigliandolo a scegliere meglio per l'avvenire le persone su cui doveva riporre tutta la fiducia. Il re, fu commosso dal generoso e nobile atto del nemico, e restituì -senza riscatto- tutti i prigionieri romani.


PIRRO IN SICILIA (278 a.C.)

Forse nel numero delle leggende dobbiamo mettere anche l'episodio in cui emerge la generosità e magnanimità di Fabrizio, e seppure questo accadde, sarebbe un'ingenuità voler credere che un atto di generosità, sia pur grande, prevalesse sui disegni ambiziosi da lungo tempo vagheggiati da Pirro.
La verità è che Pirro aveva perso la fiducia di vincere e la speranza di conseguire i suoi scopi; forse aveva pure appreso che Cartagine era disposta ad aiutare i Romani e temeva perciò di andare incontro ad una sconfitta.
Roma infatti, aveva chiesto aiuti ai Cartaginesi contro Pirro, e Cartagine, alla quale non erano ignoti i disegni che Pirro aveva fatto contro la potente repubblica Africana - per arrecare un grave colpo al re dell'Epiro che prima o poi sarebbe passato in Sicilia, dove Cartagine era già padrona di Agrigento e della parte occidentale, aveva prontamente inviato nel porto di Ostia una forte flotta con numerose milizie.

Gli aiuti cartaginesi giunsero quando Pirro aveva già segretamente stipulato un trattato con i Romani con i quali si obbligava di lasciare l'Italia a patto però che si lasciasse tranquilla Taranto. Fu per questo motivo che le truppe di Cartagine non furono fatte sbarcare.
Pirro si allontanava dall'Italia spinto da due motivi: l'impossibilità di condurre a termine vittoriosamente la guerra contro Roma e l'occasione che improvvisamente gli si offriva di insignorirsi della Sicilia.
L'Isola era caduta in gran parte in mano dei Cartaginesi, i quali, assediando Siracusa, stavano per diventare padroni di tutta l'isola.
A Pirro aveva chiesto aiuti la nobiltà siracusana, e Pirro aveva accettato.
Lasciate in Italia due guarnigioni, una a Taranto comandata da MILONE, l'altra a Locri sotto il comando di suo figlio Alessandro, Pirro s'imbarcò per la Sicilia.

Sbarcato, gli furono fatte a TAUROMENIO e a Catana accoglienze festose, e i due capi della nobiltà di Siracusa, SOSTRATO e SENONE, si misero sotto il suo comando. Pirro approdava in Sicilia, accolto come un liberatore, e fu per questo motivo che gli riuscì di raccogliere molti uomini per l'esercito, e si trovò in grado di fronteggiare i Cartaginesi. La stessa Agrigento, insorta, cacciò il presidio Cartaginese e inalberò il vessillo della libertà.
Le imprese di Pirro, fin dall'inizio, furono buone; sconfitti in diversi luoghi, i Cartaginesi furono costretti a lasciare nelle mani del re molte città e, rimosso l'assedio a Siracusa, fecero ritorno all'estrema punta occidentale dell'isola.

Reso baldanzoso dalle sue vittorie, Pirro li seguì e investì la piazza forte di Lilibeo
(Marsala). Ma questa resistette e, dopo due mesi d'inutile assedio, Pirro, impaziente, pensò di portare la guerra in Africa, imitando Agatocle.
Ma non vi riuscì. La flotta cartaginese era incontrastata dominatrice del Mediterraneo e a Pirro, se non mancavano le navi, facevano difetto i rematori, né i Siciliani vollero prestarsi.
Da allora cominciarono le disavventure del re in Sicilia. Mostrandosi uomo politico poco accorto, Pirro danneggiò se stesso; estraniandosi dagli abitanti dell'isola, i suoi mercenari vi esercitarono ogni tipo di violenza.
In poco tempo la sua posizione si rese talmente insostenibile che si vide costretto ad abbandonare la Sicilia e cercare fortuna altrove.
Nel frattempo, mentre lui si trovava in Africa contro i Cartaginesi (A. di R. 476-478 - 278-276 a.C), importanti avvenimenti accadevano in Italia.
Roma era tornata in campo contro i popoli del Mezzogiorno. Il console FABRIZIO, nel 476, aveva vittoriosamente combattuto contro i Lucani, i Bruzii, i Salentini e i Tarentini ed Eraclea, quell'anno stesso, si era consegnata ai Romani.
Nel 477 il console PUBLIO CORNELIO RUFINO aveva espugnato Locri cacciando il presidio lasciato da Pirro.
Le operazioni erano continuate nel 478 ed avevano procurato ai Romani, molte vittorie contro i Sanniti, i Bruzii e i Lucani.
Fu proprio nel 478 che a Pirro giunsero messi dall'Italia meridionale che lo invitavano
di recarsi in Puglia. Il re lasciò la Sicilia, dopo averne saccheggiato parecchie città, portandosi dietro un ricchissimo bottino; ma nel passare lo stretto ne perdette una buona parte insieme con sessanta navi affondategli dai Cartaginesi.

Gli riuscì alla fine di approdare nella penisola. Ma questa volta Pirro entrava in Italia come un avventuriero senza cuore e senza scrupoli, e per giunta preceduto dalla fama degli insuccessi navali e delle violenze da lui commesse sulle popolazioni siciliane.


BATTAGLIA DI MALEVENTO (275 a.C.) - SCONFITTA DI PIRRO

Fra Reggio e Locri, PIRRO fu assalito dai Mamertini. Entrato a Locri, non rispettando le cose sacre, saccheggiò il ricco tempio di Proserpina, asportandone i tesori in questo contenuti, poi s' imbarcò per Taranto.
La ricomparsa di Pirro in Italia, preoccupò non poco Roma. Sapendo che tipo di nemico era, chiamò i cittadini alle armi; molti però si rifiutarono di arruolarsi e la repubblica si vide costretta ad obbligarli confiscandone i beni.
Le riuscì alla fine di formare due eserciti che affidò al comando dei consoli MANIO CURIO DENTÁTA e LUCIO CORNELIO LENTULO; il primo si recò nel Sannio, il secondo nella Lucania.
PIRRO, con mossa rapida, cercò di impedire che le forze dei due consoli si congiungessero, e volle combatterle e batterle separatamente.
Con una veloce marcia trasferì il suo esercito nel Sannio e, appreso che l'esercito nemico si era accampato sulle alture di Malevento, cercò di sorprenderlo di notte; ma al campo romano si faceva buona guardia e, fallito il tentativo, Pirro si accampò nella pianura.

Qui lo assali CURIO DENTATO come una furia, deciso di vendicare le sconfitte che i Romani avevano ricevute, e la battaglia fu molto accanita. Da entrambe le parti si combatté fino all'estremo delle proprie forze; questa volta però i legionari non si lasciarono sgomentare dagli elefanti; anzi, appena entrarono nella lotta, cominciarono a tempestarli di saette roventi, che era l'unico modo per far perdere il controllo di chi li governava.
L'effetto di queste armi fu micidiale: feriti dai dardi, gli elefanti si misero in fuga come impazziti, e arretrando sfogarono il loro furore contro le stesse schiere di Pirro, causando una babele, nella falange, nella fanteria e nelle riserve.

I Romani poi fecero il resto; si slanciarono furiosamente contro il nemico e lo sbaragliarono procurandogli enormi perdite. A Malevento, che da allora prese il nome di Benevento furono fatti prigionieri mille e trecento Epiroti e catturati quattro elefanti.

Quelli e questi, CURIO DENTATO nel far ritorno a Roma a godersi i Fasti trionfali, li condusse a Roma come trofeo; diverso dai soliti, perché a Roma mai nessuno aveva visto nella sua vita gli elefanti. Ma anche gli Epiroti destarono l'ammirazione, finalmente vedevano da vicino gli uomini della "Falange Macedone" resa famosa da Alessandro Magno. L'orgoglio di vederli sfilare prigionieri di Roma, diede l'impressione a molti che Roma, stesse superando la fama del macedone, e che i Romani avevano davanti a sé un avvenire affascinante, con tante altre battaglie invincibili.

Ingente fu anche il bottino conseguito e il denaro da questo ricavato fu impiegato per la costruzione dell'acquedotto che porta le acque dell'Aniene, da Tivoli a Roma.

MORTE DI PIRRO E CADUTA DI TARANTO

La vittoria di CURIO DENTATO fu decisiva per le sorti della guerra e della stessa sorte di Pirro. Rimasto con un esercito debolissimo e demoralizzato, cercò aiuti in Macedonia; ma nessuno lo ascoltò e nessuno si mosse. L'Italia per lui era perduta per sempre. Decise allora di cercar fortuna in Grecia, ma non volle abbandonare del tutto la penisola, forse sperando in un avvenire migliore.
Lasciato a Taranto una piccola guarnigione al comando di MILONE, Pirro fece vela per la Grecia, dove guerreggiò per tre anni in un conflitto con ATIGONO GONATA re di Macedonia, e con una serie di fortunate operazioni gli sottrae gran parte del regno; ma non raggiunse mai lo scopo di tutte le azioni della sua vita: un vasto e potente impero.
Non aveva compiuti ancora i cinquant'anni quando nel 482 (272 a.C.), ad Argo, mentre proseguiva le operazioni militari, una tegola lanciatagli per vendetta da un'anonima donna lo colpì in pieno e gli troncò la vita e le speranze.
Gli successe il figlio, Alessandro II, ma questi in breve perse il controllo di tutte le regioni greche e macedoni conquistate dal padre.

Morto Pirro, la situazione di MILONE a Taranto divenne insostenibile. Un bel giorno nel golfo di Taranto fece la sua comparsa una flotta cartaginese. Erano stati i Tarentini a chiamarla, perché li aiutasse a cacciare il presidio epirota.
MILONE però consegnò la cittadella al console romano PAPIRIO che si trovava poco lontano dalla città con numerose milizie, e così Taranto cadde in potere dei Romani, i quali costrinsero poi i Cartaginesi ad allontanarsi e lasciarono partire Milone con il presidio.
Papirio fece subito smantellare le mura della città, le impose un tributo di guerra e gli sottrasse tutte le armi e le navi.
Queste ultime, furono utilizzate per caricare tutto ciò che c'era di bello, e che ornava la ricca e opulenta Taranto; stupende statue dell'arte greca, pregevoli quadri, oggetti preziosi, ogni cosa di gran valore, fu inviato tutto a Roma, che in certi ambienti, stupirono più che gli elefanti.

Ma la cosa più importante, fra le tante meraviglie, e tanti oggetti d'arte, a Roma giunsero anche i "cervelli", i matematici, i filosofi, i letterati.
Basta qui ricordarne uno: fra i prigionieri tarantini condotti a Roma vi era LIVIO ANDRONICO; aveva già 68 anni. E' considerato l'iniziatore della LETTERATURA LATINA. Introdusse la drammatica, e fu lui con la traduzione dal greco dell'ODISSEA a far conoscere ai Romani l'Epica greca.

Forse per questo motivo Roma si astenne dal fare a Taranto vendette, di infliggere punizioni, e mise la città nel novero delle alleate.

LA MAGNA GRECIA SOTTO IL DOMINIO DI ROMA

Subito dopo la conquista di Taranto, la repubblica volse l'attenzione a Reggio, nella quale da alcuni anni era stata inviata come presidio una legione campana. Questa però, approfittando della guerra nella quale Roma era impegnata, si era da sola insignorita del governo della città e non solo spadroneggiava, ma non rispondeva più a Roma.
A punire i ribelli fu mandato un esercito comandato dal console GENUCIO; ma non fu impresa breve e facile. I legionari che erano diventati padroni, consapevoli della sorte che era loro riservata, si erano preparati bene e si difesero disperatamente per un anno intero; ma alla fine, rimasti in meno di trecento, furono costretti a cedere di fronte alla superiorità dei loro ex commilitoni e nel 483 (271 a.C.) Reggio fu presa d'assalto.
La punizione dei ribelli fu esemplare. Fatti prigionieri e condotti a Roma, i trecento furono prima nel Foro flagellati, poi decapitati.
Dopo Reggio ad uno ad uno, tutti i popoli del Mezzogiorno, Lucani, Bruzii, Calabri, Picentini si sottomisero e l'ultima resistenza dei Sanniti fu definitivamente domata.
Lo stesso avvenne di tutte le città della Magna Grecia. L'ultima città a cadere in mano dei Romani fu Brundisium (Brindisi) nel Salento, che fu costretta alla resa e occupata nel 487 (267 a.C.).
I Romani già avevano prolungato (dopo la battaglia di Malevento) la via Appia da Capua fino alla ribattezzata Beneventum, ora la fanno proseguire fino a Brindisi, per assicurarsi una via di penetrazione verso le regioni della Magna Grecia (ma fra breve in Illiria, poi nella stessa Grecia).

L'UNIFICAZIONE

In questo stesso anno, l'unificazione della penisola era un fatto compiuto e il territorio sotto il dominio di Roma si estendeva per 130.000 chilometri quadrati da Rimini a Reggio.
Ingrandito il suo territorio, Roma estese il suo sistema coloniale: colonie furono inviate nel Sannio a Beneventum nel 268 a.C. ed Aesernia nel 263 a.C., nel Piceno (Ariminum nel 268 a.C. e Firmum nel 264 a.C.), nell'Etruria (Alsium nel 247 a.C. e Fragenae nel 245 a.C.) e nell'Umbria (Aesis nel 247 a.C. e Spoletum nel 241 a.C.).
Le vie consolari esistenti furono migliorate e prolungate e ne furono costruite delle nuove: Roma e Rimini furono allacciate dalla Via Flaminia.

ORDINAMENTO POLITICO DELL'ITALIA

Roma non soltanto riuscì a mettere sotto la sua sovranità per mezzo delle sue armi tutta la penisola, ma seppe anche riunire i vari popoli e le numerose città in un organismo vitale e potente, in uno stato di cui essa fu il centro motore, la capitale, la signora, che aveva diritto di fare guerra, di stipulare trattati e di coniare monete.
Tutto il resto della penisola rappresentava il corpo della repubblica, con un assetto politico che variava da città a città, ma con doveri precisi verso il centro, e con diritti che costituivano quasi una scala graduale di premi o di punizioni, che però non potevano ergersi al disopra dei diritti supremi riservati a Roma e con questi contrastare o recar danno.

Di varie specie erano le città della penisola, le quali furono classificate nel modo seguente:
1° I MUNICIPI. Erano questi di due categorie; alla prima appartenevano quei comuni i cui abitanti avevano gli stessi diritti di quelli di Roma; alla seconda quelli che avevano tutti i diritti meno quello di suffragio. I municipi della seconda categoria avevano magistrati locali, un proprio Senato e comizi.
2° COLONIE LATINE. Erano autonome, ma gli abitanti non avevano tutti i diritti di cittadinanza romana. A capo di queste stavano due pretori o duoviri.
3° COLONIE ROMANE. Godevano d'autonomia, ma il governo era sotto la diretta sorveglianza di Roma. I coloni potevano, recandosi a Roma, esercitarvi tutti i diritti di cittadinanza.
4° CONCILIABOLI. Erano nuclei di cittadini romani, che vivevano fuori dei municipi e delle colonie e dipendevano dai magistrati di Roma.
5° FORI. Colonie romane fondate sulle grandi vie di comunicazione (Es. Forum Flaminii).
6° CITTÀ FEDERATE. Queste erano di due categorie. Quelle della prima avevano parità di diritto, quelle della seconda no. Le città federate con l'andar del tempo furono considerate come veri e propri municipi.
7° PREFETTURE. In queste la giustizia era esercitata da un prefetto, che Roma vi mandava ogni anno
8° CITTÀ DEDITIZIE. Erano completamente soggette e presidiate da soldati di Roma alla quale pagavano tributi e consegnavano ostaggi.

Questo assetto politico fu dato progressivamente, a mano a mano che Roma attirava a sé popoli o li assoggettava, ed è il documento più eloquente del cammino percorso dalla repubblica in cinque secoli d'esistenza.
Non è un assetto perfetto, perché la penisola non è una nazione i cui elementi siano perfettamente fusi in uno. Anzi per evitarla questa fusione per questo è vario l'assetto politico; ma se questo ha lo scopo di disgregare gl'interessi, di impedire coalizioni, di proibire intromissioni straniere, di tenere a freno le città di dubbia fede, mostra anche in modo chiaro il proposito di fare scomparire con il tempo la diversità di fisionomia e fare della penisola una compagine salda che pensi, viva, operi in comunità d'intenti e d'ideali con Roma e sotto la guida di Roma.

Ma oltre a questa unificazione, a questo assetto, il fattore più importante è che Roma, ora affacciata su tre mari, diviene una potenza mediterranea a tutti gli effetti. Una situazione che da questo momento accresce enormemente i motivi d'attrito con l'altra potenza finora in questo mare egemone: la Cartaginese.

Dagli attriti alla guerra il passo è molto breve
e il passo da Roma fu fatto quasi subito dopo l'ultima conquista nella Magna Grecia.

passiamo appunto al periodo dall'anno 265 al 241 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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