ROMA - IL DECEMVIRATO - LEGGI 10 (12) TAVOLE - LE INIQUE
RISTABILIMENTO DEL GOVERNO CONSOLARE

IL PRIMO DECEMVIRATO - LE LEGGI DELLE "DIECI TAVOLE" - IL SECONDO DECEMVIRATO - LE TAVOLE DELLE "LEGGI INIQUE" - GUERRA CONTRO I SABINI E GLI EQUI - SICCIO DENTATO - APPIO CLAUDIO - MORTE DI VIRGINIA - RIVOLTA DELLA PLEBE - LE LEGIONI SULL'AVENTINO E SUL MONTE SACRO - I TRIBUNI MILITARI - RISTABILIMENTO DEL GOVERNO CONSOLARE - LE LEGGI VALERIE-ORAZIE - CONDANNA DEI DECEMVIRI - SUICIDIO DI APPIO CLAUDIO E SPURIO OPPIO - VITTORIE SUI SABINI E SUGLI EQUI - TRIONFO DEI CONSOLI VALERIO E ORAZIO
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IL PRIMO DECEMVIRATO

Stabilita la compilazione di un codice di leggi, una commissione di patrizi, composta di SPURIO POSTUMIO, C. MANLIO e PUBLIO SULPICIO CAMERINO, fu inviata in Grecia per studiare le leggi di quel paese. Due anni rimasero assenti e al loro ritorno a Roma, si formò una commissione di dieci studiosi incaricati di compilare il codice.
Allo scopo di dare alla commissione libertà di lavoro e di sottrarla alle influenze di magistrati, gli si conferì il potere dittatoriale; la durata della carica fu stabilita di un anno.
La commissione fu composta di dieci uomini, tutti patrizi, e fu perciò chiamata dei Decemviri (decemviri legibus scribundis). Ne facevano parte, oltre i tre che erano stati inviati in Grecia, i consoli APPIO CLAUDIO e T. GENUCIO ed i senatori PUBLIO SESTIO, SPURIO VETURIO, CAJO GIULIO, PUBLIO CURIAZIO e TITO ROMILIO.
I decemviri entrarono in carica alle idi di maggio del 303 (451 a.C.) e stabilirono di tenere il supremo comando a turno, un giorno uno, un giorno l'altro; il decemviro di turno amministrava la giustizia e teneva presso di sé dodici littori con i fasci e la scure.

Il governo dei decemviri fu esemplare: la massima concordia regnò tra loro, e nessuna ingiustizia fu commessa; anzi si distinsero per la loro grande equità e trattarono alla stessa stregua ricchi e poveri, patrizi e plebei. Tutti i cittadini soggetti alla stessa legge a essa fossero vincolati i magistrati.
Appio Claudio, il più giovane di loro, uomo astuto ed ambizioso, si faceva in particolar modo notare per l'ascendente che aveva saputo acquistarsi in seno ai dieci per la rettitudine e per l'amore che mostrava di nutrire verso la plebe.
Le leggi da loro presentate al pubblico, era un codice avente uguale valore per tutti i cittadini.
Una prima opposizione da parte del senato c'era stata, poi alla fine i patrizi ammisero l'introduzione di questo codice, redatto in DIECI TAVOLE ma successivamente furono aggiunte due tavole. In tal modo nacque la Legge delle DODICI TAVOLE, così detta appunto perché, secondo la tradizione, le leggi furono prima incise su tavole di quercia poi di bronzo.

Furono sottoposte al giudizio della cittadinanza nel foro affinché ognuno potesse prenderne visione, dare il proprio parere e proporre correzioni ed aggiunte; poi, così rivedute, ebbero l'approvazione dei comizi centuriati e la sanzione dei curiati ed infine incise ed esposte sul Comizio.

Le tavole compilate, esposte sempre nel Foro, andarono perdute nell'incendio di Roma a opera dei Galli (390) e non risulta che ne venisse fatta una nuova redazione; pare che il testo sia stato tramandato oralmente o per redazione privata e per lo meno sino all'ultimo epoca repubbicana era noto generalmente e diffusissimo negli ambienti di una certa cultura. Lo stesso Cicerone dice che al tempo della sua fanciullezza tutti dovevano imparare a memoria le Dodici tavole e lamenta che tale uso fosse poi andato in decadenza.
Poco noi sappiamo del contenuto ma dai frammenti che ci sono stati tramandati, le leggi ci appaiono ispirate a sensi d'umanità e di progresso civile. E se quasi nessuna delle consuetudini che avevano regolata fino allora la società romana fu abolita, tuttavia molte furono modificate o nel caso di troppa severità alcune pene furono attenuate.

Le notizie che ne abbiamo, indirette e frammentarie, si devono all'opera di grammatici, letterati e giuristi. Secondo le più attendibili ricostruzioni, nelle Dodici tavole era rappresentato tutto il diritto: diritto sacro, diritto pubblico, diritto penale, procedura, diritto privato, con prevalenza delle norme di natura processuale e di diritto privato, compresi i delitti privati.
L'esatto contenuto delle tavole era questo: I. De in jus vocando; II. De giudiziiset furtis; III. De rebus creditis; IV. De jure patrio et jure conubii; V. De hereditatibus et tutelis; VI. De dominioet de possessione; VII. De delictis; VIII. De juribus praediorum; IX. De jure pubblico; X. De jure sacro; XI e XII disposizioni varie (queste ultime pur dopo una lunga gestazione, non furono molto gradite, perchè poco assennate e piene di partigianeria e di ingiustizie. Vedi più avanti).

Si narra che a dare utili consigli ai Decemviri sia stato un greco esule di Efeso, di nome Ermodoro. Ma fra gli storici c'è sempre stata contestazione se le leggi romane derivino dalle greche; anzi molti (e primo tra essi G.B. Vico) negano, con validi argomenti.

La plebe le tavole affisse pubblicamente al Foro, le accolse comunque con grande favore, anche perché i rapporti tra creditori e debitori erano regolati più umanamente di prima, dando un respiro di novanta giorni dalla pubblicazione della condanna all'esecuzione e vietando la fustigazione e l'uccisione dei debitori caduti in schiavitù.

IL SECONDO DECEMVIRATO

L'anno stava per finire e fra poco si doveva tornare alle istituzioni di prima. Si decise così di prolungare di un anno il decemvirato. Sul motivo che consigliò una tale scelta sono discordi gli storici: "Livio" scrive che, mancando due tavole alle leggi, perché il codice fosse completo, si pensò di rieleggere per un altro anno ancora dieci magistrati che curassero la compilazione delle due ultime tavole; Dionisio invece afferma - e forse con ragione - che la proposta fu fatta dai patrizi allo scopo di sopprimere il tribunato che tanto filo da torcere aveva dato loro.
Comunque la plebe non si mostrò ostile, ma pretese che tra i nuovi decemviri ci fosse una rappresentanza del proprio ceto e concesso il diritto d'appello dall'uno all'altro dei dieci magistrati.

Furono convocati i comizi centuriati per le elezioni dei nuovi decemviri e non pochi patrizi si diedero da fare per assicurarsi con lusinghe i suffragi della plebe. Fra questi il più attivo era APPIO CLAUDIO. Il suo contegno destò la gelosia e il sospetto di molti patrizi e dei suoi stessi colleghi, i quali, non osando combatterlo apertamente, adoperarono l'astuzia e gli conferirono l'incarico di presiedere ai comizi sicuri -che in tale ufficio egli non avrebbe presentata la sua candidatura. Invece Appio Claudio non solo la mantenne ma fece riuscire vittoriosa una lista di nomi da lui stesso proposta nella quale figurava anche il suo.
In tal modo vennero eletti sette patrizi: Appio Claudio, Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio e Tito Antonio Merenda, e tre plebei: Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabulejo.

LE LEGGI INIQUE

I nove colleghi di Appio Claudio erano uomini senza polso. Il nuovo collegio decemvirale entrò in carica alle idi di maggio del 304 e inaugurò l'avvento al potere con una novità che sbigottì l'intera cittadinanza: uscendo preceduti da dodici littori ciascuno, simili a dieci re. Non solo la plebe ne fu sbigottita, ma anche i patrizi e la prima subito comprese che sarebbe stato lettera morta il diritto di appello data la solidarietà di cui facevano mostra i decemviri. E in effetti il rigore del nuovo collegio fu sentito soltanto dalla plebe, cui a paragone parve moderato il contegno dei precedenti consoli.
Invano i plebei cercarono scampo ai soprusi appellandosi ora a uno, ora all'altro, perché gli appelli davano risultati peggiori; invano invocarono l'aiuto dei tre rappresentanti del loro ceto; questi fecero capire che nulla potevano fare essendo dominati da Appio Claudio. Si vociferò anche che i Decemviri volessero mutare la carica in tirannide, per questo non si sapeva se desiderare o no le nuove idi di maggio che dovevano mettere fine al tristo potere dei Dieci o alle speranze in un ritorno al tribunato.
Durante il secondo decemvirato due tavole - che in seguito da CICERONE furono poi dette "inique" - furono aggiunte alle altre dieci e così il codice prese il nome di Dodici tavole.

GUERRA CONTRO I- SABINI E GLI EQUI - SICCIO DENTATO

Venute le idi del maggio dell'anno 305 i decemviri non convocarono i comizi né lasciarono il potere. La cittadinanza era così avvilita, che i nemici di Roma ritenevano che era giunto il momento di approfittarne.
I Sabini penetrarono nel territorio romano saccheggiandolo, poi con il numeroso bestiame razziato si accamparono ad Ereto. Gli Equi dal canto loro si spinsero fino all'Algido presso il quale posero gli accampamenti e di là andavano depredando con continue scorrerie il territorio di Tuscolo. L'annuncio della duplice invasione, l'affluire a Roma della popolazione del contado e un'ambasciata tuscolana che chiedeva aiuto, spaventò la plebe e preoccupò il patriziato.
I Decemviri non sapendo cosa decidere in una così grave situazione, decisero di convocare il Senato per farsi consigliare
Udendo la voce del banditore che chiamava i senatori alla Curia la plebe, curiosa e nello stesso tempo sperando che sotto il pericolo del nemico si ripristinasse il passato regime, si radunò nel foro; ma il numero dei senatori che risposero all'appello fu molto esiguo; la maggior parte di loro si erano ritirati nelle loro terre ad occuparsi delle proprie faccende private, poiché della cosa pubblica non potevano più occuparsi.
Credevano sulle prime i Decemviri che i senatori non volevano radunarsi e mandarono alle loro case i sergenti, ma, saputo che vivevano fuori di Roma, ordinarono che fossero avvisati di recarsi alla Curia il giorno seguente. L'indomani l'assemblea senatoriale riuscì abbastanza numerosa.
Spiegato Appio Claudio il motivo della convocazione, iniziò a parlare LUCIO VALERIO POTITO, di famiglia amica della plebe, ma, avendogli i Dieci, proibito di esporre il suo pensiero, protestò risolutamente minacciando di uscire fuori del Senato a parlare alla plebe.
Non meno audace del collega fu un altro senatore amico dei plebei, di nome MARCO ORAZIO BARBATO, il quale chiamò i Decemviri i dieci tarquinii, li minacciò di chiamare il popolo dentro il parlamento, li rimproverò di tirannide e concluse: "Non confidate troppo nella timidezza altrui perché oramai agli uomini sembrano più gravi le cose che soffrono di quelle che temono di patire".
A quel punto iniziò a parlare CAJO CLAUDIO, zio di Appio, che, biasimata la condotta del nipote, consigliò il Senato di non prendere alcuna deliberazione essendo i Dieci privati cittadini.
Molti approvarono le parole di Claudio, molti altri proposero di creare un inter-re, ma LUCIO CORNELIO MALUGINENSE, fratello del decemviro, con il segreto proposito di favorire la causa dei Dieci, affermò che non era quello il momento di deliberare su questioni così importanti, ma di pensare a difendere la patria dal nemico e a portare aiuto a Tuscolo.
Prevalsa questa proposta, furono chiamati i cittadini alle armi e, formate le legioni, Appio Claudio rimase a Roma insieme con Spurio Appio; contro i Sabini fu mandato un esercito al comando di QUINZIO FABIO, assistito da Manio Rubulejo e Quinzio Petilio; contro gli Equi fu inviato un secondo esercito comandato da MARCO CORNELIO affiancato da Lucio Minucio, T. Antonio Merenda, Cesone Duilio e Marco Sergio.
Ma sia il primo che il secondo esercito combatterono male. Il primo, disfatto a Ereto, si ritirò precipitosamente su un'altura tra Fidena e Crustumerio, dove si mantenne sulla difensiva; il secondo, sconfitto all'Algido e perso perfino il campo con gli alloggiamenti e i rifornimenti, si rifugiò a Tuscolo senza le armi.

Giunta a Roma la notizia della duplice disfatta, fu grande la costernazione della cittadinanza e i patrizi consigliavano che si rifornisse d'armi l'esercito chiuso a Tuscolo, che tutti gli uomini validi si chiamassero sotto le armi e a loro si affidasse la custodia delle mura e delle porte, e infine che l'esercito comandato da Fabio fosse mandato in territorio Sabino.
Non commossi dalle sconfitte, i Decemviri davano sfogo alle loro vendette.
Nell'esercito inviato contro i Sabini si trovava L. SICCIO DENTATO, ex-tribuno della plebe, valoroso soldato con il petto solcato da quaranta cicatrici, che aveva combattuto in centoventi battaglie, e nel 300 aveva citato in giudizio Romilio. Dentato eccitava i soldati alla rivolta e i Decemviri, non osando di prendere contro di lui provvedimenti disciplinari, deliberarono di disfarsene con il tradimento. Facendogli credere che l'esercito doveva trasferirsi in un'altra località, lo mandarono in cerca di un punto adatto all'accampamento ma nello stesso tempo ordinarono ai soldati che dovevano accompagnarlo di ucciderlo.
Così fu, ma non senza fatica, perché Dentato essendosi strenuamente difeso, caddero morti assieme a lui alcuni dei sicari. Gli altri, ritornati, riferirono di essere stati assaliti dai nemici e che Siccio ed alcuni compagni, dopo un'accanita resistenza, erano stati uccisi. Il racconto fu prima creduto, ma poi alcuni soldati portatisi sul luogo per dar sepoltura ai caduti, non videro nessuna traccia di nemici e, cosa strana, trovarono il cadavere di Siccio ancora rivestito delle armi e i corpi dei compagni rivolti verso di lui; era chiaro che più che i nemici a fare la strage erano stati gli "amici".
Ritornati a Roma con la salma affermarono che Siccio Dentato era stato assassinato dai suoi stessi compagni.
Grande furono il dolore e lo sdegno dell'esercito che stimava molto il prode scomparso e i Decemviri per non essere sospettati complici degli assassini fecero tributare solenni esequie e seppellire Siccio a pubbliche spese.

APPIO CLAUDIO E VIRGINIA

Mentre questo fatto accadeva al campo, di un altro delitto a Roma si macchiava il capo dei Decemviri.
Viveva a Roma una vergine plebea di rara bellezza, VIRGINIA, figlia di Lucio Virginio, prode soldato che, con il grado di centurione, serviva nell'esercito di Marco Cornelio; la giovane era fidanzata di Lucio Icilio, tribuno della plebe, caro al popolo per la famosa legge che aveva fruttato ai plebei il possesso dell'Aventino.
Di lei si era ardentemente invaghito Appio Claudio e con doni, carezze e promesse aveva cercato di conquistarla e possederla, ma, rimaste vane le sue arti seduttrici di fronte agli sdegnosi rifiuti dell'onesta giovane donna, si era proposto di appagare le sue malsane voglie con la violenza.
Approfittando dell'assenza del padre di lei, Appio Claudio ordinò ad un suo cliente di sostenere che Virginia gli apparteneva come schiava. Tornando un giorno la giovinetta dalla scuola posta in via delle Taberne e trovandosi a passare per il foro, il cliente di Appio, chiamandola serva e figlia di una sua serva, le mise le mani addosso e le comandò di seguirlo, minacciandola di condurla con la forza se indugiava. La vergine cominciò a gridare e subito una gran folla si radunò intorno a lei e riconosciutala si schierò a difenderla, vietando minacciosamente al cliente di usarle violenza, ma questi affermò che aveva diritto di reclamare la fanciulla e che questo diritto voleva fare valere dinnanzi al giudice.
Esortata dalla folla, Virginia si lasciò condurre davanti il decemviro Appio Claudio, al quale il cliente narrò che Virginia era nata nella sua casa da una sua schiava e che poi era stata rubata e portata in casa del centurione Virginio, e che d'accordo con la moglie l'aveva fatta credere una loro figlia. Il cliente disse inoltre che era pronto a produrre testimoni e chiese che la fanciulla, mentre si celebrava il processo, gli fosse affidata.
Si opposero però i difensori di Virginia sostenendo che il padre era assente per servizio dello Stato, che era cosa iniqua deliberare della sorte di una figlia nell'assenza del padre, che doveva differirsi il giudizio fino al ritorno del genitore, il quale, dopo essere stato informato, poteva trovarsi a Roma in un paio di giorni; nel frattempo la giovinetta doveva essere considerata libera anche per non permettere che corresse rischio il suo onore.

Rispose Appio Claudio che la stessa legge invocata dai difensori della fanciulla mostrava quanto fosse favorevole alla libertà, ma che tale legge non poteva essere applicata in quel caso, contemplando soltanto le persone libere. Virginia invece era sotto la patria potestà. Disse ancora che era contento che si mandasse a chiamare il padre, ma che nel frattempo non poteva impedire all'uomo che reclamava la fanciulla di portarsela a casa.
Era al dibattito presente tra la folla PUBLIO NUMITORE, zio materno di Virginia e il fidanzato ICILIO, che a quelle parole del decemviro, si fecero largo tra la calca, ma il littore, affrontandoli entrambi, ordinò loro d'allontanarsi.
Icilio con voce risoluta e incoraggiato dall'appoggio della folla rispose: "O Appio, prima che tu abbia ciò che desideri, soltanto con il ferro e con la forza io potrò esser cacciato di qui; Io sono il fidanzato di questa donna immacolata e intendo sposarla. Fa pur venire i littori dei tuoi colleghi usando le verghe e le scuri, ma la futura mia sposa non rimarrà fuori della casa paterna; ci avete tolto i tribuni e la facoltà di appello ma la vostra libidine non ci toglierà le donne e i figli. Incrudelite pure contro di noi, ma sia salvo il pudore delle nostre donne. Se oggi si vorrà usare la violenza io, il popolo e i soldati di Virginio chiameremo in soccorso e gli dei tutti; né la tua sentenza sarà eseguita finché vivi saremo. Pensa, Appio, a quel che fai. Si aspetti che Virginio ritorni e tu sappi che io reclamo la libertà per la mia donna e che preferisco morire anziché venir meno alla fede".

Mentre così parlava Icilio già aveva cominciato a tumultuare la folla e già i littori avevano circondato il giovane, quando Appio, fatta tornare la calma, annunciò che scopo di Icilio era di far nascere una rivolta e che, per evitarla, lasciava libera Virginia per un giorno, affinché suo padre potesse tornare, ma che passato quello avrebbe dato corso alla giustizia.
Senza perder tempo, il fratello d'Ici1io e un figlio di Numitore a cavallo corsero a dal padre della giovinetta per informarlo dell'accaduto, mentre Appio Claudio scriveva ai suoi colleghi di non dare licenza a Virginio di partire e di trattenerlo con la forza se occorreva.
Ma Virginio era già partito per Roma. Il mattino del giorno dopo il foro era gremito di folla nell'attesa del processo quando comparvero l'infelice padre e la fanciulla, poveramente vestiti, che suscitarono l'interesse, la pietà e la simpatia di tutti i presenti.,
Dinnanzi al tribunale, il cliente e complice di Appio Claudio cominciò a parlare, lagnandosi che il giorno prima non gli fosse stata resa giustizia e seguitò a reclamare per sé la giovinetta.
Appio Claudio, senza dargli tempo di finire, accolse l'istanza e riconobbe Virginia come sua proprietà perché figlia di una sua schiava.
Il cliente avanzò per impadronirsi della fanciulla e, siccome la folla, indignata dell'ingiusta sentenza, gli sbarrava il passo, mentre le donne presenti alla scena levavano alti lamenti, Appio Claudio ordinò al banditore che imponesse il silenzio, poi disse alla folla di stare tranquilla e di non partecipare alla sedizione preparata da Icilio e da Virginio se non voleva che i littori iniziassero ad usare le armi.
La folla alle parole minacciose del decemviro si mise in disparte sbigottita e Virginio, vedendosi mancar l'aiuto del popolo, in cui tanto aveva sperato, pensò di sottrarre la propria figlia al disonore sacrificandola e, rivoltosi al tiranno, gli disse: "O Appio, io ti prego anzitutto che tu mi perdoni se io, angosciato, ho a te rivolto parole risentite, poiché tu mi consenta, qui, alla presenza della fanciulla stessa, che io interroghi la nutrice e sappia da lei in quale modo e perché abbiano fatto credermi padre di Virginia".
Ottenuto il permesso, Virginio trasse la figliuola e la nutrice presso il tempio della dea Cloacina e, impadronitosi di un coltello nella bottega di un macellaio, immerse la lama nel seno di Virginia esclamando: "Soltanto così, o figlia mia, io posso difendere e mantenere la tua libertà", poi, rivolgendosi al decemviro, gli gridò: "O Appio, agli dei infernali io consacro te e il tuo capo".

Successe un istante di stupore nella folla. Appio Claudio, cieco dall'ira, ordinò ai littori che Virginio fosse arrestato, ma questi con il coltello ancora sanguinante in mano si fece largo tra la folla e trovò scampo fuori le porte.
Nel foro intanto il popolo rumoreggiava. Numitorio ed Icilio, rialzando da terra il corpo esanime della fanciulla, lo mostravano alla moltitudine e giustificavano la violenza paterna provocata dai propositi scellerati di Claudio; numerose donne, facendosi intorno al cadavere, piangevano la fine immatura di quella giovinezza e dicevano: "È questa dunque la sorte di chi genera figliuoli? Sono questi i premi riservati all'onestà?".
Il tumulto della folla aumentò e da ogni parte s'imprecava alle scelleratezze dei decemviri.
Appio Claudio, fuori di sé, comandò l'arresto di Icilio e, poiché i littori, ostacolati dalla gente, non potevano giungere fino a lui, lui stesso con un manipolo di giovani patrizi si scagliò tra la folla che compatta difendeva l'antico tribuno, spalleggiata da LUCIO VALERIO e MARCO ORAZIO.
Nacque nel foro una violenta mischia ed ai littori furono spezzate le verghe. Tentò Appio Claudio di parlare, ma nessuno voleva ascoltarlo, prestavano orecchio solo alle indignate parole di Orazio e di Valerio. Vistosi a mal partito e temendo per la sua vita, Appio Claudio segretamente si rifugiò in una casa vicina; Spurio Oppio tentò di portare aiuto al collega, ma, accortosi che il popolo aveva il sopravvento e consigliato da molti, fece radunare il Senato.

I senatori furono di parere che non si dovesse irritare la plebe e, pensando che Virginio potesse essersi recato al campo a sommuovere l'esercito, spedirono al monte Vecilio, dove le truppe si trovavano, alcuni giovani patrizi affinché si adoperassero a mantenere calmi i soldati.
Virginio però, seguito da circa quattrocento Romani, era giunto prima all'accampamento e qui, lordo ancora di sangue e brandendo il coltello, aveva narrato ogni cosa ai soldati, li aveva informati dei turpi propositi di Appio Claudio, aveva detto di avere uccisa la figliuola tanto amata per sottrarla alle insane voglie del decemviro e li aveva infine incitati a scuotere il giogo degli iniqui magistrati ed a vendicare sua figlia.
Le parole di Virginio infiammarono di sdegno i soldati e, poiché era corsa la voce che a Roma la plebe si era sollevata e qualcuno perfino asseriva che Appio Claudio era stato già ammazzato, le legioni, non prestando più obbedienza ai capi che invano si sforzavano di calmarle e trattenerle, precedute dalle insegne, marciarono verso Roma invitando alla rivolta tutti i plebei che incontravano per la via e, giunte sull'Aventino, minacciosamente vi s'accamparono.
La notizia del loro arrivo si diffuse subito nella città e se rincuorò la plebe diffuse la costernazione nel Senato, il quale radunatosi in fretta stabilì di mandare presso i rivoltosi i tre consolari SPURIO TARPEJO, CAJO GIULIO e PUBLIO SULPICIO.
Questi in nome del Senato andarono e chiesero ai legionari perché mai avessero abbandonati gli accampamenti e aver fatto ritorno in città; ma a gran voce fu risposto che non si voleva parlamentare con nessuno salvo che con Lucio Valerio e Marco Orazio.
Partiti gli ambasciatori, dietro proposta di Virginio, furono creati dieci capi che furono chiamati "tribuni militari".
Anche nell'esercito che si trovava in territorio sabino era, per opera di NUMITORIO ed ICILIO, scoppiata la rivolta. Informati che sull'Aventino erano stati nominati i tribuni militari, le legioni di QUINZIO FABIO elessero anche loro dieci tribuni e marciarono su Roma.
Entrarono per la porta Collina e, attraversata la città, andarono a congiungersi alle altre legioni dell'Aventino. Qui i venti tribuni elessero Marco Appio e Sesto Manilio capi supremi.
I senatori intanto, sbigottiti dagli avvenimenti minacciosi, stavano sempre riuniti; ma tempestose ed inconcludenti erano le loro sedute perché molti perdevano il tempo scambiandosi ingiurie e altri accusavano i Dieci di essere stati loro la causa della ribellione dell'esercito. Infine fu dato l'incarico di parlamentare con la plebe a Valerio ed Orazio, ma questi si rifiutarono dicendo che nessun passo a favore della pacificazione loro avrebbero fatto se prima i Dieci non avessero lasciato il potere.

Informate di queste cose da Marco Duilio, già tribuno della plebe, le legioni abbandonarono l'Aventino e, per la Via Ficulense, andarono ad accamparsi sul monte Sacro. Tutta la plebe raggiunse subito l'esercito e a Roma non rimasero che gli uomini vecchi o invalidi.
Allora i senatori si accorsero della gravità della molto critica situazione ed ottennero che i Dieci si dimettessero promettendo loro salva la vita; subito dopo MARCO ORAZIO e LUCIO VALERIO si recarono al monte Sacro e furono accolti con grandi manifestazioni di giubilo dalla plebe, la quale, per bocca d'Icilio, domandò, come condizione di pace, il ristabilimento del regime consolare e del tribunato e il diritto d'appello; inoltre che nessuno fosse punito per la rivolta e che fossero consegnati a loro i Decemviri.

Quest'ultima condizione però non fu accettata da Valerio ed Orazio che consigliarono ed ottennero che la plebe non insistesse. Il Senato accettò e sanzionò i patti e i Decemviri lasciarono finalmente il potere, poi gli ambasciatori, tornati sul monte Sacro, parlarono così alla plebe:
"Con buon augurio vostro e della repubblica tornate in patria, alle case, alle donne ed ai vostri figli; ma tornateci con la stessa disciplina con la quale finora vi siete comportati, non danneggiando cosa alcuna. Andate sull'Aventino, il luogo dove ebbe inizio la vostra libertà, e lì creerete i vostri tribuni alla presenza del Pontefice Massimo".

Grida di giubilo accolsero le parole degli ambasciatori, poi le legioni con le insegne in testa scesero dal Monte Sacro, attraversarono ordinatamente la città e si recarono sull'Aventino, dove furono convocati subito i comizi e creati dieci tribuni.
Risultarono eletti LUCIO VIRGINIO, LUCIO ICILIO, PUBLIO NUMITORIO, MARCO DUILIO, CAJO SICINIO, ,MARCO TITINIO, MARCO POMPONIO, CAJO APRONIO, APPIO VILLIO e CAJO OPPIO.
I tribuni allora convocarono la plebe nei prati Flamini; e lì M. DUILIO propose che fosse approvata e convertita in legge la deliberazione senatoriale di ripristinare il regime consolare e L. Icilio sottomise all'approvazione la proposta d'immunità in favore di tutti coloro che avevano partecipato alla rivolta contro i Decemviri. Si procedette infine alla nomina dei consoli che furono scelti nelle persone di L. VALERIO e M. ORAZIO.

LE LEGGI VALERIE-ORAZIE

Questi due consoli rimasero famosi per tre leggi da loro presentate al Senato.
Con la prima era rimesso in vigore il diritto di provocazione e si dichiarava passibile di morte chiunque creasse un magistrato senza facoltà d'appello; con la seconda si ripristinava l'inviolabilità dei tribuni della plebe, che erano considerati sacrosanti, degli edili e dei giudici decemviri e si consacrava a Giove il capo di chi a loro recava offesa e i beni erano confiscati e donati al tempio di Cerere. Inoltre era dichiarato reo di morte colui che privava la plebe dei tribuni.
Con la terza legge erano ristabiliti i comizi tributi e si stabiliva che certe deliberazioni da loro prese avessero valore per tutti i Romani, plebei e patrizi.

CONDANNA DEI DECEMVIRI

Assicuratisi con queste leggi i diritti della plebe, si pensò di giudicare gli uomini che tante offese alla stessa avevano fatte. Il tribuno VIRGINIO citò in giudizio Appio Claudio accusandolo di aver violate le leggi nel processo della figlia. Appio si appellò agli altri tribuni, ma nessuno si levò in suo soccorso; allora si appellò a quello stesso popolo che proprio lui aveva oppresso, ricordando i meriti dei suoi avi e le Dodici Tavole alla cui compilazione lui aveva partecipato; ma Virginio si oppose che il decemviro rimanesse in libertà provvisoria e, in attesa del giudizio, lo fece chiudere carcere.

Tutta la gente Claudia cercò di piegare l'animo dei tribuni alla pietà intercedendo in favore del decemviro e perfino lo zio C. Claudio, che si era ritirato a vivere a Regillo e che anche lui aveva sempre rimproverato gli atti del nipote, tornò a Roma per invocare la grazia ai tribuni. Ma questi furono inflessibili e, perduta ogni speranza, Appio Claudio per non subire l'onta del giudizio della plebe si tolse la vita.
Dopo Appio fu accusato e citato da Publio Numitorio, Spurio Oppio, il quale, imprigionato, si tolse la vitaidò pure lui prima di essere giudicato. Gli altri decemviri per sfuggire alla sorte che li aspettava andarono volontariamente in esilio e tutti i loro beni furono confiscati. Forse altri uomini sarebbero stati citati in giudizio dalla plebe assetata di giustizia e di vendetta; ma il tribuno Marco Duilio, per evitare che con altre condanne gli animi s'inasprissero, dichiarò che non avrebbe permesso che altri fossero accusati e incarcerati dopo l'esemplare condanna dei Decemviri e il ristabilimento del regime consolare e dei magistrati plebei.

VITTORIE SUI SABINI E SUGLI EQUI

Dato un riassetto alle cose della repubblica, fu ripresa la guerra contro i Sabini e gli Equi per ricacciarli dal territorio romano. A combattere contro gli Equi e i Volsci uniti insieme andò il console Valerio, il quale alla testa d'un esercito si accampò sull'Algido ad un miglio dal nemico. Ma non essendo, per le recenti discordie, sicuro delle sue truppe ed essendo queste anche inferiori per numero a quelle avversarie, prudentemente si tenne trincerato negli alloggiamenti; quando seppe però che i nemici, stanchi di provocare invano a battaglia i Romani che credevano inattivi per paura, lasciando nel campo un esiguo presidio, s'erano recati a predare nei paesi degli Ernici e dei Latini, finalmente si mosse a battaglia, e prima che Equi e Volsci potessero schierarsi in ordine di combattimento li assalì impetuosamente con la fanteria, poi in parte circondati e in parte sgominati con la cavalleria, prese d'assalto l'accampamento compiendo una strage, oltre che una ricchissima preda.

Contro i Sabini fu mandato il console ORAZIO, che iniziò la campagna con scorrerie e scaramucce vittoriose. Ma essendo giunta nel suo esercito la notizia della strepitosa vittoria delle truppe del collega né potendo frenare il desiderio dei soldati, ordinò alle sue schiere la battaglia. Il cozzo fu tremendo e la lotta altrettanto accanita. Poco però mancò che i Romani non perdessero la giornata perché, quando tutte le loro forze erano impegnate, duemila fanti sabini di riserva entrarono in azione contro l'ala sinistra romana respingendola e l'avrebbero circondata e massacrata se seicento cavalieri, smontati di sella e corsi nelle prime linee, non avessero arginata l'impetuosa avanzata del nemico e non avessero trascinato con il loro esempio le fanterie già in ritirata dopo il combattimento.
Ripreso l'ardire e nuovo vigore, i Romani ebbero il sopravvento e i Sabini, battuti duramente, fuggirono lasciando il campo di battaglia.
Tornati a Roma, i due consoli vittoriosi chiesero al Senato di decretare a loro il trionfo, ma i senatori, pressati dai patrizi preoccupati del crescente favore dei consoli plebei, si rifiutò. Contro il volere del Senato insorse il tribuno Icilio, il quale propose che il trionfo fosse concesso tramite il plebiscito del popolo e così, per la prima volta, senza l'autorizzazione del Senato, anzi contro l'espressa sua volontà, i consoli plebei ebbero finalmente il loro trionfo.


Ma sia le leggi "Valerie-Orazie", che questo trionfo
seminarono ulteriore malcontento, invidie e gelosie nell'intollerante patriziato.


E' quello che leggeremo nel prossimo capitolo:

il periodo dall'anno 445 al 391 > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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